English Version
London and the Emergence of a European Art Market, 1780-1820
[Londra e l'affermazione di un mercato europeo dell'arte, 1780-1820]
A cura di Susanna Avery-Quash e Christian Huemer
Los Angeles, The Getty Research Institute, 2019
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima
A cura di Susanna Avery-Quash e Christian Huemer
Los Angeles, The Getty Research Institute, 2019
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima
Il Getty Provenance Index©
Alcune informazioni preliminari
sono necessarie per capire meglio: il libro presenta gli atti dell’omonimo
convegno tenutosi alla National Gallery di Londra tra il 21 e il 22 giugno
2013, a cui sono stati aggiunti ulteriori contributi per rendere più completo
il panorama complessivo sull’argomento; il convegno è stato solo uno dei
momenti salienti di una lunga collaborazione in atto fra Getty Research
Institute e National Gallery, ovvero due istituzioni particolarmente
interessate al discorso relativo alla formazione delle relative collezioni e,
soprattutto, allo studio della loro provenienza; ma il vero protagonista del
volume è il Getty Provenance Index© e qui dobbiamo spendere due
parole. Il Getty Provenance Index© è una fondamentale risorsa
digitale disponibile online (https://www.getty.edu/research/tools/provenance/search.html)
che permette agli studiosi la consultazione di una serie enorme di documenti
comprensivi di inventari d’archivio, cataloghi di vendite all’asta, registri di
operatori commerciali in ambito artistico, pagamenti ad artisti e descrizioni
di collezioni pubbliche museali. Il database è in continuo aggiornamento (ad
esempio, è molto recente l’inserimento, nella sezione dedicata ai cataloghi di
vendita, di oltre 6.000 pubblicazioni relative alle aste tedesche
tenutesi fra 1900 e 1945).
Proprio basandosi sul Getty
Provenance Index© l’opera intende indagare meglio un fenomeno noto,
ma su cui ancora molto deve essere scritto, come l’affermazione di Londra come ‘capitale’
del commercio artistico in Europa in sostituzione di Parigi negli anni compresi
fra 1780 e 1820. Si tratta, in tutta evidenza, di una conseguenza degli
avvenimenti storici coevi, e in particolare dello scoppio della Rivoluzione
francese (1789), degli anni convulsi culminati col Terrore, dell’ascesa al
potere di Napoleone, del suo trionfo e, infine, della sua caduta. Tutto ciò – è
bene ricordarlo – capita in sostanziale coincidenza con altri accadimenti come
la requisizione delle opere d’arte da parte delle armate francesi, la creazione
del Louvre e la sua trasformazione in Musée Napoléon (1802) e il recupero (parziale) delle opere trafugate a Restaurazione avvenuta.
L’aspetto davvero peculiare del
convegno (e quindi anche del volume) è la palpabile dimostrazione della
molteplicità di approcci che è possibile intraprendere in materia partendo, per
l’appunto, dall’esame dei dati contenuti nel Getty Provenance Index©. Per avere un ordine di grandezza, lo spoglio
dei cataloghi di vendita ha portato alla registrazione di quasi 250mila oggetti
d’arte battuti all’asta fra 1680 e 1800, di cui oltre 100mila per il solo
ventennio 1780-1800. Si possono quindi combinare fra loro indagini di tipo
quantitativo (lavorando sui big data) e altre di più tradizionale taglio
qualitativo (esaminando la sorte di singole collezioni o l’operato di
intermediari coinvolti nel business).
Proprio per questo il volume è
suddiviso in tre sezioni: ‘Modelli’, ‘Collezioni’, ‘Intermediari”, che
rispetterò sostanzialmente nell’illustrarne i contenuti. Un’ultima avvertenza è
necessaria: è possibile stabilire con precisione quale fosse il peso delle
vendite all’asta in Europa rispetto al complessivo commercio di manufatti
artistici? La risposta è assai complicata. In merito viene citato uno studio di
Guido Guerzoni (che non ho avuto modo di leggere) secondo cui, nel periodo
preso in considerazione, le vendite all’asta rappresentavano grosso modo il
20%-25% del totale [1]. Alcuni aspetti, tuttavia, non mi sono chiari. Nella
quota indicata da Guerzoni (comunque assai consistente) rientrano anche le
vendite ‘a contratto privato’ che furono ‘inventate’ da Noël
Desenfans nel 1786 e che tanto successo ebbero negli anni successivi (si pensi
alla dispersione della Collezione Orléans, considerata l’avvenimento che
simbolicamente consegna a Londra lo scettro di ‘regina del mercato europeo’)? A
rigor di logica mi sembrerebbe di no. Se così è, appare chiaro che la quota
percentuale di transazioni censita dal Getty Provenance Index© è
ancor più consistente, e quindi ancor più rappresentativa della realtà.
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Jean-Baptiste-Pierre Le Brun, Autoritratto, 1795, collezione privata Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Jean-Baptiste-Pierre_Le_Brun_1796.jpg |
Indice della Parte I - Modelli
- Neil De Marchi, Introduction to Part One;
- Peter Carpreau, English and French Auctions in a Troubled Period, 1780-1820. A Quantitative Analysis of Volume, Price, and Taste Based on the Getty Provenance Index© Databases;
- Bénédicte Miyamoto, British Buying Patterns at Auction Sales, 1780-1800. Did the Influx of European Art Have an Impact on the British Public’s Preferences?;
- Hans J. van Miegroet, Hilary Cronheim, Bénédicte Miyamoto, International Dealer Networks and Triangular Art Trade Between Paris, Amsterdam, and London;
- Guido Guerzoni, The Export of Works of Art from Italy to the United Kingdom, 1792-1830;
- Olivier Bonfait, The Taste for Eighteenth-Century French Paintings. Internazionalitation and Homogenization of Demand on the London Art Market around 1800.
L’indice dei prezzi
normalizzati
La sezione dedicata ai ‘Modelli’
è senza dubbio, la più intrigante, in termini di novità e di capacità di interpretazione
della realtà secondo modelli socio-economici che scaturiscono, appunto, dalla
consultazione dei big data del Getty Provenance Index©. Naturalmente
non si pretende di spiegare tutto coi numeri, e capita a volte che siano palesi
le contraddizioni fra un contributo e l’altro, ma è chiaro che siamo di fronte
a percorsi di ricerca potenzialmente molto interessanti, in cui peraltro
l’aspetto economico dell’arte prevale largamente su quello prettamente
stilistico.
Di particolare suggestione mi
paiono le indagini di Peter Carpreau. Carpreau prende in
considerazione le aste svoltesi in Francia e Inghilterra fra 1780 e 1820, ne
evidenzia l’andamento dei volumi e dei prezzi (con quelli francesi che crollano
in periodo rivoluzionario, ma mostrano una ripresa nel secondo decennio
dell’Ottocento), ma soprattutto cerca di indagare il livello dei prezzi di
vendita (assai spesso disponibili nel Getty Provenance Index©),
facendo ricorso al concetto di ‘prezzo normalizzato’. Che cos’è un ‘prezzo
normalizzato’? Un prezzo confrontabile in realtà geografiche e amministrative
diverse perché non risente dei fenomeni inflattivi, ma anche di aspetti come il
Prodotto Interno Lordo e così via.
Per ottenerlo, Carpreau considera
la lista dei prezzi a cui le opere sono aggiudicate e ne calcola non la media
aritmetica (poco affidabile per almeno due motivi: i prezzi di aggiudicazione
non si distribuiscono secondo una ‘curva normale’, perché al di sotto di un
determinato livello le opere sono ritirate dall’asta e non sono aggiudicate; la
media aritmetica, poi, statisticamente è troppo influenzata dai valori estremi,
in questo caso verso l’alto), ma la mediana., ovvero il valore intermedio dei
prezzi di aggiudicazione. Trasforma poi in oro (ritenuto un bene dal valore meno fluttuante) la mediana espressa in valuta locale. Divide infine ogni prezzo
realizzato all’asta (espresso in oro) appunto con la mediana dei prezzi
contenuti nel database, anch’essa convertita in oro. Il valore che ne risulta è
un prezzo normalizzato, che Carpreau considera il ‘prezzo del gusto’, perché
esprimerebbe unicamente l’evolversi del gusto sui singoli mercati. Non sono del
tutto sicuro – sarò sincero – che il gusto sia realmente l’unico elemento a
incidere in un valore così espresso; mi viene in mente, ad esempio, che il
livello dei prezzi potrebbe risentire artificialmente di una spinta
speculativa verso l’alto dovuta a fenomeni concorrenziali (o, al contrario, ad
accordi di cartello) [2].
I risultati (da accogliersi con
beneficio d’inventario [3]) sono che negli ultimi vent’anni del Settecento il
livello medio del prezzo ‘normalizzato’ si mantiene più alto in Francia che in
Inghilterra (curiosamente con un picco nel 1795), mentre nei primi venti
dell’Ottocento l’andamento si ribalta completamente a vantaggio della piazza
inglese. Per quanto riguarda i volumi d’affari, invece, il crollo del
‘fatturato’ francese è assai più precoce, cominciando dal 1785 e il predominio
inglese diventa nettissimo, salvo poi tendere a ricucirsi dal
1810 in poi.
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Thomas Gainsborough, Ritratto di James Christie, 1778, Los Angeles, J. Paul Getty Museum Fonte: The J. Paul Getty Museum, Getty's Open Conten Program |
Sfatare un luogo comune
Il passaggio di consegna nel
predominio sul mercato artistico fra Parigi e Londra viene simbolicamente
rappresentato dalla dispersione della collezione Orléans, avvenuta in due
momenti, fra 1793 (opere del nord-Europa) e 1798 (quadri italiani). Tuttavia, a
quegli avvenimenti, e in particolare alla seconda vendita, sono stati associati
significati ulteriori e discutibili. William Buchanan (1777-1864), ad esempio,
nelle sue Memoirs of Painting: With a Chronological History of the
Importation of Pictures by the Great Masters into England since the French
Revolution (Londra, 1824) sostenne che nulla, dopo la dispersione della
collezione Orléans, fu più come prima e il mondo del collezionismo inglese
scoprì gli Antichi Maestri italiani a discapito delle scuole del Nord-Europa. Buchanan
era egli stesso un mercante d’arte, e ne approfittava per attribuirsi, almeno
in parte, il merito di questa svolta. Ma, soprattutto era un convinto
neoclassicista, e leggeva il cambio del gusto britannico come una forma di
progresso artistico, con l’allineamento ai canoni del bello che già avevano
conquistato tutta Europa. Uno degli scopi di Bénédicte Miyamoto è capire,
analizzando i dati quantitativi, se realmente ci fu una discontinuità di questo
genere; se cioè il gusto artistico europeo influì così improvvisamente ed
efficacemente sul pubblico anglosassone. Il risultato è evidente: non fu così.
Esaminando i dati delle vendite fra 1767-1789 e 1790-1800 si vede chiaramente
che gli scostamenti sono minimi: anzi, arte olandese e italiana (che già
avevano il predominio della situazione, con quasi un 60% dei quadri venduti)
calano entrambe leggermente a vantaggio di quadri di produzione fiamminga,
francese, tedesca e spagnola; ma, lo si ripete, le differenze sono, in termini
percentuali, davvero insignificanti. D’altra parte, resta (quasi) immutata la
distribuzione delle opere per genere (per quanto possa essere difficile farla,
spesso dovendo operare classificazioni sulla semplice base di titoli di quadri
andati distrutti o smarriti), con un netto predominio della pittura di
paesaggio rispetto a quella di storia (a cui è soprattutto associata la pittura
italiana) che si attesta attorno al 30%. Le conclusioni di Miyamoto sono che,
negli anni della dispersione della collezione Orléans quello londinese è già un
mercato ‘maturo’, che ha avuto modo di dispiegare appieno le sue preferenze,
che vengono ampiamente confermate anche successivamente.
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Claude Lorrain, Paesaggio con Agar e l'Angelo, 1646, Londra, The National Gallery Fonte: The National Gallery, Creative Commons Agreement |
Studiare l’integrazione dei
mercati
Esiste una ‘globalizzazione’ dei
mercati dell’arte a cavallo fra Sette e Ottocento? La domanda è tutt’altro che
banale, tenendo conto soprattutto degli eventi bellici che travolgono l’Europa
negli anni che vanno dalla Rivoluzione francese alla Restaurazione. Se esiste,
fino a che punto i mercati erano fra loro omogenei? A questo tema sono, in
sostanza, dedicati i saggi rispettivamente di Hans J. van Miegroet, Hilary
Cronheim e Bénédicte Miyamoto da un lato
e di Olivier Bonfait dall’altro. È fuori discussione che, a partire da
metà Settecento, vi siano figure di mercanti che tendono a comprare quadri
olandesi a prezzi bassi ad Amsterdam, per poi rivenderli in un primo momento
solo a Parigi e, più avanti, anche a Londra. Gli autori di International
Dealer Networks and Triangular Art Trade elaborano dati relativi alla
piazza di Amsterdam e notano come i prezzi restino sostanzialmente stabili nel corso
del secondo Settecento; quello olandese si configura come un mercato che
favorisce i compratori, e fra costoro, quelli che hanno poi in mente di
rivendere a prezzi maggiori altrove. A fronte di ciò le medesime opere,
rivendute a Parigi, dal 1745 in poi, spuntano prezzi più alti.
Fra gli operatori che fanno la
spola fra Amsterdam e Parigi (e successivamente Londra) spicca la figura di
Jean-Baptiste-Pierre Lebrun (1748-1813), che nel 1802 scrive di essere stato in
Olanda almeno una quarantina di volte proprio per acquistare stock di quadri.
Lebrun si rivela figura fondamentale almeno per due motivi: il primo è che a
Parigi perfeziona pratiche mercantili legate alle vendite all’asta come
l’inserzione di pubblicità sui quotidiani e la redazione di cataloghi sempre
più esaustivi, in cui non ci si limita alla semplice lista delle opere, ma
emerge la descrizione delle medesime e l’indicazione della loro origine (è
dimostrato che indicare un dipinto come di scuola olandese rende assai più
probabile venderlo a un prezzo maggiore); il secondo è che Lebrun è il primo a
sondare il mercato londinese e a introdurre tali ‘buone pratiche’ a Londra,
anche grazie alla collaborazione con ‘uomini nuovi’ che si avvicinano alla
professione. Uno di questi è Noël-Jospeh Desenfans (1744-1807) che
diventa agente per caso e senza nessuna conoscenza particolare in ambito
artistico, ma sa costruirsi nei decenni una solida reputazione professionale.
Il ruolo del mercante, specie negli ultimi due decenni del Settecento, richiede
una preparazione che, con le pratiche commerciali, deve coniugare specifiche
conoscenze stilistiche: la connoisseurship è lo sbocco naturale di
questo tipo di esigenze.
Se i mercati olandese, francese e
inglese si dimostrano fra loro correlati (e uno degli aspetti che più lo
dimostra è la nascita di un vero e proprio ‘calendario’ delle aste, privo di
sovrapposizioni, in maniera tale che gli operatori professionali possano
partecipare a tutti gli appuntamenti programmati), il problema che si pone
Olivier Bonfait è se (con riferimento a Parigi e Londra), a ciò corrisponda
anche una sostanziale omogeneizzazione del gusto. La risposta (ancora una volta
basata sui valori dei prezzi spuntati alle aste e presenti nel Getty Provenance
Index©) è negativa: ogni mercato tende ancora, in questo ambito, a mantenere
le proprie peculiarità. E se è tutto sommato logico che gli artisti francesi e
inglesi abbiamo più fortuna rispettivamente nelle loro rispettive patrie,
appare invece indicativo che i francesi più apprezzati in Gran Bretagna siano
quelli che meglio corrispondono alle preferenze di gusto già praticate dagli
inglesi, ovvero esponenti della pittura di genere e pittori di paesaggio.
‘Internazionalizzazione’ dei mercati, insomma, non vuol dire automaticamente
‘omogeneizzazione’ del gusto.
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Claude-Joseph Vernet, Una gara sportiva sul fiume Tevere, 1750, Londra, The National Gallery Fonte: The National Gallery, Creative Commons Agreement |
Dall’Italia
Spiace, davvero, che il
contributo su cui devo segnalare più riserve sia proprio quello di un italiano,
Guido Guerzoni, che si occupa dell’esportazione delle opere d’arte dall’Italia
al Regno Unito fra 1792 e 1830. Farò una premessa: Guerzoni si occupa da anni
dell’argomento. Basti citare Prolegomeni per uno studio del mercato
artistico tra Sette ed Ottocento in Giovanni Battista Cavalcaselle
conoscitore e conservatore, a cura di Anna Chiara Tommasi, Venezia,
Marsilio, 1998. Sempre con Marsilio, nel 2006, ha pubblicato Apollo e
Vulcano. I mercati artistici in Italia (1400-1700), poi tradotto in inglese
col titolo Apollo and Vulcan: The Art Markets in Italy, 1400-1700 (East
Lansing, Michigan State University Press, 2011). Sinceramente, non ho avuto
modo di leggere né la versione italiana dell’opera (che, con grandissima
cortesia, l’autore mi ha inviato su mia richiesta) né quella inglese; mi
riprometto di farlo e, per il momento, invito a valutare le mie considerazioni
con beneficio d’inventario. Guerzoni riassume velocemente e del tutto
correttamente le questioni legate alla dispersione delle opere d’arte italiane
e alla loro tutela da parte degli Stati preunitari. Tuttavia, a volte, a mio
giudizio, fa alcune affermazioni che non mi sembrano essere sostenute né da
dati né da bibliografia: è, ad esempio, una semplice congettura che la maggior
parte delle opere vendute alle aste napoleoniche (di cui non sappiamo nulla,
perché non furono compilati cataloghi; del resto si trattava di aste relative a
opere giudicate ‘di scarto’) siano finite in mano di compratori italiani che le
rimisero sul mercato con calma negli anni successivi. Il problema
è che non abbiamo nessun riscontro in merito. Di Vincenzo Bratti (a cui si fa
riferimento) sappiamo che nel 1811 comprò 1305 quadri per 791 lire a un’asta
pubblica a Venezia, ma non come li rivendette. Particolarmente sfortunata, poi,
è la citazione di Pietro Edwards, che, seguendo una tradizione consolidata, ma
sbagliata, viene indicato come uno dei grandi ‘buyers’ delle opere messe
all’asta. Ho visto personalmente tutte le carte relative a Pietro Edwards e,
senza negare il suo coinvolgimento nel mercato in anni precedenti la caduta
della Repubblica, è dimostrabile che, sotto Napoleone, perseguì un progetto di
creazione di una galleria di opere esclusivamente veneziane ordinate per serie
storiche complete. Cercò, quindi, di selezionare e salvare dall’enorme massa di
quadri resi liberi dalle vicende soppressive tutto ciò che ritenne in grado di
documentare l’evolversi della pittura veneziana (avendo sicuramente in mente il
Della pittura veneziana di Anton Maria Zanetti il giovane del 1771). Di
tutte le altre opere, chiese che venissero distrutte (come del resto fece
Cicognara) per non svalutare il patrimonio dei patrizi veneziani e non
abbattere il livello dei prezzi a scapito degli artisti a lui contemporanei.
Uno speculatore non avrebbe ragionato così [4].
Ma l’aspetto più problematico mi
pare l’esposizione dei dati che illustrano le quantità di prodotti artistici
esportati da quattro Stati italiani (Granducato di Toscana, Stato della Chiesa,
Regno delle Due Sicilie, Lombardo-Veneto – ovviamente in quanto parte
dell’Impero Austro-Ungarico) in Inghilterra fra 1820 e 1840. I dati sono tratti
dai registri delle dogane inglesi, una fonte di indubbio interesse, e vanno a
corroborare un aspetto che, qualitativamente, conosciamo già, ovvero che i
vincoli all’esportazione in alcune realtà amministrative, ad esempio nello
Stato pontificio, dove dal 1820 era operativo l’editto Pacca, rendevano più
difficile l’esportazione del patrimonio. Tuttavia, basta confrontare fra loro i
dati relativi alle esportazioni di soli quadri dalla Toscana e dallo Stato Pontificio
per farsi venire dei dubbi. Qui di seguito li riporto, con l’avvertenza che si
tratta delle serie numeriche relative ai singoli anni in progressione (quindi
1820, 1821 etc.)
Granducato di Toscana: 429; 331;
316; 294; 407; 550; 680; 768; 1681; 1933; 1678; 1204; 1114; 1355; 1511; 1346;
1820; 2216; 2206; 2791; 3407.
Stato Pontificio: 9; 0; 0; 3; 0;
0; 0; 0; 3; 0; 0; 0; 74; 6; 0; 0; 0; 23; 0; 10; 109.
Basti confrontare questi dati con
le cronache che lamentano le continue spoliazioni nello Stato della Chiesa (ho
presente quelle bolognesi) in quegli anni per supporre (anche al netto del
contrabbando) che qualcosa non torni. E, in particolare, sorge forte il dubbio
che le dogane inglesi (come appare logico) registrino non la provenienza
originale delle opere, ma il luogo da cui esse sono state spedite; e che per
motivi di ordine fiscale, ma soprattutto logistico, gli inglesi preferissero
spedire ciò che avevano comprato dal porto di Livorno (in Toscana), dove la loro presenza
era consolidata da secoli. Del resto, se ancora nel 1858, Charles Lock Eastlake
preferisce far spedire due quadri comprati dalla collezione Costabili a Ferrara
da Livorno, un motivo ci deve essere [5]. In conclusione, pur non conoscendone
i motivi, che andrebbero indagati, mi sembra estremamente probabile che i dati
delle dogane inglesi non fotografino correttamente la realtà delle
esportazioni, ma siano distorti da questioni legate al mero trasporto delle
merci.
NOTE
[1] Bénédicte Miyamoto, British
Buying Patterns at Auction Sales, 1780-1800. Did the Influx of European Art
Have an Impact on the British Public’s Preferences? in London and the
Emergence of a European Art Market, 1780-1820, a cura di Susanna
Avery-Quash and Christian Huemer, p. 37.
[2] Per essere più chiari, il mio
dubbio è che il mercato ‘dominante’ in un determinato momento sia
‘strutturalmente’, ma soprattutto ‘diversamente’ speculativo rispetto agli
altri. Ad esempio, Parigi potrebbe essere stata più speculativa negli anni ’80
del Settecento e Londra nel secondo decennio dell’Ottocento. Non ho nessuna
‘prova’ a conferma di questo argomento. Dico solo che questo aspetto potrebbe
incidere sul rapporto dei prezzi normalizzati fra le due piazze, vanificando
una lettura del prezzo normalizzato come semplice questione di ‘gusto’.
[3] L’autore, per ovvi motivi di
spazio, riassume in poche pagine i lineamenti della sua ricerca, senza però
concretamente spiegare come (ad esempio) abbia effettuato la conversione fra le
singole valute e il valore dell’oro, e fornendo dati che, per forza di cose, si
devono accettare sulla fiducia. Mi guardo bene dal mettere in discussione la
serietà dei suoi studi. Faccio però presente che il lettore, privo di maggiori
elementi interpretativi, deve doverosamente accogliere la tesi col beneficio
del dubbio.
[4] Mi permetto di rinviare a G.
Mazzaferro, Fra Repubblica, Napoleone e Impero Austriaco. Pietro Edwards
Ispettore Generale alle Belle Arti di Venezia in «ABAV Annuario Accademia di
Belle Arti di Venezia 2015», a cura di Alberto Giorgio Cassani, Bari-Roma, Editori
Laterza.
[5] Si veda la lettera di Charles
Lock Eastlake al marchese Costabili del 26 ottobre 1858: “Ill.mo Signore, A
Sig. Michelangelo Gualandi mi scrive da Bologna che la cassa con i due noti
quadri da me scelti dalla di Lei Galleria è stata inviata a Livorno, e spero
che giungerà felicemente a Londra”. Cfr. Jaynie Anderson, The
Restoration of Renaissance Painting in mid Nineteenth-Century Milan. Giuseppe
Molteni in Correspondence with Giovanni Morelli, Firenze, Edifir, 2014, p.
35 n. 18.
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