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lunedì 20 marzo 2023

Κριτική [Kritiké] Anno III – 2022 - Direttore Giovanna Perini Folesani - Leo S. Olschki editore


Κριτική [Kritiké]
Anno III – 2022
Direttore Giovanna Perini Folesani


Firenze, Leo S. Olschki, 2022

Recensione di Giovanni Mazzaferro  




Esce il terzo numero di
Kritiké e io, imperterrito, sono qui a recensirlo (troverete le recensioni al primo e al secondo numero cliccando sui relativi link). Perché? Ho un debito particolare di riconoscenza con Giovanna Perini Folesani? In parte sì, visto che nel secondo numero è apparso un mio contributo, ma il motivo non è certo questo.

Non amo molto le riviste d’arte. Troppo frammentarie, troppo specialistiche. Nella biblioteca d’arte di casa mia, che in questi giorni sto donando all’Archiginnasio – ed è un gesto affettivo sì, ma anche politico nel senso più genuino del termine – le riviste sono pochissime. Fra queste, Kritiké – e mi scuso se mi ripeto rispetto ad altre occasioni – si caratterizza fortemente per la pervicacia con cui la critica è al centro di un discorso che coinvolge competenze professionali diverse, ma in cui il comune denominatore è un approccio libero all’esercizio del pensiero. Così libero che posso trovare un filo conduttore, una regia, in una serie di contributi provenienti – come in questo numero – da storici dell’arte e della critica d’arte, ma anche da linguisti, storici del libro, teologi. La regia è, appunto, quella di Giovanna Perini Folesani, di cui non sfugga, ad esempio, che risulta essere ‘direttore’ e non ‘direttrice’ della rivista, come a dire che il politically correct a ogni costo non è l’argomento che più la entusiasma. E fa bene. Qualche giorno fa parlavo con un amico che tiene corsi in Italia per università americane (manterrò naturalmente l’anonimato); mi ha raccontato che, portati i suoi studenti a Parma a vedere la cupola del Correggio in duomo, si è visto rinfacciare il ‘razzismo’ del povero Antonio Allegri, poco attento, nella sua Assunzione della Vergine, alla rappresentazione di figure appartenenti a minoranze etniche. Ecco, forse si sta esagerando. E mentre ci perdiamo attorno a sciocchezze di questo tipo, problemi ben più cogenti si stagliano all’orizzonte. Forse per mia scarsa attenzione, non ne ho sentito discutere. Molto banalmente, in un mondo in cui i fatti migratori sono all’ordine del giorno (non credo per motivi legati alla dittatura di quello che Perini Folesani chiama ‘capitalismo apolide’, ma per tensioni di natura demografica di lungo periodo previsti fin dai tempi di Malthus) qual è la percezione dell’arte che hanno i figli dei migranti che frequentano le nostre scuole, spesso provenienti da culture in cui l’immagine (specie di carattere religioso) è considerata sacrilega? Qual è l’idea del ‘patrimonio diffuso’? Quale la consapevolezza che nelle nostre chiese, quelle chiese che legittimamente non frequentano per motivi religiosi, c’è la storia artistica di un paese? Esiste un progetto di ‘educazione al patrimonio’ per questi specifici segmenti della popolazione, sempre più destinati a divenire consistenti? Non lo so, ma sto divagando, e quindi pensiamo al terzo numero di Kritiké.
 

Indice

  • Giovanna Perini Folesani, Editoriale;
  • Andrea Felici – Veronica Ricotta, La lingua dell’arte e della critica d’arte; un percorso tra antico e moderno;
  • Roberta Barsanti, «Disegno perfetto e grazia divina». Episodi di collezionismo di disegni di Leonardo da Vinci nella Firenze di secondo Cinquecento;
  • Clizia Gurreri, Il Discorso di Melchiorre Zoppio in dichiaratione dell’Hermathena: ipotesi di lettura;
  • Martin Leutzsch, Isaac will not be shot: A pictorial idea and its uses in aesthetic and religious discourses in early modern and modern times;
  • Piera Giovanna Tordella, Friedrich Schleiermacher e l’estetica del disegno;
  • Shigemi Inaga, The Origin of Modernist Aesthetics as the Oblivion of Political Struggle: the Case of Ėdouard Manet and the Marketing Strategy of His Posthumous Auction in 1884;
  • Loretta De Franceschi, Neri Pozza editore d’arte.
 

Andrea Felici – Veronica Ricotta
La lingua dell’arte e della critica d’arte; un percorso tra antico e moderno

Gli autori, linguisti, delineano un percorso (per ovvi motivi di spazio molto oltre non si poteva andare) sulla ‘questione della lingua’ nell’arte e nella critica d’arte dai momenti fondativi fino a Roberto Longhi., naturalmente basando la loro analisi sull’esame dei testi (Veronica Ricotta, ad esempio, ha stabilito di recente il testo critico del Libro dell’Arte di Cennino Cennini). [1] 




In ambito artistico emerge la duplice origine del lessico artistico, da un lato proveniente da un linguaggio ‘alto’, che si richiama alle fonti classiche, quando disponibili, e dall’altro da un registro ‘basso’, che è il volgare praticato nelle botteghe degli artefici, con forti connotazioni locali. L’esempio più evidente si ha nel campo della letteratura dove da un lato si colloca Vitruvio, col suo De architectura, e dall’altro, appunto la lingua parlata nei cantieri. Ecco, allora, che da Francesco di Giorgio Martini (primo traduttore di Vitruvio) in poi i termini di estrazione alta vengono letteralmente affiancati dai loro equivalenti popolari. Meno fortunata è la situazione in ambito pittorico, dove l’assenza di una fonte proveniente dall’antichità sul tipo di quella vitruviana, comporta una ‘selezione naturale’ fra i termini che si impongono nei primi scritti sulla materia (che naturalmente altro non sono che cristallizzazioni della lingua parlata). Se in quest’ambito i primi riferimenti obbligati sono Cennino Cennini e Leon Battista Alberti, con Vasari e suoi epigoni si manifesta la nascita di una ‘lingua della critica d’arte’, cioè «propria di quei testi, scritti dagli stessi artisti o da figure di settore, che riportano o commentano i risultati prodotti nelle arti figurative» (p. 7). Ancora differente, invece, è il caso della ‘critica d’arte pura’, che si impone secoli dopo e in cui la lingua diventa molto più variegata, «con ampio ricorso a termini provenienti da altre discipline (dalla musica fino alle scienze), e riferimento costante ai procedimenti metaforici, che vanno a comporre una prosa complessa e ricca di spunti narrativi» (p. 9). Seguendo un sentiero di questo, tipo Felici e Ricotta propongono una scelta antologica da Vasari, Baldinucci, Milizia e Roberto Longhi.

 

Marilena Luzietti
Dare corpo all’incorporeo. I ripensamenti di Giovanni Andrea Gilio da Fabriano

Nell’ambito della produzione a stampa di Giovanni Andrea Gilio, l’autrice mette in evidenza elementi di continuità e, soprattutto di discontinuità, fra il Trattato dell’emulazione del demonio a Dio e il Dialogo sugli errori degli artisti (1564). In particolare segnala come nel primo caso Gilio si dimostri su posizioni così oltranziste sulla negazione della possibilità di raffigurare Dio da essere molto vicino alle tesi iconoclaste del cristianesimo orientale. Certamente, è evidente che il canonico fabrianese si richiama a Sant’Agostino e non recepisce le argomentazioni del teologo Konrad Braun (italianizzato in Corrado Bruno) che nel 1548 aveva giustificato la rappresentazione di caratteristiche fisiche della divinità, come descritte nelle visioni di Daniele e di San Giovanni. In proposito, nel Trattato sull’emulazione Gilio parla apertamente di bestemmia, mentre nel Dialogo sull’errore e gli abusi dei pittori la sua posizione cambia radicalmente, e la rappresentazione delle immagini diventa una consuetudine tollerata dalla Chiesa, sulla base di motivazioni che in questa sede tralascio. L’aspetto più interessante è che questo repentino mutamento avviene nell’arco di un anno: nel 1563 esce il Trattato sull’emulazione e nel 1564 i Due Dialogi che contengono quello sugli errori dei pittori. Come giustificare la cosa? Luzietti parla della volontà di mostrarsi al cardinal Farnese come consigliere erudito, ma soprattutto aggiornato rispetto agli orientamenti teologici legati alla Controriforma. Nel dicembre del 1563 si riuniva a Trento la venticinquesima e ultima sessione del Concilio che si sarebbe espressa per una posizione ‘tollerante’ sul tema. Anche se è probabile che Gilio abbia scritto il suo Discorso prima di quest’evento, è possibile che si sia reso conto degli orientamenti destinati a prevalere, autocensurando le proprie idee. Più in generale, mi pare particolarmente interessante la visione prospettica con cui l’autrice guarda alla relazione fra Trattato e Dialogo e che io, ad esempio, in sede di recensione dell’edizione Bury di quest’ultimo, avevo totalmente mancato di percepire.  


 

Roberta Barsanti
«Disegno perfetto e grazia divina». Episodi di collezionismo di disegni di Leonardo da Vinci nella Firenze di secondo Cinquecento

Il contributo di Roberta Barsanti è di particolare interesse perché contestualizza il collezionismo di disegni di Leonardo (autentici o presunti tali) nella Firenze di secondo Cinquecento e lo abbina ad analogo collezionismo, questa volta relativo al Libro di pittura dell’artista, sempre nella capitale medicea. La principale difficoltà nella ricostruzione è determinata dal fatto che, in molti casi, i disegni di cui si tratta sono andati perduti e, quindi, la memoria che ce ne resta è tramandata dalle fonti scritte. Ė di grande importanza, ad esempio, che la famiglia dei Gaddi fosse in possesso di un apografo del Libro e di una prova grafica attribuita a Leonardo richiamante temi desunti da quell’antico di cui Nicolò Gaddi, in particolare, fu appassionato ricercatore. Scrive Barsanti che il collezionismo fiorentino relativo ai disegni leonardeschi «entra a pieno titolo in quel fertile rapporto che si instaurò nella seconda metà del Cinquecento fra intellettuali e dilettanti legati alla corte medicea, che non solo ne emulavano, ma talvolta ne orientavano le scelte e il fiorire di accademie pubbliche e private, frequentate anche da esponenti delle famiglie patrizie della città, incentrate per una parte su dibattiti inerenti la lingua e per l’altra in discussioni sulle arti.» (p. 56). Mi si lasci aggiungere che questo complesso intreccio risulta ancora più evidente affiancando la lettura di questo saggio con quella di The Earliest Abridged Copies of the Libro di pittura in Florence, che Anna Sconza ha pubblicato di recente in The Fabrication of Leonardo da Vinci’s Trattato della pittura. 




Si coglierà ad esempio come la circolazione e la trascrizione dell’apografo (non dell’originale, probabilmente realizzato a Milano e forse mai visto a Firenze) avvenga appunto nell’ambito degli stessi circoli interessati al collezionamento dei disegni e che la sua diffusione sia, probabilmente, un modo per arricchire di contenuti dibattiti e insegnamenti tenutisi all’interno delle Accademie fiorentine, esattamente come successe con la princeps del Trattato della pittura (1651) rispetto alla parigina Accademia reale di pittura e scultura fondata nel 1648.

Clizia Gurreri
Il Discorso di Melchiorre Zoppio in dichiaratione dell’Hermathena: ipotesi di lettura

Clizia Gurrieri, italianista, propone la trascrizione integrale del discorso con cui Melchiorre Zoppio inaugurò la nuova sala destinata alle riunioni della bolognese Accademia dei Gelati, sala completamente ristrutturata e inserita all’interno del palazzo di proprietà dello stesso Zoppio in Strada Maggiore. Affianca alla trascrizione un saggio molto denso, che indaga la complessa, ma raffinatissima, impalcatura ideologica e culturale che lo sostiene. Alcune cose vanno chiarite: il discorso risale al 1614. Tenuto conto che l’Accademia fu fondata, secondo le fonti, nel 1588 dai fratelli Gessi e dallo stesso Zoppio, il discorso segna una nuova fase dell’attività del consesso e non la sua nascita. La circostanza pone il problema storico di dove si siano tenute le adunate dei Gelati fino a quella data. L’autrice ritiene che, nei primi anni, la sede sia stata la casa dei Gessi; a una prima fase di attività sarebbero seguiti – ed è in fondo quanto testimonia Zoppio nel suo discorso – anni di sostanziale inattività, fino appunto alla rinascita testimoniata dal discorso. La ‘rifondazione’ coincide simbolicamente con due momenti fondamentali: la nomina del protettore dell’Accademia, il cardinal Maffeo Barberini, già legato pontificio in Bologna, presente alla cerimonia e in procinto di fare ritorno in Roma alla corte pontificia (dove divenne Papa nel 1623) e l’intitolazione della sala stessa che assunse il nome di Hermathena. Tralascio tutte le spiegazioni legate alla denominazione, ampiamente illustrate da Zoppio nel suo discorso e da Gurreri nel suo commento. Qui mi preme mettere in evidenza tre aspetti: c’è chiaramente (anche se non mi è personalmente del tutto chiaro in che termini) la volontà di recuperare o richiamare l’Accademia Hermathena di Achille Bocchi, breve ma significativa stagione della cultura bolognese di metà Cinquecento; Zoppio descrive e spiega nel suo discorso il complesso apparato relativo a emblemi e imprese che fece approntare all’interno della sala (purtroppo andato completamente perso, sicché non sempre è semplicissima una ricostruzione certa); tutta la parte ecfrastica del discorso mette in rilievo l’importanza ‘politica’ delle imprese nella società dell’epoca: «le pitture sono proiezione visiva delle parole, una narrazione simbolica per immagini che racconta la storia dell’Accademia e definisce il suo ruolo in un progetto storico e culturale» (p. 64). La vita dell’Accademia dei Gelati fu assai più lunga e fortunata di quella del Bocchi; se non erro il suo scioglimento avvenne a fine Settecento e non posso non ricordare che, certamente, l’Accademico più famoso, dal punto di vista della storia dell’arte, fu Carlo Cesare Malvasia, detto l’Ascoso. Nelle pagine iniziali della rivista Giovanna Perini Folesani, introducendo il lavoro di Gurrieri, si domanda, legittimamente, che collocazione avesse, nell’Hermathena, l’impresa dell’Accademia, dipinta (naturalmente in anni precedenti al 1614) da Prospero Fontana e riprodotta a stampa da Agostino Carracci. Il discorso di Zoppio nulla ci dice in merito, ma va detto che l’oratore si limitò, per motivi di tempo, a illustrare soltanto una parte dell’apparato iconografico della sala. Non si può cioè escludere – anche se è curioso – che tralasciasse volutamente di parlarne perché elemento non nuovo nella vita dell’Accademia.
 

Martin Leutzsch
Isaac will not be shot: A pictorial idea and its uses in aesthetic and religious discourses in early modern and modern times

Il saggio di Martin Leutzsch, teologo protestante e docente all’Università di Paderborn, è semplicemente delizioso. Confesso che io non avevo la benché minima idea dell’esistenza di una particolare soluzione iconografica utilizzata per illustrare il sacrificio di Isacco da parte di Abramo. Oltre alle consuete rappresentazioni dell’episodio vetero-testamentario, in cui Abramo si accinge a uccidere il figlio su richiesta divina e viene fermato soltanto all’ultimo istante da un angelo che gli afferra il braccio da cui il genitore brandisce una spada o un coltello, ne esiste un’altra. Secondo tale interpretazione Abramo sta per uccidere Isacco sparandogli con un archibugio, o fucile, o pistola; insomma, con un’arma a scoppio; e l’angelo impedisce la tragedia intervenendo dall’alto e facendo pipì sulla pietra focaia dell’arma, spegnendola e facendo sì che sia inutilizzabile. La cosa (per me) più incredibile è che non solo questa versione esiste, ma che conta centinaia e centinaia di citazioni in letteratura, in generi fra loro anche molto diversi. Leutzsch ne enuncia una quantità incredibile, soffermandosi sulla diffusione del motivo in aree linguistiche diverse. Le prime citazioni risalgono alla fine del Seicento e all’inizio del Settecento. Alcune linee di tendenza sono chiaramente percepibili: prima fra tutte che nessuno degli autori che citano l’episodio sembra aver mai visto direttamente il quadro, l’affresco, la miniatura di cui parla. Da qui all’individuzione della collocazione delle opere in aree geografiche fra loro diversissime (dalla Germania alla Spagna, dall’Italia alla Patagonia) il passo è breve. Vero è che esiste una prevalenza di segnalazioni (mai confermate) in area olandese e che l’iconografia è particolarmente citata in zone di lingua tedesca, dove l’episodio si arricchisce di una spiegazione scritta in rima (in genere su cartiglio) che diventa così comune da assumere un valore proverbiale svincolato dall’opera d’arte. Eppure, Leutszch è in grado di segnalare opere che nella realtà illustrano il sacrificio di Isacco tramite un archibugio. La prima, in termini cronologici, è di un anonimo pittore tedesco del Cinquecento e si trova presso il museo provinciale degli usi e costumi di Brunico. La circostanza è curiosa perché, come abbiamo visto, in letteratura le citazioni cominciano a comparire solo alla fine del Seicento. Siamo, insomma, di fronte a un motivo iconografico che non è la ricaduta in immagine di una ‘leggenda metropolitana’ affermatasi in precedenza; ma esattamente del contrario. Rappresentazioni sull’argomento sono reperibili nel corso dei secoli fino, addirittura, sulla stampa periodica agli inizi del Novecento. Naturalmente, il più delle volte, assumono una chiara valenza ironica o di satira, come nel caso dell’incisione dell’artista inglese Paul Sandby che nel 1753 realizzò un’illustrazione satirica dello studio di William Hogarth, nell’ambito delle polemiche seguite alla pubblicazione da parte di quest’ultimo dell’Analysis of Beauty.

Paul Sandby, Burlesque sur le burlesque, 1753
Fonte: https://www.britishmuseum.org/collection/object/P_1868-0808-3946


Piera Giovanna Tordella
Friedrich Schleiermacher e l’estetica del disegno

Ė difficile definire Friedrich Schleiermacher (1786-1834) un filosofo dell’arte, se non altro perché egli stesso negava (o comunque era molto scettico su) il fatto che l’estetica fosse filosofia dell’arte. Quello che è certo è che si tratta di studioso che fu particolarmente apprezzato da Benedetto Croce per la sua convinzione che la vera opera d’arte fosse l’ ‘immagine interna’ che un artista si formava nella sua mente, prima dell’esecuzione vera e propria della medesima. Sono evidenti sin da qui le chiare analogie con le teorie cinquecentesche sul ‘disegno interno’ e ‘disegno esterno’ che poi sfociarono, nella loro forma più dotta (e criptica) negli scritti di Federico Zuccari. L’analisi di Tordella si sofferma, in particolare, sul ruolo che assume il disegno nell’ambito del pensiero dell’erudito tedesco, ricerca particolarmente ardua perché Schleiermacher non arrivò mai a una formalizzazione organica del suo pensiero. Dipendiamo, in sostanza, da una serie di memorie e da un quaderno redatti di mano del tedesco e da raccolte di appunti di studenti che seguirono i suoi corsi universitari a Berlino.  Spero di non travisare l’analisi dell’autrice se dico che, essendo la fase realizzativa dell’opera un momento successivo e ‘imperfetto’ dell’opera d’arte, il disegno si pone come istante più vicino (e quindi meno ‘imperfetto’) all’idea archetipica dell’artista. Peraltro Tordella mette in evidenza come, dagli scritti a noi noti, il ruolo del disegno in rapporto a pittura e scultura muti nel pensiero del tedesco col passare degli anni, approdando, dopo un lungo cammino, ad affermare la sostanziale equivalenza dello stesso.

 

Shigemi Inaga
The Origin of Modernist Aesthetics as the Oblivion of Political Struggle: the Case of Ėdouard Manet and the Marketing Strategy of His Posthumous Auction in 1884

Quella di Shigemi Inaga è un’analisi particolarmente acuta di un momento storico cruciale nella storia dell’affermazione dell’impressionismo nel collezionismo mondiale: siamo nel 1884, un anno dopo la morte di Ėdouard Manet (1832-1883) e dopo una retrospettiva dell’artista tenutasi non senza polemiche presso l’Ėcole des Beaux-Arts di Parigi, il 4 e 5 febbraio va all’asta una serie di quadri da lui dipinti (fra cui, ad esempio l’Olympia (1863), Argentuil (1874) e Il bar delle Folies-Bergère. Quell’asta venne e viene ancor oggi dipinta come un clamoroso successo, come il momento in cui Manet e l’impressionismo tutto trovano un riscontro sul mercato innescando una clamorosa escalation dei prezzi delle opere negli anni successivi. Rileggendo i processi verbali dell’asta e avvalendosi di corrispondenza e relazioni pubblicate sui periodici, Inaga evidenzia come quel clamoroso successo tale, in realtà, non fu. Preziosissimo fu, piuttosto, l’intervento di Theodore Duret, incaricato della vendita dagli eredi Manet, che intervenendo anonimamente nell’asta con acquisti mirati (si leggano i timori di un insuccesso da lui confessati per lettera a Ėmile Zola) riuscì a sostenere il livello dei prezzi delle opere più importanti e, contemporaneamente, a scatenare l’interesse del pubblico su lavori assai meno significativi, ma più abbordabili in termini economici, dai pastelli alle incisioni. Quella che Inaga sottolinea è la sapiente operazione di marketing condotta da Duret, grazie alla quale, improvvisamente, ogni riserva espressa dalla critica tradizionale (e tradizionalista) dell’epoca fu additata, da quel momento, come miope e superata.

Edouard Manet, Il bar delle Folies-Bergere, 1881-1882, London, Courtauld Institute of Art
Fonte: https://images.artistsspace.org/ln8ji75r via Wikimedia Commons


Loretta De Franceschi
Neri Pozza editore d’arte

Il numero 3 di Kritiké si conclude con un saggio dedicato alla figura di Neri Pozza, molto più di un imprenditore editoriale per la versatilità dei suoi interessi. Neri Pozza fu uno dei protagonisti della stagione degli editori d’arte italiani d’arte indipendenti nella seconda metà del Novecento. Potremmo definirla gloriosa, se non fosse che, più di panegirici, c’è bisogno di analisi e prospettiva storica, esigenze che Loretta De Franceschi assolve perfettamente nel suo saggio. Ė chiaro il legame dell’editore, vicentino, con la sua città natale, ma più in generale col Veneto e con Venezia. Le collaborazioni più prestigiose sono quelle con l’Istituto di storia dell’Arte della Fondazione Cini e i suoi direttori, da Giorgio Fiocco a Rodolfo Pallucchini a Alessandro Bettagno. Nascono collane fortunate e prestigiose come ‘Cataloghi di mostre’ e ‘Cataloghi di raccolte d’arte’ che realmente contribuiscono in maniera decisiva all’alfabetizzazione visiva di un numero molto elevato di lettori. Mi fa piacere che De Franceschi citi in particolare il catalogo del 1973 sui disegni di Cavalcaselle perché quel libro è tuttora ampiamente frequentato dagli studiosi e non ha perso il suo valore, grazie anche a un abile dosaggio fra testo e illustrazioni. Quella fra la Fondazione Cini e l’editore Neri Pozza – scrive l’autrice -  fuu na vera e propria «attività di promozione e divulgazione del ricco patrimonio artistico regionale – in termini pittorici, scultorei, grafici, bibliologici e di oggettistica varia – nell’ambito di un processo di valorizzazione che si esprime in maniera sinergica attraverso l’organizzazione di mostre da parte dell’Istituto e attraverso la pubblicazione dei cataloghi da parte di Pozza» (p. 202). Personalmente, nell’ambito di una produzione protrattasi nell’arco di più di tre decenni e quindi non riassumibile in un saggio, mi piace ricordare l’attenzione dell’editore per i ricettari di tecniche artistiche e la sua collaborazione con Franco Brunello, di cui pubblicò almeno una fortunatissima edizione del Libro dell’arte di Cennino Cennini (1971), il De arte illuminandi e altri trattati sulla tecnica della miniatura medievale (1975), Arte e mestieri a Venezia nel Medioevo e nel Rinascimento (1981).



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