Pagine

giovedì 17 ottobre 2019

S. Avery-Quash e C. Huemer (a cura di), [Londra e l'affermazione di un mercato europeo dell'arte, 1780-1820]. Parte Prima


English Version

London and the Emergence of a European Art Market, 1780-1820
[Londra e l'affermazione di un mercato europeo dell'arte, 1780-1820]
A cura di Susanna Avery-Quash e Christian Huemer

Los Angeles, The Getty Research Institute, 2019

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima




Il Getty Provenance Index©

Alcune informazioni preliminari sono necessarie per capire meglio: il libro presenta gli atti dell’omonimo convegno tenutosi alla National Gallery di Londra tra il 21 e il 22 giugno 2013, a cui sono stati aggiunti ulteriori contributi per rendere più completo il panorama complessivo sull’argomento; il convegno è stato solo uno dei momenti salienti di una lunga collaborazione in atto fra Getty Research Institute e National Gallery, ovvero due istituzioni particolarmente interessate al discorso relativo alla formazione delle relative collezioni e, soprattutto, allo studio della loro provenienza; ma il vero protagonista del volume è il Getty Provenance Index© e qui dobbiamo spendere due parole. Il Getty Provenance Index© è una fondamentale risorsa digitale disponibile online (https://www.getty.edu/research/tools/provenance/search.html) che permette agli studiosi la consultazione di una serie enorme di documenti comprensivi di inventari d’archivio, cataloghi di vendite all’asta, registri di operatori commerciali in ambito artistico, pagamenti ad artisti e descrizioni di collezioni pubbliche museali. Il database è in continuo aggiornamento (ad esempio, è molto recente l’inserimento, nella sezione dedicata ai cataloghi di vendita, di oltre 6.000 pubblicazioni relative alle aste tedesche tenutesi fra 1900 e 1945).

Proprio basandosi sul Getty Provenance Index© l’opera intende indagare meglio un fenomeno noto, ma su cui ancora molto deve essere scritto, come l’affermazione di Londra come ‘capitale’ del commercio artistico in Europa in sostituzione di Parigi negli anni compresi fra 1780 e 1820. Si tratta, in tutta evidenza, di una conseguenza degli avvenimenti storici coevi, e in particolare dello scoppio della Rivoluzione francese (1789), degli anni convulsi culminati col Terrore, dell’ascesa al potere di Napoleone, del suo trionfo e, infine, della sua caduta. Tutto ciò – è bene ricordarlo – capita in sostanziale coincidenza con altri accadimenti come la requisizione delle opere d’arte da parte delle armate francesi, la creazione del Louvre e la sua trasformazione in Musée Napoléon (1802) e il recupero (parziale) delle opere trafugate a Restaurazione avvenuta.

L’aspetto davvero peculiare del convegno (e quindi anche del volume) è la palpabile dimostrazione della molteplicità di approcci che è possibile intraprendere in materia partendo, per l’appunto, dall’esame dei dati contenuti nel Getty Provenance Index©.  Per avere un ordine di grandezza, lo spoglio dei cataloghi di vendita ha portato alla registrazione di quasi 250mila oggetti d’arte battuti all’asta fra 1680 e 1800, di cui oltre 100mila per il solo ventennio 1780-1800. Si possono quindi combinare fra loro indagini di tipo quantitativo (lavorando sui big data) e altre di più tradizionale taglio qualitativo (esaminando la sorte di singole collezioni o l’operato di intermediari coinvolti nel business).

Proprio per questo il volume è suddiviso in tre sezioni: ‘Modelli’, ‘Collezioni’, ‘Intermediari”, che rispetterò sostanzialmente nell’illustrarne i contenuti. Un’ultima avvertenza è necessaria: è possibile stabilire con precisione quale fosse il peso delle vendite all’asta in Europa rispetto al complessivo commercio di manufatti artistici? La risposta è assai complicata. In merito viene citato uno studio di Guido Guerzoni (che non ho avuto modo di leggere) secondo cui, nel periodo preso in considerazione, le vendite all’asta rappresentavano grosso modo il 20%-25% del totale [1]. Alcuni aspetti, tuttavia, non mi sono chiari. Nella quota indicata da Guerzoni (comunque assai consistente) rientrano anche le vendite ‘a contratto privato’ che furono ‘inventate’ da Noël Desenfans nel 1786 e che tanto successo ebbero negli anni successivi (si pensi alla dispersione della Collezione Orléans, considerata l’avvenimento che simbolicamente consegna a Londra lo scettro di ‘regina del mercato europeo’)? A rigor di logica mi sembrerebbe di no. Se così è, appare chiaro che la quota percentuale di transazioni censita dal Getty Provenance Index© è ancor più consistente, e quindi ancor più rappresentativa della realtà.

Jean-Baptiste-Pierre Le Brun, Autoritratto, 1795, collezione privata
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Jean-Baptiste-Pierre_Le_Brun_1796.jpg

Indice della Parte I - Modelli

  • Neil De Marchi, Introduction to Part One;
  • Peter Carpreau, English and French Auctions in a Troubled Period, 1780-1820. A Quantitative Analysis of Volume, Price, and Taste Based on the Getty Provenance Index© Databases;
  • Bénédicte Miyamoto, British Buying Patterns at Auction Sales, 1780-1800. Did the Influx of European Art Have an Impact on the British Public’s Preferences?;
  • Hans J. van Miegroet, Hilary Cronheim, Bénédicte Miyamoto, International Dealer Networks and Triangular Art Trade Between Paris, Amsterdam, and London;
  • Guido Guerzoni, The Export of Works of Art from Italy to the United Kingdom, 1792-1830;
  • Olivier Bonfait, The Taste for Eighteenth-Century French Paintings. Internazionalitation and Homogenization of Demand on the London Art Market around 1800.


L’indice dei prezzi normalizzati

La sezione dedicata ai ‘Modelli’ è senza dubbio, la più intrigante, in termini di novità e di capacità di interpretazione della realtà secondo modelli socio-economici che scaturiscono, appunto, dalla consultazione dei big data del Getty Provenance Index©. Naturalmente non si pretende di spiegare tutto coi numeri, e capita a volte che siano palesi le contraddizioni fra un contributo e l’altro, ma è chiaro che siamo di fronte a percorsi di ricerca potenzialmente molto interessanti, in cui peraltro l’aspetto economico dell’arte prevale largamente su quello prettamente stilistico.

Di particolare suggestione mi paiono le indagini di Peter Carpreau. Carpreau prende in considerazione le aste svoltesi in Francia e Inghilterra fra 1780 e 1820, ne evidenzia l’andamento dei volumi e dei prezzi (con quelli francesi che crollano in periodo rivoluzionario, ma mostrano una ripresa nel secondo decennio dell’Ottocento), ma soprattutto cerca di indagare il livello dei prezzi di vendita (assai spesso disponibili nel Getty Provenance Index©), facendo ricorso al concetto di ‘prezzo normalizzato’. Che cos’è un ‘prezzo normalizzato’? Un prezzo confrontabile in realtà geografiche e amministrative diverse perché non risente dei fenomeni inflattivi, ma anche di aspetti come il Prodotto Interno Lordo e così via.

Per ottenerlo, Carpreau considera la lista dei prezzi a cui le opere sono aggiudicate e ne calcola non la media aritmetica (poco affidabile per almeno due motivi: i prezzi di aggiudicazione non si distribuiscono secondo una ‘curva normale’, perché al di sotto di un determinato livello le opere sono ritirate dall’asta e non sono aggiudicate; la media aritmetica, poi, statisticamente è troppo influenzata dai valori estremi, in questo caso verso l’alto), ma la mediana., ovvero il valore intermedio dei prezzi di aggiudicazione. Trasforma poi in oro (ritenuto un bene dal valore meno fluttuante) la mediana espressa in valuta locale. Divide infine ogni prezzo realizzato all’asta (espresso in oro) appunto con la mediana dei prezzi contenuti nel database, anch’essa convertita in oro. Il valore che ne risulta è un prezzo normalizzato, che Carpreau considera il ‘prezzo del gusto’, perché esprimerebbe unicamente l’evolversi del gusto sui singoli mercati. Non sono del tutto sicuro – sarò sincero – che il gusto sia realmente l’unico elemento a incidere in un valore così espresso; mi viene in mente, ad esempio, che il livello dei prezzi potrebbe risentire artificialmente di una spinta speculativa verso l’alto dovuta a fenomeni concorrenziali (o, al contrario, ad accordi di cartello) [2].

I risultati (da accogliersi con beneficio d’inventario [3]) sono che negli ultimi vent’anni del Settecento il livello medio del prezzo ‘normalizzato’ si mantiene più alto in Francia che in Inghilterra (curiosamente con un picco nel 1795), mentre nei primi venti dell’Ottocento l’andamento si ribalta completamente a vantaggio della piazza inglese. Per quanto riguarda i volumi d’affari, invece, il crollo del ‘fatturato’ francese è assai più precoce, cominciando dal 1785 e il predominio inglese diventa nettissimo, salvo poi tendere a ricucirsi dal 1810 in poi.

Thomas Gainsborough, Ritratto di James Christie, 1778, Los Angeles, J. Paul Getty Museum
Fonte: The J. Paul Getty Museum, Getty's Open Conten Program

Sfatare un luogo comune

Il passaggio di consegna nel predominio sul mercato artistico fra Parigi e Londra viene simbolicamente rappresentato dalla dispersione della collezione Orléans, avvenuta in due momenti, fra 1793 (opere del nord-Europa) e 1798 (quadri italiani). Tuttavia, a quegli avvenimenti, e in particolare alla seconda vendita, sono stati associati significati ulteriori e discutibili. William Buchanan (1777-1864), ad esempio, nelle sue Memoirs of Painting: With a Chronological History of the Importation of Pictures by the Great Masters into England since the French Revolution (Londra, 1824) sostenne che nulla, dopo la dispersione della collezione Orléans, fu più come prima e il mondo del collezionismo inglese scoprì gli Antichi Maestri italiani a discapito delle scuole del Nord-Europa. Buchanan era egli stesso un mercante d’arte, e ne approfittava per attribuirsi, almeno in parte, il merito di questa svolta. Ma, soprattutto era un convinto neoclassicista, e leggeva il cambio del gusto britannico come una forma di progresso artistico, con l’allineamento ai canoni del bello che già avevano conquistato tutta Europa. Uno degli scopi di Bénédicte Miyamoto è capire, analizzando i dati quantitativi, se realmente ci fu una discontinuità di questo genere; se cioè il gusto artistico europeo influì così improvvisamente ed efficacemente sul pubblico anglosassone. Il risultato è evidente: non fu così. Esaminando i dati delle vendite fra 1767-1789 e 1790-1800 si vede chiaramente che gli scostamenti sono minimi: anzi, arte olandese e italiana (che già avevano il predominio della situazione, con quasi un 60% dei quadri venduti) calano entrambe leggermente a vantaggio di quadri di produzione fiamminga, francese, tedesca e spagnola; ma, lo si ripete, le differenze sono, in termini percentuali, davvero insignificanti. D’altra parte, resta (quasi) immutata la distribuzione delle opere per genere (per quanto possa essere difficile farla, spesso dovendo operare classificazioni sulla semplice base di titoli di quadri andati distrutti o smarriti), con un netto predominio della pittura di paesaggio rispetto a quella di storia (a cui è soprattutto associata la pittura italiana) che si attesta attorno al 30%. Le conclusioni di Miyamoto sono che, negli anni della dispersione della collezione Orléans quello londinese è già un mercato ‘maturo’, che ha avuto modo di dispiegare appieno le sue preferenze, che vengono ampiamente confermate anche successivamente.

Claude Lorrain, Paesaggio con Agar e l'Angelo, 1646, Londra, The National Gallery
Fonte: The National Gallery, Creative Commons Agreement


Studiare l’integrazione dei mercati

Esiste una ‘globalizzazione’ dei mercati dell’arte a cavallo fra Sette e Ottocento? La domanda è tutt’altro che banale, tenendo conto soprattutto degli eventi bellici che travolgono l’Europa negli anni che vanno dalla Rivoluzione francese alla Restaurazione. Se esiste, fino a che punto i mercati erano fra loro omogenei? A questo tema sono, in sostanza, dedicati i saggi rispettivamente di Hans J. van Miegroet, Hilary Cronheim e  Bénédicte Miyamoto da un lato e di Olivier Bonfait dall’altro. È fuori discussione che, a partire da metà Settecento, vi siano figure di mercanti che tendono a comprare quadri olandesi a prezzi bassi ad Amsterdam, per poi rivenderli in un primo momento solo a Parigi e, più avanti, anche a Londra. Gli autori di International Dealer Networks and Triangular Art Trade elaborano dati relativi alla piazza di Amsterdam e notano come i prezzi restino sostanzialmente stabili nel corso del secondo Settecento; quello olandese si configura come un mercato che favorisce i compratori, e fra costoro, quelli che hanno poi in mente di rivendere a prezzi maggiori altrove. A fronte di ciò le medesime opere, rivendute a Parigi, dal 1745 in poi, spuntano prezzi più alti.

Fra gli operatori che fanno la spola fra Amsterdam e Parigi (e successivamente Londra) spicca la figura di Jean-Baptiste-Pierre Lebrun (1748-1813), che nel 1802 scrive di essere stato in Olanda almeno una quarantina di volte proprio per acquistare stock di quadri. Lebrun si rivela figura fondamentale almeno per due motivi: il primo è che a Parigi perfeziona pratiche mercantili legate alle vendite all’asta come l’inserzione di pubblicità sui quotidiani e la redazione di cataloghi sempre più esaustivi, in cui non ci si limita alla semplice lista delle opere, ma emerge la descrizione delle medesime e l’indicazione della loro origine (è dimostrato che indicare un dipinto come di scuola olandese rende assai più probabile venderlo a un prezzo maggiore); il secondo è che Lebrun è il primo a sondare il mercato londinese e a introdurre tali ‘buone pratiche’ a Londra, anche grazie alla collaborazione con ‘uomini nuovi’ che si avvicinano alla professione. Uno di questi è Noël-Jospeh Desenfans (1744-1807) che diventa agente per caso e senza nessuna conoscenza particolare in ambito artistico, ma sa costruirsi nei decenni una solida reputazione professionale. Il ruolo del mercante, specie negli ultimi due decenni del Settecento, richiede una preparazione che, con le pratiche commerciali, deve coniugare specifiche conoscenze stilistiche: la connoisseurship è lo sbocco naturale di questo tipo di esigenze.

Se i mercati olandese, francese e inglese si dimostrano fra loro correlati (e uno degli aspetti che più lo dimostra è la nascita di un vero e proprio ‘calendario’ delle aste, privo di sovrapposizioni, in maniera tale che gli operatori professionali possano partecipare a tutti gli appuntamenti programmati), il problema che si pone Olivier Bonfait è se (con riferimento a Parigi e Londra), a ciò corrisponda anche una sostanziale omogeneizzazione del gusto. La risposta (ancora una volta basata sui valori dei prezzi spuntati alle aste e presenti nel Getty Provenance Index©) è negativa: ogni mercato tende ancora, in questo ambito, a mantenere le proprie peculiarità. E se è tutto sommato logico che gli artisti francesi e inglesi abbiamo più fortuna rispettivamente nelle loro rispettive patrie, appare invece indicativo che i francesi più apprezzati in Gran Bretagna siano quelli che meglio corrispondono alle preferenze di gusto già praticate dagli inglesi, ovvero esponenti della pittura di genere e pittori di paesaggio. ‘Internazionalizzazione’ dei mercati, insomma, non vuol dire automaticamente ‘omogeneizzazione’ del gusto.

Claude-Joseph Vernet, Una gara sportiva sul fiume Tevere, 1750, Londra, The National Gallery
Fonte: The National Gallery, Creative Commons Agreement

Dall’Italia

Spiace, davvero, che il contributo su cui devo segnalare più riserve sia proprio quello di un italiano, Guido Guerzoni, che si occupa dell’esportazione delle opere d’arte dall’Italia al Regno Unito fra 1792 e 1830. Farò una premessa: Guerzoni si occupa da anni dell’argomento. Basti citare Prolegomeni per uno studio del mercato artistico tra Sette ed Ottocento in Giovanni Battista Cavalcaselle conoscitore e conservatore, a cura di Anna Chiara Tommasi, Venezia, Marsilio, 1998. Sempre con Marsilio, nel 2006, ha pubblicato Apollo e Vulcano. I mercati artistici in Italia (1400-1700), poi tradotto in inglese col titolo Apollo and Vulcan: The Art Markets in Italy, 1400-1700 (East Lansing, Michigan State University Press, 2011). Sinceramente, non ho avuto modo di leggere né la versione italiana dell’opera (che, con grandissima cortesia, l’autore mi ha inviato su mia richiesta) né quella inglese; mi riprometto di farlo e, per il momento, invito a valutare le mie considerazioni con beneficio d’inventario. Guerzoni riassume velocemente e del tutto correttamente le questioni legate alla dispersione delle opere d’arte italiane e alla loro tutela da parte degli Stati preunitari. Tuttavia, a volte, a mio giudizio, fa alcune affermazioni che non mi sembrano essere sostenute né da dati né da bibliografia: è, ad esempio, una semplice congettura che la maggior parte delle opere vendute alle aste napoleoniche (di cui non sappiamo nulla, perché non furono compilati cataloghi; del resto si trattava di aste relative a opere giudicate ‘di scarto’) siano finite in mano di compratori italiani che le rimisero sul mercato con calma negli anni successivi. Il problema è che non abbiamo nessun riscontro in merito. Di Vincenzo Bratti (a cui si fa riferimento) sappiamo che nel 1811 comprò 1305 quadri per 791 lire a un’asta pubblica a Venezia, ma non come li rivendette. Particolarmente sfortunata, poi, è la citazione di Pietro Edwards, che, seguendo una tradizione consolidata, ma sbagliata, viene indicato come uno dei grandi ‘buyers’ delle opere messe all’asta. Ho visto personalmente tutte le carte relative a Pietro Edwards e, senza negare il suo coinvolgimento nel mercato in anni precedenti la caduta della Repubblica, è dimostrabile che, sotto Napoleone, perseguì un progetto di creazione di una galleria di opere esclusivamente veneziane ordinate per serie storiche complete. Cercò, quindi, di selezionare e salvare dall’enorme massa di quadri resi liberi dalle vicende soppressive tutto ciò che ritenne in grado di documentare l’evolversi della pittura veneziana (avendo sicuramente in mente il Della pittura veneziana di Anton Maria Zanetti il giovane del 1771). Di tutte le altre opere, chiese che venissero distrutte (come del resto fece Cicognara) per non svalutare il patrimonio dei patrizi veneziani e non abbattere il livello dei prezzi a scapito degli artisti a lui contemporanei. Uno speculatore non avrebbe ragionato così [4].

Ma l’aspetto più problematico mi pare l’esposizione dei dati che illustrano le quantità di prodotti artistici esportati da quattro Stati italiani (Granducato di Toscana, Stato della Chiesa, Regno delle Due Sicilie, Lombardo-Veneto – ovviamente in quanto parte dell’Impero Austro-Ungarico) in Inghilterra fra 1820 e 1840. I dati sono tratti dai registri delle dogane inglesi, una fonte di indubbio interesse, e vanno a corroborare un aspetto che, qualitativamente, conosciamo già, ovvero che i vincoli all’esportazione in alcune realtà amministrative, ad esempio nello Stato pontificio, dove dal 1820 era operativo l’editto Pacca, rendevano più difficile l’esportazione del patrimonio. Tuttavia, basta confrontare fra loro i dati relativi alle esportazioni di soli quadri dalla Toscana e dallo Stato Pontificio per farsi venire dei dubbi. Qui di seguito li riporto, con l’avvertenza che si tratta delle serie numeriche relative ai singoli anni in progressione (quindi 1820, 1821 etc.)

Granducato di Toscana: 429; 331; 316; 294; 407; 550; 680; 768; 1681; 1933; 1678; 1204; 1114; 1355; 1511; 1346; 1820; 2216; 2206; 2791; 3407.
Stato Pontificio: 9; 0; 0; 3; 0; 0; 0; 0; 3; 0; 0; 0; 74; 6; 0; 0; 0; 23; 0; 10; 109.

Basti confrontare questi dati con le cronache che lamentano le continue spoliazioni nello Stato della Chiesa (ho presente quelle bolognesi) in quegli anni per supporre (anche al netto del contrabbando) che qualcosa non torni. E, in particolare, sorge forte il dubbio che le dogane inglesi (come appare logico) registrino non la provenienza originale delle opere, ma il luogo da cui esse sono state spedite; e che per motivi di ordine fiscale, ma soprattutto logistico, gli inglesi preferissero spedire ciò che avevano comprato dal porto di Livorno (in Toscana), dove la loro presenza era consolidata da secoli. Del resto, se ancora nel 1858, Charles Lock Eastlake preferisce far spedire due quadri comprati dalla collezione Costabili a Ferrara da Livorno, un motivo ci deve essere [5]. In conclusione, pur non conoscendone i motivi, che andrebbero indagati, mi sembra estremamente probabile che i dati delle dogane inglesi non fotografino correttamente la realtà delle esportazioni, ma siano distorti da questioni legate al mero trasporto delle merci.


Fine della Parte Prima
Vai alla Parte Seconda 


NOTE

[1] Bénédicte Miyamoto, British Buying Patterns at Auction Sales, 1780-1800. Did the Influx of European Art Have an Impact on the British Public’s Preferences? in London and the Emergence of a European Art Market, 1780-1820, a cura di Susanna Avery-Quash and Christian Huemer, p. 37.

[2] Per essere più chiari, il mio dubbio è che il mercato ‘dominante’ in un determinato momento sia ‘strutturalmente’, ma soprattutto ‘diversamente’ speculativo rispetto agli altri. Ad esempio, Parigi potrebbe essere stata più speculativa negli anni ’80 del Settecento e Londra nel secondo decennio dell’Ottocento. Non ho nessuna ‘prova’ a conferma di questo argomento. Dico solo che questo aspetto potrebbe incidere sul rapporto dei prezzi normalizzati fra le due piazze, vanificando una lettura del prezzo normalizzato come semplice questione di ‘gusto’.

[3] L’autore, per ovvi motivi di spazio, riassume in poche pagine i lineamenti della sua ricerca, senza però concretamente spiegare come (ad esempio) abbia effettuato la conversione fra le singole valute e il valore dell’oro, e fornendo dati che, per forza di cose, si devono accettare sulla fiducia. Mi guardo bene dal mettere in discussione la serietà dei suoi studi. Faccio però presente che il lettore, privo di maggiori elementi interpretativi, deve doverosamente accogliere la tesi col beneficio del dubbio.

[4] Mi permetto di rinviare a G. Mazzaferro, Fra Repubblica, Napoleone e Impero Austriaco. Pietro Edwards Ispettore Generale alle Belle Arti di Venezia in «ABAV Annuario Accademia di Belle Arti di Venezia 2015», a cura di Alberto Giorgio Cassani, Bari-Roma, Editori Laterza.

[5] Si veda la lettera di Charles Lock Eastlake al marchese Costabili del 26 ottobre 1858: “Ill.mo Signore, A Sig. Michelangelo Gualandi mi scrive da Bologna che la cassa con i due noti quadri da me scelti dalla di Lei Galleria è stata inviata a Livorno, e spero che giungerà felicemente a Londra”. Cfr. Jaynie Anderson, The Restoration of Renaissance Painting in mid Nineteenth-Century Milan. Giuseppe Molteni in Correspondence with Giovanni Morelli, Firenze, Edifir, 2014, p. 35 n. 18.



Nessun commento:

Posta un commento