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giovedì 2 maggio 2019

Carlo Cesare Malvasia. Le pitture di Bologna 1686. A cura di Andrea Emiliani. Parte Prima


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Carlo Cesare Malvasia
Le pitture di Bologna 1686

Ristampa anastatica corredata da indici di ricerca, da un commentario di orientamento bibliografico e informativo e da un repertorio illustrato
A cura di Andrea Emiliani

Bologna, Edizioni Alfa, 1969

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima


Fig. 1) La copertina dell'edizione Emiliani
Fonte: https://www.ebay.it/i/281904794312?chn=ps

Esattamente cinquant’anni fa, Andrea Emiliani dava alle stampe Le pitture di Bologna di Carlo Cesare Malvasia (1616-1693) nella loro versione originaria del 1686. Del testo era fornita la riproduzione anastatica, fotograficamente ridotta, accompagnata da un saggio introduttivo, da un ricco apparato iconografico e da una fitta serie di annotazioni riferite alle circa 2400 opere citate dal canonico bolognese, in cui si rendeva conto dell’identificazione delle medesime, della loro collocazione moderna e dei principali riferimenti bibliografici ad esse relativi.

Che senso ha recensire, oggi, Le pitture di Bologna? Si tratta, innanzi tutto, di un doveroso omaggio a Emiliani, scomparso poco più di un mese fa. Tuttavia l’esigenza principale mi sembra essere quella di (ri)proporre all’attenzione degli studi il ‘problema critico’ malvasiano. Da sette anni, per fortuna, è in corso di pubblicazione l’edizione critica della Felsina pittrice (1678) a cura di Elizabeth Cropper e Lorenzo Pericolo. Manca, a ogni modo (per quanto mi risulti), una monografia dedicata a Carlo Cesare e, con specifico riferimento alle Pitture di Bologna, si è rimasti fermi, appunto, all’edizione a cura di Emiliani, il cui limite principale (in un’epoca peraltro pionieristica) mi pare sia quello di non proporre un’adeguata contestualizzazione storica dell’opera. Per molti versi, quindi, questa è una recensione che propone quesiti e solleva dubbi su un testo che, a mio avviso, è troppe volte citato semplicemente come la prima guida artistica a stampa di Bologna (essendo rimaste manoscritte all’epoca quelle del Lamo e di Cavazzoni, la prima delle quali ignota a Malvasia). Al contrario della Felsina, peraltro, le Pitture di Bologna conoscono grande fortuna editoriale, con quattro ristampe effettuate fino al 1766 e un complessivo ripensamento e aggiornamento a partire dal 1776 per merito di Carlo Bianconi, Marcello Oretti e Francesco Maria Longhi; tale fortuna si fonda però su un’interpretazione riduttiva dell’opera, ovvero sul suo ‘essere guida’ e quindi strumento di consultazione per il viaggiatore. Non è solo così. Troppo spesso ci si dimentica che Le pitture di Bologna hanno la loro genesi nelle polemiche scoppiate in seguito alla pubblicazione della Felsina pittrice e che quindi si configurano come la seconda tappa di un progetto storiografico (che probabilmente ne prevedeva un terzo) volto alla rivalutazione della scuola pittorica bolognese [1].

Fig. 2) Vitale da Bologna, San Giorgio e il drago, 1330-1335 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

Malvasia negli anni ’60 del Novecento

Emiliani stesso chiarisce subito, nell’introduzione al volume,  che la sua è una curatela del tutto compilativa. Si tratta di un’affermazione che pecca di eccessiva modestia, considerato, ad esempio, il ricchissimo apparato di note. Certo è che cinquant’anni sono passati: la bibliografia (già volutamente ridotta ad alcuni testi-cardine) è ovviamente invecchiata e gli studi (specialmente in termini attribuzionistici) sono andati avanti. Vale comunque senz’altro la pena accennare al clima in cui si concretizzò la versione curata da Emiliani. L’opera esce nel 1969 per i tipi delle Edizioni Alfa. Le Edizioni Alfa nacquero a Bologna nel 1954, per merito di Elio Castagnetti, pubblicando, fra l’altro, cataloghi che hanno fatto la storia, come quello sulla mostra di Guido Reni del 1954 e dei Carracci del 1956. Attorno alle Edizioni Alfa gravitava, infatti, un nucleo di storici dell’arte del calibro di Cesare Gnudi, Gian Carlo Cavalli, Francesco Arcangeli e, appunto, Andrea Emiliani che rappresentavano senza dubbio il meglio della critica d’arte bolognese del dopoguerra (sulla storia dell’editore si veda http://bimu.comune.bologna.it/biblioweb/mostra-edizioni-alfa/80-2/, resoconto online della mostra tenutasi a Bologna, presso la Biblioteca dell’Archiginnasio dal 25 settembre al 19 novembre 2017). Forse non tutti sanno, però, che quello con Le pitture di Bologna non era l’unico impegno di esegesi malvasiana attribuito a Emiliani. A metà degli anni ’60, la milanese Edizioni Labor diede vita a una collana intitolata Gli storici della letteratura artistica italiana, curata da Bruno Dalla Chiesa e Angela Ottino Dalla Chiesa, pianificando di riprodurre anastaticamente i venticinque testi più importanti della storiografia artistica italiana. Come si legge in uno specimen che ho già avuto modo di presentare in questo blog, non ci si voleva limitare alla semplice riproduzione anastatica (che, in un mondo senza Internet, aveva di per sé il merito di rimettere in circolazione l’opera), ma si promuoveva “la compilazione di introduzioni e di indici a integrazione dei testi in base alle risultanze degli studi. Ogni opera sarà dunque corredata da un saggio introduttivo biobibliografico sull’autore, sulle sue fonti d’informazione e sui successivi studi sino ad oggi, e da un indice minuziosamente analitico riguardante gli artisti menzionati, i personaggi, i luoghi, i monumenti, le opere mobili, oltre le difficoltà terminologiche, tecniche e linguistiche contenute nel testo. Tali parti redazionali sono state affidate, opera per opera, a studiosi altamente e particolarmente qualificati.... Al termine della pubblicazione della collana, un Repertorio alfabetico generale di concordanza servirà da guida e da collegamento a tutte le opere ristampate”. Fra i venticinque titoli in questione compariva anche la Felsina pittrice di Malvasia, che doveva essere stampata a cura di Giancarlo [sic] Cavalli e Andrea Emiliani. Purtroppo le Edizioni Labor fallirono pochi anni dopo e solo cinque delle opere promesse riuscirono a essere pubblicate. Va peraltro detto che, in molti casi, i curatori furono in grado di sopperire, pubblicando le loro fatiche soprattutto grazie ai finanziamenti dell’editoria bancaria. Non è questo il caso della Felsina pittrice, per cui ignoro quanto materiale fosse stato raccolto. Dell’iniziativa delle edizioni Labor si ha comunque una labile traccia nello scritto introduttivo di Emiliani alle Pitture di Bologna, laddove si dice che “il lavoro svolto in questa sede sarà meglio perfezionato e condotto nell’edizione commentata che delle Vite de Pittori Bolognesi, cortesemente sollecitata dall’intelligenza che di queste imprese ha Bruno Della Chiesa, si sta preparando insieme a G.C. Cavalli” (p. XVII). Pare che il progetto sia comunque stato abbandonato rapidamente: nel 1971 le Edizioni Alfa pubblicano un’edizione ‘antologica’ della Felsina pittrice a cura di Marcella Bragaglia, in cui sono trascritte le vite di alcuni artefici, senza indici o annotazioni, ma con un’introduzione che chiaramente fa trasparire la formazione da italianista dell’autrice, allieva di Ezio Raimondi. Si punta, insomma, sulla lingua di Malvasia (un aspetto comunque di estrema importanza) più che sugli aspetti prettamente artistici.

Fig. 3) Lippo di Dalmasio, Polittico da S. Croce, 1390 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: Sailko (Francesco Bini) tramite Wikimedia Commons

Il disinganno

Il titolo completo della guida di Malvasia è “Le pitture di Bologna, che nella pretesa, e rimostrata sin hora da altri maggiore antichità, et impareggiabile eccellenza nella Pittura, con manifesta evidenza di fatto, rendono il passeggiere disingannato ed instrutto” e l’autore ne risulta essere l’ ‘Ascoso’, accademico Gelato. Altri non è, ovviamente, che lo stesso Malvasia, membro dell’Accademia dei Gelati (fondata nel 1588) e noto, appunto, col nome di ‘Ascoso’. Per meglio capirsi: le pitture hanno la funzione di disingannare e istruire il visitatore, tramite la loro stessa esistenza (e quindi, per evidenza) in merito alla presunta (e reclamata da altri) maggiore antichità ed eccellenza di scuole che non siano la bolognese.

Chi sono, gli altri? Non vi è dubbio che si tratti di Filippo Baldinucci, ma per spiegarci meglio dobbiamo fare un passo indietro. La pubblicazione della Felsina pittrice porta con sé, come noto, molte polemiche. In particolare, a essere messa in discussione è una visione dell’opera che disconosce l’impostazione toscanocentrica delle Vite di Vasari e apertamente contesta la lezione che ne deriva, secondo cui l’arte, morta per le note vicende medievali, sarebbe stata fatta risuscitare da Cimabue prima e da Giotto poi. Le questioni, peraltro, non finiscono qui: è contestata l’affermazione di Vasari secondo cui Francesco Francia sarebbe morto subito dopo aver visto la Santa Cecilia di Raffaello (fig. 7), sopraffatto dalla bellezza dell’opera e, anzi, si definisce il Sanzio ‘boccalaio urbinate’ (un’espressione che poi Malvasia sosterrà essere stata inserita a tradimento nell’opera). Una visione che suscita le immediate reazioni dei ‘custodi’ della supremazia toscana, ma anche di coloro che, a partire dalle origini toscane del fare artistico, hanno costruito una narrazione che vede poi traghettare il classicismo da Firenze a Roma. In merito alla contesa supremazia sull’antichità dell’arte, Filippo Baldinucci pubblica nel 1681 il primo tomo delle sue Notizie dei professori del disegno, in cui inserisce un testo che si intitola La ristaurazione dell’arte del disegno da chi promossa. Apologia a pro delle glorie della Toscana per l’assertiva di Giorgio Vasari Aretino, ed onore di Cimabue e Giotto Fiorentini [2]. Mai menzionato, il destinatario dell’Apologia è, ovviamente, Malvasia. A supporto delle sue tesi, Baldinucci cita una serie di autorità in materia, a partire da Dante per finire con Bellori, e proprio facendo riferimento alle ‘auctoritates’, costruisce una vera e propria ‘genealogia’ della pittura da cui risulta appunto che ne furono capostipiti prima Cimabue e poi Giotto.

Il disinganno che Malvasia promette è, quindi, quello rispetto alle tesi di Baldinucci, anch’esso mai nominato, ma indicato genericamente come l’ “Apologista” (l’introduzione contiene peraltro citazioni letterali dall’Apologia). Ho già avuto modo di parlare a lungo sulla questione nella recensione al primo volume dell’edizione critica della Felsina pittrice, a cui rimando. In breve, basterà qui richiamare che la visione storica di Vasari è diversa rispetto a quella di Malvasia: Vasari procede per ‘fratture’ temporali, Malvasia preferisce la continuità, ovvero un dipanarsi dei fenomeni artistici che si dimostra ininterrotto anche nei momenti di crisi. Malvasia, peraltro, riconosce ampiamente il lavoro svolto da Vasari, per il semplice fatto di trascriverne fedelmente quanto scritto in vari passaggi della Felsina (si pensi alla Vita di Marcantonio Raimondi). Ma è Baldinucci il vero pericolo, come scrive Elizabeth Cropper: “questo delineare una genealogia artistica [n.d.r. da parte di Baldinucci] che discende dagli antichi maestri […] va contro il ‘buon gusto universale’ e ignora i diversi talenti e le inclinazioni nascoste degli artisti” [3].

Fig. 4) Ercole de' Roberti, Maddalena piangente, 1478-1486 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons

L’uso moderno

Come intende procedere Malvasia nella sua guida? Contrapponendo all’ipse dixit, ovvero a una genealogia costruita a tavolino, basata su citazioni che, per definizione, non possono essere messe in discussione, l’ ‘uso moderno’, praticato dai ‘sagaci indagatori del vero’. In sostanza si tratta di praticare l’ ‘oculare ispezione’, andando fisicamente a vedere ciò che resta del patrimonio artistico pubblico bolognese. E qui Malvasia nomina esplicitamente due esperienze ‘straniere’ basate sull’uso moderno: si tratta “dell’odierne sperienze della non meno tanta rimota Inghilterra, che della prossima a noi Firenze” (p. 14). Carlo Cesare conosce bene il metodo sperimentale inglese perché la Royal Society di Londra ha fra i suoi membri l’anatomista bolognese Marcello Malpighi (1628-1694) e l’astronomo Gian Domenico Cassini (1625-1712), di cui è protettore Cornelio Malvasia, cugino del nostro. Ma la vera stilettata è l’inserimento dell’Accademia del Cimento (la cui vita in realtà è assai breve), fiorentina come Baldinucci, basata sulla pratica del metodo sperimentale, evidentemente in contrapposizione all’Accademia della Crusca, di cui è membro proprio Baldinucci dal 1682 [4]. È, dunque, l’ ‘oculare ispezione’ il vero punto di riferimento a cui il dilettante così come il viaggiatore deve sempre fare riferimento. Questo concetto viene ripreso in infinite occasioni all’interno delle Pitture di Bologna, e si capisce bene che la guida di Bologna non è ‘solo’ una guida artistica, ma ha una sua precisa impostazione storica, e nasce come ‘seconda tappa’ del progetto storiografico malvasiano. Non è dunque affatto vero quanto lo stesso Malvasia scrive il 1 aprile 1687 al fiorentino Antonio Magliabechi scusandosi per non avergli inviato una copia dell’opera, ovvero che Le pitture di Bologna è un libretto scritto sì per replicare a Baldinucci, ma reclamato e finanziato soprattutto dai librai bolognesi per venderlo ai visitatori della città [5]; tutto ciò sarebbe causa del suo aspetto fisico dimesso e dei tanti errori tipografici. E del resto, non si dedica un libretto d’occasione a Charles Le Brun, Presidente dell’Academie Royale de Peinture et Sculpture a Parigi (vedremo meglio dopo).

Fig. 5) Niccolò dell'Arca, Compianto sul Cristo morto (particolare), Bologna, Chiesa di Santa Maria della Vita
Fonte: Paolo Villa tramite Wikimedia Commons

La continuità della scuola bolognese

Il quadro storico che emerge dalla guida di Malvasia è, di fatto, identico a quello già proposto nella Felsina pittrice. Vi sono quindi i primitivi, di cui Carlo Cesare ricostruisce la presenza (in maniera più o meno arbitraria) fin dal 1100, poi il Francia e la sua scuola; da qui si procede verso la fine del secolo coi manieristi, per giungere ai Carracci. Ludovico continua a essere l’esponente principale della scuola carraccesca (“il più fondato, il più risoluto, il più terribile, e’l più grazioso Maestro che sia mai stato al Mondo” – p- 27), l’apice della pittura bolognese, nei confronti dei cugini, e specialmente di Annibale, che ‘diventa’ romano con il suo trasferimento nell’Urbe (e comunque, per dipingere la Galleria Farnese, fa venire a Roma Ludovico, che in tredici giorni gli consiglia cosa fare). Esauritasi la generazione dei Carracci (e soprattutto dopo la morte di Ludovico) la loro eredità è raccolta da una serie di allievi su cui spiccano fondamentalmente quattro figure, a loro volte generanti altri discepoli. Nessuno di costoro è in grado di raggiungere la perfezione di Ludovico, ma non è affatto detto che, considerando singoli aspetti, essi non siano in grado di dar vita al progresso dell’arte. Conosciamo così Guido Reni con le sue “nobiltà e celesti idee”, Domenichino, famoso per gli “eruditi ritrovi e nell’espression degli affetti”, l’Albani, che spicca per i suoi “scherzi poetici” e per la grazia e infine il Guercino, che si impone per la forza del suo chiaroscuro e per il “bel scomparto de’ colori”. Malvasia riassume nella sua introduzione quanto aveva già detto nella Felsina e poi non mancherà di tornare a sottolineare esaminando le singole opere. Semmai, l’unico aspetto in qualche modo diverso è l’atteggiamento verso Raffaello, nel 1678 ‘boccalaio urbinate’ e invece qui “divino e mai abbastanza lodato” (p. 21) e “primo pittor del mondo” (p. 197).

Fig. 6) Francesco Francia, Il Bambino adorato dalla Vergine, 1498-1499, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

L’itinerario di visita

Emiliani scrive che, nella sua guida, Malvasia cita all’incirca 2400 opere. Sono tantissime. Di esse – continua il curatore – circa un migliaio sono giunte fino ai giorni nostri in condizioni che vanno dall'ottimo al disastroso. Va peraltro detto che l’itinerario di visita del canonico non prevede l’esame delle collezioni private: Malvasia, anche grazie al suo status di aristocratico, le conosce benissimo, ma ovviamente qui sta facendo riferimento al patrimonio ‘pubblico’ e nel caso dei privati ci si limita il più delle volte a segnalare i palazzi che contengono raccolte d’arte di particolare rilevanza. Malvasia conduce il visitatore lungo quattro percorsi all’interno delle mura cittadine (ovviamente, della terza cerchia di mura, completata attorno al 1400), seguendo la suddivisione in quattro quartieri della città: il quartiere di Porta Piera, quello di Porta Stiera, poi Porta Procola e Porta Ravegnana. Viene infine un quinto capitolo, dedicato alle opere d’arte poste in chiese e conventi nelle immediate vicinanze della città, ma fuori delle mura (è il caso, ad esempio, della Certosa, di San Luca e di San Michele in Bosco). A San Michele in Bosco, peraltro, è segnalato in particolare il chiostro, “una delle più stupende operazioni de’ Carracci, che può stare al pari, se non supera ogn’altra, in questa Città, anzi la stessa Galleria Farnese in Roma […] nel quale [Lodovico] volle mostrare, s’anch’egli sapesse intraprendere operone grandi, cangiarsi nella maniera di tutti gl’altri Maestri migliori, e far stupire il Mondo” (p. 225).

Ovviamente, la struttura stessa della guida, il cui compito è di mostrare ciò che si conserva a Bologna, obbliga a una stringatezza che, paragonata allo stile prolisso della Felsina, in qualche modo stupisce. Il che dimostra, peraltro, che Malvasia, in termini letterari, sa muoversi su registri differenti. Nell’ambito di questa stringatezza vi sono, a ogni modo, espressioni fulminanti. Fra tutte, cito le poche righe dedicate al Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca in Santa Maria della Vita (fig. 5): “Le Marie di rilievo, così sterminatamente piangenti sopra il Christo morto, sono di Nicolò da Puglia, Maestro del tante volte memorato Alfonso Lombardi”: io non sono affatto sicuro – dico la verità – che quello ‘sterminatamente piangenti’, nell’ambito del gusto malvasiano non abbia una sfumatura riduttiva, a significare che lo sono troppo; certo è che, riletto oggi, quelle Marie ‘sterminatamente piangenti’ ti entrano in testa in maniera indelebile, tanto da arrivare a pensare che nessuno mai potrà descriverle meglio.

Fig. 7) Raffaello, Estasi di Santa Cecilia, 1518, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

Itinerari alternativi: la questione dell’asterisco

Malvasia è tuttavia consapevole che ‘costringere’ il visitatore dentro a un’unica modalità di visita, imposta dagli itinerari, possa essere in qualche modo riduttivo. Per questo motivo si inventa una soluzione tecnica, volta a favorire coloro che (ad esempio, avendo poco tempo) desiderino vedere solo i capolavori (naturalmente ritenuti tali a insindacabile giudizio di Carlo Cesare). Evidenzia questi ultimi con un asterisco posto a lato. Naturalmente, la maggior parte degli asterischi spetta ai Carracci (a Ludovico in particolare) e a opere del Seicento, ma io vorrei qui registrare soltanto quella che forse non è solamente una coincidenza.

Io non conosco la storia editoriale dell’asterisco. Posso immaginare che sia stato usato come sostituto delle maniculae col diffondersi della stampa. Leggo, ad esempio, che, nei libri liturgici, indicava "le pause per il canto o le recitazioni dei salmi" [6] (e, quindi, aveva la funzione di evidenziare le pause). Faccio presente che Malvasia, da uomo di Chiesa e Canonico di San Pietro, quei libri liturgici doveva conoscerli assai bene. Sembrerebbe (e anche questa è circostanza che andrebbe confermata) che sia proprio con Le pitture di Bologna che l’asterisco viene utilizzato per la prima volta nella letteratura di viaggio, a indicare una gerarchia di valori. Ebbene, è assai curioso che circa ottant’anni dopo (per la precisione nel 1769), a Parigi, Jean-Baptiste Descamps usi esattamente la stessa soluzione grafica per evidenziare le opere più meritevoli nel suo Voyage pittoresque de la Flandre et du Brabant. Gaëtane Maës, che ne ha di recente proposto un’edizione commentata, ne parla come di una soluzione all’avanguardia, segno che all’epoca l’utilizzo dell’asterisco nelle guide artistiche non doveva essere ancora comunissimo.

Sia chiaro, io non sto dicendo che Descamps abbia modo di sfogliare una copia de Le pitture di Bologna e decida quindi di copiare il metodo-Malvasia. Ritengo però possibile (e ritengo che sia uno di quei fenomeni che permettono di studiare la circolazione ‘carsica’ delle idee) che, quanto meno in via indiretta, l’accademico francese originario della Normandia possa aver beneficiato di una soluzione grafica inventata da Malvasia ottant’anni prima.

Ma a questo punto, parlando di Francia, non possiamo eludere la questione della dedica a Charles Le Brun.

Fine della Parte Prima


NOTE

[1] Di particolare utilità, per una migliore comprensione del problema, Elizabeth Cropper, A Plea for Malvasia’s Felsina pittrice nel primo volume dell’edizione critica moderna delle Vite malvasiane (pp. 1-47).

[2] Per tutte queste vicende si veda il saggio di Elizabeth Cropper citato in nota [1]. In particolare pp. 11-16.

[3] Elizabeth Cropper, A Plea for Malvasia’s cit. p. 17.

[4] Baldinucci entra nell’Accademia della Crusca nel 1682 (e quindi in un’Accademia di tono fondamentalmente letterario) in seguito alla pubblicazione, l’anno prima, del Vocabolario toscano dell’arte del disegno. Si veda Cropper, A Plea for Malvasia’s cit. p. 15.

[5] Si veda Cropper, A Plea for Malvasia’s cit. p. 14.

[6] Si veda Manuale enciclopedico della bibliofilia, Milano, Sylvestre Bonnard, 2à ed, 2005, ad vocem.

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