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mercoledì 6 febbraio 2019

Keith Haring. Diari. Parte Quarta



Keith Haring
Diari
Traduzione di Giovanni Amadasi e Giuliana Picco
Premessa di David Hockney
Introduzione di Robert Farris Thompson

Milano, Mondadori, 2001, p.345

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Quarta

[Versione originale: gennaio 2019 - Nuova versione: aprile 2019]

Fig. 15) I due cataloghi dell’esibizione “Keith Haring. The political line”, tenutesi al Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris dal 19 aprile al 18 agosto 2013 e al De Young Museum di San Francisco dall’8 novembre 2014 al 16 febbraio 2015

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Keith Haring e l'impegno politico

L’immagine che possiamo trarre dai Diari di Keith Haring non sarebbe completa se non facessimo riferimento alle sue pagine più politiche.  Vale sempre la raccomandazione più volte ripetuta nel corso di questa recensione:  Keith non fu certo un Gandhi oppure un Martin Luther King; la sua testimonianza e l’adesione a battaglie civili rimasero sempre su base individuale e i suoi messaggi si tradussero in forme iconografiche, e non dialogiche di protesta. Va ricordato peraltro che quelli in cui vive Haring cominciano a essere ‘gli anni del riflusso’. L’artista vive comunque nella New York dell’East Village, in cui l’impegno politico è norma; ricorda, ad esempio, di aver partecipato giovanissimo alla “Nova Convention”, un evento durante il quale moltissimi artisti americani si riunirono a New York nel 1979 per dar forza a una serie di battaglie civili, tanto che, secondo quanto scrive la “Nova Convention mi aveva cambiato la vita” [123].  Tuttavia la società, più in generale, inizia a  manifestare stanchezza per l’impegno pubblico e tende a rifugiarsi nel privato. Ad ogni modo, Haring fu certamente artista impegnato, ma non credo si possa parlarne come di un artista pienamente politico.

Uno degli aspetti più ambigui della sua persona è il rapporto con la ricchezza. Da un lato, nella seconda parte dei Diari diviene evidente come il giovane pittore (solo qualche anno prima studente senza molti mezzi economici) debba sostenere il peso del successo, frequentando e vivendo in ambienti contraddistinti dall’esibizione del lusso. Dall’altro, nelle pagine dei Diari di quegli stessi anni, si trovano frequenti riferimenti critici all’applicazione del modello di società capitalista al mondo dell’arte (“L’intero concetto di ‘business’ è malvagio. (…)  Business è solo un sinonimo di controllo. Controllo della mente, del corpo e dello spirito. Il controllo è cattivo.” [124]).

Il modo con cui Keith cerca di conciliare le due cose è quello di accettare di far parte di un mondo dominato dal consumo commerciale, pur cercando di evitarne gli aspetti più eccessivi. Ad esempio, sulla traccia degli artisti della Pop Art, Haring cerca anch’egli di creare canali di mercato che permettano di vendere le sue opere d’arte a prezzo accessibile a tutti. Egli stesso si rende conto di quanto il risultato possa essere ambiguo: anche la sua arte più politica può, infatti, essere mercificata: “Dà davvero soddisfazione fare le cose ed è davvero appagante vedere la risposta della gente, ma il resto è difficile. Ho cercato, per quanto ho potuto, di prendere una posizione nuova, un atteggiamento diverso riguardo alla vendita dei quadri, facendo le cose in pubblico e facendo pubblicità che vanno contro l’idea del mercato dell’arte come ‘promozione della merce’. Comunque, anche queste cose vengono assorbite e viste da alcuni come mera pubblicità per la vendita dei miei lavori. Temo che non ci sia via d’uscita da questa trappola. Una volta che si comincia a vendere (qualunque cosa) si è colpevoli di partecipare al gioco. Però se si rifiuta di vendere si è una non-entità” [125].  Il problema è oggettivo (un filosofo scriverebbe ontologico) e va ben al di là delle intenzioni dell’artista, perché dipende dall’attribuzione di un valore economico a qualsiasi oggetto, nel momento stesso in cui viene prodotto: “È impossibile separare l’attività dal risultato. L’atto stesso della creazione è molto chiaro e puro. Ma questa creazione ha come risultato immediato una ‘cosa’ che ha un ‘valore’ che deve essere tenuto in considerazione. Anche i disegni nella metropolitana, che abbastanza ovviamente erano sull’ ‘atto’ non sulla  ‘cosa’ , adesso vengono scoperti, dopo essere stati  ‘salvati’ dalla distruzione da sedicenti collezionisti. Forse solo i murali sui muri di cemento, che non possono essere rimossi, e i disegni al computer, che possono essere liberamente riadattati, sono esenti da queste considerazioni” [126].

Uno degli aspetti che l’artista dimostra di conoscere per esperienza diretta è quello del funzionamento speculativo del mercato dell’arte. Haring è cosciente dei meccanismi tramite cui i critici identificano giovani artisti sconosciuti, creano l’attenzione embrionale del mercato e sollecitano l’interesse dei galleristi. In tal modo i giovani artisti si rendono conto di poter iniziare a far piccoli guadagni, comprano nuovi materiali, aumentano la produzione, incontrano la domanda del pubblico e cominciano a divenire conosciuti, anche se non ancora famosi. È un processo che Keith descrive nel dettaglio [127], non mancando di sottolineare che porta anche alla separazione fra artista e frequentazioni dei suoi circoli iniziali, che ormai non lo considerano più uno di loro, ma una parte – anche se ancora molto marginale – di quel mercato che essi generalmente disprezzano. “Più vendi, più cresce la domanda delle tue opere, attraverso il passaparola, da parte delle persone che le ‘collezionano’. Molte persone cominciano a pensare a te come un investimento rischioso, ma sempre un investimento. Dal momento che i lavori sono ancora poco costosi, possono permettersi questo piccolo rischio [128]. Crescono le quotazioni, gli articoli dei critici e le citazioni nei media si moltiplicano, e nasce la bolla speculativa: i quadri vengono battuti alle aste, perché i primi investitori (quelli specializzati nel fare emergere nuovi artisti, solo alcuni dei quali si imporranno però nel mercato) vogliono realizzare i guadagni prima che possano sfumare, e altri invece si affrettano a comprare a prezzi ancora bassi, pensando ai guadagni futuri. Perché tuttavia tali guadagni su opere passate si possano realizzare occorre che l’artista non ecceda con la realizzazione di nuove opere; la sua preoccupazione principale diviene quella di assicurare un equilibrio di mercato tra produzione passata e produzione futura. L’artista stesso diviene a quel punto un agente speculatore. È davvero interessante come le pagine di Haring coincidano perfettamente con quelle che la storica dell’arte americana Grete Ring (1887-1952) scrive nel 1931 per descrivere il funzionamento del mercato dell’arte a Parigi (anch’esso dominato dal gioco speculativo tra commercianti che sono specializzati nel lanciare nuovi talenti, sulla riva sinistra della Senna, e commercianti che vogliono trarre invece guadagni dalla loro affermazione sul mercato, sulla riva destra della Senna). A sessant’anni di distanza, le cose, a Parigi prima e a New York poi, funzionano allo stesso modo.




Fig. 16) Il poster della mostra su Keith Haring tenutasi alla Pinacoteca Nazionale di Bologna nel gennaio-febbraio 2018

Tornando all’attivismo civile del pittore, è noto che Haring è divenuto una delle icone della lotta per la libertà e l’integrazione delle comunità omosessuali, anche grazie al suo impegno contro il diffondersi dell’epidemia dell’AIDS, che lo ha visto realizzare moltissime immagini a favore del sesso sicuro e protetto. Sono famose le foto che lo ritraggono a Kansas City insieme a una serie di intellettuali, nel settembre 1987, in una protesta contro la diffusione dell’AIDS, con una maglietta che reca la scritta “L’AIDS è il germe della guerra politico-biologica” [129]. Haring aderisce, infatti, alle tesi ‘complottiste’ sulla diffusione della malattia: in quegli anni si diffonde infatti l’idea che il virus non sia il risultato della mutazione di una malattia originariamente diffusa tra i primati in Africa, ma il risultato di un processo di laboratorio, sfuggito di mano agli scienziati, originariamente portato avanti per preparare la guerra anche attraverso la creazione di virus e batteri destinati a infliggere predite gravissime ai nemici. Un’ulteriore affermazione che è sostenuta dai complottisti vuole che l’AIDS, una volta generato in provetta, sia stato disseminato volutamente negli Stati Uniti, a partire dalla California, per sterminare la comunità gay, che lì aveva appena affermato i suoi diritti nel decennio precedente. 

La lotta contro la malattia, la battaglia per la rivendicazione di una sessualità libera s’intrecciano peraltro, nel caso di Haring, con il più ampio fenomeno dell’oppressione di tutte le minoranze. Ecco ciò che Keith scrive quando viene a sapere che tutti gli imputati per l’uccisione di un artista di strada di colore, il graffitista Michael Stewart (1958–1983), morto nelle mani della polizia dopo essere arrestato mentre cercava di dipingere per strada, sono stati assolti. Sono parole piene di rabbia e frustrazione: “La maggior parte dei bianchi è cattiva. L’uomo bianco ha sempre usato la religione come un mezzo per soddisfare la propria cupidigia e il potere-fame di aggressione (…) Tutte le storie dell’ ‘espansione’ e ‘colonizzazione’ e ‘dominazione’ dell’uomo bianco sono piene di spaventosi episodi di abusi di potere e maltrattamento di persone. Sono sicuro di non essere bianco dentro. Comunque, non c’è modo di fermarli. Sono sicuro che il nostro destino sia il fallimento. La fine è inevitabile. Così a chi importa se questi maiali mi uccidono con la loro malattia, hanno ucciso prima e continueranno a uccidere fino a quando non saranno risucchiati nelle loro tombe malvagie e marciranno e puzzeranno ed esploderanno nell’oblio. Mi fa piacere essere diverso. Sono fiero di essere gay. Sono fiero di avere amici ed amanti di ogni colore. Mi vergogno dei miei antenati. Io non sono come loro” [130].


Fig. 26) L’invito all’inaugurazione della mostra “Made in New York” su Keith Haring a Firenze, tenutasi il 25 ottobre 2017.

Keith è convinto, quindi, di vivere in un mondo mercificato e fondamentalmente cattivo; in un quadro così cupo, uno degli aspetti che lo confortano è il fatto di essere riuscito a realizzare molte opere in luoghi pubblici, in modo tale renderli fruibili immediatamente alle persone buone (prime fra tutte i bambini). È quest’idea del contatto diretto ed immediato con il pubblico che ha reso forse più politica la sua arte di quanto non siano (con alcune eccezioni) i contenuti della medesima: “La maggior parte di questi dipinti sono collocati in posti pubblici (cioè scuole, ospedali, piscine, parchi, ecc..) e molto raramente qualcuno di essi suscita una reazione negativa. In effetti ho trovato il pubblico abbastanza pronto ad accettare e apprezzare il mio lavoro, mentre i borghesi e il ‘mondo della critica d’arte’ sono molto meno ricettivi e si sentono ‘al di sopra’ ” [131].


Che cosa significa essere artista

Si è già visto nella prima parte dei Diari che Keith s’interroga sul significato dell’attività dell’artista. Nell’estate del 1987, nelle settimane trascorse serenamente a Knokke, dimenticando forse la malattia e il presagio della morte, Haring si pone di nuovo gli stessi interrogativi, cercando di definire forze e debolezze del proprio mestiere. L’artista cambia il mondo, non è un puro esteta; è proprio grazie alla produzione di bellezza che egli ha una capacità superiore di capire le cose e mettersi in contatto con la realtà. Sono pagine molto belle, ispirate da un senso di soddisfazione raro in quegli anni, e che val la pena leggere come testimonianza di un artista che assegna al proprio lavoro un senso superiore a quello della semplice produzione di beni di consumo.  In queste pagine, Keith si pone in linea di continuità con un’intera tradizione di letteratura artistica che, dal secondo Cinquecento in poi, afferma la nobiltà dell’arte. “In qualche punto di codesto scritto giace l’importanza di essere artista. Gli artisti aiutano il mondo ad andare avanti e allo stesso tempo rendono la transizione più agevole e più comprensibile. Spesso è difficile isolare l’effetto concreto degli artisti sul mondo fisico della “realtà”: il loro effetto fa parte sia della realtà sia dell’interpretazione o esperienza della “realtà” stessa. Vediamo come ci è stato insegnato a “vedere” e facciamo esperienze come ci è stato “mostrato” che si fa esperienza. Ogni nuova creazione diventa parte di una interpretazione/definizione della “cosa” che verrà dopo e allo stesso tempo diventa una sorta di somma delle cose che l’hanno preceduta. Questo costante flusso viene registrato nel tempo dagli eventi e all’interno degli eventi dalle “cose” che popolano, definiscono e compongono gli stessi. Dal momento che l’artista le crea, è responsabile di queste “cose”. Devono essere costruite con attenzione e considerazione (estetica) dal momento che le “cose”, da sole, daranno “significato” e “valore” agli eventi e di conseguenza alle nostre vite. Con il termine “artisti”, non intendo solo pittori, scultori, musicisti e scrittori, drammaturghi e ballerini, ecc.., ma tutte le specie di artisti che prestano il loro lavoro: carpentieri, idraulici, progettisti, cuochi, fioristi, muratori, ecc. Ogni decisione è dopotutto una decisione estetica con cui si cambiano, sistemano, creano, distruggono e immaginano “cose”.” [132]. Dunque la definizione di arte, nella sua nobiltà, è tanto ampia da nobilitare anche il carpentiere.

L’universalità dell’arte, qui intesa nel senso che ogni attività umana ha la capacità di creare nuove realtà, e dunque di avviare un ciclo di innovazione del mondo fisico, può essere pienamente intesa, secondo Keith, solo sottraendosi ai vincoli della vita moderna. Qui vengono ripresi indirettamente i miti del buon selvaggio così come quelli che assegnano all’arte un senso religioso. In fondo, questa pagina rivela la dipendenza culturale di Haring (e probabilmente dell’ambiente dell’East Village) dal romanticismo ottocentesco. “Le cosiddette culture “primitive” comprendevano l’importanza di applicare questo concetto a ogni aspetto della loro vita, il che aiutava a creare un’esistenza molto ricca, significativa, in totale armonia con la  “realtà” fisica del mondo. L’uomo contemporaneo, con la sua fede cieca nella scienza e nel progresso, confuso senza speranza dalla politica del denaro e dall’avarizia e dall’abuso di potere, deluso da ciò che “sembra” essere il suo “controllo” della situazione, ecc, crede nella propria “superiorità” sull’ambiente e sugli altri animali. Ha perduto il contatto con il concetto di scopo o significato dell’umanità. La maggior parte delle religioni è così ipocritamente superata e conforme ai problemi particolari dei tempi antichi, da non avere energia per fornire liberazione e libertà, e nemmeno il potere di dare un “significato” che vada oltre una vuota metafora o codice morale. (…) L’unica maniera per arricchire il ciclo, e quindi renderlo fertile e significativo, è attraverso la manipolazione estetica” [133].


Artisti prediletti e artisti odiati

Quali sono i giudizi espressi da Haring sugli artisti del suo tempo nella seconda parte dei Diari (1986-1989)? Si è già parlato della sua personale predilezione per colleghi come Jean Dubuffet (1901-1985), Pierre Alechinsky (1927-) e Brion Gysin (1916-1986). È ovvio il suo senso di ammirazione e gratitudine per Andy Warhol (1928-1987), che considera padre spirituale e autore di un’arte “senza tempo e di consistenza monumentale” [134], come pure l’amicizia con Kenny Scharf (1958) e Jean-Michel Basquiat (1960-1958), che lo frequentano nell’East Village. Cerchiamo ora di tracciare le opinioni di Haring su altri artisti dei suoi tempi.


Niki de Saint-Phalle e Jean Tinguely

Il rapporto di Keith con Niki de Saint Phalle (1930-2002) e Jean Tinguely (1925-1991), artisti affermati già dagli anni Sessanta, è uno dei più intensi fra quelli documentati nei Diari. Coppia dagli anni Sessanta e sposati dal 1971, negli anni documentati in queste pagine Niki e Jean vivono ormai vite separate, ma sono rimasti amici: si frequentano come artisti e hanno un circolo di amici comuni. Fra questi, appunto, Keith, che, il più delle volte, li incontra separatamente.

Keith e la coppia di artisti si conoscono in realtà dal 1983. Di loro Haring parla nei Diari, per la prima volta, solo il 28 marzo 1987. Si è recato a Monaco di Baviera per assistere alla mostra dedicata a Niki alla Kunsthalle. “C’ero andato per la mostra di Niki de Saint-Phalle ma soprattutto per incontrare Jean Tinguely alla sua inaugurazione. La cosa più divertente è stata una grassa signora tedesca, in piedi di fronti alla scultura di Niki, che sembrava esattamente la grassa scultura! Jean era come al solito divertente! Molto svelto e divertente. Ha portato delle maschere al noioso pranzo e l’atmosfera è cambiata immediatamente” [135]. Le occasioni di incontro sono molteplici: il 15 giugno dello stesso anno Keith incontra Jean a Ginevra, insieme a Pierre Keller (1945-), artista e critico svizzero [136]. Sempre nel 1987 Keith fa visita a Niki a Parigi, dove la scultrice gli fa da guida non solamente nella propria casa, ricchissima di opere sia sue sia di Jean, ma anche in un bosco vicino a casa sua dove si trovano alcune delle opere di Jean. Ecco la descrizione del Ciclope, l’enorme statua a forma di testa con un occhio solo realizzata da Tinguely a partire dal 1969 e a cui ha continuato a lavorare fino alla morte. Per Keith è un’esperienza che combina gioco e sogno: “Niki ci porta nel bosco vicino a casa sua per vedere la “testa” su cui Jean e altri stanno lavorando da quindici anni. È davvero incredibile e ha effettivamente delle parti mobili. È meglio di Disneyland. Ci puoi camminare dentro e salire le scale. All’interno ci sono un teatro e un appartamento, me ne avevano mostrato alcune fotografie e desideravo vederlo (…) Niki ci porta poi a vedere la casa di Jean, dove anche lei ha vissuto. È un castello (medievale) davvero antico, con le pecore che pascolano intorno” [137].

Il legame più forte, però. è con Jean. Con lui Keith discute di tutto, tanto che la lista degli argomenti oggetto di confronto in un viaggio dall’aeroporto di Bruxelles a Knokke, nell’ottobre 1987, occupa una pagina intera. Haring pensa che Tinguely sia una persona con cui è riuscito a instaurare una profonda intesa umana ed artistica:È così figo, capisce quanto io mi intenda di calligrafia e mi dà credito per cose che altri non notano. Mi fa davvero sentire a casa. Abbiamo fatto alcuni disegni eccellenti insieme: per la maggior parte ho aggiunto qualcosa a disegni che lui aveva fatto in precedenza, ma abbiamo deciso che la prossima volta cominceremo dallo schizzo e ci divideremo equamente gli sforzi. I caratteri dei nostri disegni si integrano bene a vicenda [138].    

Fig. 27) Il manifesto della retrospettiva su Jean Tinguely tenutasi a Parigi al Centre Pompidou tra l’8 dicembre 1988 e il 27 marzo 1989

Nel febbraio 1989 Keith si reca a Parigi per vedere la retrospettiva dedicata a Tinguely al Centre Pompidou. Quel che ammira di più è la capacità di Tinguely di colpire il visitatore, ispirando in lui i sentimenti più vari. Dalle reazioni ammirate di Keith per l’arte di Jean si conferma che per Haring un aspetto imprescindibile della produzione dell’artista è la sua capacità di interloquire con il pubblico (soprattutto con i bambini).  “La mostra di Jean Tinguely è (…) davvero incredibile. Molti nuovi pezzi fatti nel 1988. È bellissimo poter vedere queste opere, dal momento che un anno e mezzo fa Jean è stato vicino alla morte. (…) È anche bellissimo vedere la reazione/partecipazione della gente a queste opere. I bambini si sentono spinti a toccarle e le fissano con stupore. Sono totalmente incantevoli e accessibili a molti livelli (…) È una mostra totalmente aggressiva. Lo spettatore è costretto alla sottomissione. È un esempio raro. La maggior parte delle mostre lo raggiunge con un permesso accordato in modo attivo dallo spettatore. Puoi ‘permettere’ di essere sedotto. Queste opere ti costringono (in ogni caso gentilmente) a vederle, sentirle e diventare parte di esse. La reazione dei bambini chiarisce quello che è il loro impatto. Ho osservato tanto i volti delle persone che guardavano, quanto le opere. È una lezione meravigliosa. Si può dire che mi sia sempre sforzato di fare così, ma ci sono arrivato solo occasionalmente. È la riconferma estrema” [139].


Fig. 28) Il poster della mostra di Jean Tinguely a Torino, tra novembre 1987 e gennaio 1988

L’attenzione di Keith si concentra poi su un singolo pezzo: C’era un pezzo del 1967 dal titolo Requiem for a dead leaf; si tratta di un’enorme macchina (una serie di carrucole, ruote, cinghie) completamente nera, costruita in modo intricato; il suo unico scopo è produrre il movimento di un pezzo di metallo bianco con attaccato una foglia morta (forse fusa). Tutto l’intero complicato meccanismo è finalizzato a questo piccolo movimento. L’opera mi ha davvero spaventato perché, tra le cose che ho visto in vita mia, è la manifestazione che più si avvicina al “sogno” che facevo continuamente sin da bambino, spesso quando avevo la febbre alta o in momenti di sconforto. È un po’ che non lo faccio, ma ricordo la sensazione di “lasciare il mio corpo” per pochi intensi momenti. (…) È la prima volta che vedo qualcosa come questa scultura che immediatamente mi riporta al mio sogno. Incredibile” [140]. Haring visiterà di nuovo la mostra il 16 marzo, uscendone ancora più soddisfatto [141]. Keith e Jean si vedranno ancora il 29 giugno  (“È venuto Jean Tinguely. È stato bellissimo come al solito.” [142) e il primo settembre 1989 (“Ho visto Jean Tinguely nel suo nuovo studio, e alla fine ho scelto una bellissima scultura per il nostro scambio. È veramente bella e arriva giusto in tempo per il mio nuovo appartamento.”) [143]. È una delle ultime pagine del diario, che si interrompe il 22 settembre (cinque mesi prima della morte).


George Condo

Uno dei grandi amici di Keith è George Condo (1957-), pittore dell’East Village di New York, molto vicino a Basquiat. Haring e Condo, in realtà, si conoscono personalmente solo in Europa. I Diari lo citano spessissimo, anche se spesso si tratta della semplice registrazione di fugaci incontri. Almeno nelle pagine che qui recensisco, i due s’incontrano per la prima volta a Monaco di Baviera nel marzo 1988, in occasione di una mostra tenutasi al locale Kunstverein [144]. Poco dopo Haring legge un’intervista del pittore pubblicata nel catalogo e rimane conquistato dalla profondità dell’artista; in particolare lo affascina l’affermazione che l’arte sia più importante della vita, perché immortale [145]. È una frase che lo colpisce, probabilmente per la brevità della sua aspettativa di vita. Keith e George si vedono di nuovo un mese dopo a Parigi, e da allora Condo diviene una delle presenze stabili di tutte le sue nottate francesi [146].  È Condo a presentarlo al figlio di Picasso, Claude (1947-), che diverrà un altro degli amici più cari del pittore. Le occasioni di incontro diventano poi talmente frequenti che non vale la pena enumerarle. L’atteggiamento di Keith è benevolo, anche quando gli capita di riferire di una terribile lite tra Condo e la moglie in un albergo di Londra che porta alla distruzione di un prezioso specchio della camera d’albergo, al ferimento della donna ed all’allagamento del bagno della stanza [147]. 

Il giorno dopo Haring va a vedere una mostra di Condo e si chiede come sia possibile che un uomo che ha distrutto una stanza e ferito la moglie possa produrre tanta bellezza. Ma il giudizio sull’amico non cambia: “Sveglia tardi. Visitata la mostra di Condo a Weddington [sic]. È proprio sorprendente. Mi piace vedere cose che riescono a spiazzarmi. È assolutamente illuminante e ti fa voglia di andare a casa a lavorare. (...) Lo spettatore si ritrova a costruire un “bel” quadro nella sua testa, partendo da un caos di forme e colori apparentemente privi di correlazione. (...) Alcuni disegni sono assolutamente ridicoli, ma, non si sa come, vengono trasformati da tutta la nostra ‘conoscenza’ e dalle idee preconcette e dai ricordi dell’ “arte” e nella nostra testa inventiamo una nuova immagine che unisce le aspettative con quello che abbiamo di fronte. George cammina su una linea molto sottile ma molto importante. (…) Il grande dipinto all’entrata (che è anche la copertina del catalogo) è notevole. Unisce una dozzina di disegni già belli in un collage di disegni e dipinti che eccede davvero la somma delle sue parti. Ciò che mi intriga sempre nei lavori di George è il modo in cui crescono su di te e continuano a cambiare. Quando li vedi, mesi dopo, ti ricordi di ciò che hai visto la prima volta e lo ricerchi, ma sei anche sopraffatto da nuovi elementi che non avevi notato la prima volta. Hanno davvero una vita propria” [148].


Francesco Clemente

Uno degli artisti di cui Keith parla con grande affetto e ammirazione nei Diari è Francesco Clemente (1952-). Haring visita la galleria di Bruno Bischofberger a Zurigo nell’ottobre 1987 per ammirare i suoi quadri esposti (Bischofberger è stato uno dei maggiori galleristi di Clemente) [149]. Ricorda con affetto la sua famiglia a New York [150]. Ne ammira il libro “India” che vede a Tokio [151]. Ne visita infine lo studio a Napoli [152]. I Diari non contengono una valutazione delle opere.


Frank Stella

Haring considera talmente importante esprimere un giudizio (sia pur negativo) sull’arte di Frank Stella, che le pagine a lui dedicate nei Diari [153] sono tra le pochissime che si riferiscono a New York. Infatti, sono parole che scrive non appena uscito dalla mostra al Museum of Modern Art, intitolata “Frank Stella: Works from 1970 to 1987.

Fig. 29) Il catalogo della retrospettiva su Frank Stella, tenutasi al MoMA di New York dal 12 ottobre 1987 al 5 gennaio 1988

La valutazione di Haring è molto precisa: l’arte di Stella è considerata fredda e troppo razionale. “Sono appena uscito dalla retrospettiva su Frank Stella (la seconda) al MoMA. Qualche osservazione: i grandi dipinti geometrici quadrati (tre metri e mezzo circa) sembrano più “pop” di tutti gli altri. Sembrano dipinti “moderni”, ma come stereotipi. Pittura moderna pura, astratta, ma più che questo sembrano la somma di un tipo di pittura piatta, a campi di colore, astratta, geometrica. Quasi una presa in giro di questo genere di pittura” [154].

Al tempo stesso, gli sembra che Stella abbia realizzato un’arte eccessiva in termini di dimensioni e troppo violenta nella scelta dei colori. “Lo spettatore è sopraffatto e annientato soltanto dalla dimensione. Colori scelti con criteri geometrici, matematici. Una specie di “scherzo” sul processo artistico. (…) Lo stile approssimativo e l’orribile combinazione di colori sembrano un tentativo di sorpassare di nuovo gli espressionisti astratti. Provare che è in grado di farlo. Dimostrare che poco importa il segno privo di senso e la scelta casuale dei colori” [155].  In realtà, quel che più urta la sensibilità di Keith è il fatto che un critico d’arte affermato come Robert Hughes (1938-2012) assegni a Stella un ruolo fondamentale nell’affermazione artistica della street art, occupando dunque un terreno che, a suo parere, appartiene invece a lui:  “mi fa infuriare che stupidi come Robert Hughes dicano che Stella fosse il solo artista capace di tradurre l’uso di colori e gesti vistosi “stile graffiti” in un lavoro artistico di successo” [156]. Ed è evidente che vi è un elemento di invidia: “Sì, questa è la seconda retrospettiva di Frank Stella al MOMA. Non hanno ancora esposta una delle mie opere. Ai loro occhi non esisto” [157].


Julian Schnabel

Tra gli artisti della sua generazione che conquistano il cuore di Keith certamente non c’è Julian Schnabel (1951-), allora conosciuto al grande pubblico soprattutto come giovane pittore d’assalto e oggi, invece, soprattutto affermato regista cinematografico. Schnabel è famoso in quegli anni per la combinazione tra pittura e uso di materiali (come, ad esempio, “cera, paglia, asciugamani, piatti rotti, sedie, utensili e costruzioni di legno” [158]) applicati su di essa. Il giudizio è impietoso: “L’arte, dopo tutto, riguarda l’immagine che ci sta di fronte, il duraturo impatto e l’effetto che l’immagine ha su di noi, non è solo l’ego di un artista la cui ossessione per se stesso impedisce di vedere il disegno più ampio. Julian Schabel non è un genio. Probabilmente non è neanche un eccellente pittore. Sono sicuro che oggi rappresenta un interesse di portata limitata e che è molto ambito per i collezionisti ed i mercanti, ma, a lungo termine, il suo contributo sarà minimo. Joseph Beuys ha già esplorato la maggior parte del territorio dell’ambigua astrazione figurativa che Julian Schnabel finge di aver inventato” [159]. Va detto che il 25 aprile 1987 Haring incontra Schnabel a Düsseldorf, in occasione di una mostra in cui quest’ultimo espone opere realizzate dal 1975 al 1986. Il giudizio, in questo caso, è molto più positivo, anche se assai breve: “Chiamo Julian Schnabel all’albergo (è nello stesso albergo) e combino di vederlo alla sua mostra. Sta allestendo una mostra al museo. Sembra buona.” [160].


La malattia e la morte

Nei confronti della malattia Keith è molto discreto. Certamente, da quando nel marzo 1987 comprende di esser stato infettato, il tono delle sue pagine si fa più tetro. In quegli anni la semplice diagnosi è sinonimo automatico di morte. Tuttavia il pittore non sembra preso dal panico: “Non sono veramente spaventato dall’AIDS. Non per me stesso. Sono spaventato dal dovere guardare tante persone morire dinanzi a me. Vedere morire Martin Burgoyne o Bobby è stata una pura agonia. Mi rifiuto di morire così. Se arriva il momento, penso che il suicidio sia molto più dignitoso e più facile per gli amici e le persone che si amano. Nessuno merita di assistere a questo genere di morte lenta. Ho sempre saputo, sin da quando ero giovane, che sarei morto giovane. Ma pensavo che sarebbe accaduto in fretta (un incidente, non una malattia). Anzi, una malattia creata dall’uomo come l’AIDS. Il tempo lo dirà, ma non sono spaventato. Vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo. Amo la vita” [161]. Certo, è molto disturbato dal fatto che a New York si diffondano periodicamente voci incontrollate sul suo stato di salute, tanto da ricevere telefonate preoccupate da amici e conoscenti nel corso dei suoi viaggi europei [162]. Man mano che le pagine passano, il rimpianto per la salute perduta si fa più forte. Il 30 aprile 1987 si dispera di non poter raggiungere i cinquant’anni: “Mi piacerebbe arrivare ad avere cinquant’anni. Immagina…sembra impossibile” [163]. Nell’ottobre dello stesso anno sogna di avere dei figli e quel pensiero lo conduce a riflettere sulla morte e quel che rimane dopo di essa: “Qualche volta mi piacerebbe davvero aver bambini miei, ma forse è meglio questo ruolo significativo che agisce su molte vite anziché su una sola. In un certo senso penso che sia la ragione per cui sono ancora vivo. A proposito di essere vivi, qualche volta Andy mi manca davvero. La gente solleva sempre l’argomento della sua assenza. Mi chiedo se sentiranno così la mia mancanza. Che pensiero egoista! Gli artisti fanno arte solo per assicurarsi l’immortalità? Alla ricerca dell’immortalità: forse questo è tutto…” [164]. Il 21 settembre 1989 parla di “nuove informazioni che ho ricevuto la settimana scorsa riguardo alla mia salute” e commenta “ho il dovere di pensare a un cambiamento per me stesso” [165]. Il giorno dopo i Diari terminano. Keith Haring muore il 16 febbraio 1990.


NOTE

[123] Haring, Keith, Diari, Traduzione di Giovanni Amadasi e Giuliana Picco, Premessa di David Hockney, Introduzione di Robert Farris Thompson, Milano, Mondadori, 2001, p.345. Citazione a pagina 206.

[124] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 148.

[125] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 190-191.

[126] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 191.

[127] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 228-229.

[128] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 228.

[129] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 206.

[130] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 148-149.

[131] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 223.

[132] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 193-194.

[133] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 194.

[134] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 144.

[135] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 145.

[136] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 183.

[137] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 203.

[138] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 220.

[139] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 285-286.

[140] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 286-287.

[141] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 314.

[142] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 328.

[143] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 333.

[144] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 145.

[145] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 146.

[146] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 156.

[147] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 304.

[148] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 304-305.

[149] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 217.

[150] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 218.

[151] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 234.

[152] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 335.

[153] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 251-255.

[154] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 251.

[155] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 251-252.

[156] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 253.

[157] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 254.

[158] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 144.

[159] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 145.

[160] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 152.

[161] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 147.

[162] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 158 e 176.

[163] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 157.

[164] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 218-219.

[165] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 337.






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