Francesco Algarotti
Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma
A cura di Paolo Pastres
con una postfazione di Pierre Rosenberg
Ponzano Veneto (Tv),
ZeL Edizioni, 2022
Recensione di Giovanni Mazzaferro
La storiografia
artistica francese a metà del Settecento
Fra 1752 e 1758 comparvero
in Francia due libri molto diversi fra loro, che tuttavia ebbero profonda eco in
Italia. Il primo erano le Réflexions critiques sur les differentes écoles de
peinture di Jean Baptiste de Boyer, marchese d’Argens (1704-1771); l’autore
vi sostenne (suscitando scalpore anche in patria e senza nessun effetto
pratico) che la Francia aveva raggiunto un livello di eccellenza tale in ambito
artistico, sia in termini di produzione contemporanea, sia in materia
collezionistica, da rendere in sostanza inutile l’esistenza dell’Académie de
France a Roma. L’Académie romana costituiva una sorta di succursale
di quella parigina ed era stata fondata nel 1666. Vi alloggiavano giovani
artisti francesi, per lo più vincitori del Prix de Rome, Il soggiorno
romano serviva per completare la loro formazione studiando direttamente sull’immenso
patrimonio artistico custodito nell’Urbe. Il secondo volume è il Voyage
d’Italie di Charles-Nicolas Cochin (1715-1790), edito nel 1758 (ma in
realtà ne era già circolata un’edizione limitata a stampa due anni prima), che
conteneva giudizi particolarmente corrosivi sui ‘mostri sacri’ della pittura
italiana (e quindi mondiale), da Raffaello ai Carracci. In realtà lo spirito
dell’opera di Cochin era molto diverso da quello di d’Argens, e probabilmente
l’unica cosa che i due testi avevano in comune era la consapevolezza del chiaro
primato politico francese in Europa (una certezza che, ironia della sorte,
cominciò a venir meno appena qualche anno dopo, nel 1763, con la fine della Guerra
dei Sette Anni). La reazione ai due libri, in Italia, fu diversa: a suscitare
il maggior numero di prese di posizione polemiche fu, senza dubbio, il Viaggio
di Cochin; a esso si opposero progetti (che si dimostrarono il più delle volte
velleitari), come quello di Luigi Crespi di creare una serie di guide locali,
coinvolgendo il meglio dell’erudizione italiana per mostrare quanto fosse
sbagliata la sottovalutazione del patrimonio artistico italiano operata da
Cochin: Ansaldi, Ratti, Bottari, Orsini, Lanzi, e ancora Cicognara, ben dentro
l’Ottocento, son tutti autori in cui si possono leggere reazioni infastidite nei
confronti di Cochin. Pur rendendomi conto di generalizzare eccessivamente, le
potrei definire, in termini riduttivi, prese di posizioni ‘campanilistiche’.
Nel caso delle Réflexions, invece, le controdeduzioni italiane furono
affidate soprattutto alla Risposta alle riflessioni critiche sopra le differenti
scuole di pittura del Sig. Marchese d’Argens, edite a Lucca nel 1755 e
opera di Ridolfino Venuti; poco altro. Stupisce che nel suo Saggio sopra
l’Accademia di Francia che è in Roma, pubblicato in due versioni
leggermente diverse fra 1763 e 1764, a tornare sull’argomento sia Francesco
Algarotti (1712-1764). Stupisce soprattutto perché a quella data (erano passati
dieci anni da quando era sorta) la questione sembrava in qualche modo conclusa,
e semmai montava la polemica su Cochin. Tant’è che Paolo Pastres, che ha curato
la presente edizione (solo la seconda ‘moderna’, se non sbaglio, dopo quella inserita
da Giovanni da Pozzo nei Saggi di Algarotti editi da Laterza nel 1963),
s’interroga su quali fossero i reali scopi di Algarotti e se, ad esempio, la
dedica a Thomas Hollis, importante figura di amatore inglese, celasse scopi di
autopromozione presso gli ambienti inglesi. Non lo sapremo mai: Algarotti morì proprio
in quel 1764 in cui ebbe modo di ripubblicare (ad appena un anno dalla princeps)
il Saggio sull’Accademia nelle sue Opere; si tratta di una
versione lievemente modificata. Pastres le fornisce entrambe, commentando la
seconda, che si presume essere il risultato ultimo del lavoro di cesello
dell’erudito italiano e proponendo in appendice la prima.
Un raffinato
cosmopolita
Jean-Etienne Liotard, Ritratto di Francesco Algarotti (1745), Amsterdam, Rijksmuseum Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Francesco_Algarotti_(Liotard).jpg |
Nel 1763 Algarotti
era un erudito di fama europea. Nato a Venezia, educato a Bologna, aveva
viaggiato a lungo l’Europa: nel 1734 fu in Francia, poi in Inghilterra, quindi
in Russia. Nel 1740 giunse in Prussia, ai servizi di Federico II, che lo nominò
conte; poi si spostò in Sassonia, questa volta collaborando con gli Augusti di
Sassonia e attivandosi personalmente per arricchire le collezioni artistiche a
Dresda con opere italiane; dopo una breve parentesi ancora a Berlino, fece
ritorno in pianta stabile in Italia, ricco di onori e fama. Qui trascorse
all’incirca gli ultimi dieci anni della sua vita, morendo a Pisa nel 1764.
La notorietà di
Algarotti era legata al successo delle sue opere, veri e propri best-sellers
europei tradotti in tutte le lingue, a partire dal Newtonianesimo per le
dame (1737), opera divulgativa che gli assicurò libero accesso a tutti i
salotti buoni della capitali europee in cui visse. Naturalmente non si può
prescindere dai suoi saggi sull’architettura, la musica, la pittura che, usciti
in momenti diversi, furono avidamente compulsati dalle classi benestanti del
continente. Ridurre Algarotti a semplice divulgatore, tuttavia, è riduttivo;
l’uomo aveva una sua preparazione specifica che è riflessa nei suoi scritti; e,
oltre tutto, scriveva bene, con una raffinatezza stilistica e di pensiero che
gli fu riconosciuta immediatamente e che rese probabilmente questo cosmopolita
l’intellettuale italiano di maggior notorietà in Europa a metà del Settecento.
Il Saggio sopra
l’Accademia di Francia
Il Saggio sopra
l’Accademia di Francia mi sembra chiara espressione di questa raffinatezza,
soprattutto perché Algarotti dà una risposta di per sé ‘partigiana’ e
‘localistica’ (naturalmente sostenendo che l’Accademia di Francia non solo ha
ragione di esistere, ma dovrebbe addirittura essere potenziata, aprendo
‘succursali’ a Firenze, Bologna e Venezia), ma inquadrandola in un’ottica
europea, che può essere letta e apprezzata in tutte le corti continentali. La
dedica a Hollis ne è un’espressione, così come gli elogi alla nuova potenza
politico-commerciale degli inglesi, i quali «quello che facevano i Romani in ordine ai
modi di combattere e alle armi, che cambiavano bene spesso con quelle delle
nazioni da esso loro vinte e mescolavano con le proprie, quel medesimo fanno
ora (…) colle arti e colle scienza delle nazioni, le quali hanno vinte in certa
maniera col traffico.» (p. 45); ma non credo che nemmeno i francesi
potessero ritenersi scontenti delle parole che Algarotti dedicava loro; è sì
vero che la polemica (mai scomposta, mai sopra le righe) è nei confronti del
marchese d’Argens (che non è mai citato), ma, come detto, le argomentazioni del
nobile transalpino erano già state rigettate anche in patria e semmai restano
gli elogi a Luigi XIII e Richelieu, a Colbert e a Luigi XIV («niun mezzo fu da quel
munifico re lasciato indietro, onde dar favore agli uomini di lettere e agli
artefici»; p. 48); non manca neppure una citazione, ampiamente elogiativa, nei
confronti di Federico II di Prussia (p. 76). E – segnala Pastres – alcuni dei
consigli algarottiani sono in sostanziale continuità col «progetto elaborato nel
1742 per qualificare le collezioni del sovrano sassone Augusto III» (p. 32), circostanza che
non doveva sfuggire a quegli ambienti eruditi. In sostanza, Algarotti si oppone
alla provocazione di d’Argens, ma lo fa in un quadro ‘ideologico’ che celebra
la saggezza e la munificenza dei sovrani assoluti, che, nelle loro raccolte e
con la fondazione o il finanziamento delle accademie, sostengono da un lato il
mercato (sia antiquario sia contemporaneo) e promuovono lo sviluppo delle Belle
Arti. Sviluppo, si badi bene, di cui le Accademie non sono garanzia assoluta,
ma premessa indispensabile. Qui Algarotti sfiora un tema (quello della
didattica nelle Accademie) che è ampiamente dibattuto in tutta Europa, ben
consapevole della circostanza e mostrando uno scetticismo che comunque non
boccia le istituzioni, semmai suggerendo di renderle più efficienti: «Non sono certamente da
tanto le Accademie che possano far sorgere alcuno grandissimo ingegno, che
illumini veramente la età sua; ma possono bensì tenere in vita e nutrire quelle
facoltà che loro son date in cura, mantenere e promuovere i migliori metodi di
studiare, bene istituite e governate che siano» (p. 76).
Non fa eccezione
l’Accademia di Francia in Roma, per la quale il veneziano – come detto –
suggerisce l’apertura di succursali in altre città italiane per dar modo agli
allievi di vedere, studiare e disegnare le opere di tutti gli stili. Non a caso
qui si innesta il discorso relativo alla varietà delle scuole pittoriche
italiane, da Firenze a Roma, da Bologna a Venezia e l’italiano coglie
l’occasione per citare artisti noti o meno noti, ma non per questo da
disprezzare, perché «avviene ancora assai volte, che le migliori
opere de’ maestri mediocri superino le opere mediocri de maestri migliori» (p. 74). Quella
delineata in poche pagine dall’erudito non è certo (e non vuole esserlo) una
storia dell’arte italiana, ma implicitamente suggerisce una scansione temporale
che va dalla «profondità» dei fiorentini e dalla «nobile sceltezza» (il classicismo per
antonomasia) dei romani al «bel naturale» e al «degno colorito» di veneziani e lombardi, raggiungendo il suo
culmine con l’eclettismo bolognese dei Carracci e discepoli (una visione molto
simile a quella del Lanzi nella sua Storia pittorica qualche decennio
dopo). Ma Algarotti non si ferma al Seicento; ha bisogno di dimostrare che
anche ai suoi tempi esistono artefici italiani che detengono la palma del
primato e le cui opere meritano di essere viste dai giovani che si incamminano
nella loro formazione artistica; ha bisogno, insomma, di far capire che il viaggio
in Italia non va concepito solo in una prospettiva storica, ma anche per
informarsi sulle ultime tendenze in fatto di arte. E così riprende il suo
elogio della scuola veneziana, che ha mostrato storicamente una varietà di
stili probabilmente dovuta alla possibilità di dar libero sfogo al proprio
genio in una città in cui regna la medesima libertà (a ben vedere uno
stereotipo che deriva almeno dal Cinquecento; si pensi agli elogi della città
tessuti da Francesco Sansovino). Ecco allora i nomi di Amigoni, di Piazzetta e
di colui che è giudicato il più grande degli artisti di quegli anni (nonché suo
grande amico), ossia Giovanni Battista Tiepolo. Si badi bene: il discorso è
sottilmente pericoloso (potremmo dire ‘eversivo’): se condizione perché un
artista dia pieno sfogo al suo genio è la libertà politica di un governo, che
dire delle prospettive in paesi in cui spadroneggia l’assolutismo? Algarotti si
riprende subito (a dimostrazione che quello sulla libertà di Venezia è solo uno
stereotipo) e attribuisce una certa uniformità e freddezza nella composizione
dell’arte francese non tanto alla ‘mancanza di libertà’, ma al fatto che i
borsisti francesi risiedano solo a Roma e quindi possano avere come modelli
solo la «nobile sceltezza» romana. Da qui, appunto, l’esigenza di
creare succursali in altre città italiane.
La stampa di
traduzione
Come al solito, si
potrebbero fare molte altre considerazioni. Una, che a Pastres certo non sfugge,
è la scarsa fiducia che Algarotti nutre nei confronti della stampa di traduzione.
L’argomento è affrontato a partire dalla considerazione che la Francia è, senza
dubbio, la patria dell’incisione, la nazione in cui tale arte è praticata con
maggior profitto in termini qualitativi e quantitativi (tanto che vanno a
stampa anche delle «bazzecole» (p. 61)). Tuttavia le opere vanno
viste in presenza perché, mentre nel caso della scultura e dei calchi in gesso
siamo di fronte a una riproduzione meccanica che dà la «fedele immagine» della
statua (p. 58), nelle stampe la mano dell’incisore ha sempre un ruolo distorsivo;
inoltre manca «la magia del colorito» (p. 58). Si tratta di un tema molto
dibattuto a livello internazionale; si pensi che nel 1759 Pierre-Jean Mariette,
uno degli eruditi più famosi d’Europa, nonché collezionista famelico di disegni,
ricorse a un pantografo per cercare di riprodurre il più fedelmente possibile
un disegno di Michelangelo in suo possesso per il quale non aveva trovato alcun
disegnatore che lo soddisfacesse. [1] Si cercava, insomma, per la grafica, un
equivalente esclusivamente meccanico di quello che erano i calchi per la
scultura. Algarotti si impossessò sapientemente di un tema che appassionava gli
amatori dell’epoca e lo sfruttò a suo favore per sostenere che il viaggio in
Italia e la visione diretta delle opere non erano aggirabili. Una ventina
d’anni dopo Luigi Lanzi, che pure molto ammirò il veneziano, avrebbe invece
scritto nella Storia pittorica che studiare le stampe assiduamente
voleva dire essere ampiamente indirizzati per divenire conoscitori. Come si
vede, le posizioni in merito erano assai articolate e tutt’altro che unanimi.
Algarotti
e la tutela del patrimonio
Un discorso assai delicato è poi quello
relativo alle idee di Algarotti in merito alla tutela del patrimonio. Nel suo
saggio l’autore scrive chiaramente che per vedere le opere migliori di un
artista bisogna andare a cercarle nella sua patria (o nel luogo in cui visse
più a lungo). Propone poi un nutrito numero di esempi per corroborare la sua
tesi, citando le scuole veneziana, bolognese e romana. Questi passaggi – scrive
Pastres – «anticipano le osservazioni di fine secolo, specialmente di
Quatremére de Quincy, sui pericoli della musealizzazione e sull’esigenza di
mantenere le opere nel loro contesto d’origine, evitando di spezzare il nesso
tra esse e l’ambiente al quale erano destinate» (p. 24). Su questa cosa, ossia
sul nesso fra le idee di Algarotti e quelle prodotte da Quatremére de Quincy nelle
sue Lettere a Miranda, mi permetto di essere molto cauto. Intendiamoci:
il curatore della presente edizione non è l’unico a esporre una tesi di questo
tipo: potrei citare, ad esempio, anche Carmelo Occhipinti [2]. A essere
sinceri, a me pare che questa profonda verità, ossia che le opere dei maestri
vanno cercate soprattutto dove essi vissero, sia una consapevolezza che derivava
dal mercato. Ho insomma idea che qualsiasi operatore commerciale non
sprovveduto sapesse bene che se voleva reperire opere (è un esempio a caso, ma
di artista citato da Algarotti) dello Zelotti doveva guardare al mercato
veneto. Del resto lo stesso conte veneziano, quando fu incaricato dalla corte
sassone di procurarsi quadri italiani da acquistare tenne un comportamento
simile. Il carteggio con Gian Pietro Cavazzoni Zanotti, intercorso fra 1743 e
1744, dimostra che, in cerca di quadri della scuola bolognese, proprio a un
bolognese (ossia a Zanotti) si rivolse [3]. La domanda che sorge successiva è,
dunque, se esista in Algarotti un’esigenza di tutela del patrimonio diffuso,
della cui esistenza è certamente consapevole; esiste in quest’uomo che, nel Saggio
sopra l’Accademia di Francia, definisce «il commercio delle belle arti, il
più ricco e nobile traffico che sia» e che si augura che «si venga ad estendere
più che mai» (p. 76)?
Secondo me, sì, ma è chiaro che si
tratta di una necessità che risente dei tempi: è molto probabile (anche se
nulla sappiamo) che Algarotti facesse affidamento, per la conservazione del
patrimonio privato, di strumenti come il fedecommesso; e per ciò che riguarda
il pubblico è invece chiaro che sta nella “saggezza del principe” (che tradotto
in vil denaro, vuol dire nelle sue capacità economiche) mantenere inalterate le
collezioni. È così, ad esempio, che parlando de Il Giorno (o Madonna
di San Girolamo) di Correggio il veneziano scrive che «fu dall’erudito
genio del Reale Infante conservata all’Italia» (p. 57). Pastres fa notare
correttamente che si tratta di Filippo I di Borbone, che resistette a molte
richieste provenienti dall’estero; non c’è dubbio che, se ci fossero state le
condizioni, Algarotti si sarebbe adoperato per far giungere il dipinto in
Sassonia, dove già l’attendeva la Notte, arrivata a Dresda nel 1745. Sono
fermamente convinto che non esista alcun ‘doppiogiochismo’ negli scritti
algarottiani; semplicemente l’autore non percepiva l’intima contraddizione fra le
sue osservazioni (quelle sul patrimonio diffuso) e i suoi comportamenti (il
coinvolgimento a favore di regnanti esteri per il reperimento di opere degli
antichi maestri). È poi possibilissimo che Quatremére de Quincy abbia letto e ricavato
suggestioni dagli scritti dell’erudito italiano, il che dimostrerebbe ancora
una volta la dimensione cosmopolita di cui godeva la sua fama; ma sarei molto
cauto nel proporre Algarotti come anticipatore del francese: se lo fu, fu in
maniera inconsapevole.
Correggio, Madonna di San Girolamo (Il Giorno), Galleria Nazionale di Parma Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/c/correggi/madonna/day.html |
Questa è – sia chiaro – la mia personalissima opinione. La riproposizione di un testo, come in questo caso il Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma, è sempre benemerita proprio perché permette di rileggerlo nella sua interezza e di tornare a rifletterci, lasciando da parte gli stralci antologici che, di necessità, non possono mai essere esaurienti. Ben venga, quindi, l’edizione curata magistralmente da Pastres, che inaugura una nuova collana dell’editore ZeL, intitolata, non a caso ‘Venezia cosmopolita. Pagine d’arte del Sei e Settecento’. Algarotti non poteva essere che il primo a essere proposto.
NOTE
[1] Kristel Smentek, Mariette and the
Science of the Connoisseur in Eigtheenth-Century Europe, p. 65.
[2] Carmelo Occhipinti, Percorsi di storia artistica e storiografia. Roma,
l’Italia e l’Europa fra il Seicento e il Settecento, Roma, Carocci editore, 2021,
pp. 14-15: «Così Algarotti, nel suo Saggio sopra l’Accademia di Francia (1763),
giunse a “intravedere” un modo di fare la storia dell’arte che, ancora oggi, ci
pare di straordinaria modernità. Una storia dell’arte, cioè, che insegnasse a
guardare ai contesti, all’ambiente culturale entro cui calare le opere e gli
artisti, per poterne comprendere storicamente la genesi. […] Si posero così le
basi perché potesse avviarsi una moderna riflessione sulla tutela del
patrimonio e della memoria storica dei luoghi. Più tardi, al tempo delle razzie
napoleoniche, tale riflessione sarebbe stata per la prima volta esaurientemente
formulata, com’è ben noto, da Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy
[3] Paolo Pastres, I mancati acquisti
bolognesi di Francesco Algarotti in Kritiké II, 2021, pp. 93-104.
Algarotti's curious novel 'Le Congrès de Cythère', published twice with fake imprints, remains for me bizarre.
RispondiEliminaSee COMMENT nr 5 in my post 111/ A voyage to Cythera (3): among publishers and their fake imprints
https://kbender.blogspot.com/2022/10/111-voyage-to-cythera-3-among.html?view=magazine
Thank you so much. I have to confess I didn't know the topic.
RispondiEliminaIm Bertuch Verlag Weimar erschien 2021 das Sachbuch FRANCESCO ALGAROTTI https://www.bertuch-verlag.com/544-0-Francesco-Algarotti.html
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