A cura di Ilaria Miarelli Mariani, Tiziana Casola, Valentina Fraticelli, Vanda Lisanti e Laura Palombaro
Roma, Campisano
editore, 2022
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Ricchissimo volume
collettivo che nasce sviluppando gli interventi presentati a Chieti nel corso
delle giornate di studio con titolo omonimo svoltesi presso l’Università
Gabriele D’Annunzio il 10 e 11 giugno 2021. I saggi che vi si possono leggere
sono quarantadue. Per completezza, in fondo a questa recensione, troverete
l’elenco completo dei contributi, fermo restando che, in questa sede, non si
può procedere a una ricognizione completa di ogni singolo scritto e si rimarrà,
quindi, su un livello più generale.
La riproduzione
‘diffusa’
Il libro vuol essere
un’ampia ricognizione (non limitata solo all’Italia) delle dinamiche teoriche e
pratiche riguardanti la riproduzione a stampa di opere d’arte (statue, dipinti,
edifici, disegni) fra Sette e Ottocento. Mi si lasci dire che gli episodi
storicamente più ‘significativi’ del periodo, almeno per quanto riguarda i
libri illustrati, non sono affrontati a fondo nel volume, almeno per due motivi.
Innanzi tutto perché già sono stati analizzati in maniera approfondita in anni
recenti; è il caso della Histoire de l’Art par les monumens di Seroux d’Agincourt,
ristampata da Nino Aragno editore una quindicina di anni fa. Alla figura di
Seroux e all’impresa grafica della sua storia dell’arte Ilaria Miarelli Mariani
ha dedicato numerosi saggi e almeno una fondamentale monografia [1]. Altra
opera importantissima per il suo apparato iconografico fu la Storia della Scultura di Leopoldo Cicognara, riproposta nel 2007 a
cura di Francesco Leone, Barbara Steindl e Gianni Venturi. Mi pare, tuttavia,
che ci sia dell’altro, ossia che l’oggetto delle giornate di studio sia stato
intenzionalmente quello di esplorare il ‘sommerso’, ossia gli aspetti meno noti
della pratica riproduttiva, procedendo principalmente per esempi; in fondo si
tratta della logica estensione all’incisione (e dintorni) di una chiara
consapevolezza di quanto fosse (e sia) diffuso il patrimonio artistico
italiano. Non vi è peraltro il minimo dubbio che la stampa di traduzione ebbe a
sua volta un enorme peso nella diffusione di modelli artistici che furono
recepiti nelle ‘periferie’ proprio grazie al mezzo incisorio (uno fra tutti,
potrei citare in proposito il contributo di Elisa Acanfora sull’influenza delle
stampe di traduzione in Basilicata). Inseriti in una logica di questo tipo gli
esempi presentati nel volume non sono episodi isolati e men che meno
insignificanti, ma compongono le tessere di un puzzle (ancora da completare)
che restituiscono un’immagine di senso compiuto quando accostate fra loro in
maniera corretta.
Il dibattito sulla
stampa di traduzione
È appena evidente che l’esplosione delle attività calcografiche mise i
critici dell’epoca di fronte al problema di come considerare l’attività
incisoria e il fenomeno delle stampe di traduzione. Restando all’ambito
italiano (il dibattito fu, in realtà, di livello europeo) non si possono non
ricordare le posizioni di Francesco
Algarotti e di Luigi
Lanzi, cronologicamente da collocarsi nella seconda metà del Settecento (rimando
al contributo di Paolo Pastres). Algarotti, nel suo Saggio sopra l’Accademia
di Francia che è in Roma si dimostrava scettico nei confronti della stampa
di traduzione, in cui uno o più mediatori (il disegnatore e l’incisore, che a
volte potevano essere la stessa persona) mediavano (e a volte tradivano)
l’immagine originaria. Algarotti si schierava, dunque, per la visione diretta
dell’opera (e naturalmente il suo era un modo per ribadire la necessità che
l’Accademia di Francia a Roma continuasse a esistere). Lanzi, invece, nella Storia
pittorica, parlava del Settecento come del ‘secolo del rame’ e sosteneva
come lo studio delle stampe, purché ben eseguite, fosse fondamentale per chi
volesse diventare conoscitore. Naturalmente il dibattito sull’argomento fu
sterminato e si sviluppò su aspetti specifici. Bottari,
ad esempio, sottolineava come l’Italia fosse indietro rispetto alla Francia per
numero di buoni incisori; ma anni dopo, in Francia, Pierre-Jean
Mariette, insoddisfatto per l’incapacità di disegnatori e incisori di
rendere un disegno su stampa, sperimentava tecniche come l’uso del pantografo;
l’idea era quella di arrivare a una riproduzione ‘meccanica’, e quindi, ‘per
definizione’ fedele dell’opera esattamente come succedeva per i calchi in gesso
in relazione alle statue. Se non che lo stesso Bottari faceva notare che
nemmeno i gessi assicuravano una riproduzione perfetta, o, per meglio dire, che
spesso era necessario effettuare più calchi e ricomporli fra loro, rendendo
meno efficace la replica. Tutti, poi, evidenziavano il problema del ‘colorito’:
per quanto fedele potesse essere una stampa, essa non riusciva a dare conto dei
colori dell’opera originale. Anche qui, in realtà, come vedremo, si discusse
all’infinito. Per il momento mi sembra interessante mettere in evidenza un
aspetto in particolare: per quanto fossero professionalità diverse, a
disegnatori e incisori veniva chiesto in sostanza quanto era preteso anche dai
restauratori, ossia la perfetta replica mimetica dell’opera. Quando, agli inizi
dell’Ottocento, la proposta di Pietro Edwards di istituire una scuola di
restauro presso l’Accademia di Venezia fu bocciata, il motivo addotto fu che le
maniere degli antichi maestri erano tali e tante che sarebbe stato impossibile
per chiunque imparare a riprodurle tutte perfettamente. Il restauro, nel caso
specifico, era inteso in maniera totalmente mimetica. Giovanni
Edwards, figlio di Pietro, in uno scritto tardo e attardato degli anni
Quaranta dell’Ottocento, per lodare le capacità di restauratore del padre
scrisse che «avvenuta poi nel 1777, circa, la derubazione della testa alla sì famosa
Fede dipinta da Tiziano, ora esistente nella Sala delle quattro porte, il
Senato ebbe ricorso allo stesso non mercenario pennello [n.d.r. quello del
padre] per supplire a cotesta perdita; né i medesimi Commissari della Francia,
che colà la trasportarono, e i pittori di essa non mai si avvidero della
medesima sostituzione.» [2]. L’episodio, relativo a Il Doge Antonio Grimani
in adorazione della Fede, è falso, ma è significativo che Giovanni lo citi
travisando completamente la modernità del padre come restauratore. A disegnatori
e incisori si chiedeva di lavorare col bulino (o altro), e non col pennello, ma
anche qui l’esigenza era di non emergere e di non farsi notare (tanto che
spesso di molte opere a stampa non conosciamo gli artefici).
Un aspetto emerge comunque chiaramente
in tutti i saggi proposti nel volume. Nella stampa di traduzione, e in
particolar modo a quella destinata ai ‘libri illustrati’ l’immagine assolve un
compito conoscitivo che ha funzione educatrice. Rimanendo fermi a Bottari si
può richiamare qui il contributo di Sara Concilio, in cui si sottolinea che
«argomento ricorrente in queste opere fu infatti il valore dell’incisione come
strumento necessario allo studio del patrimonio e alla formazione dei giovani
artisti, confermato anche nel suo [n.d.r. di Bottari] esteso carteggio che
evidenzia in particolare l’influenza dell’amico collezionista Pierre-Jean
Mariette. (…) Bottari maturava, attraverso la pratica di metodologie differenti,
un proposito fondato sul superamento del genere biografico e delle notizie de’
professori, eleggendo il libro illustrato a documentazione prediletta per la
salvaguardia e la divulgazione delle opere d’arte e imprescindibile modello per
le successive generazioni» (p. 37).
I diversi
impieghi delle immagini
Uno degli aspetti più interessanti del
volume è che rende conto dei diversi contesti e delle diverse tipologie in cui
le immagini furono utilizzate. Si va così dalle stampe singole alle cosiddette Raccolte,
che il più delle volte erano composte da fogli tenuti sciolti e poi rilegati
dal compratore o dal venditore a richiesta. Spesso era possibile comprare anche
stampe singole facenti parte delle raccolte, che potevano essere incorniciate
ed esposte nelle abitazioni dei nuovi proprietari. Confesso (essendo chi scrive
laureato in storia economica) che gli aspetti economici delle società o delle
tipografie che gestivano le operazioni mi interessano particolarmente. Mi
limiterò a citare, in questo contesto, il contributo di Antonella Gioli su
circolazione e fortuna delle Vedute del Museo Pio-Clementino di Vincenzo
Feoli e, di Pier Ludovico Puddu, La calcografia di Pietro
e Vincenzo Camuccini: dall’ideazione alla vendita. In generale si può
dire che si trattava di attività estremamente dispendiose e che chi voleva
procurarsi raccolte o libri illustrati doveva far fronte a esborsi di denaro
non indifferenti. Esistono però tentativi di raggiungere un pubblico più vasto
e ‘popolare’ specialmente attraverso la stampa periodica, come nel caso del
napoletano Poliorama Pittoresco (si legga il saggio di Giuliano
Colicino) e del romano L’Album. Giornale letterario e di belle arti (si
rimanda all’articolo di Ilenia Falbo). Molto interessante, poi, lo scritto di
Martina Lerda che cerca di individuare gli snodi principali che,
nell’Ottocento, portarono a concepire la pubblicazione di guide illustrate per
la fruizione dei musei da parte dei visitatori.
Il colore
Come già detto, uno degli aspetti che
più veniva rimproverato all’arte incisoria era la sua incapacità di riprodurre
il colore. In realtà, un’affermazione di questo tipo è eccessivamente
semplicistica. Sulla copertina del volume compare, infatti, la stampa a colori
con la Vista generale della Galleria di Palazzo Farnese, incisa da
Giovanni Volpato (e se un limite si può segnalare sull’apparato iconografico all’interno
del libro è che, per ovvi motivi editoriali esso è tutto in bianco e nero,
quand’anche vi siano riprodotte stampe a colori). Volpato, peraltro, fu autore
di una fortunatissima serie di incisioni acquarellate destinate alle Logge
di Raffaello in Vaticano. Mi si perdoni se mi soffermerò più a lungo su quest’aspetto.
L’apposizione del colore da parte degli incisori o di loro incaricati comportava
costi molto più alti, posto che ogni singola copia doveva essere colorata a mano
dopo la stampa; secondo Chiara Piva (si veda il saggio su Marco Carloni), il
prezzo delle incisioni colorate era superiore di venti volte rispetto alle normali
acqueforti (p. 390). Non solo; la futura applicazione del colore poteva anche
determinare scelte preventive in sede di incisione. La stessa Piva fa il caso
delle Vestigia delle terme di Tito e loro interne pitture, incise da
Marco Carloni fra 1775 e 1776, per le quali fu prevista una versione incisa a
leggerissimi contorni «per garantire la riproduzione degli effetti cromatici
della pittura antica e non usare colori coprenti come la biacca, soggetta a
rapido deterioramento» (p. 390). Un altro degli aspetti cruciali della
procedura era legata a quella che, nella stampa periodica dell’epoca – si veda
il saggio di Teresa Montefusco – era chiamata eccessiva ‘meccanicità’ dell’operazione.
Credo che per ‘meccanicità’ si debba intendere, in questo caso, il mero atto
del dipingere seguendo indicazioni sui campi cromatici appuntate a margine
delle figure. Si trattava di un aspetto molto spesso demandato alla bottega e
che non richiedeva particolari capacità artistiche. In un contesto in cui – a fine
Settecento - sempre più l’incisione era considerata ‘arte sorella’ di pittura,
scultura e architettura, tanto da conquistare spazio all’interno delle Accademie,
una lavorazione di questo tipo minava alle basi la ‘nobiltà’ della tecnica e la
riconduceva ad ambiti meramente artigianali. Ecco, quindi, che Francesco
Milizia inseriva le stampe acquarellate sotto la voce Ciarlataneria del
suo Dizionario delle belle arti, mentre scriveva degli incisori: «si
ricordi sempre l’incisore ch’egli non è artigiano, ma artista. Egli traduce.
Per tradurre bene, non basta seguire i contorni, e rappresentare le ombre e i
chiari dell’originale; deve farne anche conoscere il colorito e il pennello.»
(p. 401).
La questione del colore, dunque, si
trasforma nella capacità dell’incisore di non ricorrervi, ma di essere in grado
di evocarlo tramite l’uso del bulino. Montefusco cita, in proposito, un significativo
passaggio di un articolo anonimo pubblicato sul Giornale delle belle arti
del 7 febbraio 1784: «Non è l’Incisione no un Arte pura Mecanica, come sognò
taluno. Ella è piena di studio e di discernimento: e quando la maestria del
disegno, la cognizione degli intervalli nelle tinte preserva un Incisore dai
difetti del malaccorto, della languidezza, della confusione, e giunge ed
esprime quanto la Pittura espresse coll’aiuto del colorito, non restale molto
da invidiare alle Arti Germane.» (p. 401) Si giunge, addirittura, ad
affermazioni paradossali, ma comunque inserite in questa stessa logica. Parlando
di una stampa di un’opera di Poussin incisa da Giovanni Folo nei primi anni
dell’Ottocento, Giuseppe Antonio Guattani scrisse che «“ad onta che l’immortale
Autore non brillò nelle tinte, né luogo tenne fra i Coloristi, proprio grazie
alla sapiente traduzione dell’incisore bassanese [n.d.r. l’opera] aveva
acquistato “quell’unico pregio che a lui mancò, facendovi la figura di un
dipintor di forza, di un colorista vivace”» (p. 404). La traduzione supera l’originale,
l’incisione si rivela migliore del dipinto perché potenzia le capacità
coloristiche del pittore.
In un contesto di
questo tipo si comprende facilmente come l’Ottocento sia scandito da polemiche di
retroguardia nei confronti della litografia e, a maggior ragione, con l’inoltrarsi
del secolo, della cromolitografia. Se ne occupa Maria Beatrice Failla, che non
manca di sottolineare come non sia solo una questione di carattere teorico, ma subentrino
anche interessi di carattere economico ben rappresentati dal timore dei calcografi
tradizionali di perdere un’importante fetta di mercato nella riproduzione delle
immagini a vantaggio di tecniche senz’altro più economiche. La battaglia contro
la meccanicità dell’operazione è persa in partenza, per gli stessi identici
motivi per cui appena qualche decennio dopo la cromolitografia lascerà spazio
alla fotografia. Ci sono però momenti simbolici che non vanno trascurati.
Failla ricorda, ad esempio, come il ‘moderno che avanza’ trovi piena
cittadinanza nella prima Esposizione
Universale al Crystal Palace di Londra (1851); aggiungerei le cromolitografie
realizzate in occasione della Manchester
Art Treasures Exhibition del 1857. Solo qualche prima – fa presente l’autrice
e con questo concludo – la Arundel Society aveva deciso di riprodurre in
cromolitografia i grandi cicli di affreschi dei primitivi italiani che
minacciavano di essere distrutti dall’incuria; si trattava di una precisa
scelta ‘popolare’ per massimizzare la diffusione della loro memoria.
Cromolitografia dell'Esibizione Universale al Crystal Palace di Londra (1851) Fonte: https://www.flickr.com/photos/hopkinsarchives/6032707209 |
Cromolitografia della Manchester Art Treasures Exhibition (1857) Fonte: https://manchesterarchiveplus.wordpress.com/2016/05/27/the-art-treasures-exhibition-1857/ |
Indice
- Ilaria Miarelli Mariani, Introduzione
La stampa di traduzione tra riflessione e dibattito
- Stefano Ferrari, La riproducibilità dell’opera d’arte nei Monumenti antichi inediti di Winckelmann;
- Paolo Pastres, Tradurre o tradire? Il dibattito sulle stampe di traduzione in Italia nella seconda metà del Settecento;
- Sara Concilio, Giovanni Gaetano Bottari e il libro illustrato. Percorsi tra i generi verso “un’opera utilissima e immortale”;
- Susanne Adina Meyer, Una storia dell’arte da leggere in biblioteca: la Geschichte der zeichnenden Künste di Johann Dominicus Fiorillo.
Storiografia e imprese editoriali
- Chiara Lo Giudice, Stampe di traduzione come modelli: il caso della calcografia Wagner;
- Tomáš Valeš, Between Original and Reproduction: Jacob Matthias Schmutzer (1733-1811) as a Reproductive Engraver;
- Antonella Bellin, Elena Catra, Quaranta quadri fra i più celebri della scuola veneziana. Il progetto di Leopoldo Cicognara per la conoscenza del patrimonio pittorico veneziano;
- Valentina Borniotto, Pittura stampata. Scelte iconografiche nella Storia della Pittura Italiana di Giovanni Rosini: il caso genovese;
- Luca Mattedi, “Un grand nombre de productions des mâitres les plus célèbres, ignorées depuis longues années”: una panoramica sui dipinti rinascimentali della Recuil di Jean-Baptiste-Pierre Lebrun;
- Valentina Fraticelli, Il rapporto tra testo e immagine nelle opere di Crowe e Cavalcaselle. Le scelte editoriali e il ruolo di John Murray.
La stampa di
traduzione oltre i confini storiografici
- Jessica Calipari, Il racconto biografico nella stampa illustrata romana della prima metà dell’Ottocento;
- Giuliano Colicino, Illustrare la storia dell’arte per le famiglie: riflessioni sul “Poliorama Pittoresco” (1836-1846);
- Ilenia Falbo, Illustrazioni e cronache d’arte dell’ultima Roma papalina. “L’Album. Giornale letterario e di belle arti”;
- Fernando González Moreno, Alejandro Jaquero Esparcia, Guido Reni’s Pietà and Edgar A. Poe’s The Assignation: a singular case of reception in nineteenth century North American literature through the reproductive prints;
- Tiziano Casola, Charles Eastlake, Penry Williams, Thomas Uwins e il “Literary Souvenir”: le traduzioni a stampa di modern Italian subjects nei periodi artistici.
Musei e
collezionismo
- Francesco Paolo Campione, Le Dipinture scelte del Monrealese di Agostino Gallo e Calogero de Bernardis (1821): stampa di traduzione e divulgazione artistica nella Sicilia del primo Ottocento;
- Sandra Condorelli, La Descrizione de’ principali quadri esistenti nelle pinacoteche di Catania di Agatino Longo;
- Antonella Gioli, Circolazione e fortuna delle Vedute del Museo Pio-Clementino di Vincenzo Feoli tra fine ‘700 e metà ‘800;
- Ilaria Arcangeli, I Disegni litografici dei Quadri Classici della Galleria di S.S.R.M. il Re di Sardegna: un’impresa associativa promossa da Carlo Felice (1825-1840);
- Vanda Lisanti, I cataloghi illustrati del Museo Capitolino nell’Ottocento e l’équipe di artisti per la Descrizione del Campidoglio di Pietro Righetti e Filippo Gerardi (1833-1836);
- Elisa Acanfora, Rapporti tra centri e periferie. L’influenza delle stampe di traduzione nell’Italia meridionale tra Sette e Ottocento;
- Martina Lerda, Le pinacoteche illustrate. L’uso delle riproduzioni nei cataloghi e nelle guide delle raccolte pittoriche italiane nel corso dell’Ottocento.
Riprodurre le
glorie locali tra Medioevo e primo Rinascimento
- Paolo Delorenzi, “Ces morceaux viennent d’être gravés pour la première fois”. L’arte quattrocentesca nell’incisione veneta del XVIII secolo;
- Manuela Gianandrea, Illustrare la storia della scultura altomedievale romana alla fine dell’Ottocento: il contributo di Raffaele Cattaneo e Ferdinando Mazzanti;
- Daniel Crespo Delgado, La pubblicazione di un recueil di stampe dell’Illuminismo: Le Antigüedades Árabes de España (1789-1804);
- Elena Dodi, La diffusione e ricezione europea degli affreschi del Camposanto di Pisa attraverso le incisioni di Carlo Lasinio.
Le stampe che
imitano i disegni
- Francesca Guglielmini, Giovanni Antonio Armano and the publication of Zanetti’s Parmigianino drawings;
- Laura Palombaro, La Raccolta di incisioni di Francesco La Marra. La fortuna del Seicento napoletano nella stampa del XVIII secolo;
- Gennaro Rubbo, La stampa di traduzione nel collezionismo inglese tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento. Il caso di Francesco Bartolozzi: un italiano a Londra nel fondo Douce.
Tradurre i
grandi maestri
- Ilaria Miarelli Mariani, La fortuna-sfortuna dell’Annibale Carracci romano nell’incisione di traduzione tra XVIII e XIX secolo;
- Anna Cerboni Baiardi, Raffaello e i testi illustrati. Due casi ottocenteschi;
- Elena Petracca, L’eredità romana di Robert van Audenaerde e Nicolas Dorigny nel Settecento;
- Francesca Cocchiara, Tiziano nelle stampe di traduzione tra XVIII e XIX secolo;
- Ilaria Fiumi Sermattei, “La réputation d’un Raphael d’oratoires”. Fortuna critica e visiva del Sassoferrato nei primi anni della Restaurazione pontificia;
- Michela Gianfranceschi, La sfida della pittura caravaggesca alla cultura classicista. Recueils di stampe e fogli sciolti tra XVIII e XIX secolo;
- Alessio Costarelli, Antonio Canova, gli Inglesi e la circolazione delle immagini;
- Angelo Maria Monaco, Veronese e i monumenti dei Dogi nelle incisioni di Giacomo Barri. Ai prodromi di una storia dell’arte illustrata a Venezia tra i secoli XVII e XVIII;
- Pier Ludovico Puddu, La calcografia di Pietro e Vincenzo Camuccini: dall’ideazione alla vendita.
Le tecniche e il
colore
- Chiara Piva, Marco Carloni “pittore e incisore in Strada Frattina”. Imprese editoriali a colori nella Roma del secondo Settecento;
- Teresa Montefusco, “La vera idea di quel magico incanto dei colori”: l’incisione e la traduzione del “colorito” nella pubblicistica romana tra XVIII e XIX secolo;
- Maria Beatrice Failla, La litografia e la sfida del colore nel XIX secolo;
- Alessandro Botta, Pittori divisionisti di fronte alla riproduzione delle loro opere tra stampa di traduzione e innovazioni fotomeccaniche.
NOTE
[1] Ilaria Miarelli Mariani, Seroux
d’Agincourt e l’Histoire de l’Art par les monumens. Riscoperta del Medioevo,
dibattito storiografico e riproduzione artistica tra fine XVIII e inizio XIX
secolo, Roma. Bonsignori, 2005.
[2] G. Mazzaferro, Le Belle Arti a
Venezia nei manoscritti di Pietro e Giovanni Edwards, Firenze, goWare, 2015, p.
125.
[3] Si veda in proposito anche Chiara
Piva, Marco Carloni “pittore e incisore in Strada Frattina”, in particolare
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