Κριτική [Kritiké]
Anno III – 2022
Direttore Giovanna Perini Folesani
Firenze, Leo S. Olschki, 2022
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Esce il terzo numero di Kritiké e io, imperterrito, sono qui a
recensirlo (troverete le recensioni al primo e al secondo numero cliccando sui relativi link). Perché? Ho un debito particolare di
riconoscenza con Giovanna Perini Folesani? In parte sì, visto che nel secondo
numero è apparso un mio contributo, ma il motivo non è certo questo.
Non amo molto le
riviste d’arte. Troppo frammentarie, troppo specialistiche. Nella biblioteca
d’arte di casa mia, che in questi giorni sto donando all’Archiginnasio – ed è
un gesto affettivo sì, ma anche politico nel senso più genuino del termine – le
riviste sono pochissime. Fra queste, Kritiké – e mi scuso se mi ripeto rispetto
ad altre occasioni – si caratterizza fortemente per la pervicacia con cui la
critica è al centro di un discorso che coinvolge competenze professionali
diverse, ma in cui il comune denominatore è un approccio libero all’esercizio
del pensiero. Così libero che posso trovare un filo conduttore, una regia, in
una serie di contributi provenienti – come in questo numero – da storici
dell’arte e della critica d’arte, ma anche da linguisti, storici del libro,
teologi. La regia è, appunto, quella di Giovanna Perini Folesani, di cui non
sfugga, ad esempio, che risulta essere ‘direttore’ e non ‘direttrice’ della
rivista, come a dire che il politically correct a ogni costo non è
l’argomento che più la entusiasma. E fa bene. Qualche giorno fa parlavo con un
amico che tiene corsi in Italia per università americane (manterrò naturalmente
l’anonimato); mi ha raccontato che, portati i suoi studenti a Parma a vedere la
cupola del Correggio in duomo, si è visto rinfacciare il ‘razzismo’ del povero
Antonio Allegri, poco attento, nella sua Assunzione della Vergine, alla
rappresentazione di figure appartenenti a minoranze etniche. Ecco, forse si sta
esagerando. E mentre ci perdiamo attorno a sciocchezze di questo tipo, problemi
ben più cogenti si stagliano all’orizzonte. Forse per mia scarsa attenzione,
non ne ho sentito discutere. Molto banalmente, in un mondo in cui i fatti
migratori sono all’ordine del giorno (non credo per motivi legati alla
dittatura di quello che Perini Folesani chiama ‘capitalismo apolide’, ma per
tensioni di natura demografica di lungo periodo previsti fin dai tempi di Malthus)
qual è la percezione dell’arte che hanno i figli dei migranti che frequentano
le nostre scuole, spesso provenienti da culture in cui l’immagine (specie di
carattere religioso) è considerata sacrilega? Qual è l’idea del ‘patrimonio
diffuso’? Quale la consapevolezza che nelle nostre chiese, quelle chiese che
legittimamente non frequentano per motivi religiosi, c’è la storia artistica di
un paese? Esiste un progetto di ‘educazione al patrimonio’ per questi specifici
segmenti della popolazione, sempre più destinati a divenire consistenti? Non lo
so, ma sto divagando, e quindi pensiamo al terzo numero di Kritiké.
Indice
- Giovanna Perini Folesani, Editoriale;
- Andrea Felici – Veronica Ricotta, La lingua dell’arte e della critica d’arte; un percorso tra antico e moderno;
- Roberta Barsanti, «Disegno perfetto e grazia divina». Episodi di collezionismo di disegni di Leonardo da Vinci nella Firenze di secondo Cinquecento;
- Clizia Gurreri, Il Discorso di Melchiorre Zoppio in dichiaratione dell’Hermathena: ipotesi di lettura;
- Martin Leutzsch, Isaac will not be shot: A pictorial idea and its uses in aesthetic and religious discourses in early modern and modern times;
- Piera Giovanna Tordella, Friedrich Schleiermacher e l’estetica del disegno;
- Shigemi Inaga, The Origin of Modernist Aesthetics as the Oblivion of Political Struggle: the Case of Ėdouard Manet and the Marketing Strategy of His Posthumous Auction in 1884;
- Loretta De Franceschi, Neri Pozza editore d’arte.
Andrea
Felici – Veronica Ricotta
La lingua dell’arte e della critica d’arte; un percorso tra antico e moderno
Gli autori, linguisti, delineano un percorso (per ovvi motivi di spazio molto oltre non si poteva andare) sulla ‘questione della lingua’ nell’arte e nella critica d’arte dai momenti fondativi fino a Roberto Longhi., naturalmente basando la loro analisi sull’esame dei testi (Veronica Ricotta, ad esempio, ha stabilito di recente il testo critico del Libro dell’Arte di Cennino Cennini). [1]
In ambito artistico emerge la duplice origine del lessico
artistico, da un lato proveniente da un linguaggio ‘alto’, che si richiama alle
fonti classiche, quando disponibili, e dall’altro da un registro ‘basso’, che è
il volgare praticato nelle botteghe degli artefici, con forti connotazioni
locali. L’esempio più evidente si ha nel campo della letteratura dove da un
lato si colloca Vitruvio, col suo De architectura, e dall’altro,
appunto la lingua parlata nei cantieri. Ecco, allora, che da Francesco di Giorgio Martini (primo
traduttore di Vitruvio) in poi i termini di estrazione alta vengono
letteralmente affiancati dai loro equivalenti popolari. Meno fortunata è la
situazione in ambito pittorico, dove l’assenza di una fonte proveniente
dall’antichità sul tipo di quella vitruviana, comporta una ‘selezione naturale’
fra i termini che si impongono nei primi scritti sulla materia (che
naturalmente altro non sono che cristallizzazioni della lingua parlata). Se in
quest’ambito i primi riferimenti obbligati sono Cennino Cennini e Leon Battista Alberti, con Vasari e suoi epigoni si manifesta la nascita
di una ‘lingua della critica d’arte’, cioè «propria di quei testi, scritti
dagli stessi artisti o da figure di settore, che riportano o commentano i
risultati prodotti nelle arti figurative» (p. 7). Ancora differente, invece, è
il caso della ‘critica d’arte pura’, che si impone secoli dopo e in cui la
lingua diventa molto più variegata, «con ampio ricorso a termini provenienti da
altre discipline (dalla musica fino alle scienze), e riferimento costante ai
procedimenti metaforici, che vanno a comporre una prosa complessa e ricca di
spunti narrativi» (p. 9). Seguendo un sentiero di questo, tipo Felici e Ricotta
propongono una scelta antologica da Vasari, Baldinucci, Milizia e Roberto
Longhi.
Marilena
Luzietti
Dare corpo all’incorporeo. I ripensamenti di Giovanni Andrea Gilio da Fabriano
Nell’ambito della produzione a stampa di
Giovanni Andrea Gilio, l’autrice mette in evidenza elementi di continuità e,
soprattutto di discontinuità, fra il Trattato dell’emulazione del demonio
a Dio e il Dialogo sugli errori degli artisti (1564). In
particolare segnala come nel primo caso Gilio si dimostri su posizioni così
oltranziste sulla negazione della possibilità di raffigurare Dio da essere
molto vicino alle tesi iconoclaste del cristianesimo orientale. Certamente, è
evidente che il canonico fabrianese si richiama a Sant’Agostino e non recepisce
le argomentazioni del teologo Konrad Braun (italianizzato in Corrado Bruno) che
nel 1548 aveva giustificato la rappresentazione di caratteristiche fisiche
della divinità, come descritte nelle visioni di Daniele e di San Giovanni. In
proposito, nel Trattato sull’emulazione Gilio parla apertamente di
bestemmia, mentre nel Dialogo sull’errore e gli abusi dei pittori la sua
posizione cambia radicalmente, e la rappresentazione delle immagini diventa una
consuetudine tollerata dalla Chiesa, sulla base di motivazioni che in questa
sede tralascio. L’aspetto più interessante è che questo repentino mutamento
avviene nell’arco di un anno: nel 1563 esce il Trattato sull’emulazione
e nel 1564 i Due Dialogi che contengono quello sugli errori dei pittori.
Come giustificare la cosa? Luzietti parla della volontà di mostrarsi al
cardinal Farnese come consigliere erudito, ma soprattutto aggiornato rispetto
agli orientamenti teologici legati alla Controriforma. Nel dicembre del 1563 si
riuniva a Trento la venticinquesima e ultima sessione del Concilio che si
sarebbe espressa per una posizione ‘tollerante’ sul tema. Anche se è probabile
che Gilio abbia scritto il suo Discorso prima di quest’evento, è
possibile che si sia reso conto degli orientamenti destinati a prevalere,
autocensurando le proprie idee. Più in generale, mi pare particolarmente
interessante la visione prospettica con cui l’autrice guarda alla relazione fra
Trattato e Dialogo e che io, ad esempio, in sede di recensione
dell’edizione Bury di quest’ultimo, avevo totalmente mancato di percepire.
Roberta
Barsanti
«Disegno perfetto e grazia divina». Episodi di collezionismo di disegni di
Leonardo da Vinci nella Firenze di secondo Cinquecento
Clizia
Gurreri
Il Discorso di Melchiorre Zoppio in dichiaratione dell’Hermathena:
ipotesi di lettura
Clizia Gurrieri, italianista, propone la
trascrizione integrale del discorso con cui Melchiorre Zoppio inaugurò la nuova
sala destinata alle riunioni della bolognese Accademia dei Gelati, sala completamente
ristrutturata e inserita all’interno del palazzo di proprietà dello stesso
Zoppio in Strada Maggiore. Affianca alla trascrizione un saggio molto denso,
che indaga la complessa, ma raffinatissima, impalcatura ideologica e culturale
che lo sostiene. Alcune cose vanno chiarite: il discorso risale al 1614. Tenuto
conto che l’Accademia fu fondata, secondo le fonti, nel 1588 dai fratelli Gessi
e dallo stesso Zoppio, il discorso segna una nuova fase dell’attività del
consesso e non la sua nascita. La circostanza pone il problema storico di dove
si siano tenute le adunate dei Gelati fino a quella data. L’autrice ritiene
che, nei primi anni, la sede sia stata la casa dei Gessi; a una prima fase di
attività sarebbero seguiti – ed è in fondo quanto testimonia Zoppio nel suo
discorso – anni di sostanziale inattività, fino appunto alla rinascita
testimoniata dal discorso. La ‘rifondazione’ coincide simbolicamente con due momenti
fondamentali: la nomina del protettore dell’Accademia, il cardinal Maffeo Barberini,
già legato pontificio in Bologna, presente alla cerimonia e in procinto di fare
ritorno in Roma alla corte pontificia (dove divenne Papa nel 1623) e
l’intitolazione della sala stessa che assunse il nome di Hermathena.
Tralascio tutte le spiegazioni legate alla denominazione, ampiamente illustrate
da Zoppio nel suo discorso e da Gurreri nel suo commento. Qui mi preme mettere
in evidenza tre aspetti: c’è chiaramente (anche se non mi è personalmente del
tutto chiaro in che termini) la volontà di recuperare o richiamare l’Accademia
Hermathena di Achille Bocchi, breve ma significativa stagione della cultura
bolognese di metà Cinquecento; Zoppio descrive e spiega nel suo discorso il
complesso apparato relativo a emblemi e imprese che fece approntare all’interno
della sala (purtroppo andato completamente perso, sicché non sempre è
semplicissima una ricostruzione certa); tutta la parte ecfrastica del discorso
mette in rilievo l’importanza ‘politica’ delle imprese nella società dell’epoca:
«le pitture sono proiezione visiva delle parole, una narrazione simbolica per
immagini che racconta la storia dell’Accademia e definisce il suo ruolo in un
progetto storico e culturale» (p. 64). La vita dell’Accademia dei Gelati fu
assai più lunga e fortunata di quella del Bocchi; se non erro il suo
scioglimento avvenne a fine Settecento e non posso non ricordare che,
certamente, l’Accademico più famoso, dal punto di vista della storia dell’arte,
fu Carlo Cesare Malvasia, detto l’Ascoso.
Nelle pagine iniziali della rivista Giovanna Perini Folesani, introducendo il
lavoro di Gurrieri, si domanda, legittimamente, che collocazione avesse, nell’Hermathena,
l’impresa dell’Accademia, dipinta (naturalmente in anni precedenti al 1614) da
Prospero Fontana e riprodotta a stampa da Agostino Carracci. Il discorso di
Zoppio nulla ci dice in merito, ma va detto che l’oratore si limitò, per motivi
di tempo, a illustrare soltanto una parte dell’apparato iconografico della
sala. Non si può cioè escludere – anche se è curioso – che tralasciasse
volutamente di parlarne perché elemento non nuovo nella vita dell’Accademia.
Martin
Leutzsch
Isaac will not be shot: A pictorial idea and its uses in aesthetic and
religious discourses in early modern and modern times
Il saggio di Martin Leutzsch, teologo
protestante e docente all’Università di Paderborn, è semplicemente delizioso.
Confesso che io non avevo la benché minima idea dell’esistenza di una
particolare soluzione iconografica utilizzata per illustrare il sacrificio di
Isacco da parte di Abramo. Oltre alle consuete rappresentazioni dell’episodio
vetero-testamentario, in cui Abramo si accinge a uccidere il figlio su
richiesta divina e viene fermato soltanto all’ultimo istante da un angelo che
gli afferra il braccio da cui il genitore brandisce una spada o un coltello, ne
esiste un’altra. Secondo tale interpretazione Abramo sta per uccidere Isacco
sparandogli con un archibugio, o fucile, o pistola; insomma, con un’arma a
scoppio; e l’angelo impedisce la tragedia intervenendo dall’alto e facendo pipì
sulla pietra focaia dell’arma, spegnendola e facendo sì che sia inutilizzabile.
La cosa (per me) più incredibile è che non solo questa versione esiste, ma che
conta centinaia e centinaia di citazioni in letteratura, in generi fra loro
anche molto diversi. Leutzsch ne enuncia una quantità incredibile,
soffermandosi sulla diffusione del motivo in aree linguistiche diverse. Le
prime citazioni risalgono alla fine del Seicento e all’inizio del Settecento.
Alcune linee di tendenza sono chiaramente percepibili: prima fra tutte che
nessuno degli autori che citano l’episodio sembra aver mai visto direttamente
il quadro, l’affresco, la miniatura di cui parla. Da qui all’individuzione
della collocazione delle opere in aree geografiche fra loro diversissime (dalla
Germania alla Spagna, dall’Italia alla Patagonia) il passo è breve. Vero è che
esiste una prevalenza di segnalazioni (mai confermate) in area olandese e che
l’iconografia è particolarmente citata in zone di lingua tedesca, dove
l’episodio si arricchisce di una spiegazione scritta in rima (in genere su
cartiglio) che diventa così comune da assumere un valore proverbiale svincolato
dall’opera d’arte. Eppure, Leutszch è in grado di segnalare opere che nella
realtà illustrano il sacrificio di Isacco tramite un archibugio. La prima, in
termini cronologici, è di un anonimo pittore tedesco del Cinquecento e si trova
presso il museo provinciale degli usi e costumi di Brunico. La circostanza è
curiosa perché, come abbiamo visto, in letteratura le citazioni cominciano a
comparire solo alla fine del Seicento. Siamo, insomma, di fronte a un motivo
iconografico che non è la ricaduta in immagine di una ‘leggenda metropolitana’
affermatasi in precedenza; ma esattamente del contrario. Rappresentazioni
sull’argomento sono reperibili nel corso dei secoli fino, addirittura, sulla
stampa periodica agli inizi del Novecento. Naturalmente, il più delle volte,
assumono una chiara valenza ironica o di satira, come nel caso dell’incisione
dell’artista inglese Paul Sandby che nel 1753 realizzò un’illustrazione satirica
dello studio di William Hogarth, nell’ambito delle polemiche seguite alla
pubblicazione da parte di quest’ultimo dell’Analysis of Beauty.
Paul Sandby, Burlesque sur le burlesque, 1753 Fonte: https://www.britishmuseum.org/collection/object/P_1868-0808-3946 |
Piera
Giovanna Tordella
Friedrich Schleiermacher e l’estetica del disegno
Ė difficile definire Friedrich Schleiermacher
(1786-1834) un filosofo dell’arte, se non altro perché egli stesso negava (o
comunque era molto scettico su) il fatto che l’estetica fosse filosofia
dell’arte. Quello che è certo è che si tratta di studioso che fu
particolarmente apprezzato da Benedetto Croce per la sua convinzione che la
vera opera d’arte fosse l’ ‘immagine interna’ che un artista si formava nella
sua mente, prima dell’esecuzione vera e propria della medesima. Sono evidenti
sin da qui le chiare analogie con le teorie cinquecentesche sul ‘disegno
interno’ e ‘disegno esterno’ che poi sfociarono, nella loro forma più dotta (e
criptica) negli scritti di Federico Zuccari. L’analisi di Tordella si sofferma,
in particolare, sul ruolo che assume il disegno nell’ambito del pensiero
dell’erudito tedesco, ricerca particolarmente ardua perché Schleiermacher non
arrivò mai a una formalizzazione organica del suo pensiero. Dipendiamo, in
sostanza, da una serie di memorie e da un quaderno redatti di mano del tedesco
e da raccolte di appunti di studenti che seguirono i suoi corsi universitari a
Berlino. Spero di non travisare
l’analisi dell’autrice se dico che, essendo la fase realizzativa dell’opera un
momento successivo e ‘imperfetto’ dell’opera d’arte, il disegno si pone come istante
più vicino (e quindi meno ‘imperfetto’) all’idea archetipica dell’artista.
Peraltro Tordella mette in evidenza come, dagli scritti a noi noti, il ruolo
del disegno in rapporto a pittura e scultura muti nel pensiero del tedesco col
passare degli anni, approdando, dopo un lungo cammino, ad affermare la
sostanziale equivalenza dello stesso.
Shigemi
Inaga
The Origin of Modernist Aesthetics as the Oblivion of Political Struggle: the
Case of Ėdouard Manet and the Marketing Strategy of His Posthumous Auction in
1884
Quella di Shigemi Inaga è un’analisi
particolarmente acuta di un momento storico cruciale nella storia
dell’affermazione dell’impressionismo nel collezionismo mondiale: siamo nel
1884, un anno dopo la morte di Ėdouard Manet (1832-1883) e dopo una
retrospettiva dell’artista tenutasi non senza polemiche presso l’Ėcole des
Beaux-Arts di Parigi, il 4 e 5 febbraio va all’asta una serie di quadri da lui
dipinti (fra cui, ad esempio l’Olympia (1863), Argentuil (1874) e
Il bar delle Folies-Bergère. Quell’asta venne e viene ancor oggi dipinta
come un clamoroso successo, come il momento in cui Manet e l’impressionismo
tutto trovano un riscontro sul mercato innescando una clamorosa escalation dei
prezzi delle opere negli anni successivi. Rileggendo i processi verbali
dell’asta e avvalendosi di corrispondenza e relazioni pubblicate sui periodici,
Inaga evidenzia come quel clamoroso successo tale, in realtà, non fu. Preziosissimo
fu, piuttosto, l’intervento di Theodore Duret, incaricato della vendita dagli
eredi Manet, che intervenendo anonimamente nell’asta con acquisti mirati (si
leggano i timori di un insuccesso da lui confessati per lettera a Ėmile Zola)
riuscì a sostenere il livello dei prezzi delle opere più importanti e,
contemporaneamente, a scatenare l’interesse del pubblico su lavori assai meno
significativi, ma più abbordabili in termini economici, dai pastelli alle
incisioni. Quella che Inaga sottolinea è la sapiente operazione di marketing
condotta da Duret, grazie alla quale, improvvisamente, ogni riserva espressa
dalla critica tradizionale (e tradizionalista) dell’epoca fu additata, da quel
momento, come miope e superata.
Edouard Manet, Il bar delle Folies-Bergere, 1881-1882, London, Courtauld Institute of Art Fonte: https://images.artistsspace.org/ln8ji75r via Wikimedia Commons |
Loretta De
Franceschi
Neri Pozza editore d’arte
Il numero 3 di Kritiké si
conclude con un saggio dedicato alla figura di Neri Pozza, molto più di un
imprenditore editoriale per la versatilità dei suoi interessi. Neri Pozza fu
uno dei protagonisti della stagione degli editori d’arte italiani d’arte indipendenti
nella seconda metà del Novecento. Potremmo definirla gloriosa, se non fosse che,
più di panegirici, c’è bisogno di analisi e prospettiva storica, esigenze che
Loretta De Franceschi assolve perfettamente nel suo saggio. Ė chiaro il legame
dell’editore, vicentino, con la sua città natale, ma più in generale col Veneto
e con Venezia. Le collaborazioni più prestigiose sono quelle con l’Istituto di
storia dell’Arte della Fondazione Cini e i suoi direttori, da Giorgio Fiocco a
Rodolfo Pallucchini a Alessandro Bettagno. Nascono collane fortunate e
prestigiose come ‘Cataloghi di mostre’ e ‘Cataloghi di raccolte d’arte’ che
realmente contribuiscono in maniera decisiva all’alfabetizzazione visiva di un
numero molto elevato di lettori. Mi fa piacere che De Franceschi citi in
particolare il catalogo del 1973 sui disegni di Cavalcaselle perché quel libro
è tuttora ampiamente frequentato dagli studiosi e non ha perso il suo valore,
grazie anche a un abile dosaggio fra testo e illustrazioni. Quella fra la
Fondazione Cini e l’editore Neri Pozza – scrive l’autrice - fuu na vera e propria «attività di promozione
e divulgazione del ricco patrimonio artistico regionale – in termini pittorici,
scultorei, grafici, bibliologici e di oggettistica varia – nell’ambito di un
processo di valorizzazione che si esprime in maniera sinergica attraverso
l’organizzazione di mostre da parte dell’Istituto e attraverso la pubblicazione
dei cataloghi da parte di Pozza» (p. 202). Personalmente, nell’ambito di una
produzione protrattasi nell’arco di più di tre decenni e quindi non
riassumibile in un saggio, mi piace ricordare l’attenzione dell’editore per i
ricettari di tecniche artistiche e la sua collaborazione con Franco Brunello,
di cui pubblicò almeno una fortunatissima edizione del Libro dell’arte di Cennino Cennini (1971), il De arte illuminandi e altri trattati sulla tecnica
della miniatura medievale (1975), Arte e mestieri a Venezia nel Medioevo
e nel Rinascimento (1981).
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