Keith Haring
Diari
Traduzione di Giovanni Amadasi e Giuliana Picco
Premessa di David Hockney
Introduzione di Robert Farris Thompson
Diari
Traduzione di Giovanni Amadasi e Giuliana Picco
Premessa di David Hockney
Introduzione di Robert Farris Thompson
Milano, Mondadori, 2001, p.345
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Quarta
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Quarta
[Versione originale: gennaio 2019 - Nuova versione: aprile 2019]
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Keith Haring e l'impegno politico
L’immagine
che possiamo trarre dai Diari di
Keith Haring non sarebbe completa se non facessimo riferimento alle sue pagine
più politiche. Vale sempre la
raccomandazione più volte ripetuta nel corso di questa recensione: Keith non fu certo un Gandhi oppure un Martin
Luther King; la sua testimonianza e l’adesione a battaglie civili rimasero
sempre su base individuale e i suoi messaggi si tradussero in forme
iconografiche, e non dialogiche di protesta. Va ricordato peraltro che quelli
in cui vive Haring cominciano a essere ‘gli anni del riflusso’. L’artista vive
comunque nella New York dell’East Village, in cui l’impegno politico è norma;
ricorda, ad esempio, di aver partecipato giovanissimo alla “Nova Convention”,
un evento durante il quale moltissimi artisti americani si riunirono a New York
nel 1979 per dar forza a una serie di battaglie civili, tanto che, secondo
quanto scrive la “Nova Convention mi aveva cambiato la vita” [123]. Tuttavia la società, più in generale, inizia
a manifestare stanchezza per l’impegno
pubblico e tende a rifugiarsi nel privato. Ad ogni modo, Haring fu certamente
artista impegnato, ma non credo si possa parlarne come di un artista
pienamente politico.
Uno
degli aspetti più ambigui della sua persona è il rapporto con la ricchezza. Da
un lato, nella seconda parte dei Diari diviene
evidente come il giovane pittore (solo qualche anno prima studente senza molti
mezzi economici) debba sostenere il peso del successo, frequentando e vivendo
in ambienti contraddistinti dall’esibizione del lusso. Dall’altro, nelle pagine
dei Diari di quegli stessi anni, si
trovano frequenti riferimenti critici all’applicazione del modello di società
capitalista al mondo dell’arte (“L’intero
concetto di ‘business’ è malvagio. (…)
Business è solo un sinonimo di controllo. Controllo della mente, del
corpo e dello spirito. Il controllo è cattivo.” [124]).
Il
modo con cui Keith cerca di conciliare le due cose è quello di accettare di far
parte di un mondo dominato dal consumo commerciale, pur cercando di evitarne
gli aspetti più eccessivi. Ad esempio, sulla traccia degli artisti della Pop
Art, Haring cerca anch’egli di creare canali di mercato che permettano di
vendere le sue opere d’arte a prezzo accessibile a tutti. Egli stesso si rende
conto di quanto il risultato possa essere ambiguo: anche la sua arte più
politica può, infatti, essere mercificata: “Dà
davvero soddisfazione fare le cose ed è davvero appagante vedere la risposta
della gente, ma il resto è difficile. Ho cercato, per quanto ho potuto, di
prendere una posizione nuova, un atteggiamento diverso riguardo alla vendita
dei quadri, facendo le cose in pubblico e facendo pubblicità che vanno contro
l’idea del mercato dell’arte come ‘promozione della merce’. Comunque, anche
queste cose vengono assorbite e viste da alcuni come mera pubblicità per la
vendita dei miei lavori. Temo che non ci sia via d’uscita da questa trappola.
Una volta che si comincia a vendere (qualunque cosa) si è colpevoli di
partecipare al gioco. Però se si rifiuta di vendere si è una non-entità”
[125]. Il problema è oggettivo (un filosofo scriverebbe
ontologico) e va ben al di là delle intenzioni dell’artista, perché dipende
dall’attribuzione di un valore economico a qualsiasi oggetto, nel momento
stesso in cui viene prodotto: “È
impossibile separare l’attività dal risultato. L’atto stesso della creazione è
molto chiaro e puro. Ma questa creazione ha come risultato immediato una ‘cosa’
che ha un ‘valore’ che deve essere tenuto in considerazione. Anche i disegni
nella metropolitana, che abbastanza ovviamente erano sull’ ‘atto’ non sulla ‘cosa’ , adesso vengono scoperti, dopo essere
stati ‘salvati’ dalla distruzione da
sedicenti collezionisti. Forse solo i murali sui muri di cemento, che non
possono essere rimossi, e i disegni al computer, che possono essere liberamente
riadattati, sono esenti da queste considerazioni” [126].
Uno
degli aspetti che l’artista dimostra di conoscere per esperienza diretta è
quello del funzionamento speculativo del mercato dell’arte. Haring è cosciente
dei meccanismi tramite cui i critici identificano giovani artisti sconosciuti,
creano l’attenzione embrionale del mercato e sollecitano l’interesse dei
galleristi. In tal modo i giovani artisti si rendono conto di poter iniziare a
far piccoli guadagni, comprano nuovi materiali, aumentano la produzione,
incontrano la domanda del pubblico e cominciano a divenire conosciuti, anche se
non ancora famosi. È un processo che Keith descrive nel dettaglio [127], non
mancando di sottolineare che porta anche alla separazione fra artista e
frequentazioni dei suoi circoli iniziali, che ormai non lo considerano più uno
di loro, ma una parte – anche se ancora molto marginale – di quel mercato che
essi generalmente disprezzano. “Più
vendi, più cresce la domanda delle tue opere, attraverso il passaparola, da
parte delle persone che le ‘collezionano’. Molte persone cominciano a pensare a
te come un investimento rischioso, ma sempre un investimento. Dal momento che i
lavori sono ancora poco costosi, possono permettersi questo piccolo rischio” [128]. Crescono le quotazioni, gli articoli
dei critici e le citazioni nei media si moltiplicano, e nasce la bolla
speculativa: i quadri vengono battuti alle aste, perché i primi investitori
(quelli specializzati nel fare emergere nuovi artisti, solo alcuni dei quali si
imporranno però nel mercato) vogliono realizzare i guadagni prima che possano
sfumare, e altri invece si affrettano a comprare a prezzi ancora bassi,
pensando ai guadagni futuri. Perché tuttavia tali guadagni su opere passate si
possano realizzare occorre che l’artista non ecceda con la realizzazione di
nuove opere; la sua preoccupazione principale diviene quella di assicurare un
equilibrio di mercato tra produzione passata e produzione futura. L’artista
stesso diviene a quel punto un agente speculatore. È davvero interessante come
le pagine di Haring coincidano perfettamente con quelle che la storica dell’arte americana Grete Ring (1887-1952) scrive nel 1931 per descrivere il
funzionamento del mercato dell’arte a Parigi (anch’esso dominato dal gioco
speculativo tra commercianti che sono specializzati nel lanciare nuovi talenti,
sulla riva sinistra della Senna, e commercianti che vogliono trarre invece
guadagni dalla loro affermazione sul mercato, sulla riva destra della Senna). A sessant’anni di distanza, le cose, a Parigi prima e a
New York poi, funzionano allo stesso modo.
Fig. 16) Il poster della mostra su Keith Haring tenutasi alla Pinacoteca Nazionale di Bologna nel gennaio-febbraio 2018
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Tornando
all’attivismo civile del pittore, è noto che Haring è divenuto una delle icone
della lotta per la libertà e l’integrazione delle comunità omosessuali, anche
grazie al suo impegno contro il diffondersi dell’epidemia dell’AIDS, che lo ha
visto realizzare moltissime immagini a favore del sesso sicuro e protetto. Sono
famose le foto che lo ritraggono a Kansas City insieme a una serie di
intellettuali, nel settembre 1987, in una protesta contro la diffusione
dell’AIDS, con una maglietta che reca la scritta “L’AIDS è il germe della guerra politico-biologica” [129]. Haring
aderisce, infatti, alle tesi ‘complottiste’ sulla diffusione della malattia: in
quegli anni si diffonde infatti l’idea che il virus non sia il risultato della
mutazione di una malattia originariamente diffusa tra i primati in Africa, ma
il risultato di un processo di laboratorio, sfuggito di mano agli scienziati,
originariamente portato avanti per preparare la guerra anche attraverso la
creazione di virus e batteri destinati a infliggere predite gravissime ai
nemici. Un’ulteriore affermazione che è sostenuta dai complottisti vuole che
l’AIDS, una volta generato in provetta, sia stato disseminato volutamente negli
Stati Uniti, a partire dalla California, per sterminare la comunità gay, che lì
aveva appena affermato i suoi diritti nel decennio precedente.
La lotta contro
la malattia, la battaglia per la rivendicazione di una sessualità libera
s’intrecciano peraltro, nel caso di Haring, con il più ampio fenomeno
dell’oppressione di tutte le minoranze. Ecco ciò che Keith scrive quando viene
a sapere che tutti gli imputati per l’uccisione di un artista di strada di
colore, il graffitista Michael Stewart (1958–1983), morto nelle mani della
polizia dopo essere arrestato mentre cercava di dipingere per strada, sono
stati assolti. Sono parole piene di rabbia e frustrazione: “La maggior parte dei bianchi è cattiva.
L’uomo bianco ha sempre usato la religione come un mezzo per soddisfare la
propria cupidigia e il potere-fame di aggressione (…) Tutte le storie dell’
‘espansione’ e ‘colonizzazione’ e ‘dominazione’ dell’uomo bianco sono piene di
spaventosi episodi di abusi di potere e maltrattamento di persone. Sono sicuro
di non essere bianco dentro. Comunque, non c’è modo di fermarli. Sono sicuro
che il nostro destino sia il fallimento. La fine è inevitabile. Così a chi importa
se questi maiali mi uccidono con la loro malattia, hanno ucciso prima e
continueranno a uccidere fino a quando non saranno risucchiati nelle loro tombe
malvagie e marciranno e puzzeranno ed esploderanno nell’oblio. Mi fa piacere
essere diverso. Sono fiero di essere gay. Sono fiero di avere amici ed amanti
di ogni colore. Mi vergogno dei miei antenati. Io non sono come loro” [130].
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Fig. 26) L’invito all’inaugurazione della mostra “Made in New York” su Keith Haring a Firenze, tenutasi il 25 ottobre 2017. |
Keith
è convinto, quindi, di vivere in un mondo mercificato e fondamentalmente
cattivo; in un quadro così cupo, uno degli aspetti che lo confortano è il fatto
di essere riuscito a realizzare molte opere in luoghi pubblici, in modo tale
renderli fruibili immediatamente alle persone buone (prime fra tutte i
bambini). È quest’idea del contatto diretto ed immediato con il pubblico che ha
reso forse più politica la sua arte di quanto non siano (con alcune eccezioni)
i contenuti della medesima: “La maggior
parte di questi dipinti sono collocati in posti pubblici (cioè scuole,
ospedali, piscine, parchi, ecc..) e molto raramente qualcuno di essi suscita
una reazione negativa. In effetti ho trovato il pubblico abbastanza pronto ad
accettare e apprezzare il mio lavoro, mentre i borghesi e il ‘mondo della
critica d’arte’ sono molto meno ricettivi e si sentono ‘al di sopra’ ”
[131].
Che cosa significa essere artista
Si
è già visto nella prima parte dei Diari che
Keith s’interroga sul significato dell’attività dell’artista. Nell’estate del 1987, nelle settimane
trascorse serenamente a Knokke, dimenticando forse la malattia e il presagio
della morte, Haring si pone di nuovo gli stessi interrogativi, cercando di
definire forze e debolezze del proprio mestiere. L’artista cambia il mondo, non
è un puro esteta; è proprio grazie alla produzione di bellezza che egli ha una
capacità superiore di capire le cose e mettersi in contatto con la realtà. Sono
pagine molto belle, ispirate da un senso di soddisfazione raro in quegli anni,
e che val la pena leggere come testimonianza di un artista che assegna al
proprio lavoro un senso superiore a quello della semplice produzione di beni di
consumo. In queste pagine, Keith si pone
in linea di continuità con un’intera tradizione di letteratura artistica che,
dal secondo Cinquecento in poi, afferma la nobiltà dell’arte. “In qualche punto di codesto scritto giace
l’importanza di essere artista. Gli artisti aiutano il mondo ad andare avanti e
allo stesso tempo rendono la transizione più agevole e più comprensibile.
Spesso è difficile isolare l’effetto concreto degli artisti sul mondo fisico
della “realtà”: il loro effetto fa parte sia della realtà sia
dell’interpretazione o esperienza della “realtà” stessa. Vediamo come ci è
stato insegnato a “vedere” e facciamo esperienze come ci è stato “mostrato” che si fa esperienza. Ogni nuova creazione diventa parte di una
interpretazione/definizione della “cosa” che verrà dopo e allo stesso tempo
diventa una sorta di somma delle cose che l’hanno preceduta. Questo costante
flusso viene registrato nel tempo dagli eventi e all’interno degli eventi dalle
“cose” che popolano, definiscono e compongono gli stessi. Dal momento che
l’artista le crea, è responsabile di queste “cose”. Devono essere costruite con
attenzione e considerazione (estetica) dal momento che le “cose”, da sole,
daranno “significato” e “valore” agli eventi e di conseguenza alle nostre vite.
Con il termine “artisti”, non intendo solo pittori, scultori, musicisti e
scrittori, drammaturghi e ballerini, ecc.., ma tutte le specie di artisti che prestano il loro lavoro: carpentieri,
idraulici, progettisti, cuochi, fioristi, muratori, ecc. Ogni decisione è
dopotutto una decisione estetica con cui si cambiano, sistemano, creano,
distruggono e immaginano “cose”.” [132]. Dunque la definizione di arte,
nella sua nobiltà, è tanto ampia da nobilitare anche il carpentiere.
L’universalità
dell’arte, qui intesa nel senso che ogni attività umana ha la capacità di
creare nuove realtà, e dunque di avviare un ciclo di innovazione del mondo
fisico, può essere pienamente intesa, secondo Keith, solo sottraendosi ai vincoli
della vita moderna. Qui vengono ripresi indirettamente i miti del buon
selvaggio così come quelli che assegnano all’arte un senso religioso. In fondo,
questa pagina rivela la dipendenza culturale di Haring (e probabilmente
dell’ambiente dell’East Village) dal romanticismo ottocentesco. “Le cosiddette culture “primitive”
comprendevano l’importanza di applicare questo concetto a ogni aspetto della
loro vita, il che aiutava a creare un’esistenza molto ricca, significativa, in
totale armonia con la “realtà” fisica
del mondo. L’uomo contemporaneo, con la sua fede cieca nella scienza e nel
progresso, confuso senza speranza dalla politica del denaro e dall’avarizia e dall’abuso
di potere, deluso da ciò che “sembra” essere il suo “controllo” della
situazione, ecc, crede nella propria “superiorità” sull’ambiente e sugli altri
animali. Ha perduto il contatto con il concetto di scopo o significato
dell’umanità. La maggior parte delle religioni è così ipocritamente superata e
conforme ai problemi particolari dei tempi antichi, da non avere energia per
fornire liberazione e libertà, e nemmeno il potere di dare un “significato” che
vada oltre una vuota metafora o codice morale. (…) L’unica maniera per
arricchire il ciclo, e quindi renderlo fertile e significativo, è attraverso la
manipolazione estetica” [133].
Artisti prediletti e artisti odiati
Quali
sono i giudizi espressi da Haring sugli artisti del suo tempo nella seconda
parte dei Diari (1986-1989)? Si è già
parlato della sua personale predilezione per colleghi come Jean Dubuffet (1901-1985),
Pierre Alechinsky (1927-) e Brion Gysin (1916-1986). È ovvio il suo senso di
ammirazione e gratitudine per Andy Warhol (1928-1987), che considera padre
spirituale e autore di un’arte “senza
tempo e di consistenza monumentale” [134], come pure l’amicizia con Kenny Scharf (1958) e Jean-Michel Basquiat (1960-1958), che lo frequentano
nell’East Village. Cerchiamo ora di tracciare le opinioni di Haring su altri
artisti dei suoi tempi.
Niki de Saint-Phalle e Jean Tinguely
Il
rapporto di Keith con Niki de Saint Phalle (1930-2002) e Jean Tinguely
(1925-1991), artisti affermati già dagli anni Sessanta, è uno dei più intensi
fra quelli documentati nei Diari.
Coppia dagli anni Sessanta e sposati dal 1971, negli anni documentati in queste
pagine Niki e Jean vivono ormai vite separate, ma sono rimasti amici: si
frequentano come artisti e hanno un circolo di amici comuni. Fra questi,
appunto, Keith, che, il più delle volte, li incontra separatamente.
Keith
e la coppia di artisti si conoscono in realtà dal 1983. Di loro Haring parla
nei Diari, per la prima volta, solo
il 28 marzo 1987. Si è recato a Monaco di Baviera per assistere alla mostra
dedicata a Niki alla Kunsthalle. “C’ero
andato per la mostra di Niki de Saint-Phalle ma soprattutto per incontrare Jean
Tinguely alla sua inaugurazione. La cosa più divertente è stata una grassa
signora tedesca, in piedi di fronti alla scultura di Niki, che sembrava
esattamente la grassa scultura! Jean era come al solito divertente! Molto
svelto e divertente. Ha portato delle maschere al noioso pranzo e l’atmosfera è
cambiata immediatamente” [135]. Le occasioni di incontro
sono molteplici: il 15 giugno dello stesso anno Keith incontra Jean a Ginevra,
insieme a Pierre Keller (1945-), artista e critico svizzero [136]. Sempre nel
1987 Keith fa visita a Niki a Parigi, dove la scultrice gli fa da guida non
solamente nella propria casa, ricchissima di opere sia sue sia di Jean, ma
anche in un bosco vicino a casa sua dove si trovano alcune delle opere di Jean.
Ecco la descrizione del Ciclope,
l’enorme statua a forma di testa con un occhio solo realizzata da Tinguely a
partire dal 1969 e a cui ha continuato a lavorare fino alla morte. Per Keith è
un’esperienza che combina gioco e sogno: “Niki
ci porta nel bosco vicino a casa sua per vedere la “testa” su cui Jean e altri
stanno lavorando da quindici anni. È davvero incredibile e ha
effettivamente delle parti mobili. È meglio di Disneyland. Ci puoi camminare
dentro e salire le scale. All’interno ci sono un teatro e un appartamento, me
ne avevano mostrato alcune fotografie e desideravo vederlo (…) Niki ci porta
poi a vedere la casa di Jean, dove anche lei ha vissuto. È un castello
(medievale) davvero antico, con le pecore che pascolano intorno” [137].
Il
legame più forte, però. è con Jean. Con lui Keith discute di tutto, tanto che
la lista degli argomenti oggetto di confronto in un viaggio dall’aeroporto di
Bruxelles a Knokke, nell’ottobre 1987, occupa una pagina intera. Haring pensa
che Tinguely sia una persona con cui è riuscito a instaurare una profonda
intesa umana ed artistica: “È così figo, capisce quanto io mi
intenda di calligrafia e mi dà credito per cose che altri non notano. Mi fa
davvero sentire a casa. Abbiamo fatto alcuni disegni eccellenti insieme: per la
maggior parte ho aggiunto qualcosa a disegni che lui aveva fatto in precedenza,
ma abbiamo deciso che la prossima volta cominceremo dallo schizzo e ci
divideremo equamente gli sforzi. I caratteri dei nostri disegni si integrano
bene a vicenda” [138].
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Fig. 27) Il manifesto della retrospettiva su Jean Tinguely tenutasi a Parigi al Centre Pompidou tra l’8 dicembre 1988 e il 27 marzo 1989 |
Nel
febbraio 1989 Keith si reca a Parigi per vedere la retrospettiva dedicata a
Tinguely al Centre Pompidou. Quel che ammira di più è la capacità di Tinguely
di colpire il visitatore, ispirando in lui i sentimenti più vari. Dalle
reazioni ammirate di Keith per l’arte di Jean si conferma che per Haring un
aspetto imprescindibile della produzione dell’artista è la sua capacità di
interloquire con il pubblico (soprattutto con i bambini). “La
mostra di Jean Tinguely è (…) davvero incredibile. Molti nuovi pezzi fatti nel
1988. È bellissimo poter vedere queste opere, dal momento che un anno e mezzo
fa Jean è stato vicino alla morte. (…) È anche bellissimo vedere la
reazione/partecipazione della gente a queste opere. I bambini si sentono spinti
a toccarle e le fissano con stupore. Sono totalmente incantevoli e accessibili
a molti livelli (…) È una mostra totalmente aggressiva. Lo spettatore è costretto alla sottomissione. È un esempio raro. La
maggior parte delle mostre lo raggiunge con un permesso accordato in modo
attivo dallo spettatore. Puoi ‘permettere’ di essere sedotto. Queste opere ti
costringono (in ogni caso gentilmente) a vederle, sentirle e diventare parte di
esse. La reazione dei bambini chiarisce quello che è il loro impatto. Ho
osservato tanto i volti delle persone che guardavano, quanto le opere. È una
lezione meravigliosa. Si può dire che mi sia sempre sforzato di fare così, ma
ci sono arrivato solo occasionalmente. È la riconferma estrema” [139].
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Fig. 28) Il poster della mostra di Jean Tinguely a Torino, tra novembre 1987 e gennaio 1988 |
L’attenzione
di Keith si concentra poi su un singolo pezzo: “C’era un pezzo del 1967 dal titolo Requiem for a dead leaf; si tratta di un’enorme macchina (una serie
di carrucole, ruote, cinghie) completamente nera, costruita in modo intricato;
il suo unico scopo è produrre il movimento di un pezzo di metallo bianco con
attaccato una foglia morta (forse fusa). Tutto l’intero complicato meccanismo è
finalizzato a questo piccolo movimento. L’opera mi ha davvero spaventato
perché, tra le cose che ho visto in vita mia, è la manifestazione che più si
avvicina al “sogno” che facevo continuamente sin da bambino, spesso quando
avevo la febbre alta o in momenti di sconforto. È un po’ che non lo faccio, ma ricordo
la sensazione di “lasciare il mio corpo” per pochi intensi momenti. (…) È la
prima volta che vedo qualcosa come questa scultura che immediatamente mi
riporta al mio sogno. Incredibile” [140]. Haring
visiterà di nuovo la mostra il 16 marzo, uscendone ancora più soddisfatto
[141]. Keith e Jean si vedranno ancora il 29 giugno (“È
venuto Jean Tinguely. È stato bellissimo come al solito.” [142) e il primo
settembre 1989 (“Ho visto Jean Tinguely
nel suo nuovo studio, e alla fine ho scelto una bellissima scultura per il
nostro scambio. È veramente bella e arriva giusto in tempo per il mio nuovo
appartamento.”) [143]. È una delle ultime pagine del diario, che si
interrompe il 22 settembre (cinque mesi prima della morte).
George Condo
Uno
dei grandi amici di Keith è George Condo (1957-), pittore dell’East Village di
New York, molto vicino a Basquiat. Haring e Condo, in realtà, si conoscono
personalmente solo in Europa. I Diari
lo citano spessissimo, anche se spesso si tratta della semplice registrazione
di fugaci incontri. Almeno nelle pagine che qui recensisco, i due s’incontrano
per la prima volta a Monaco di Baviera nel marzo 1988, in occasione di una
mostra tenutasi al locale Kunstverein
[144]. Poco dopo Haring legge un’intervista del pittore pubblicata nel catalogo
e rimane conquistato dalla profondità dell’artista; in particolare lo affascina
l’affermazione che l’arte sia più importante della vita, perché immortale
[145]. È una frase che lo colpisce, probabilmente per la brevità della sua
aspettativa di vita. Keith e George si vedono di nuovo un mese dopo a Parigi, e
da allora Condo diviene una delle presenze stabili di tutte le sue nottate
francesi [146]. È Condo a presentarlo al
figlio di Picasso, Claude (1947-), che diverrà un altro degli amici più cari
del pittore. Le occasioni di incontro diventano poi talmente frequenti che non
vale la pena enumerarle. L’atteggiamento di Keith è benevolo, anche quando gli
capita di riferire di una terribile lite tra Condo e la moglie in un albergo di
Londra che porta alla distruzione di un prezioso specchio della camera
d’albergo, al ferimento della donna ed all’allagamento del bagno della stanza
[147].
Il
giorno dopo Haring va a vedere una mostra di Condo e si chiede come sia
possibile che un uomo che ha distrutto una stanza e ferito la moglie possa
produrre tanta bellezza. Ma il giudizio sull’amico non cambia: “Sveglia tardi. Visitata la mostra di Condo a
Weddington [sic]. È proprio sorprendente. Mi piace vedere cose che riescono a
spiazzarmi. È assolutamente illuminante e ti fa voglia di andare a casa a
lavorare. (...) Lo spettatore si ritrova a costruire un “bel” quadro nella sua
testa, partendo da un caos di forme e colori apparentemente privi di
correlazione. (...) Alcuni disegni sono assolutamente ridicoli, ma, non si sa
come, vengono trasformati da tutta la nostra ‘conoscenza’ e dalle idee
preconcette e dai ricordi dell’
“arte” e nella nostra testa inventiamo una nuova immagine che unisce le
aspettative con quello che abbiamo di fronte. George cammina su una linea molto
sottile ma molto importante. (…) Il grande dipinto all’entrata (che è anche la
copertina del catalogo) è notevole. Unisce una dozzina di disegni già belli in
un collage di disegni e dipinti che eccede davvero la somma delle sue parti.
Ciò che mi intriga sempre nei lavori di George è il modo in cui crescono su di
te e continuano a cambiare. Quando li vedi, mesi dopo, ti ricordi di ciò che
hai visto la prima volta e lo ricerchi, ma sei anche sopraffatto da nuovi
elementi che non avevi notato la prima volta. Hanno davvero una vita propria” [148].
Francesco Clemente
Uno
degli artisti di cui Keith parla con grande affetto e ammirazione nei Diari è Francesco Clemente (1952-).
Haring visita la galleria di Bruno Bischofberger a Zurigo nell’ottobre 1987 per
ammirare i suoi quadri esposti (Bischofberger è stato uno dei maggiori
galleristi di Clemente) [149]. Ricorda con affetto la sua famiglia a New York
[150]. Ne ammira il libro “India” che vede a Tokio [151]. Ne visita infine lo
studio a Napoli [152]. I Diari non
contengono una valutazione delle opere.
Frank Stella
Haring
considera talmente importante esprimere un giudizio (sia pur negativo)
sull’arte di Frank Stella, che le pagine a lui dedicate nei Diari [153] sono tra le pochissime che si riferiscono a New York. Infatti,
sono parole che scrive non appena uscito dalla mostra al Museum of Modern Art, intitolata “Frank Stella: Works from 1970 to 1987.”
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Fig. 29) Il catalogo della retrospettiva su Frank Stella, tenutasi al MoMA di New York dal 12 ottobre 1987 al 5 gennaio 1988 |
La
valutazione di Haring è molto precisa: l’arte di Stella è considerata fredda e
troppo razionale. “Sono appena uscito
dalla retrospettiva su Frank Stella (la seconda) al MoMA. Qualche osservazione: i grandi dipinti geometrici quadrati (tre metri e mezzo circa) sembrano più
“pop” di tutti gli altri. Sembrano dipinti “moderni”, ma come stereotipi.
Pittura moderna pura, astratta, ma più che questo sembrano la somma di un tipo
di pittura piatta, a campi di colore, astratta, geometrica. Quasi una presa in
giro di questo genere di pittura” [154].
Al
tempo stesso, gli sembra che Stella abbia realizzato un’arte eccessiva in
termini di dimensioni e troppo violenta nella scelta dei colori. “Lo spettatore è sopraffatto e annientato
soltanto dalla dimensione. Colori scelti con criteri geometrici, matematici.
Una specie di “scherzo” sul processo artistico. (…) Lo stile approssimativo e
l’orribile combinazione di colori sembrano un tentativo di sorpassare di nuovo
gli espressionisti astratti. Provare che è in grado di farlo. Dimostrare che
poco importa il segno privo di senso e la scelta casuale dei colori” [155].
In
realtà, quel che più urta la sensibilità di Keith è il fatto che un critico
d’arte affermato come Robert Hughes (1938-2012) assegni a Stella un ruolo
fondamentale nell’affermazione artistica della street art, occupando dunque un terreno che, a suo parere, appartiene
invece a lui: “mi fa infuriare che stupidi come Robert Hughes dicano che Stella fosse
il solo artista capace di tradurre l’uso di colori e gesti vistosi “stile
graffiti” in un lavoro artistico di successo” [156]. Ed è evidente che vi è un elemento di invidia: “Sì, questa è la seconda retrospettiva di
Frank Stella al MOMA. Non hanno ancora esposta una delle mie opere. Ai loro
occhi non esisto” [157].
Julian Schnabel
Tra
gli artisti della sua generazione che conquistano il cuore di Keith certamente
non c’è Julian Schnabel (1951-), allora conosciuto al grande pubblico
soprattutto come giovane pittore d’assalto e oggi, invece, soprattutto affermato regista cinematografico. Schnabel è famoso in quegli anni per la
combinazione tra pittura e uso di materiali (come, ad esempio, “cera, paglia, asciugamani, piatti rotti,
sedie, utensili e costruzioni di legno” [158]) applicati su di essa. Il
giudizio è impietoso: “L’arte, dopo
tutto, riguarda l’immagine che ci sta di fronte, il duraturo impatto e
l’effetto che l’immagine ha su di noi, non è solo l’ego di un artista la cui
ossessione per se stesso impedisce di vedere il disegno più ampio. Julian
Schabel non è un genio. Probabilmente non è neanche un eccellente pittore. Sono
sicuro che oggi rappresenta un interesse di portata limitata e che è molto
ambito per i collezionisti ed i mercanti, ma, a lungo termine, il suo
contributo sarà minimo. Joseph Beuys ha già esplorato la maggior parte del
territorio dell’ambigua astrazione figurativa che Julian Schnabel finge di aver
inventato” [159]. Va detto che il 25 aprile
1987 Haring incontra Schnabel a Düsseldorf, in occasione di una mostra in cui
quest’ultimo espone opere realizzate dal 1975 al 1986. Il giudizio, in questo
caso, è molto più positivo, anche se assai breve: “Chiamo Julian Schnabel all’albergo (è nello stesso albergo) e combino
di vederlo alla sua mostra. Sta allestendo una mostra al museo. Sembra buona.”
[160].
La malattia e la morte
Nei confronti della malattia Keith è molto discreto. Certamente, da quando nel marzo 1987 comprende di esser stato infettato, il tono delle sue pagine si fa più tetro. In quegli anni la semplice diagnosi è sinonimo automatico di morte. Tuttavia il pittore non sembra preso dal panico: “Non sono veramente spaventato dall’AIDS. Non per me stesso. Sono spaventato dal dovere guardare tante persone morire dinanzi a me. Vedere morire Martin Burgoyne o Bobby è stata una pura agonia. Mi rifiuto di morire così. Se arriva il momento, penso che il suicidio sia molto più dignitoso e più facile per gli amici e le persone che si amano. Nessuno merita di assistere a questo genere di morte lenta. Ho sempre saputo, sin da quando ero giovane, che sarei morto giovane. Ma pensavo che sarebbe accaduto in fretta (un incidente, non una malattia). Anzi, una malattia creata dall’uomo come l’AIDS. Il tempo lo dirà, ma non sono spaventato. Vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo. Amo la vita” [161]. Certo, è molto disturbato dal fatto che a New York si diffondano periodicamente voci incontrollate sul suo stato di salute, tanto da ricevere telefonate preoccupate da amici e conoscenti nel corso dei suoi viaggi europei [162]. Man mano che le pagine passano, il rimpianto per la salute perduta si fa più forte. Il 30 aprile 1987 si dispera di non poter raggiungere i cinquant’anni: “Mi piacerebbe arrivare ad avere cinquant’anni. Immagina…sembra impossibile” [163]. Nell’ottobre dello stesso anno sogna di avere dei figli e quel pensiero lo conduce a riflettere sulla morte e quel che rimane dopo di essa: “Qualche volta mi piacerebbe davvero aver bambini miei, ma forse è meglio questo ruolo significativo che agisce su molte vite anziché su una sola. In un certo senso penso che sia la ragione per cui sono ancora vivo. A proposito di essere vivi, qualche volta Andy mi manca davvero. La gente solleva sempre l’argomento della sua assenza. Mi chiedo se sentiranno così la mia mancanza. Che pensiero egoista! Gli artisti fanno arte solo per assicurarsi l’immortalità? Alla ricerca dell’immortalità: forse questo è tutto…” [164]. Il 21 settembre 1989 parla di “nuove informazioni che ho ricevuto la settimana scorsa riguardo alla mia salute” e commenta “ho il dovere di pensare a un cambiamento per me stesso” [165]. Il giorno dopo i Diari terminano. Keith Haring muore il 16 febbraio 1990.
Nei confronti della malattia Keith è molto discreto. Certamente, da quando nel marzo 1987 comprende di esser stato infettato, il tono delle sue pagine si fa più tetro. In quegli anni la semplice diagnosi è sinonimo automatico di morte. Tuttavia il pittore non sembra preso dal panico: “Non sono veramente spaventato dall’AIDS. Non per me stesso. Sono spaventato dal dovere guardare tante persone morire dinanzi a me. Vedere morire Martin Burgoyne o Bobby è stata una pura agonia. Mi rifiuto di morire così. Se arriva il momento, penso che il suicidio sia molto più dignitoso e più facile per gli amici e le persone che si amano. Nessuno merita di assistere a questo genere di morte lenta. Ho sempre saputo, sin da quando ero giovane, che sarei morto giovane. Ma pensavo che sarebbe accaduto in fretta (un incidente, non una malattia). Anzi, una malattia creata dall’uomo come l’AIDS. Il tempo lo dirà, ma non sono spaventato. Vivo ogni giorno come se fosse l’ultimo. Amo la vita” [161]. Certo, è molto disturbato dal fatto che a New York si diffondano periodicamente voci incontrollate sul suo stato di salute, tanto da ricevere telefonate preoccupate da amici e conoscenti nel corso dei suoi viaggi europei [162]. Man mano che le pagine passano, il rimpianto per la salute perduta si fa più forte. Il 30 aprile 1987 si dispera di non poter raggiungere i cinquant’anni: “Mi piacerebbe arrivare ad avere cinquant’anni. Immagina…sembra impossibile” [163]. Nell’ottobre dello stesso anno sogna di avere dei figli e quel pensiero lo conduce a riflettere sulla morte e quel che rimane dopo di essa: “Qualche volta mi piacerebbe davvero aver bambini miei, ma forse è meglio questo ruolo significativo che agisce su molte vite anziché su una sola. In un certo senso penso che sia la ragione per cui sono ancora vivo. A proposito di essere vivi, qualche volta Andy mi manca davvero. La gente solleva sempre l’argomento della sua assenza. Mi chiedo se sentiranno così la mia mancanza. Che pensiero egoista! Gli artisti fanno arte solo per assicurarsi l’immortalità? Alla ricerca dell’immortalità: forse questo è tutto…” [164]. Il 21 settembre 1989 parla di “nuove informazioni che ho ricevuto la settimana scorsa riguardo alla mia salute” e commenta “ho il dovere di pensare a un cambiamento per me stesso” [165]. Il giorno dopo i Diari terminano. Keith Haring muore il 16 febbraio 1990.
NOTE
[124] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 148.
[125] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 190-191.
[126] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 191.
[127] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 228-229.
[128] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 228.
[129] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 206.
[130] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 148-149.
[131] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 223.
[132] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 193-194.
[133] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 194.
[134] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 144.
[135] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 145.
[136] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 183.
[137] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 203.
[138] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 220.
[139] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 285-286.
[140] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 286-287.
[141] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 314.
[142] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 328.
[143] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 333.
[144] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 145.
[145] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 146.
[146] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 156.
[147] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 304.
[148] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 304-305.
[149] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 217.
[150] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 218.
[151] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 234.
[152] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 335.
[153] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 251-255.
[154] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 251.
[155] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 251-252.
[156] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 253.
[157] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 254.
[158] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 144.
[159] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 145.
[160] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 152.
[161] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 147.
[162] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 158 e 176.
[163] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 157.
[164] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 218-219.
[165] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 337.
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