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lunedì 20 febbraio 2023

Francesco Algarotti. Saggio sopra l'Accademia di Francia che è in Roma.



Francesco Algarotti
Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma
A cura di Paolo Pastres
con una postfazione di Pierre Rosenberg

Ponzano Veneto (Tv), ZeL Edizioni, 2022

Recensione di Giovanni Mazzaferro




La storiografia artistica francese a metà del Settecento

Fra 1752 e 1758 comparvero in Francia due libri molto diversi fra loro, che tuttavia ebbero profonda eco in Italia. Il primo erano le Réflexions critiques sur les differentes écoles de peinture di Jean Baptiste de Boyer, marchese d’Argens (1704-1771); l’autore vi sostenne (suscitando scalpore anche in patria e senza nessun effetto pratico) che la Francia aveva raggiunto un livello di eccellenza tale in ambito artistico, sia in termini di produzione contemporanea, sia in materia collezionistica, da rendere in sostanza inutile l’esistenza dell’Académie de France a Roma. L’Académie romana costituiva una sorta di succursale di quella parigina ed era stata fondata nel 1666. Vi alloggiavano giovani artisti francesi, per lo più vincitori del Prix de Rome, Il soggiorno romano serviva per completare la loro formazione studiando direttamente sull’immenso patrimonio artistico custodito nell’Urbe. Il secondo volume è il Voyage d’Italie di Charles-Nicolas Cochin (1715-1790), edito nel 1758 (ma in realtà ne era già circolata un’edizione limitata a stampa due anni prima), che conteneva giudizi particolarmente corrosivi sui ‘mostri sacri’ della pittura italiana (e quindi mondiale), da Raffaello ai Carracci. In realtà lo spirito dell’opera di Cochin era molto diverso da quello di d’Argens, e probabilmente l’unica cosa che i due testi avevano in comune era la consapevolezza del chiaro primato politico francese in Europa (una certezza che, ironia della sorte, cominciò a venir meno appena qualche anno dopo, nel 1763, con la fine della Guerra dei Sette Anni). La reazione ai due libri, in Italia, fu diversa: a suscitare il maggior numero di prese di posizione polemiche fu, senza dubbio, il Viaggio di Cochin; a esso si opposero progetti (che si dimostrarono il più delle volte velleitari), come quello di Luigi Crespi di creare una serie di guide locali, coinvolgendo il meglio dell’erudizione italiana per mostrare quanto fosse sbagliata la sottovalutazione del patrimonio artistico italiano operata da Cochin: Ansaldi, Ratti, Bottari, Orsini, Lanzi, e ancora Cicognara, ben dentro l’Ottocento, son tutti autori in cui si possono leggere reazioni infastidite nei confronti di Cochin. Pur rendendomi conto di generalizzare eccessivamente, le potrei definire, in termini riduttivi, prese di posizioni ‘campanilistiche’. Nel caso delle Réflexions, invece, le controdeduzioni italiane furono affidate soprattutto alla Risposta alle riflessioni critiche sopra le differenti scuole di pittura del Sig. Marchese d’Argens, edite a Lucca nel 1755 e opera di Ridolfino Venuti; poco altro. Stupisce che nel suo Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma, pubblicato in due versioni leggermente diverse fra 1763 e 1764, a tornare sull’argomento sia Francesco Algarotti (1712-1764). Stupisce soprattutto perché a quella data (erano passati dieci anni da quando era sorta) la questione sembrava in qualche modo conclusa, e semmai montava la polemica su Cochin. Tant’è che Paolo Pastres, che ha curato la presente edizione (solo la seconda ‘moderna’, se non sbaglio, dopo quella inserita da Giovanni da Pozzo nei Saggi di Algarotti editi da Laterza nel 1963), s’interroga su quali fossero i reali scopi di Algarotti e se, ad esempio, la dedica a Thomas Hollis, importante figura di amatore inglese, celasse scopi di autopromozione presso gli ambienti inglesi. Non lo sapremo mai: Algarotti morì proprio in quel 1764 in cui ebbe modo di ripubblicare (ad appena un anno dalla princeps) il Saggio sull’Accademia nelle sue Opere; si tratta di una versione lievemente modificata. Pastres le fornisce entrambe, commentando la seconda, che si presume essere il risultato ultimo del lavoro di cesello dell’erudito italiano e proponendo in appendice la prima.

 

Un raffinato cosmopolita

Jean-Etienne Liotard, Ritratto di Francesco Algarotti (1745), Amsterdam, Rijksmuseum
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Francesco_Algarotti_(Liotard).jpg


Nel 1763 Algarotti era un erudito di fama europea. Nato a Venezia, educato a Bologna, aveva viaggiato a lungo l’Europa: nel 1734 fu in Francia, poi in Inghilterra, quindi in Russia. Nel 1740 giunse in Prussia, ai servizi di Federico II, che lo nominò conte; poi si spostò in Sassonia, questa volta collaborando con gli Augusti di Sassonia e attivandosi personalmente per arricchire le collezioni artistiche a Dresda con opere italiane; dopo una breve parentesi ancora a Berlino, fece ritorno in pianta stabile in Italia, ricco di onori e fama. Qui trascorse all’incirca gli ultimi dieci anni della sua vita, morendo a Pisa nel 1764.

La notorietà di Algarotti era legata al successo delle sue opere, veri e propri best-sellers europei tradotti in tutte le lingue, a partire dal Newtonianesimo per le dame (1737), opera divulgativa che gli assicurò libero accesso a tutti i salotti buoni della capitali europee in cui visse. Naturalmente non si può prescindere dai suoi saggi sull’architettura, la musica, la pittura che, usciti in momenti diversi, furono avidamente compulsati dalle classi benestanti del continente. Ridurre Algarotti a semplice divulgatore, tuttavia, è riduttivo; l’uomo aveva una sua preparazione specifica che è riflessa nei suoi scritti; e, oltre tutto, scriveva bene, con una raffinatezza stilistica e di pensiero che gli fu riconosciuta immediatamente e che rese probabilmente questo cosmopolita l’intellettuale italiano di maggior notorietà in Europa a metà del Settecento.

 

Il Saggio sopra l’Accademia di Francia

Il Saggio sopra l’Accademia di Francia mi sembra chiara espressione di questa raffinatezza, soprattutto perché Algarotti dà una risposta di per sé ‘partigiana’ e ‘localistica’ (naturalmente sostenendo che l’Accademia di Francia non solo ha ragione di esistere, ma dovrebbe addirittura essere potenziata, aprendo ‘succursali’ a Firenze, Bologna e Venezia), ma inquadrandola in un’ottica europea, che può essere letta e apprezzata in tutte le corti continentali. La dedica a Hollis ne è un’espressione, così come gli elogi alla nuova potenza politico-commerciale degli inglesi, i quali «quello che facevano i Romani in ordine ai modi di combattere e alle armi, che cambiavano bene spesso con quelle delle nazioni da esso loro vinte e mescolavano con le proprie, quel medesimo fanno ora (…) colle arti e colle scienza delle nazioni, le quali hanno vinte in certa maniera col traffico.» (p. 45); ma non credo che nemmeno i francesi potessero ritenersi scontenti delle parole che Algarotti dedicava loro; è sì vero che la polemica (mai scomposta, mai sopra le righe) è nei confronti del marchese d’Argens (che non è mai citato), ma, come detto, le argomentazioni del nobile transalpino erano già state rigettate anche in patria e semmai restano gli elogi a Luigi XIII e Richelieu, a Colbert e a Luigi XIV («niun mezzo fu da quel munifico re lasciato indietro, onde dar favore agli uomini di lettere e agli artefici»; p. 48); non manca neppure una citazione, ampiamente elogiativa, nei confronti di Federico II di Prussia (p. 76). E – segnala Pastres – alcuni dei consigli algarottiani sono in sostanziale continuità col «progetto elaborato nel 1742 per qualificare le collezioni del sovrano sassone Augusto III» (p. 32), circostanza che non doveva sfuggire a quegli ambienti eruditi. In sostanza, Algarotti si oppone alla provocazione di d’Argens, ma lo fa in un quadro ‘ideologico’ che celebra la saggezza e la munificenza dei sovrani assoluti, che, nelle loro raccolte e con la fondazione o il finanziamento delle accademie, sostengono da un lato il mercato (sia antiquario sia contemporaneo) e promuovono lo sviluppo delle Belle Arti. Sviluppo, si badi bene, di cui le Accademie non sono garanzia assoluta, ma premessa indispensabile. Qui Algarotti sfiora un tema (quello della didattica nelle Accademie) che è ampiamente dibattuto in tutta Europa, ben consapevole della circostanza e mostrando uno scetticismo che comunque non boccia le istituzioni, semmai suggerendo di renderle più efficienti: «Non sono certamente da tanto le Accademie che possano far sorgere alcuno grandissimo ingegno, che illumini veramente la età sua; ma possono bensì tenere in vita e nutrire quelle facoltà che loro son date in cura, mantenere e promuovere i migliori metodi di studiare, bene istituite e governate che siano» (p. 76).

Non fa eccezione l’Accademia di Francia in Roma, per la quale il veneziano – come detto – suggerisce l’apertura di succursali in altre città italiane per dar modo agli allievi di vedere, studiare e disegnare le opere di tutti gli stili. Non a caso qui si innesta il discorso relativo alla varietà delle scuole pittoriche italiane, da Firenze a Roma, da Bologna a Venezia e l’italiano coglie l’occasione per citare artisti noti o meno noti, ma non per questo da disprezzare, perché «avviene ancora assai volte, che le migliori opere de’ maestri mediocri superino le opere mediocri de maestri migliori» (p. 74). Quella delineata in poche pagine dall’erudito non è certo (e non vuole esserlo) una storia dell’arte italiana, ma implicitamente suggerisce una scansione temporale che va dalla «profondità» dei fiorentini e dalla «nobile sceltezza» (il classicismo per antonomasia) dei romani al «bel naturale» e al «degno colorito» di veneziani e lombardi, raggiungendo il suo culmine con l’eclettismo bolognese dei Carracci e discepoli (una visione molto simile a quella del Lanzi nella sua Storia pittorica qualche decennio dopo). Ma Algarotti non si ferma al Seicento; ha bisogno di dimostrare che anche ai suoi tempi esistono artefici italiani che detengono la palma del primato e le cui opere meritano di essere viste dai giovani che si incamminano nella loro formazione artistica; ha bisogno, insomma, di far capire che il viaggio in Italia non va concepito solo in una prospettiva storica, ma anche per informarsi sulle ultime tendenze in fatto di arte. E così riprende il suo elogio della scuola veneziana, che ha mostrato storicamente una varietà di stili probabilmente dovuta alla possibilità di dar libero sfogo al proprio genio in una città in cui regna la medesima libertà (a ben vedere uno stereotipo che deriva almeno dal Cinquecento; si pensi agli elogi della città tessuti da Francesco Sansovino). Ecco allora i nomi di Amigoni, di Piazzetta e di colui che è giudicato il più grande degli artisti di quegli anni (nonché suo grande amico), ossia Giovanni Battista Tiepolo. Si badi bene: il discorso è sottilmente pericoloso (potremmo dire ‘eversivo’): se condizione perché un artista dia pieno sfogo al suo genio è la libertà politica di un governo, che dire delle prospettive in paesi in cui spadroneggia l’assolutismo? Algarotti si riprende subito (a dimostrazione che quello sulla libertà di Venezia è solo uno stereotipo) e attribuisce una certa uniformità e freddezza nella composizione dell’arte francese non tanto alla ‘mancanza di libertà’, ma al fatto che i borsisti francesi risiedano solo a Roma e quindi possano avere come modelli solo la «nobile sceltezza» romana. Da qui, appunto, l’esigenza di creare succursali in altre città italiane.

 

La stampa di traduzione

Come al solito, si potrebbero fare molte altre considerazioni. Una, che a Pastres certo non sfugge, è la scarsa fiducia che Algarotti nutre nei confronti della stampa di traduzione. L’argomento è affrontato a partire dalla considerazione che la Francia è, senza dubbio, la patria dell’incisione, la nazione in cui tale arte è praticata con maggior profitto in termini qualitativi e quantitativi (tanto che vanno a stampa anche delle «bazzecole» (p. 61)). Tuttavia le opere vanno viste in presenza perché, mentre nel caso della scultura e dei calchi in gesso siamo di fronte a una riproduzione meccanica che dà la «fedele immagine» della statua (p. 58), nelle stampe la mano dell’incisore ha sempre un ruolo distorsivo; inoltre manca «la magia del colorito» (p. 58). Si tratta di un tema molto dibattuto a livello internazionale; si pensi che nel 1759 Pierre-Jean Mariette, uno degli eruditi più famosi d’Europa, nonché collezionista famelico di disegni, ricorse a un pantografo per cercare di riprodurre il più fedelmente possibile un disegno di Michelangelo in suo possesso per il quale non aveva trovato alcun disegnatore che lo soddisfacesse. [1] Si cercava, insomma, per la grafica, un equivalente esclusivamente meccanico di quello che erano i calchi per la scultura. Algarotti si impossessò sapientemente di un tema che appassionava gli amatori dell’epoca e lo sfruttò a suo favore per sostenere che il viaggio in Italia e la visione diretta delle opere non erano aggirabili. Una ventina d’anni dopo Luigi Lanzi, che pure molto ammirò il veneziano, avrebbe invece scritto nella Storia pittorica che studiare le stampe assiduamente voleva dire essere ampiamente indirizzati per divenire conoscitori. Come si vede, le posizioni in merito erano assai articolate e tutt’altro che unanimi.

 

Algarotti e la tutela del patrimonio

Un discorso assai delicato è poi quello relativo alle idee di Algarotti in merito alla tutela del patrimonio. Nel suo saggio l’autore scrive chiaramente che per vedere le opere migliori di un artista bisogna andare a cercarle nella sua patria (o nel luogo in cui visse più a lungo). Propone poi un nutrito numero di esempi per corroborare la sua tesi, citando le scuole veneziana, bolognese e romana. Questi passaggi – scrive Pastres – «anticipano le osservazioni di fine secolo, specialmente di Quatremére de Quincy, sui pericoli della musealizzazione e sull’esigenza di mantenere le opere nel loro contesto d’origine, evitando di spezzare il nesso tra esse e l’ambiente al quale erano destinate» (p. 24). Su questa cosa, ossia sul nesso fra le idee di Algarotti e quelle prodotte da Quatremére de Quincy nelle sue Lettere a Miranda, mi permetto di essere molto cauto. Intendiamoci: il curatore della presente edizione non è l’unico a esporre una tesi di questo tipo: potrei citare, ad esempio, anche Carmelo Occhipinti [2]. A essere sinceri, a me pare che questa profonda verità, ossia che le opere dei maestri vanno cercate soprattutto dove essi vissero, sia una consapevolezza che derivava dal mercato. Ho insomma idea che qualsiasi operatore commerciale non sprovveduto sapesse bene che se voleva reperire opere (è un esempio a caso, ma di artista citato da Algarotti) dello Zelotti doveva guardare al mercato veneto. Del resto lo stesso conte veneziano, quando fu incaricato dalla corte sassone di procurarsi quadri italiani da acquistare tenne un comportamento simile. Il carteggio con Gian Pietro Cavazzoni Zanotti, intercorso fra 1743 e 1744, dimostra che, in cerca di quadri della scuola bolognese, proprio a un bolognese (ossia a Zanotti) si rivolse [3]. La domanda che sorge successiva è, dunque, se esista in Algarotti un’esigenza di tutela del patrimonio diffuso, della cui esistenza è certamente consapevole; esiste in quest’uomo che, nel Saggio sopra l’Accademia di Francia, definisce «il commercio delle belle arti, il più ricco e nobile traffico che sia» e che si augura che «si venga ad estendere più che mai» (p. 76)?

Secondo me, sì, ma è chiaro che si tratta di una necessità che risente dei tempi: è molto probabile (anche se nulla sappiamo) che Algarotti facesse affidamento, per la conservazione del patrimonio privato, di strumenti come il fedecommesso; e per ciò che riguarda il pubblico è invece chiaro che sta nella “saggezza del principe” (che tradotto in vil denaro, vuol dire nelle sue capacità economiche) mantenere inalterate le collezioni. È così, ad esempio, che parlando de Il Giorno (o Madonna di San Girolamo) di Correggio il veneziano scrive che «fu dall’erudito genio del Reale Infante conservata all’Italia» (p. 57). Pastres fa notare correttamente che si tratta di Filippo I di Borbone, che resistette a molte richieste provenienti dall’estero; non c’è dubbio che, se ci fossero state le condizioni, Algarotti si sarebbe adoperato per far giungere il dipinto in Sassonia, dove già l’attendeva la Notte, arrivata a Dresda nel 1745. Sono fermamente convinto che non esista alcun ‘doppiogiochismo’ negli scritti algarottiani; semplicemente l’autore non percepiva l’intima contraddizione fra le sue osservazioni (quelle sul patrimonio diffuso) e i suoi comportamenti (il coinvolgimento a favore di regnanti esteri per il reperimento di opere degli antichi maestri). È poi possibilissimo che Quatremére de Quincy abbia letto e ricavato suggestioni dagli scritti dell’erudito italiano, il che dimostrerebbe ancora una volta la dimensione cosmopolita di cui godeva la sua fama; ma sarei molto cauto nel proporre Algarotti come anticipatore del francese: se lo fu, fu in maniera inconsapevole.

Correggio, Madonna di San Girolamo (Il Giorno), Galleria Nazionale di Parma
Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/c/correggi/madonna/day.html


Questa è – sia chiaro – la mia personalissima opinione. La riproposizione di un testo, come in questo caso il Saggio sopra l’Accademia di Francia che è in Roma, è sempre benemerita proprio perché permette di rileggerlo nella sua interezza e di tornare a rifletterci, lasciando da parte gli stralci antologici che, di necessità, non possono mai essere esaurienti. Ben venga, quindi, l’edizione curata magistralmente da Pastres, che inaugura una nuova collana dell’editore ZeL, intitolata, non a caso ‘Venezia cosmopolita. Pagine d’arte del Sei e Settecento’. Algarotti non poteva essere che il primo a essere proposto.

 

NOTE

[1] Kristel Smentek, Mariette and the Science of the Connoisseur in Eigtheenth-Century Europe, p. 65.

[2] Carmelo Occhipinti, Percorsi di storia artistica e storiografia. Roma, l’Italia e l’Europa fra il Seicento e il Settecento, Roma, Carocci editore, 2021, pp. 14-15: «Così Algarotti, nel suo Saggio sopra l’Accademia di Francia (1763), giunse a “intravedere” un modo di fare la storia dell’arte che, ancora oggi, ci pare di straordinaria modernità. Una storia dell’arte, cioè, che insegnasse a guardare ai contesti, all’ambiente culturale entro cui calare le opere e gli artisti, per poterne comprendere storicamente la genesi. […] Si posero così le basi perché potesse avviarsi una moderna riflessione sulla tutela del patrimonio e della memoria storica dei luoghi. Più tardi, al tempo delle razzie napoleoniche, tale riflessione sarebbe stata per la prima volta esaurientemente formulata, com’è ben noto, da Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy

[3] Paolo Pastres, I mancati acquisti bolognesi di Francesco Algarotti in Kritiké II, 2021, pp. 93-104.

3 commenti:

  1. Algarotti's curious novel 'Le Congrès de Cythère', published twice with fake imprints, remains for me bizarre.
    See COMMENT nr 5 in my post 111/ A voyage to Cythera (3): among publishers and their fake imprints
    https://kbender.blogspot.com/2022/10/111-voyage-to-cythera-3-among.html?view=magazine

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  2. Thank you so much. I have to confess I didn't know the topic.

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  3. Im Bertuch Verlag Weimar erschien 2021 das Sachbuch FRANCESCO ALGAROTTI https://www.bertuch-verlag.com/544-0-Francesco-Algarotti.html

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