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Giovanna Perini Folesani
Luigi Crespi storiografo, mercante e artista attraverso l’epistolario
Firenze, Leo S. Olschki, 2019
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda
SU GIOVANNA PERINI FOLESANI SI VEDA IN
QUESTO BLOG: Giovanna Perini Folesani, Luigi Crespi storiografo, mercante e
artista attraverso l’epistolario (Parte prima
e seconda);
Sandra Costa, Giovanna Perini Folesani. I
savi e gli ignoranti. Dialogo del pubblico con l’arte (XVI-XVIII secolo); Giovanna
Perini, Gli
scritti dei Carracci. Ludovico, Annibale, Agostino, Antonio, Giovanni Antonio;
Roger de Piles, Dialogo sul colorito, A cura di Giovanna Perini Folesani e
Sandra Costa (Parte prima
e seconda);
Giovanna Perini Folesani, Sir
Joshua Reynolds in Italia (1750-1752), Passaggio in Toscana. Il taccuino 201 a
10 del British Museum
Il Terzo Tomo della Felsina
Pittrice
Abbiamo visto che l’idea di un
Terzo Tomo della Felsina Pittrice di Carlo Cesare Malvasia nasce come evoluzione della proposta di Crespi a Bottari
(1753) di scrivere per la Raccolta di quest’ultimo una serie di biografie in forma di lettera (sul modello della
biografia del padre Giuseppe Maria) sugli artisti non trattati dallo storico
secentesco bolognese (1678) e dallo Zanotti nella Storia dell’Accademia Clementina (1739). Quest’ultimo aveva scritto
biografie di artisti appartenenti all’Accademia, fondata nel 1710, e aveva
quindi tralasciato coloro che erano morti fra l’uscita della Felsina e tale data, nonché tutti coloro
che non erano stati accademici clementini. Trascinatosi fra alti e bassi nel
corso degli anni ’50, il progetto riprende corpo, definendosi come redazione di
un volume autonomo, fra 1759 e 1762. Crespi scrive agli eredi di molti artisti,
o comunque a molti di coloro che li conobbero, per avere testimonianze di prima
mano sulle loro biografie. Nel 1761, addirittura, il libro sembra sul punto di
uscire, completato da una serie di incisioni realizzate dall’autore. In realtà,
le lettere a Bottari e i documenti preparatori del volume presenti in
Archiginnasio testimoniano soltanto la ripetizione infinita di un serie di
bugie di Luigi nei confronti del povero monsignore toscano, che pure si impegna
per favorire l’amico, innanzi tutto trovando lo stampatore, ovvero il Marco
Pagliarini che è anche editore della Raccolta
di lettere, e poi sottolineando, in ogni tomo della Raccolta medesima, che la ‘nuova’ Felsina è in dirittura d’arrivo.
Nel 1767, tuttavia, qualcosa si muove e il motivo è probabilmente il fatto che,
a Bologna, un altro erudito dell’epoca, Marcello Oretti, si sta muovendo
autonomamente per un progetto assai simile. Crespi riesce a ottenere da Carlo
Emanuele III, re di Sardegna, il permesso di dedicargli l’opera. Il nome è,
ovviamente, assai prestigioso (il sovrano piemontese è stato anche il
dedicatario delle Vite vasariane
nell’edizione Bottari del 1759-1760). In realtà la vicenda sembra quasi
casuale: Luigi scrive al Conte di Groscavallo proponendogli l’acquisto di opere
per conto di Carlo Emanuele, e il Conte a sua volta risponde negativamente,
senza lasciare spiraglio alcuno [7]. Crespi tuttavia scrive nuovamente, questa
volta per chiedere di potergli dedicare la sua opera e Carlo Emanuele accetta
[8]. Bottari stesso funge da correttore delle bozze di Luigi, che vengono poi
passate al Pagliarini. Non abbiamo purtroppo traccia del carteggio fra i due nel periodo compreso fra 1766 e 1769, ma è appena evidente che le perplessità del monsignore
fiorentino devono essere aumentate man mano che ci si avvicinava alla fine dei
lavori. Così, ad esempio, Crespi si lamenta che Giovanni Gaetano non abbia
inserito un’ ‘Aggiunta’ al testo dai toni evidentemente molto polemici nei
confronti della Guida di Bologna di
Carlo Bianconi (1766), del resoconto del viaggio in Italia di Charles-Nicolas Cochin e del Trattato di pittura di Jonathan Richardson. Non ci sarà – alla fine – nessuna aggiunta. Resta il fatto
che il prodotto finale è un esempio evidente di sciatteria, sia nell’apparato
iconografico sia nel contenuto, di fronte al quale il Bottari, che ha passato
otto anni lodando l’idea sulla sua Raccolta,
decide di rimanere totalmente in silenzio.
Sciatteria, si diceva. Intanto si
potrebbe cominciare con il titolo, evidentemente cambiato in corso di stampa,
sicché alcuni esemplari si intitolano “Felsina
Pittrice – Vite de’ pittori bolognesi, Tomo terzo” e altri “Vite de’ pittori bolognesi non descritte
nella felsina Pittrice” (p. 290).
In termini di contenuti, invece,
la prima cosa da dire è che non si capisce quale sia il criterio con il quale
Crespi presenta le sue ricerche. Non vi è un ordine alfabetico, ma non si segue
nemmeno un ordine cronologico preciso (semmai si ragiona per scuole, con catene
(discutibili) di filiazione maestro-allievo). Manca “un’uniformità stilistica e strutturale delle varie voci, oscillanti tra
un puro e semplice rinvio alla Zanotti o al Malvasia o all’Abecedario, e biografie vere e proprie con tanto di ambiziosa,
retorica ouverture […] L’estensione della singola voce poi non
dipendeva affatto da una precisa e rigorosa scelta gerarchica e “meritocratica”
basata sull’obiettiva qualità dell’artista, né era necessariamente vincolata
alla quantità dei materiali reperiti, ma si fondava essenzialmente sul
“capriccio” dell’autore” (p. 114). Basti pensare che la vita del padre,
Giuseppe Maria Crespi, è lunga 31 pagine e quella di Donato Creti due e mezza.
Per non parlare poi delle assenze (chiaramente volute, anche se Crespi, in
fondo al libro, rinvia a un quarto tomo per coloro che non sono citati nel
presente). E ancora: “chiunque avesse
letto il Malvasia poteva constatare come le Vite di Angelo Michele Colonna e
Agostino Mitelli fossero semplicemente una riscrittura abbreviata e sciatta di
quelle malvasiane, mentre altre Vite (quelle di Giovanni Viani, Giuseppe Roli o
Lorenzo Pasinelli, ad esempio) erano il frutto di un’analoga operazione
compiuta, questa volta, sulle pagine dello Zanotti” (ibidem).
Ma l’elemento più vistoso, quello
che veramente deve aver condannato all’oblio la Felsina crespiana, è l’apparato iconografico, ovvero le
quarantaquattro incisioni fuori testo contenenti i ritratti degli artefici. Per
capirsi, quando Crespi fa mandare da Roma le “copie-staffetta” al Conte di
Groscavallo perché siano presentate a Carlo Emanuele III, la reazione è la
seguente (maggio 1769): “Ho perciò avuto
un grandissimo dispiacere nel vedere i rami de’ ritratti mal disegnati e mal
intagliati, di modo che fanno un gran torto a questa Sua bell’opera, e non so
capire come una persona di tanta intelligenza come Vostra Signoria lo è, si sia
indutta a lasciarli vedere al pubblico. Io pertanto ho sospeso di presentare
questa Sua opera a Sua Maestà, poiché, essendo intendentissimo in cose di
disegno, avrebbe certamente poco gradito quest’intagli. Sarei dunque di
sentimento che Vostra Signoria mi mandasse otto esemplari sciolti e senza
ritratti, li quali farei io legare qui dal Legatore di Corte e rimanderei a
Vostra Signoria tutti quelli che ho qui nella cassa, da poterne fare quel
ch’Ella vole” (pp. 121-122). L’opera che doveva consacrare Crespi come
erede del Malvasia viene respinta al mittente senza nemmeno essere presentata
al dedicatario (poi, in realtà, le cose si ricomporranno, ma certo in un clima
pesante). La bruttezza delle immagini diventa un luogo comune, sottolineato con
minor o maggior veemenza, a seconda di chi si esprima: così ad esempio, c’è chi
giunge a sostenere che le mamme fanno vedere i ritratti del Crespi ai bambini
che fanno i capricci per far loro prendere uno spavento.
Va detto brevemente, a questo punto, che Perini Folesani non manca di sottolineare le carenze tecniche di Crespi e segnala che “lo strano groviglio di linee che compare in basso al centro nella cornice di tutti i 44 ritratti non è un qualsivoglia ghiribizzo decorativo, ma precisamente il monogramma LC [Luigi Crespi] con le lettere corsive intrecciate, stampato al contrario per […] l’incapacità tecnica crespiana di riprodurre un disegno esattamente ma al contrario, specularmente, in modo da tener conto dell’inversione sinistra-destra che si produce stampando la matrice” (p. 293). Tuttavia dà il meglio di sé nelle pagine in cui cerca (riuscendoci per la maggior parte) di individuare le fonti iconografiche dei singoli ritratti.
Si è detto del silenzio di
Bottari, che probabilmente in questo periodo decide di interrompere la sua
corrispondenza con Crespi. Ma interlocutori sono anche molti dei giudizi
espressi dagli altri corrispondenti del canonico bolognese. E qui, però,
occorre fare cronologicamente un passo indietro e parlarne brevemente.
I corrispondenti crespiani
La collaborazione con Monsignor
Bottari per la Raccolta di lettere
assicura al Crespi visibilità nel mondo erudito italiano e internazionale. Su
quest’ultima sappiamo molto poco, posto che il carteggio col Mariette (che pure
ci dev’essere stato) non è testimoniato in Archiginnasio. Per quanto riguarda
l’Italia, invece, sono da segnalare personaggi dell’erudizione locale con cui
Luigi intrattiene a lungo rapporti epistolari; quasi tutti i carteggi,
peraltro, si interrompono come le relative amicizie per dissapori subentrati in
corso d’opera. Su una cosa, comunque, si può stare certi: a tutti i suoi
corrispondenti Crespi propone l’acquisto diretto o l’intermediazione a fine di
vendita di opere del padre e di altri autori, libri, stampe e monete. A molti,
poi, chiede di intercedere per avere per avere commissioni pittoriche. Il conte Carrara a Bergamo (1714-1796), Innocenzo Ansaldi a Pescia (1734-1816), Tommaso
Francesco Bernardi a Lucca, Carlo
Giuseppe Ratti a Genova (1737-1795) sono tutte figure che non vanno
sottovalutate, se non altro perché, nella maggior parte, costituiscono anche la
rete informativa che sottende alla stesura della Storia pittorica del Lanzi nella versione del 1795-1796 (e
chiaramente, il paragone su come questa rete viene utilizzata da Crespi e da
Lanzi è impietoso).
Ne ho già parlato diffusamente in
altre recensioni. Desidero però soffermarmi sulla figura di Ratti, il cui
carteggio con Crespi fu in realtà assai breve, molto probabilmente perché
quest’ultimo non condivideva l’entusiasmo per Mengs del primo. Ratti, che a
Genova aveva aggiornato le vite degli artefici locali redatte dal Soprani, sin
dalla sua prima lettera scrive a Crespi proponendo la stesura di una serie di
lettere pittoriche in cui confutare gli errori contenuti nel
Viaggio in Italia di Charles-Nicholas Cochin (1758), uno dei testi di
maggior successo fra i visitatori francesi che effettuavano il Grand Tour (pp.
117-118). Ma il vero problema è che Cochin,
più in generale, è figura di spicco dell’Academie
Royale de peinture et sculpture, ovvero dell’Accademia che, a queste date,
detta, di fatto, il gusto in tutta Europa. Si è detto come Bottari in sostanza
cerchi di cassare ogni forma di polemica nei confronti dell’accademico
francese; e in realtà di ‘lettere pittoriche’ si smette presto di parlare,
questa volta però a fronte di un progetto più ambizioso, promosso da Crespi. Si
tratta di giungere alla redazione di una serie di guide artistiche locali che,
secondo criteri prestabiliti, ‘mappino’ il patrimonio artistico locale in aree
normalmente trascurate dai viaggiatori (italiani e stranieri). Luigi si rivolge
dunque a Baronto Tolomei per la stesura di una guida di Pistoia, a Tommaso
Francesco Bernardi per quella di Lucca, ad Andrea Zannoni per Faenza, a
Michelarcangelo Dolci per Urbino, a Innocenzo Ansaldi per Pescia. È
su questo progetto che Perini Folesani si mostra più indulgente nei confronti
del canonico: “il progetto di Crespi
[…] era certamente ambizioso e
intelligente: si trattava in fondo di riempire sistematicamente i vuoti della
topografia artistica italiana (descrivere cioè i centri anche minori, per i
quali ancora mancavano tanto una guida reputata, quanto le notazioni nei
resoconti dei viaggiatori illustri), il che significava sia togliere credito e
spazio commerciale alle guide spesso imprecise e superficiali, sempre
forzatamente rapide, dei viaggiatori stranieri, sia fornire ad esse una
risposta adeguata, pragmatica e positiva, che superasse la fase iniziale,
puramente negativa, della satira o della critica indignata, talora anche
capziosa e meschina, talaltra effettivamente motivita” (p. 160). Sarò
sincero: io non so se Crespi avesse realmente in mente questo progetto, e in
particolare il superamento della ‘fase denigratoria’ a vantaggio di una
‘costruttiva’. Mi pare che i suoi scritti, di fatto, smentiscano la
circostanza. E allora non resterebbe da dire che il canonico intratteneva
corrispondenza un po’ perché convinto di essere l’erede naturale di Bottari e
un po’ perché cercava di restare aggiornato su occasioni di vendita o su
possibili commissioni. Fatto sta, che di tutte le guide richieste, l’unica a
essere pubblicata (da Crespi, all’insaputa dell’autore) fu quella pesciatina di Innocenzo Ansaldi. Ancora una volta, se Crespi fu in grado di ‘pensare in
grande’ si dimostrò (come a Dresda o come col Terzo Tomo della Felsina) inadeguato a portare a
compimento i suoi progetti.
Il VII Tomo della Raccolta di
lettere sulla pittura, scultura ed architettura
Mentre alcuni dei corrispondenti
di Crespi interrompono il loro carteggio dopo la pubblicazione della Felsina, altri, come Tommaso Francesco
Bernardi, lo aiutano nel reperimento dei materiali per il VII tomo della Raccolta di lettere sulla pittura,
scultura ed architettura, edito da Crespi nel 1773. Le ombre sulla
pubblicazione dell’opera sono tante e note. Bottari, che aveva curato i sei
volumi precedenti, era ormai in condizioni fisiche assai precarie. Nella prima
parte di questa recensione abbiamo parlato di una lettera di Luigi al
monsignore da cui si desume che quest’ultimo gli avrebbe detto di non essere
intenzionato a proseguire la pubblicazione con altri tomi. Possibile che lo
abbia fatto anche per non aver più rapporti con Crespi (che gli richiede
indietro le sue lettere per stamparle in una sua imminente pubblicazione);
fatto sta che a Bergamo il conte Giacomo Carrara progetta la pubblicazione di
un VII Tomo, che abbandona nel momento in cui si accorge che il canonico
bolognese sta perseguendo, indipendentemente, lo stesso progetto. Ancora una
volta, quindi, come nel caso delle biografie dei pittori bolognesi rispetto a
Oretti, Crespi ‘arriva prima’ e si accorda con l’editore dei primi sei tomi
della raccolta (il romano Pagliarini) perché stampi anche il tomo successivo.
Anche questo, a voler essere sinceri, è un fatto quasi straordinario, se si
tiene conto che Pagliarini aveva pubblicato anche il Terzo Tomo della Felsina, di cui erano state vendute solo
100 delle 500 copie tirate, e che quindi era andato incontro a un bagno di
sangue economico. L’editore, questa volta, si accorda con Crespi facendo
sostenere a quest’ultimo le spese di edizione e, presumendo di vendere il VII
Tomo a tutti gli acquirenti dei primi VI, spera anche di rientrare delle
perdite subite con la Felsina. Fa
male i suoi conti, perché anche il VII Tomo si rivela un fallimento.
Non vi è dubbio che a contribuire
all’ennesima debacle crespiana ci sia
la recensione che Giovanni Ludovico Bianconi pubblica sulle Effemeridi Letterarie di Roma da lui
fondate, in cui, oltre a stroncare l’opera (“Due opuscoli sopra la Pittura ai quali si sono aggiunte quattordici
lettere del Signor Luigi Crespi Canonico di Santa Maria Maggiore di Bologna”
– cfr. p. 206) stigmatizza il fatto che Luigi avrebbe fatto tutto all’insaputa
del Bottari, confezionando una vera e propria edizione-pirata, non autorizzata
dall’anziano monsignore. Affermazioni che – fa presente Perini – non erano del
tutto vere (cfr. p. 205). Resta il fatto che, ancora una volta, il contenuto
dell’opera (nonostante le costanti pressioni di Pagliarini a rimpolparla) è
assai modesto. Oltre ai suoi scritti (spesso si tratta di saggi già stampati a
cui attribuisce la forma di lettera, oppure – e ancora una volta – di invettive
rivolte alla Guida bolognese di Carlo Bianconi del 1766, a Cochin, a Richardson
e all’Accademia Clementina), Crespi pubblica materiali forniti da Tommaso
Francesco Bernardi (e altri ne scarta) fra cui un trattato inedito del genovese
Paggi (1554-1627) pur essendo consapevole (al contrario del Bernardi) che non
fosse opera del pittore in questione (si tratta in realtà del Trattato della nobiltà della pittura di
Romano Alberti, come si scopre solo nel Novecento). Perché? Il trattato del
Paggi era già stato citato nell’edizione rivista da Ratti delle Vite genovesi del Soprani: il rinvenimento
di uno scritto che aveva già un suo pedigree storiografico viene giudicato
evidentemente più ‘appetibile’ di un modesto testo di autore anonimo e il
canonico non si fa quindi troppi scrupoli. La vicenda pare essere ampiamente
indicativa dell’etica del personaggio.
Crespi vs. Malvasia
Avviandomi verso la fine,
resterebbe da parlare di tanti altri scritti ‘minori’ di Crespi (a volte veri e
propri plagi) e anche di altri suoi progetti falliti (come la pubblicazione
delle Vite dei pittori ferraresi del
Baruffaldi). Ci sarebbe poi da affrontare in maniera più completa la questione
della sua attività pittorica. In quest’ultimo caso rinvio al recentissimo Luigi Crespi ritrattista nell’età di papa
Lambertini (a cura di Mark Gregory D’Apuzzo e Irene Graziani, Cinisello
Balsamo, Silvana editoriale, 2017), catalogo dell’omonima mostra (e prima
monografica) svoltasi a fine 2017 a Palazzo Davia Bargellini a Bologna.
Preferisco terminare, invece,
citando le parole che Perini Folesani (una ‘malvasiana di ferro’) scrive
mettendo fra loro a confronto Malvasia e Crespi. Se le avessi citate all’inizio
di questa recensione si sarebbe potuto pensare che la studiosa avesse scritto
un libro di 500 pagine per un ‘fatto personale’, ovvero per l’aver osato il
Crespi ‘infangare’ il nome di Malvasia scrivendo la continuazione della Felsina. Qui, invece, mi pare che
possano fungere da bilancio al termine di un’opera che contestualizza
l’attività di Crespi nell’ambito della società dell’epoca e finisce per
metterne in evidenza i limiti, i comportamenti, la mancanza di spessore etico
(e anche culturale) che furbizia, scaltrezza e un buon tempismo
nell’individuare progetti potenzialmente interessanti non riescono
evidentemente a compensare:
“Non ho dubbi, personalmente, che affiancare la figura di Luigi Crespi a
quella di Carlo Cesare Malvasia (a dispetto del ricorrere del paragone nella
letteratura artistica tardo-settecentesca e della provata volontà di continuità
ideale ricercata dal Crespi) sia un insulto immeritato alla memoria del secondo
e troppo, indebito onore fatto al primo: quanto Malvasia si è adoperato con
serietà e scrupolo non sempre riconosciuti, ma effettivi, alla ricostruzione
epigrafica, storiografica e fors’anche giuridica delle patrie glorie felsinee,
sviluppando ad hoc un metodo critico originale e moderno, frutto di una visione
europea dei problemi, il tutto a costo anche dei propri beni e della propria
tranquillità, altrettanto Luigi Crespi ha cercato, sempre e prima di tutto, il
proprio beneficio personale, in senso grettamente materiale ed economico, prima
che sociale e morale.
Non si può confondere il profilo di un uomo veramente aristocratico,
consapevole dei doveri sociali del suo rango prima che dei suoi diritti – di un
uomo insomma che ha sempre agito all’interno delle istituzioni per le
istituzioni (militari, giuridiche, accademiche) -, con le aspirazioni di un
borghese piccolo piccolo, soddisfatto dei frutti dei suoi lenocinii quotidiani,
che, traditi gli amici, gli consentono infine di lasciare ben provvista la sua
prole bastarda, anche a spese di fratello e nipoti” (pp. 303-304).
NOTE
[7] Meriterebbero uno studio a
parte le modalità di vendita di quadri, libri e monete che si vedono esposte
nell’epistolario crespiano: si va dalla tentata vendita alla vendita ‘sulla
fiducia’ in base alla descrizione dell’opera del proponente. In realtà, uno dei
modi più semplici per respingere le offerte di Crespi è comunissimo (e di fatto
si usa molto anche oggi, quando ti telefona la Treccani): il potenziale ‘cliente’
fa sapere di avere la propria dimora stracolma di quadri, molti dei quali
nemmeno appesi alle pareti e proprio non ha spazio per ulteriori acquisizioni.
Da bibliofilo, mi viene invece da piangere quando Daniele Farsetti scrive nel
1779 che i libri che Crespi gli ha inviato per cercare di venderli (all’epoca
Luigi sta cercando di liberarsi della sua biblioteca) sono molto
sopravvalutati: in particolare “Il
Lomazzo ha molte carte scritte, il che non era spiegato nel catalogo, sì che il
Signor Armano mi dice non volerlo” (p. 84). Ignoro se il libro sia finito
in collezione Hercolani.
[8] Le vicende dell’estensione
materiale della dedica sono indicative; nelle carte crespiane resta la prima
bozza, inviata al Groscavallo, che la cassa nelle (molte) parti in cui la
piaggeria sconfina nel ridicolo o nel politicamente imbarazzante. Cfr. pp.
109-111.
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