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Carlo Cesare Malvasia
Le pitture di Bologna 1686
Ristampa anastatica corredata da indici di ricerca, da un commentario di orientamento bibliografico e informativo e da un repertorio illustrato
A cura di Andrea Emiliani
Bologna, Edizioni Alfa, 1969
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima
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Fig. 1) La copertina dell'edizione Emiliani Fonte: https://www.ebay.it/i/281904794312?chn=ps |
Esattamente cinquant’anni fa,
Andrea Emiliani dava alle stampe Le
pitture di Bologna di Carlo Cesare Malvasia (1616-1693) nella loro versione
originaria del 1686. Del testo era fornita la riproduzione anastatica,
fotograficamente ridotta, accompagnata da un saggio introduttivo, da un ricco
apparato iconografico e da una fitta serie di annotazioni riferite alle circa
2400 opere citate dal canonico bolognese, in cui si rendeva conto
dell’identificazione delle medesime, della loro collocazione moderna e dei principali
riferimenti bibliografici ad esse relativi.
Che senso ha recensire, oggi, Le pitture di Bologna? Si tratta, innanzi
tutto, di un doveroso omaggio a Emiliani, scomparso poco più di un mese fa.
Tuttavia l’esigenza principale mi sembra essere quella di (ri)proporre
all’attenzione degli studi il ‘problema critico’ malvasiano. Da sette anni, per
fortuna, è in corso di pubblicazione l’edizione critica della Felsina pittrice (1678) a cura di
Elizabeth Cropper e Lorenzo Pericolo. Manca, a ogni modo (per quanto mi
risulti), una monografia dedicata a Carlo Cesare e, con specifico riferimento
alle Pitture di Bologna, si è rimasti
fermi, appunto, all’edizione a cura di Emiliani, il cui limite principale (in
un’epoca peraltro pionieristica) mi pare sia quello di non proporre un’adeguata
contestualizzazione storica dell’opera. Per molti versi, quindi, questa è una
recensione che propone quesiti e solleva dubbi su un testo che, a mio avviso, è
troppe volte citato semplicemente come la prima guida artistica a stampa di
Bologna (essendo rimaste manoscritte all’epoca quelle del Lamo e di
Cavazzoni, la prima delle quali ignota a Malvasia). Al contrario della Felsina, peraltro, le Pitture di Bologna conoscono grande
fortuna editoriale, con quattro ristampe effettuate fino al 1766 e un
complessivo ripensamento e aggiornamento a partire dal 1776 per merito di Carlo
Bianconi, Marcello Oretti e Francesco Maria Longhi; tale fortuna si fonda però
su un’interpretazione riduttiva dell’opera, ovvero sul suo ‘essere guida’ e
quindi strumento di consultazione per il viaggiatore. Non è solo così. Troppo
spesso ci si dimentica che Le pitture di
Bologna hanno la loro genesi nelle polemiche scoppiate in seguito alla
pubblicazione della Felsina pittrice
e che quindi si configurano come la seconda tappa di un progetto storiografico
(che probabilmente ne prevedeva un terzo) volto alla rivalutazione della scuola
pittorica bolognese [1].
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Fig. 2) Vitale da Bologna, San Giorgio e il drago, 1330-1335 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons |
Malvasia negli anni ’60 del Novecento
Emiliani stesso chiarisce subito,
nell’introduzione al volume, che la sua
è una curatela del tutto compilativa. Si tratta di un’affermazione che pecca di
eccessiva modestia, considerato, ad esempio, il ricchissimo apparato di note.
Certo è che cinquant’anni sono passati: la bibliografia (già volutamente
ridotta ad alcuni testi-cardine) è ovviamente invecchiata e gli studi
(specialmente in termini attribuzionistici) sono andati avanti. Vale comunque
senz’altro la pena accennare al clima in cui si concretizzò la versione curata
da Emiliani. L’opera esce nel 1969 per i tipi delle Edizioni Alfa. Le Edizioni
Alfa nacquero a Bologna nel 1954, per merito di Elio Castagnetti, pubblicando,
fra l’altro, cataloghi che hanno fatto la storia, come quello sulla mostra di
Guido Reni del 1954 e dei Carracci del 1956. Attorno alle Edizioni Alfa gravitava,
infatti, un nucleo di storici dell’arte del calibro di Cesare Gnudi, Gian Carlo
Cavalli, Francesco Arcangeli e, appunto, Andrea Emiliani che rappresentavano
senza dubbio il meglio della critica d’arte bolognese del dopoguerra (sulla
storia dell’editore si veda http://bimu.comune.bologna.it/biblioweb/mostra-edizioni-alfa/80-2/,
resoconto online della mostra tenutasi a Bologna, presso la Biblioteca
dell’Archiginnasio dal 25 settembre al 19 novembre 2017). Forse non tutti
sanno, però, che quello con Le pitture di
Bologna non era l’unico impegno di esegesi malvasiana attribuito a
Emiliani. A metà degli anni ’60, la milanese Edizioni Labor diede vita a una
collana intitolata Gli storici della
letteratura artistica italiana, curata da Bruno Dalla Chiesa e Angela
Ottino Dalla Chiesa, pianificando di riprodurre anastaticamente i venticinque
testi più importanti della storiografia artistica italiana. Come si legge in uno specimen che ho già avuto modo di presentare in questo blog, non ci
si voleva limitare alla semplice riproduzione anastatica (che, in un mondo
senza Internet, aveva di per sé il merito di rimettere in circolazione l’opera),
ma si promuoveva “la compilazione di
introduzioni e di indici a integrazione dei testi in base alle risultanze degli
studi. Ogni opera sarà dunque corredata da un saggio introduttivo
biobibliografico sull’autore, sulle sue fonti d’informazione e sui successivi
studi sino ad oggi, e da un indice minuziosamente analitico riguardante gli
artisti menzionati, i personaggi, i luoghi, i monumenti, le opere mobili, oltre
le difficoltà terminologiche, tecniche e linguistiche contenute nel testo. Tali
parti redazionali sono state affidate, opera per opera, a studiosi altamente e
particolarmente qualificati.... Al termine della pubblicazione della collana,
un Repertorio alfabetico generale di concordanza servirà da guida e da collegamento a tutte le opere ristampate”.
Fra i venticinque titoli in questione compariva anche la Felsina pittrice di Malvasia, che doveva essere stampata a cura di
Giancarlo [sic] Cavalli e Andrea Emiliani. Purtroppo le Edizioni Labor
fallirono pochi anni dopo e solo cinque delle opere promesse riuscirono a
essere pubblicate. Va peraltro detto che, in molti casi, i curatori furono in
grado di sopperire, pubblicando le loro fatiche soprattutto grazie ai
finanziamenti dell’editoria bancaria. Non è questo il caso della Felsina pittrice, per cui ignoro quanto
materiale fosse stato raccolto. Dell’iniziativa delle edizioni Labor si ha
comunque una labile traccia nello scritto introduttivo di Emiliani alle Pitture di Bologna, laddove si dice che
“il lavoro svolto in questa sede sarà
meglio perfezionato e condotto nell’edizione commentata che delle Vite de
Pittori Bolognesi, cortesemente
sollecitata dall’intelligenza che di queste imprese ha Bruno Della Chiesa, si
sta preparando insieme a G.C. Cavalli” (p. XVII). Pare che il progetto sia
comunque stato abbandonato rapidamente: nel 1971 le Edizioni Alfa pubblicano
un’edizione ‘antologica’ della Felsina
pittrice a cura di Marcella Bragaglia, in cui sono trascritte le vite di
alcuni artefici, senza indici o annotazioni, ma con un’introduzione che
chiaramente fa trasparire la formazione da italianista dell’autrice, allieva di
Ezio Raimondi. Si punta, insomma, sulla lingua di Malvasia (un aspetto comunque
di estrema importanza) più che sugli aspetti prettamente artistici.
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Fig. 3) Lippo di Dalmasio, Polittico da S. Croce, 1390 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale Fonte: Sailko (Francesco Bini) tramite Wikimedia Commons |
Il disinganno
Il titolo completo della guida di
Malvasia è “Le pitture di Bologna, che
nella pretesa, e rimostrata sin hora da altri maggiore antichità, et
impareggiabile eccellenza nella Pittura, con manifesta evidenza di fatto,
rendono il passeggiere disingannato ed instrutto” e l’autore ne risulta
essere l’ ‘Ascoso’, accademico Gelato. Altri non è, ovviamente, che lo stesso
Malvasia, membro dell’Accademia dei Gelati (fondata nel 1588) e noto, appunto, col nome di
‘Ascoso’. Per meglio capirsi: le pitture hanno la funzione di disingannare e
istruire il visitatore, tramite la loro stessa esistenza (e quindi, per
evidenza) in merito alla presunta (e reclamata da altri) maggiore antichità ed eccellenza di scuole
che non siano la bolognese.
Chi sono, gli altri? Non vi è
dubbio che si tratti di Filippo Baldinucci, ma per spiegarci meglio dobbiamo
fare un passo indietro. La pubblicazione della Felsina pittrice porta con sé, come noto, molte polemiche. In
particolare, a essere messa in discussione è una visione dell’opera che
disconosce l’impostazione toscanocentrica delle Vite di Vasari e apertamente contesta la lezione che ne deriva, secondo
cui l’arte, morta per le note vicende medievali, sarebbe stata fatta risuscitare
da Cimabue prima e da Giotto poi. Le questioni, peraltro, non finiscono qui: è
contestata l’affermazione di Vasari secondo cui Francesco Francia sarebbe morto
subito dopo aver visto la Santa Cecilia di Raffaello (fig. 7), sopraffatto dalla
bellezza dell’opera e, anzi, si definisce il Sanzio ‘boccalaio urbinate’
(un’espressione che poi Malvasia sosterrà essere stata inserita a tradimento
nell’opera). Una visione che suscita le immediate reazioni dei ‘custodi’ della
supremazia toscana, ma anche di coloro che, a partire dalle origini toscane del
fare artistico, hanno costruito una narrazione che vede poi traghettare il
classicismo da Firenze a Roma. In merito alla contesa supremazia sull’antichità
dell’arte, Filippo Baldinucci pubblica nel 1681 il primo tomo delle sue Notizie dei professori del disegno, in
cui inserisce un testo che si intitola La
ristaurazione dell’arte del disegno da chi promossa. Apologia a pro delle
glorie della Toscana per l’assertiva di Giorgio Vasari Aretino, ed onore di
Cimabue e Giotto Fiorentini [2]. Mai menzionato, il destinatario dell’Apologia è, ovviamente, Malvasia. A
supporto delle sue tesi, Baldinucci cita una serie di autorità in materia, a
partire da Dante per finire con Bellori, e proprio facendo riferimento alle
‘auctoritates’, costruisce una vera e propria ‘genealogia’ della pittura da cui
risulta appunto che ne furono capostipiti prima Cimabue e poi Giotto.
Il disinganno che Malvasia
promette è, quindi, quello rispetto alle tesi di Baldinucci, anch’esso mai nominato,
ma indicato genericamente come l’ “Apologista” (l’introduzione contiene
peraltro citazioni letterali dall’Apologia).
Ho già avuto modo di parlare a lungo sulla questione nella recensione al primo volume dell’edizione critica della Felsina pittrice, a cui rimando. In breve,
basterà qui richiamare che la visione storica di Vasari è diversa rispetto a
quella di Malvasia: Vasari procede per ‘fratture’ temporali, Malvasia
preferisce la continuità, ovvero un dipanarsi dei fenomeni artistici che si
dimostra ininterrotto anche nei momenti di crisi. Malvasia, peraltro, riconosce
ampiamente il lavoro svolto da Vasari, per il semplice fatto di trascriverne
fedelmente quanto scritto in vari passaggi della Felsina (si pensi alla Vita di Marcantonio Raimondi). Ma è
Baldinucci il vero pericolo, come scrive Elizabeth Cropper: “questo delineare una genealogia artistica
[n.d.r. da parte di Baldinucci] che
discende dagli antichi maestri […] va
contro il ‘buon gusto universale’ e ignora i diversi talenti e le inclinazioni
nascoste degli artisti” [3].
Fig. 4) Ercole de' Roberti, Maddalena piangente, 1478-1486 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale Fonte: Sailko tramite Wikimedia Commons |
L’uso moderno
Come intende procedere Malvasia
nella sua guida? Contrapponendo all’ipse
dixit, ovvero a una genealogia costruita a tavolino, basata su citazioni
che, per definizione, non possono essere messe in discussione, l’ ‘uso moderno’,
praticato dai ‘sagaci indagatori del vero’. In sostanza si tratta di praticare
l’ ‘oculare ispezione’, andando fisicamente a vedere ciò che resta del
patrimonio artistico pubblico bolognese. E qui Malvasia nomina esplicitamente
due esperienze ‘straniere’ basate sull’uso moderno: si tratta “dell’odierne sperienze della non meno tanta
rimota Inghilterra, che della prossima a noi Firenze” (p. 14). Carlo Cesare
conosce bene il metodo sperimentale inglese perché la Royal Society di Londra
ha fra i suoi membri l’anatomista bolognese Marcello Malpighi (1628-1694) e
l’astronomo Gian Domenico Cassini (1625-1712), di cui è protettore Cornelio
Malvasia, cugino del nostro. Ma la vera stilettata è l’inserimento
dell’Accademia del Cimento (la cui vita in realtà è assai breve), fiorentina
come Baldinucci, basata sulla pratica del metodo sperimentale, evidentemente in
contrapposizione all’Accademia della Crusca, di cui è membro proprio Baldinucci
dal 1682 [4]. È, dunque, l’ ‘oculare ispezione’ il vero punto di
riferimento a cui il dilettante così come il viaggiatore deve sempre fare
riferimento. Questo concetto viene ripreso in infinite occasioni all’interno
delle Pitture di Bologna, e si
capisce bene che la guida di Bologna non è ‘solo’ una guida artistica, ma ha
una sua precisa impostazione storica, e nasce come ‘seconda tappa’ del progetto
storiografico malvasiano. Non è dunque affatto vero quanto lo stesso Malvasia
scrive il 1 aprile 1687 al fiorentino Antonio Magliabechi scusandosi per non
avergli inviato una copia dell’opera, ovvero che Le pitture di Bologna è un libretto scritto sì per replicare a
Baldinucci, ma reclamato e finanziato soprattutto dai librai bolognesi per
venderlo ai visitatori della città [5]; tutto ciò sarebbe causa del suo aspetto
fisico dimesso e dei tanti errori tipografici. E del resto, non si dedica un
libretto d’occasione a Charles Le Brun, Presidente dell’Academie Royale de
Peinture et Sculpture a Parigi (vedremo meglio dopo).
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Fig. 5) Niccolò dell'Arca, Compianto sul Cristo morto (particolare), Bologna, Chiesa di Santa Maria della Vita Fonte: Paolo Villa tramite Wikimedia Commons |
La continuità della scuola bolognese
Il quadro storico che emerge
dalla guida di Malvasia è, di fatto, identico a quello già proposto nella Felsina pittrice. Vi sono quindi i
primitivi, di cui Carlo Cesare ricostruisce la presenza (in maniera più o meno
arbitraria) fin dal 1100, poi il Francia e la sua scuola; da qui si procede
verso la fine del secolo coi manieristi, per giungere ai Carracci. Ludovico
continua a essere l’esponente principale della scuola carraccesca (“il più fondato, il più risoluto, il più
terribile, e’l più grazioso Maestro che sia mai stato al Mondo” – p- 27),
l’apice della pittura bolognese, nei confronti dei cugini, e specialmente di
Annibale, che ‘diventa’ romano con il suo trasferimento nell’Urbe (e comunque,
per dipingere la Galleria Farnese, fa venire a Roma Ludovico, che in tredici
giorni gli consiglia cosa fare). Esauritasi la generazione dei Carracci (e
soprattutto dopo la morte di Ludovico) la loro eredità è raccolta da una serie
di allievi su cui spiccano fondamentalmente quattro figure, a loro volte
generanti altri discepoli. Nessuno di costoro è in grado di raggiungere la
perfezione di Ludovico, ma non è affatto detto che, considerando singoli
aspetti, essi non siano in grado di dar vita al progresso dell’arte. Conosciamo
così Guido Reni con le sue “nobiltà e
celesti idee”, Domenichino, famoso per gli “eruditi ritrovi e nell’espression degli affetti”, l’Albani, che
spicca per i suoi “scherzi poetici” e
per la grazia e infine il Guercino, che si impone per la forza del suo
chiaroscuro e per il “bel scomparto de’
colori”. Malvasia riassume nella sua introduzione quanto aveva già detto
nella Felsina e poi non mancherà di
tornare a sottolineare esaminando le singole opere. Semmai, l’unico aspetto in
qualche modo diverso è l’atteggiamento verso Raffaello, nel 1678 ‘boccalaio
urbinate’ e invece qui “divino e mai
abbastanza lodato” (p. 21) e “primo
pittor del mondo” (p. 197).
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Fig. 6) Francesco Francia, Il Bambino adorato dalla Vergine, 1498-1499, Bologna, Pinacoteca Nazionale Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons |
L’itinerario di visita
Emiliani scrive che, nella sua guida,
Malvasia cita all’incirca 2400 opere. Sono tantissime. Di esse – continua il
curatore – circa un migliaio sono giunte fino ai giorni nostri in condizioni che vanno dall'ottimo al disastroso. Va peraltro detto che l’itinerario di visita del canonico
non prevede l’esame delle collezioni private: Malvasia, anche grazie al suo
status di aristocratico, le conosce benissimo, ma ovviamente qui sta facendo
riferimento al patrimonio ‘pubblico’ e nel caso dei privati ci si limita il più
delle volte a segnalare i palazzi che contengono raccolte d’arte di particolare
rilevanza. Malvasia conduce il visitatore lungo quattro percorsi all’interno
delle mura cittadine (ovviamente, della terza cerchia di mura, completata
attorno al 1400), seguendo la suddivisione in quattro quartieri della città: il
quartiere di Porta Piera, quello di Porta Stiera, poi Porta Procola e Porta
Ravegnana. Viene infine un quinto capitolo, dedicato alle opere d’arte poste in
chiese e conventi nelle immediate vicinanze della città, ma fuori delle mura (è
il caso, ad esempio, della Certosa, di San Luca e di San Michele in Bosco). A
San Michele in Bosco, peraltro, è segnalato in particolare il chiostro, “una delle più stupende operazioni de’
Carracci, che può stare al pari, se non supera ogn’altra, in questa Città, anzi
la stessa Galleria Farnese in Roma […] nel quale [Lodovico] volle mostrare,
s’anch’egli sapesse intraprendere operone grandi, cangiarsi nella maniera di
tutti gl’altri Maestri migliori, e far stupire il Mondo” (p. 225).
Ovviamente, la struttura stessa
della guida, il cui compito è di mostrare ciò che si conserva a Bologna,
obbliga a una stringatezza che, paragonata allo stile prolisso della Felsina, in qualche modo stupisce. Il
che dimostra, peraltro, che Malvasia, in termini letterari, sa muoversi su
registri differenti. Nell’ambito di questa stringatezza vi sono, a ogni modo,
espressioni fulminanti. Fra tutte, cito le poche righe dedicate al Compianto sul Cristo morto di Niccolò
dell’Arca in Santa Maria della Vita (fig. 5): “Le
Marie di rilievo, così sterminatamente piangenti sopra il Christo morto, sono
di Nicolò da Puglia, Maestro del tante volte memorato Alfonso Lombardi”: io
non sono affatto sicuro – dico la verità – che quello ‘sterminatamente
piangenti’, nell’ambito del gusto malvasiano non abbia una sfumatura riduttiva,
a significare che lo sono troppo; certo è che, riletto oggi, quelle Marie
‘sterminatamente piangenti’ ti entrano in testa in maniera indelebile, tanto da
arrivare a pensare che nessuno mai potrà descriverle meglio.
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Fig. 7) Raffaello, Estasi di Santa Cecilia, 1518, Bologna, Pinacoteca Nazionale Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons |
Itinerari alternativi: la questione dell’asterisco
Malvasia è tuttavia consapevole
che ‘costringere’ il visitatore dentro a un’unica modalità di visita, imposta
dagli itinerari, possa essere in qualche modo riduttivo. Per questo motivo si
inventa una soluzione tecnica, volta a favorire coloro che (ad esempio, avendo
poco tempo) desiderino vedere solo i capolavori (naturalmente ritenuti tali a
insindacabile giudizio di Carlo Cesare). Evidenzia questi ultimi con un
asterisco posto a lato. Naturalmente, la maggior parte degli asterischi spetta
ai Carracci (a Ludovico in particolare) e a opere del Seicento, ma io vorrei qui
registrare soltanto quella che forse non è solamente una coincidenza.
Io non conosco la storia
editoriale dell’asterisco. Posso immaginare che sia stato usato come sostituto delle
maniculae col diffondersi della
stampa. Leggo, ad esempio, che, nei libri liturgici, indicava "le pause per il canto o le recitazioni dei
salmi" [6] (e, quindi, aveva la funzione di evidenziare le pause). Faccio
presente che Malvasia, da uomo di Chiesa e Canonico di San Pietro, quei libri
liturgici doveva conoscerli assai bene. Sembrerebbe (e anche questa è
circostanza che andrebbe confermata) che sia proprio con Le pitture di Bologna che l’asterisco viene utilizzato per la prima
volta nella letteratura di viaggio, a indicare una gerarchia di valori. Ebbene,
è assai curioso che circa ottant’anni dopo (per la precisione nel 1769), a
Parigi, Jean-Baptiste Descamps usi esattamente la stessa soluzione grafica per
evidenziare le opere più meritevoli nel suo Voyage pittoresque de la Flandre et du Brabant. Gaëtane Maës, che ne ha di recente
proposto un’edizione commentata, ne parla come di una soluzione
all’avanguardia, segno che all’epoca l’utilizzo dell’asterisco nelle guide
artistiche non doveva essere ancora comunissimo.
Sia chiaro, io non sto dicendo
che Descamps abbia modo di sfogliare una copia de Le pitture di Bologna e decida quindi di copiare il
metodo-Malvasia. Ritengo però possibile (e ritengo che sia uno di quei fenomeni
che permettono di studiare la circolazione ‘carsica’ delle idee) che, quanto
meno in via indiretta, l’accademico francese originario della Normandia possa
aver beneficiato di una soluzione grafica inventata da Malvasia ottant’anni
prima.
Ma a questo punto, parlando di
Francia, non possiamo eludere la questione della dedica a Charles Le Brun.
Fine della Parte Prima
NOTE
[1] Di particolare utilità, per una migliore comprensione del problema, Elizabeth Cropper, A Plea for Malvasia’s Felsina pittrice nel primo volume dell’edizione critica moderna delle Vite malvasiane (pp. 1-47).
[2] Per tutte queste vicende si veda il saggio di Elizabeth Cropper citato in nota [1]. In particolare pp. 11-16.
[3] Elizabeth Cropper, A Plea for Malvasia’s cit. p. 17.
[4] Baldinucci entra nell’Accademia della Crusca nel 1682 (e quindi in un’Accademia di tono fondamentalmente letterario) in seguito alla pubblicazione, l’anno prima, del Vocabolario toscano dell’arte del disegno. Si veda Cropper, A Plea for Malvasia’s cit. p. 15.
[5] Si veda Cropper, A Plea for Malvasia’s cit. p. 14.
[6] Si veda Manuale enciclopedico della bibliofilia, Milano, Sylvestre Bonnard, 2à ed, 2005, ad vocem.
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