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lunedì 29 maggio 2017

Florent Fels, Propos d'Artistes [I propositi degli artisti]. Parte seconda


English Version

Storia delle antologie di letteratura artistica

Florent Fels, 
Propos d'Artistes [I propositi degli artisti]
Parigi, La Renaissance du livre, 1925, 215.

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda

[Versione originale: maggio 2017 - Nuova versione: aprile 2019]  

Fig. 14) Florent Fels, Maurice de Vlaminck, La vita e l’artista, 1928.
Sulla copertina, l’autoritratto con pipa del pittore, datato 1920.


È difficile, nonché contrario alla filosofia anarco-individualista dell’autore, trarre conclusioni unitarie dalla lettura di una raccolta che vuole invece (come già spiegato nella prima parte di questo post) offrire un’immagine della diversità di motivazioni e argomenti degli artisti contemporanei. Tuttavia mi sembra che un tentativo sia indispensabile, se non si vuole considerare Propos d’Artistes  [19] come una semplice iniziativa giornalistica. Abbiamo considerato Fels, nella prima parte di questo post, come il protagonista di un tentativo di dialogo franco-tedesco. Se lo osserviamo invece in un quadro semplicemente francese, come faremo soprattutto nella seconda parte, egli è probabilmente anche parte della fronda anti-cubista che cerca la propria conferma nei propositi manifestati dai pittori fauvisti (Derain, de Vlaminck, Utrillo), da quelli eclettici (Ensor) e dai pittori più giovani che stanno cercando uno sbocco naturalista (Friesz, Kisling, Pascin, Dunoyer de Segonzac) e trova la sua legittimazione persino nei testi più recenti di Picasso. Nonostante egli provenga dall’universo dadaista/surrealista e conservi un impianto culturale anarchico, Fels dunque è (e questo è un elemento parallelo al suo corrispondente tedesco Paul Westheim) un partigiano del ritorno al classico.

Certo, questa posizione non è talmente evidente da fare di Propos des Artistes un vero e proprio manifesto estetico. I testi, tuttavia, presentano la singolarità (come già spiegato) di mischiare le voci degli artisti con quella dell’autore, creando un tessuto che – in termini di genere letterario – è intermedio tra intervista ed antologia, e che permette dunque di esprimere orientamenti e indirizzi estetici. Nella postfazione Fels spiega che la raccolta abbina ad artisti che lui sente più vicini altri che invece non rappresentano le sue idee ma sono di moda, e che per tal ragione l’autore non include giudizi sugli artisti e sulle loro opere; mi sembra però che una lettura più attenta dei diciassette capitoli permetta di tessere una trama, individuando alcuni aspetti rilevanti nelle loro dichiarazioni, o per usare il termine francese, dei loro “propositi”.

Non è infatti impossibile che Fels – nel corso delle conversazioni che sono alla base della raccolta –  abbia posto all’attenzione delle sue controparti alcuni temi comuni. Così, ad esempio, egli raccoglie le dichiarazioni dei pittori sul tema dell’internazionalità dell’arte. Per Chagall, “l’arte è internazionale, ma l’artista deve essere nazionale” [20]; per Ensor, che pur osserva quanto stia divenendo più facile viaggiare in ogni parte del mondo, “la pittura non sarà mai un’arte internazionale. Gli uomini-pittori, come gli altri uomini, più che gli altri uomini, più degli altri, differiscono per gesti, portamento, lingua, gusto, educazione, razza, accento e costruzione” [21]. Lo stesso dice de Vlaminck, che usa le affermazioni più forti: “Per me, l’arte non può essere, e non è internazionale. È un’utopia che avvelena pittura e letteratura. L’arte è locale ed individualista, come una pianta di rose sul suo terreno, una pianta di arancio in un giardino del Mediterraneo. Si può avere una moneta, una locomotiva, una patria internazionale, un esercito internazionale per andare ad occupare la luna, non può esistere un’arte internazionale. Allo stesso modo non può esservi una cucina, una medicina internazionale. Si può acclimatare una pianta di arancio in Norvegia, i miei figli possono fare il giro del mondo; e tuttavia l’origine della vita, che situa l’essere o l’opera, è locale. I pittori sognano troppo dei mercanti internazionali, finiscono per dimenticare la cosa principale, fare la pittura” [22]. Solo a proposito di Matisse, Fels scrive: “L’artista aspira all’armonia universale e l’arte è il solo linguaggio internazionale” [23]. Dunque, se Fels è parte di un dialogo culturale con la Germania (ampiamente documentato nella prima parte di questo post), la cultura in cui vive è spesso – se mi si consente il termine – ancora sostanzialmente ‘tribale’: il mondo è diviso in sensibilità diverse e le distanze culturali sono incolmabili. Probabilmente egli si oppone, in tal modo, a movimenti artistici che – nella loro radicalità –avevano invece l’obiettivo di creare nuovi riferimenti globali (come ad esempio arte astratta, cubismo, costruttivismo e realismo socialista).

Allo stesso modo, Fels chiede a numerosi artisti se sono soliti visitare i musei. Probabilmente, pone la domanda perché vuole verificare quale sia il loro rapporto con la tradizione classica. Le risposte sono a volte ambigue e a volte perentorie. Solamente James Ensor gli regala una carrellata di giudizi su Rubens, Jordaens, Bruegel e i fiamminghi, dando prova di conoscere a memoria le gallerie di Bruxelles [24]. Friesz racconta invece di esser stato presentato a Cézanne nella sala degli olandesi al Louvre, un giorno in cui era in licenza dal fronte della Prima Guerra Mondiale. Il maestro gli consiglia: “Ah! Sì, gli antichi. Bisogna venire sempre venire ad ammirarli, a porre loro domande, poi … quando si esce … silenzio! bisogna dimenticarli” [25]. “Io vado al museo – sono le parole di Moïse Kisling – ma non traggo ispirazione da nessun maestro e nessuno mi pone sotto la sua influenza, ma piuttosto costituisce per me una sorte d’attitudine, di volontà eroica, un ideale” [26]. Pascin confessa: “Quando ero giovane ho molto studiato nei musei, ma adesso non ci vado più: non ho visto nessuno dei quadri che sono esposti al Louvre” [27]. De Vlaminck è ancora più esplicito: “Io non vado mai in un museo. Ne fuggo l’odore, la monotonia e la severità” [28].

In questo post abbiamo riservato più spazio a Maurice de Vlaminck (1876–1958), perché di Fels (1891-1977) fu grande amico, nonostante la differenza d’età. È con l’articolo a lui dedicato che si apre la serie dei “Propos d’Artistes”, su “Les Nouvelles Littéraires” del 26 maggio 1923 [29]; sempre a lui che è dedicato il libro omonimo del 1925; ed infine su di lui Fels pubblicherà una monografia nel 1928 [30]. Traduco al termine di questo articolo l’intero testo di Fels su de Vlaminck, anche per offrire un esempio dei criteri estetici, della tecnica di racconto e del linguaggio usati dall’autore.

Prima di tutto, tuttavia, ecco una breve rassegna dei ‘propositi’ degli altri artisti.


Claude Monet

Il primo capitolo di Propos des Artistes è la riproduzione esatta dell’articolo pubblicato il 2 febbraio 1924 su “Les Nouvelles Littéraires”, in cui Fels racconta dell’incontro a Giverny, un paese a nord di Parigi, con l’anziano pittore. “Vi guardo, ma non vi vedo” [31] così inizia a parlare Monet (1840-1926), spiegando che l’operazione agli occhi di dieci anni prima non ha ripristinato in pieno le sue capacità visive; vede ombre, e, a volte, sprazzi di luce. Monet considera uno “scandalo” [32] i prezzi – a suo parere del tutto eccessivi – a cui si vendono le sue tele, e parla di tutti gli operatori di mercato – e persino di operatori di mercato decisivi per il successo dell’impressionismo, come Durand-Ruel [33] – come di cinici che in realtà non amano affatto la sua arte. Racconta della sua solitudine dopo che molti degli amici pittori della sua generazione sono morti, della sua cooperazione con Cézanne e Renoir, delle visite dei giovani Bonnard e Vuillard e del loro spirito “di battaglia e di scoperta” [34]. Infine dice dei cubisti: “Sono sicuro che valgano di più di quel che si possa pensare dalle riproduzioni nelle riviste d’arte” [35].


Théodore Duret

L’articolo originale del 12 gennaio 1924 è il resoconto della notte di Capodanno passata insieme al critico e mercante d’arte Théodore Duret (1838- 1927) ormai novantenne. Fels, che ha con lui legami famigliari (asseriva di esserne il nipote naturale [36]), lo celebra come grande difensore dell’impressionismo ed il “campione della nuova estetica” [37] (non solamente dell’impressionismo: scopre anche l’importanza dell’arte giapponese ed è il primo francese ad apprezzare Wagner [38]). Le dichiarazioni di Duret ricordano il percorso personale di Manet, nato abbiente e morto povero, ed eppure sempre vissuto con grande dignità [39], e raccontano del rapporto tra il pittore e Zola [40]. Duret parla della sua profonda amicizia con Courbet [41]. Quanto ai pittori moderni, egli afferma di non conoscerli: la sua attività di critico si ferma alla generazione di Renoir (1841-1919) [42].


Marc Chagall

Chagall (1887-1985), artista russo che dice di “amare la Russia ma Parigi più di tutto” [43], è considerato come “pittore dal gusto veramente francese” [44] per aver “osato sui colori al limite dell’impossibile” [45]. Il pittore racconta il suo odio per ogni intellettualismo e per le manifestazioni ufficiali, come i Saloni parigini (vive ritirato). Parla entusiasta della guerra come di un’occasione di rinnovamento estetico: “un’altra opera plastica, in cui ci siamo immersi totalmente e che ha ricreato le forme, distrutto le linee e ricomposto un nuovo aspetto dell’universo” [46]. Riconosce di aver cooperato con il governo bolscevico nei primi anni, quando – credendo ad un’ “arte proletaria” [47] – aveva persino ammesso all’accademia degli imbianchini “che conoscevano il mestiere di pittore meglio di me” [48]. Insieme a loro aveva decorato “case, tram, vagoni ferroviari” [49]. Ma il bilancio è amaro: “L’arte proletaria non ha prodotto nulla. Abbiamo semplicemente spezzato il cuore a qualche essere umano” [50].



André Derain

Dérain (1880-1954) è un uomo di cui Fels ammira l’intelligenza e l’arguzia, ed un pittore con cui condivide l’attenzione “alle ricerche tecniche e psicologiche dell’arte” [51], giocando su una semplificazione radicale della tavolozza. Ma è anche persona con cui è sempre difficile costruire un rapporto empatico. Di lui Fels dice che ci vuole una buona mezz’ora per “sgelarlo” [52] e che ancora usa con lui la forma “Monsieur Fels” [53] nonostante si conoscano da anni. Insomma, un gran borghese, abituato a tenere le distanze. E proprio per questo l’intervista è tutta legata a temi teorici e non lascia trapelare nulla della lunga consuetudine tra i due.

La trasposizione delle figure e degli oggetti è una conseguenza della creazione plastica originale. Ella permette l’identificazione degli stili, è alla base di ogni genio creatore. Che si tratti di El Greco o Delacroix, Giotto o Fouquet, la forma ricreata dai loro sensi è trovata involontariamente, ma determina il ritmo dell’opera” [54]. In questo senso l’arte è espressione di un’inquietudine eterna, che non appartiene solamente ai moderni; la storia dell’arte vive, infatti, semplicemente di incrementi marginali verso la perfezione. E tuttavia, a confermare la difficoltà della persona, l’ultimo proposito manifestato a Fels è negativo: “Mi oppongo a che una conversazione sia presentata come l’essenziale del mio pensiero. Voglio avere il diritto di sbagliarmi” [55].


James Ensor


La lunga intervista a James Ensor (1860-1949) parte dai primi anni all’accademia di Bruxelles e ripercorre un’intera vita. Racconta prima l’antipatia per Rubens [56], poi il ritorno d’interesse per il colore dei fiamminghi, “precursori di Chardin, Courbet e dei maestri realisti” [57], la simpatia per Bruegel [58], ma anche l’interesse eclettico per Ingres (e per “le sue linee severe” [59]). Ensor è ben cosciente di aver anticipato l’espressionismo con il suo “L’entrata di Cristo a Bruxelles” del 1889 [60]. Narra di tutte le sperimentazioni che lo allontanano, a partire da allora, dalla pittura del suo tempo. Spiega che la tecnica in lui “varia a seconda del soggetto” [61] e che impiega “tutti i modi possibili” [62] (comprese “masse cubiste, fiocchi impressionisti, schegge futuriste, cavalieri dada, gesti espressionisti, legami costruttivisti” [63] e cercando se necessario “la deformazione sottile della linea che viene mangiata dai colori” [64]), ma ciò non vuol dire che vi non vi sia un limite all’eclettismo: è infatti nemico giurato dei divisionisti (“detesto la scomposizione della luce, il puntillismo che tende ad uccidere sia il sentimento sia la visione personale ed innocente” [65]), ed in genere di qualsiasi sistema che non sia possibile combinare con altri: “tutte le regole, tutti i canoni dell’arte vomitano la morte” [66]. Anche del cubismo, come struttura pittorica a suo parere indifferenziata ed omogenea, non dice bene: “Ardentemente, io condanno ogni decisione uniforme e perpetua. Il cubismo, bella trovata, belle schegge disperse in cristalli, scuotimento della retina, composizione di movimenti, un bisogno reazionario” [67].

Fig. 15) Maurice de Vlaminck, il primo volume di memorie intitolato Storie e poemi della mia età, 1927

Othon Friesz

Othon Friesz (1879–1949), oggi uno dei pittori meno conosciuti fra quelli inclusi nei Propos d’Artistes, appare tuttavia come uno degli animatori dell’innovazione della pittura francese nei primissimi anni del 1900. Nel 1904 contribuisce a creare i Fauves (le “bestie selvagge”), nome attribuito loro prima come rimprovero, ma “che poi ci doveva rimanere. Designava quelli che impiegavano le leggi dei colori complementari e dei contrasti, in rottura con l’impressionismo. La composizione colorata, filtrata attraverso il cervello del pittore, ci obbligava a dare ai colori il loro valore assoluto con il volume appropriato al loro effetto. (…) Mi incontravo con Derain, Matisse. (…) Le conversazioni molto precise che scambiavamo sulle nostre opere davano nascita a nuovi concetti” [68]. Persegue l’obiettivo del trionfo del colore puro, fino a quando (in parallelo a Derain e de Vlaminck) nel 1908 rompe con il fauvismo (“creatori del fauvismo, siamo stati i primi ad immolarlo” [69]) ed inizia una ricerca impetuosa che lo conduce al cubismo ed a molte sperimentazioni. Poi si verifica quella che potremmo definire una manifestazione del ‘ritorno all’ordine’ (termine che Friesz non usa però mai nelle pagine citate ). “Da un anno – dichiara a Fels – il rilassamento di tutte queste ricerche, di tutta questa accumulazione di materiali, mi permette di lavorare un po’ con il mio cuore. Dopo aver assimilato le teorie, adesso ritrovo le emozioni dei miei quindici anni dopo un viaggio nei paesi dell’estetica. Ho il diritto di fare un ritratto, un nudo, senza sentirmi un sacrilego, in modo naturale e sicuro” [70]. Quanto ai viaggi, ricorda quelli in Italia per ammirare Giotto [71] e Raffaello [72] e la forte impressione dall’arte in Portogallo [73].


Georg Grosz

Unico pittore tedesco nell’antologia, Georg Grosz (1893-1959) è ammirato per la sua capacità di sfidare il potere militarista prussiano in una fase in cui, subito dopo la sconfitta della Grande Guerra, gli insorti comunisti del 1918 vengono ancora fucilati nelle carceri di Berlino [74]. È dunque celebrato come l’equivalente tedesco di Daumier [75], l’artista che sostiene la Comune di Parigi nel 1871. Si è già detto nella prima parte di questo post che Fels ha molto scritto su Grosz. “D’istinto – sono le parole di Fels nella parte del capitolo dove esprime le sue opinioni – Grosz è aggressivo come lo sono i tedeschi: nella storia, nell’«ordine morale», nella rappresentanza degli imperativi categorici. Ma è difficile mantenere la misura, reprimere la libido debordante di un popolo vigoroso” [76]. Ecco come Grosz risponde: “Si è sempre detto che un vero pittore debba essere un idiota. D’altra parte, si ripete che gli artisti costituiscono la nobiltà di ciascuna nazione. La nobiltà della nazione ha il diritto di limitarsi alla cultura dei sentimenti e di restare ignorante per tutto il resto? Considero che il dovere dell’artista sia piuttosto di acquisire più conoscenza possibile, anche a rischio di arrivare a detestare piuttosto che amare” [77].

Quando è scoppiata la guerra, ho capito più chiaramente che mai che la massa non aveva una volontà propria. La folla sfilava nelle strade, come affascinata dalla volontà dei militari. Io stesso subivo quella volontà. Ma non ne sono mai stato entusiasta, perché sentivo troppo che la libertà individuale dietro la quale mi ero raccolto era minacciata. Correvo il rischio di essere costretto ad entrare in comunione con l’umanità che detestavo. Il mio odio si concentrava sugli uomini che volevano sottomettermi. Consideravo la guerra come l’espressione della lotta costante per il possesso delle ricchezze. Questa lotta mi disgustava già nel dettaglio, a maggior ragione all’ingrosso. Ciò non ha impedito che io divenissi un soldato prussiano. Con mia grande sorpresa, ho presto scoperto che tra i miei camerati vi erano persone che erano altrettanto insoddisfatte della guerra di quanto lo fossi io. Cominciai a detestare queste persone meno degli altri. Mi sentivo meno isolato. Feci dei disegni che riproducevano la vita del soldato. Mostravo questi disegni ai miei camerati, che ne gioivano apertamente. Il loro apprezzamento mi faceva più piacere di un complimento di un amatore d’arte, che evidentemente non poteva che giudicare i miei lavori se non da un punto di vista speculativo. Da quel momento mi sono messo a disegnare” [78]. Segue una lunga spiegazione di quel che successe al ritorno a Berlino: la scoperta del dadaismo (ma non l’adesione ad esso) come movimento antimilitarista, ed il desiderio di dipingere per tutti gli uomini, ma contro le istituzioni del potere e gli uomini che le proteggono.


Moïse Kisling

Anche nel caso di Moïse Kisling (1891-1953) siamo di fronte a un artista oggi meno noto rispetto ad altri; uno (per inciso) tra i più giovani menzionati in Propos d’Artistes. Ritrattista, appartiene senz’altro al circolo degli amici di Fels fin dai tempi della rivista Action. Cahiers individualistes de philosophie et d’art e di lui Fels era convinto che già appartenesse alla storia della pittura moderna, per il contributo al fauvismo. Il pittore replica: “Quel che ho acquisito è una facoltà d’osservazione che mi ha permesso ora di ritrovare la ragione più intima delle cose. Io non faccio ritratti psicologici, ma cerco, grazie all’atmosfera, al vestito, all’aspetto esteriore del corpo, alla vita intensa dello sguardo o delle mani di collocare i miei personaggi nella loro esistenza corrente” [79]. Seguono alcuni commenti negativi sia sul fallimento del cubismo sia sulla necessità di un “ritorno al classico, che è tutto semplicemente, la fifa di sbagliarsi” [80].


Fernand Léger

Le dichiarazioni di Fernand Léger (1881-1955) sono in gran parte tratte dalla conferenza su “L’estetica della macchina. La manifattura – L’artigiano e l’artista” tenuta nel 1924 al Collegio di Francia e già pubblicata sul primo numero del famosissimo Bulletin de l'effort moderne [81] di Léonce Rosenberg e sulla rivista Sélection [82].

Gran parte dell’articolo originario di Fels su Les Nouvelles Littéraires del 30 giugno 1924 (e del capitolo del libro) è la riproduzione esatta di quell’intervento. Solo la parte finale dello scritto (l’ultima pagina e mezza) è (forse) ricavata da uno scambio di vedute diretto. Credo che tutto ciò sia sintomo di rapporti personali fra i due molto freddi o addirittura inesistenti. Osservo che, mentre Fels era un anti-militarista convinto, Léger scrive: “Io trovo lo stato di guerra molto più normale e desiderabile dello stato di pace. (…) Se mi pongo di fronte alla vita, con tutte le sue possibilità, amo quel che si è deciso chiamare lo stato di guerra, che non è null’altro se non la vita a ritmo accelerato. Lo stato di pace è la vita al ritmo rallentato, è una situazione di blocco, dietro le persiane chiuse, quando tutto si svolge nella strada dove il creatore deve trovarsi” [83]. La distanza psicologica ed intellettuale tra i due appare dunque molto estesa. Il testo citato è comunque di valore assoluto per comprendere la nuova estetica del pittore (non a caso, lo stesso testo viene citato in parallelo da Paul Westheim nella sua antologia Confessioni di artisti edita a Berlino lo stesso anno  [84].

Alla conferenza del Collegio di Francia il pittore teorizza la sua preferenza per la macchina come oggetto artistico rispetto alla natura. Si tratta di una citazione assai lunga (pagine 98-106) che non è possibile riportare se non in alcuni punti. “Ciascun artista possiede un’arma offensiva che gli permette di brutalizzare la tradizione. Cercando lo scontro e l’intensità, io mi sono servito della macchina, come altri invece hanno scelto di far uso del corpo nudo o della natura morta [85] (…) L’elemento meccanico non è per me un partito preso, un’attitudine, ma un mezzo per arrivare a dare una sensazione di forza e di potenza [86]. (…) La bellezza plastica è totalmente indipendente dai valori sentimentali, descrittivi ed imitativi. Ciascuno oggetto, tavola, architettura, organizzazione ornamentale ha un valore in sé, assoluto, indipendente da tutto quel che può rappresentare. Ogni oggetto creato può comportare lui stesso una bellezza intrinseca, come tutti i fenomeni di ordine naturale, ammirati dal mondo per tutta l’eternità. Non vi è il bello, catalogato, provato, gerarchizzato. Il bello è dappertutto, nell’ordine di una serie di pentole sul muro bianco di una cucina, così come in un museo. La bellezza moderna si confonde quasi sempre con la necessità pratica. Esempi: la locomotiva è sempre più simile al cilindro perfetto; per ragioni di velocità, l’automobile si è abbassata ed allungata, si è centrata, ha raggiunto un rapporto equilibrato tra linee curve ed orizzontali, nate dall’ordine geometrico” [87].


André Lhote

Lhote (1885–1962) è oggi comunemente conosciuto come cubista. I ‘propositi’ che esprime a Fels sono invece quelli di un eclettico che non vuol essere sottomesso ad alcuna corrente. “Io dipingo per gusto della dissoluzione. L’arte, in effetti, non è null’altro, a mio parere, che una dissoluzione spirituale. Nessun’altra attività mi permette degli errori talmente deliziosi. Il giorno in cui mi si convincerà che l’arte è un’altra cosa rispetto all’impiego arbitrario della natura secondo i capricci della sensibilità, io cesserò di dipingere. Se amo teorie e leggi che invento per il mio uso personale, non è per restarne prigioniero, ma piuttosto per il piacere di essere loro infedele. Voglio scrivere, un giorno, un’Estetica dell’Infedeltà” [88]. Lothe sa di essere chiamato “capo del neoclassicismo”, anche se non condivide affatto tale onore: depreca infatti l’orientamento di chi improvvisamente cerca riferimento in Poussin, David ed Ingres [89]. perché il classicismo “implica un atteggiamento audace dello spirito e non un’applicazione scolastica, o l’utilizzo sterile di procedure ormai superate” [90]. E tuttavia egli ritiene che si debbano recuperare gli “elementi della tecnica pittorica scomparsa” [91] (e viene da pensare al Ritorno al mestiere di Giorgio de Chirico, pubblicato in Valori Plastici nel 1919 [92]).


Henri Matisse

Pittore-poeta per eccellenza, secondo Fels, Henri Matisse (1869-1954) spiega che vi sono due modi di esprimere le cose: l’una è di mostrarle brutalmente, l’altra è di evocarle. È chiaro che preferisce la seconda opzione. “Per riuscirci, io cerco di mettere l’una vicino all’altra, di precisarle grazie alle loro caratteristiche individuali, ed in rapporto tra gli elementi che le compongono e le dispongono: questi rapporti esistono non meno tra le combinazioni dei colori che tra quelle delle forme. Il semplice fatto nuovo ottenuto dal contrasto dei colori è già una fonte di sensazioni piacevoli, ma superficiali. A volte in passato me ne sono contentato. Ma un quadro necessita una condensazione di stati sensibili e controllati dalla calma. Allora il mio fine è di lasciare sussistere, in un’opera che resta sempre vera, la dignità, la freschezza ed il fascino di un sentimento spontaneo. Mettere ordine ai colori è mettere ordine alle idee” [93].

Fig. 16) Maurice de Vlaminck, il secondo volume di memorie, intitolato "Una svolta pericolosa"  (1929)

Jules Pascin

Con Julien Pascin (1885-1930) Fels si imbatte in un vero cosmopolita: nato in Bulgaria da famiglia ebraica sefardita (con origini in Spagna ed Italia), è naturalizzato americano ma vive a Parigi. Pascin ci racconta delle differenti sensibilità del pubblico statunitense e francese, spiega che Charlie Chaplin è molto più amato in Europa che negli Stati Uniti [94] e ci parla dell’arte contemporanea al di là dell’Atlantico, non senza qualche ingenuità: “I giovani pittori americani non mancano di talento, ma dovrà passare ancora qualche secolo prima che si possa parlare di pittura americana degna di questo paese meraviglioso. Chi ha avuto una grande influenza per far uscire gli artisti americani dal loro provincialismo e far conoscere ai newyorkesi le possibilità artistiche della loro città è Marchel Duchamp” [95]. Le ultime parole su Duchamp sono dedicate allo sbigottimento per la sua decisione di lasciare l’arte e dedicarsi professionalmente agli scacchi, intorno al 1920.



Pablo Picasso

Picasso (1881-1973) viene presentato da Fels come “il più dinamico dei pittori, ovvero colui la cui opera non è mai immobile e porta sempre dei nuovi problemi rivelando più possibilità aperte per forma e colore; è anche il più discusso ed il più copiato” [96]. Di lui viene riprodotta (come già spiegato nella prima parte di questo post) gran parte della dichiarazione sul cubismo rilasciata originariamente in spagnolo al critico d’arte messicano Marius de Zayas [97] e pubblicata in inglese nel 1923 [98]. Fels evita però di spiegare quale è la fonte di quelle parole, che oggi sono famosissime, ma che forse ai suoi lettori dovettero sembrare come il testo di una vera e propria intervista esclusiva: “Noi sappiamo oggi che l’arte non è la verità. L’arte è una menzogna che ci permette di avvicinarci alla verità, almeno la verità che è per noi comprensibile. L’artista deve inventarsi il modo con cui convincere il pubblico dell’intera veracità delle sue menzogne” [99].  Sembrerebbe puro narcisismo, ma da esso deriva il rifiuto di ogni sperimentazione e dell’arte astratta (“il più grande errore dell’arte moderna. Lo spirito di ricerca ha intossicato coloro che non hanno capito tutto il lato positivo dell’arte moderna e vogliono dipingere l’invisibile e non il pittorico” [100]). Sembra un attacco diretto a Paul Klee ed al sua famoso motto, pubblicato nella Confessione creatrice del 1920, secondo cui “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile.” Seguono parole che debbono essere sembrate a molti davvero sorprendenti: quello di David, Ingres e persino Bouguereau non è naturalismo; allo stesso modo il cubismo non è astrazione. “Il cubismo non è differente dalle scuole convenzionali di pittura. Gli stessi principi e gli stessi elementi sono comuni a tutti” [101].


Georges Rouault

Roualt (1871 –1958), oggi considerato il fauvista francese più vicino all’espressionismo tedesco, ci dice “Non ho mai lavorato con i Fauvisti. La mia sola influenza è Rembrandt” [102]. Per Fels è piuttosto un pittore maledetto, vicino a El Greco e Bosch per temperamento, ed uno spirito eccezionalmente originale in Francia. Di lui Fels riproduce un Battesimo di Cristo, tema che il pittore ha ripreso più volte anche negli anni seguenti. In Propos d’Artistes Rouault racconta in particolare gli anni passati con il maestro simbolista Gustave Moreau [103], che paragona a Degas e Renoir [104]. I ricordi sono accompagnati da poesie di tema classicissimo (“Orfeo”; “Disegni di Ingres”, “Composizione classica”, “Miserere” [105]).



André Dunoyer de Segonzac

Dunoyer de Segonzac (1884–1974) è un coetaneo di Fels, che di lui non solamente è amico ma che ne condivide l’approccio: “né realista, né naturista, è natura in sé. Ha creato un’apparenza nuova agli oggetti [106]. (…) Libertà ed ordine, leggerezza e forza, Dunoyer de Segonzac è un vero francese [107]”. Le dichiarazioni del pittore sono una vera e propria rivolta contro ogni avanguardia, ed hanno un retrogusto di radicalismo conservatore, forse reazionario. “Ed ecco l’era del cubismo [108]. (…) Simbolo dell’arte antinaturale che subiamo da quindici anni. Non si osa più fare un gesto – è troppo semplice … e troppo difficile … – una smorfia ha più effetto: è più forte e più avanzata [109]. (…) Sento che in Francia si vuole riprendere ad essere naturali. L’estetismo è la morte dell’arte. Con le teorie degli ultimi anni ci avviciniamo molto più alle mentalità dei rosa-croce, preraffaellite, ecc. che all’epoca della purezza, come la Grecia arcaica, il dodicesimo secolo francese, il diciannovesimo secolo di Corot, ed infine Cézanne e Rousseau [110]”.



Maurice Utrillo

È uno dei grandi favoriti di Fels. Di Utrillo (1883–1955) è pubblicata nella raccolta una versione della Chiesa di San Severino del 1922, diversa da quella precedente (pur molto simile) oggi esposta alla National Gallery di Washington. Nell’immagine del 1922 compare anche l’insegna dell’atelier del pittore (con la scritta: Quadri di tutti i generi), assente in quella del 1913.

Dopo alcune pagine a suo nome, Fels riproduce una conversazione tra Utrillo, sua madre Suzanne Valadon (1865–1938) ed il giovane marito di lei André Utter (1886–1948), tutti pittori. La Valadon ricorda Van Gogh e l’impatto che la sua pittura ha avuto su di lei [111]. André Utter interpreta la pittura murale di Utrillo [112]. Quest’ultimo interviene infine per spiegare le ragioni della sua preferenza per la pittura dei quartieri meno agiati di Parigi, e la sua difficoltà a dipingere invece nella natura [113].

Fig. 17) La traduzione tedesca delle memorie di de Vlamincks, intitolate "Pericolo in vista" (1930)

Maurice de Vlaminck

Le pagine seguenti [114] sono la traduzione integrale in italiano del capitolo su Maurice de Vlaminck (1876-1958) nel volume Propos d’Artistes del 1925 (alle pagine 189-201; è una versione ampliata del testo già comparso nella rivista Le Nouvelles Littéraires il 26 maggio 1923). Seguendo le convenzioni del libro, il testo in caratteri normali è quello che esprime il punto di vista di Fels, quello in corsivo è invece attribuibile a de Vlaminck. Lo stile è fortemente ispirato alla scrittura letteraria. In alcuni casi la sintassi è libera. Alcuni passi sono fortemente caratterizzati da espressioni metaforiche. Nel caso di passaggi controversi, il testo francese è indicato in nota. Vorrei sin da ora ringraziare per qualsiasi proposta di traduzione migliore, nel caso sia necessario.

***

L’arte è all’opposto delle idee generali, non descrive
se non ciò che è individuale, non desidera se non ciò che è unico
Marcel Schwor

Vlaminck è nato a Parigi, nel quartiere delle Halles, Rue Pierre-Lescot, nella casa dei Decugis, dove si compravano provviste, frutti esotici e primizie, il 4 aprile 1876. La sua famiglia è di origine fiamminga.


Per tutti coloro che amano lo zodiaco, sarà forse interessante sapere che Émile Zola è nato anch’egli un 4 aprile.

Le signore delle Halles, il grigio blu dei cavoli, le donne possenti, le comari, un piccolo bicchiere di bianco al tavolo della locanda, l’odore d’alcool sugli aranci, mischiato all’aroma che sprizza dai frutti e i legumi dell’Ile-de-France, il buon senso, l’energia in azione [115]. 


Educato a Le Vésinet, dove i fiumi sono di cemento [nota dell’editore: Le Vésinet è una nuova città-parco sulla Senna creata alla metà del 1800, con un sistema artificiale di 5 laghi artificiali e corsi d’acqua che li collegano, ed edificata da allora con abitazioni in stile storicista o art nouveau. De Vlaminck vi passò l’infanzia e l’adolescenza fino ai sedici anni] e le griglia sono d’oro (Vlaminck le pitturava di minio per far arrabbiare i borghesi), dove la vegetazione dei giardini è composta di bolle in vetro illuminate, e la fauna acquatica, i pesci rossi, il torrone servono a fabbricare delle case ornate di finestre cieche, di torrette, di cucine a piombatura, di capanni degli attrezzi muniti di merli, di panchine verdi, di sedie in ferro su cui non ci si può sedere, il tutto acquistato nei grandi magazzini Allez fréres, e pagabili con i buoni acquisto dei grandi magazzini Dufayel [116].

Studente fantastico di maestri tristi, le sue note ce ne offrono l’immagine: «Cattivo alunno, indisciplinato, collerico, esuberante, irritabile. Non conosce la geografia. Ricostruisce la storia secondo il suo umore ed il suo buon senso».

Suo padre era musicista. [Maurice] suonava il violino come uno tzigano, quasi senza averlo studiato, e ne visse fino a 35 anni, aggiungendo alle sue deboli risorse quel che racimolava da qualche campionato di corse ciclistiche. 

Il giorno in cui il marchese Vollard venne a comprargli il suo «atelier» [nota dell’editore: nel marzo 1906 il commerciante Ambroise Vollard acquistò per 1200 franchi tutti i quadri di Vlaminck], quando il carro per il trasloco, riempito delle sue tele e di una tavola che aveva scolpito – ceduta a prezzo inferiore di mercato – se ne era ormai andato, egli si doleva di aver ingannato questa «persona perbene», nonostante gli avesse ceduto le sue opere per una cifra, tutto sommato, assai modica [117].

Fig. 18) Maurice de Vlaminck, un ulteriore volume di memorie intitolato  "Senza pudore" (1937)
Il suo piacere era di far rinascere il paesaggio, osservato nelle sue giornate di tempo libero e di vagabondaggio sentimentale, quando all’alba – spingendo il pedale con disinvoltura – riprendeva il lavoro come fosse rivitalizzato dal sole che si levava: la casa con le tapparelle blu che tardano ad aprirsi, le porte da cui escono personaggi impauriti, il giornalaio, il fattorino, l’odore dell’erba che si sveglia, gli alberi che si stiracchiano, il primo locale di cabaret ad aprire, la bella ragazza che fatica a svegliarsi dal suo sogno, la tavola coperta da una tela cerata con immagini impresse, il pane, il vino, la salciccia e tutto l’appetito del mondo.

Non avrebbe mai preteso di vivere della sua pittura. «Avrei avuto paura che mi si dicesse: tu sei robusto, avresti potuto andare a lavorare». Non ha mai cessato il suo mestiere di [nota dell’editore: violinista] tzigano e le sue imprese di corridore, da quando si è reso conto che, pur incassando una mensilità di soli qualche centinaia di franchi, egli non arricchiva il suo mercante ma poteva sfamare moglie e figlia.

Che non ci s’inganni sulle apparenze. Vlaminck ha più energie di quel che vengono a lui attribuite. Un giorno, in una piccola taverna, alcuni balordi lo deridevano. Vicino ad una bilancia erano posati dei pesi che uomini assai robusti facevano gara a sollevare. Ma nessuno riusciva ad alzare il peso da 24 chili. Infuriato dal fatto di esser preso in giro da questi gigolò della domenica, Vlaminck si alzò, si avvicinò ai pesi e sfidò i presenti a sollevare il più pesante. Egli, che in realtà era ben allenato a far uso dei manubri da pesistica, faceva finta di avere difficoltà ad alzarlo, tenendo sotto controllo gli altri senza darlo a vedere. Molti tra i più forti non fecero nessun altro sforzo se non spostare i ventiquattro chili, senza sollevarli, sicuri che lui non avrebbe fatto più di loro. Ma con decisione e disinvoltura, egli prima portò il peso all’altezza della spalla, poi allungò le braccia tutte diritte tendendo il peso in mano, ed infine lo posò di nuovo tenendo le braccia tese. Se ne tornò poi a sedere, senza fare un solo commento.

Anche in pittura, Vlaminck non dà sempre tutto. Ha ancora molto da dire.

Si esprime attraverso la pittura, ma ama anche offrire ai suoi contemporanei aneddoti truculenti, poesie comiche ed espressioni di buon senso. «Come ha fatto a scrivere tante cose? » chiesero a Voltaire. – «Mi è bastato non vivere a Parigi». Se Vlaminck può tanto scrivere e dipingere, è perché non è stato trattenuto dal farlo né dagli spettacoli mondani né da Parigi. È l’uomo di campagna a cui le chiromanti assegnano un ruolo quando bisogna far cambiare il corso delle cose [118].

Non è un uomo originale, è un temperamento.

Vlaminck non ha mai considerato la pittura come un matrimonio con una ragazza che gli portava la dote. Solido, potente, non ha mai pensato di approfittare di quel che gli sembrava una cosa senza prezzo e senza valore, un piacere. Per rispetto umano, «avrei preferito il guadagno quotidiano di un mestiere manuale piuttosto d’essere l’artista povero, l’anticonformista sregolato, il mendicante in incognito».

Avendo dipinto per pura gioia, continua a lavorare in tal modo, per la sua e la nostra gioia, sensibile alla tragedia ed alla tenerezza della banlieue parigina, a quei paesaggi che risentono del piacere della domenica, del dramma coniugale e della cronaca nera. È anche pittore di natura morta, come solamente i suoi antenati, gli olandesi.

Il suo amico di gioventù, André Derain, ha detto una volta: «Vlaminck, il più pittore di tutti noi».

Pittore di temperamento, si vedrà quel che pensa della tecnica, della quarta dimensione [nota dell’editore: si tratta della geometria a quattro dimensioni. Il saggio di Henri Poincaré su La Science et l'Hypothèse, pubblicato nel 1902, influenza tutta l’arte contemporanea francese a partire da Matisse e dai cubisti] e di diversi concetti estetici. 

Sono un uomo del Nord. Non amo lo spirito, né la luce del sud, il Midi. Ho vissuto con Derain. A Martigues [nota dell’editore: vicino Marsiglia] aspettavo il crepuscolo per mettermi davanti al cavalletto e Derain commentava: «Tu vieni nel Midi e, per dipingere, aspetti poi che assomigli a Chatou» [nota dell’editore: località vicino Parigi dove de Vlaminck si trasferisce dall’età di sedici anni e realizza le prime opere].

… Bisogna intendersi una buona volta sul classico. Un classico non è colui che raccoglie e adatta quel che una volta è stato ben fatto. Il classico ricrea il mondo per se stesso, allo stesso modo di come si dà la vita. Non si occupa dunque degli altri, ma di se stesso. I primitivi hanno creato un mondo uguale a se stessi, come lo vedevano seguendo la loro visione e non sulla base di un modello. Il primo uomo che ho amato è stato mio padre, ma io non penso a lui per produrre una tela o fare un figlio. Non vi è nessun altro modello se non la vita. Non bisogna confondere servire ed essere asserviti.

… Non vi è il disegno, ma il disegno di qualcuno. Si disegna come si parla. Uno si esprime male, un altro è confuso. Ma non direi mai: «È disegnato male». Se io disegno nello spirito di Ingres, non disegno dei Vlaminck, ma degli Ingres, e non sono d’accordo con me stesso, non sono vero.

Il braccio può essere troppo lungo, la gamba troppo corta: se ciò esprime quel che deve essere espresso, è bene che sia così. Quando si fa un bambino in natura, senza sapere come farlo, non si prende un esempio. L’opera d’arte, semplicemente l’arte, nasce quando si possiede il mezzo, il dono: non si aggiungono il proprio carattere, i propri difetti, le proprie qualità. La razza, gli antenati, il «pedigree» hanno un’importanza primordiale, per gli uomini come per gli animali. Alla base dell’arte vi è l’istinto. Tale l’uomo, tale la pittura. Il classico è l’uomo che crea. Ogni volta che faccio una tela, è come se io ricominciassi tutto, tutta la mia opera ed addirittura tutta la pittura. Monsieur Ingres non mi aiuta nel mio lavoro. Se non sono capace di creare, non sono un artista, ma un copista.

.… Per me, l’arte non può essere, e l’arte non è internazionale. È un’utopia che avvelena pittura e letteratura. L’arte è locale ed individualista, come una pianta di rose sul suo terreno, una pianta di arancio in un giardino del Mediterraneo. Si può avere una moneta, una locomotiva, una patria internazionale, un esercito internazionale per andare ad occupare la luna, non può esistere un’arte internazionale. Allo stesso modo non può esservi una cucina, una medicina internazionale. Si può acclimatare una pianta di arancio in Norvegia, i miei figli possono fare il giro del mondo; tuttavia, l’origine della vita, che situa l’essere o l’opera, è locale. I pittori sognano troppo dei mercanti internazionali, finiscono per dimenticare la cosa principale, fare la pittura. Rousseau padre, che faceva gentilmente, stupidamente una cosa piccola nella sua testa, che è nato in una portineria del Vaugirard, è conosciuto dal mondo intero. Il negro, nel suo caso, vicino alla donna che trita il cous-cous, è un’opera che è accettata nei grandi musei d’Europa. Derain potrebbe dipingere non importa come, io potrei dipingere non importa cosa, lui è Derain, io sono Vlaminck. Ma tutti quelli che hanno adottato un ordine, sono entrati in meccanismi formali e non possono cambiare la loro maniera, né evolvere. Emerson [forse Ralph Waldo Emerson (1803–1882), filosofo americano] ha detto: “L’opera di un uomo è il frutto del suo carattere”. In pittura come nella vita, io prendo tutte le responsabilità delle mie azioni, delle mie opere. Se faccio tele cattive, non è colpa di Rousseau, è la mia, e non ho circostanze attenuanti. Nulla mi obbliga a fare pittura. Facendola, ne prendo la responsabilità e non la lascio né ad un teorico estetico né ad un mercante.


… I moderni pensano troppo spesso come gli architetti. Un colpo di telefono, si fa arrivare il cemento da Portland, il carbone dalla Ruhr, la quarta dimensione dalla Polonia. Ma in tal modo non si ottiene quella piccola casa cui ci si assomiglia e ci s’identifica poco a poco.

… Ci sono troppi uomini di lettere che non pensano che a manipolare i premi. È questa la ragione per la quale mi sono dimesso dal Comitato del Prix des peintres [nota dell’editore: creato nel 1923 e non più rinnovato. Era un premio che un gruppo di pittori assegnava ad un letterato]. È incredibile come io sia amato dagli scrittori dopo questo famoso premio. La mia casa è talmente invasa di letteratura che non trovo più pace per lavorare. Se avessi votato, sarebbe stato per un uomo che io possa valutare grazie alla sua opera. Un uomo spregevole non può essere un vero artista. Le opere di Max Jacob fabbricate a colpi di metafore inverificabili mi disgustano, e Paul Morand che non ha il coraggio di servirsi di un grimaldello, e Serge de Lenz neppure della letteratura, del giorno come della notte, avendo a cuore solamente gli stivali lucidi [119]. Non mancano giovani scrittori che possano piacermi. Ma sicuramente non quelli dalla cultura a colpi di fertilizzanti chimici, capaci – grazie ad un’abile forzatura – di ottenere in due mesi un premio letterario come una semplice patente per la macchina.

… Ci si serve dei negri [nota dell’editore: della pittura africana] come certi si servono di Delacroix o di Ingres, invece di lasciarli nell’ordine naturale. Possono servire d’esempio, ma non da concetto estetico. Io ho posseduto i primi negri [nota dell’editore: pitture africane] che abbiano ornato un atelier. Mi pongo ancora la questione: «Perché hanno attirato la mia attenzione allo stesso tempo del mio interesse per Cézanne?» Dall’ordine cézanniano si è passati al cubismo, che la statuaria negra arricchisce di una giustificazione terra terra. Adesso, Cézanne, i negri, non sono più sufficienti. Ci sarà bisogno di nuovi contributi, di un nuovo concime, di valori stranieri, che si esauriscono anch’essi … Il giorno in cui i mezzi di fortuna mancano, le mani sono vuote. L’uomo si trova di fronte all’opera che deve fare, faccia a faccia. È da li che bisogna sempre cominciare.

… Se avessi un figlio, vorrei che se ne andasse per boschi, che vedesse – quando scova i nidi – quel che è la vita, la morte, che egli esiste solo per e a causa di quel che lui è, e non secondo apparenze scelte e classificate nei manuali. Non avrei mai la pretesa di insegnargli a vedere la vita, sarebbe come se uno gli togliesse la vista.

Io non vado mai in un museo. Ne fuggo l’odore, la monotonia e la severità. Vi ritrovo le stesse collere di mio nonno quando marinavo la scuola [120]. Io mi sforzo di dipingere con tutte le mie forze, senza preoccuparmi dello stile.

Per amare mia moglie, non chiedo mai ad un amico in qual modo egli ami la sua, né gli chiedo quale donna io debba amare, e non mi occupo mai di come si amassero le donne nel 1824. Io amo come un uomo, e non come un collegiale o un professore.

Io non debbo far piacere a nessuno, se non a me stesso.

Lo stile a priori come il cubismo, il futurismo, ecc. ecc. mi lascia indifferente. Non sono uno stilista di moda, né dottore né uomo di scienza.

Odio la scienza. Ignoro la matematica, la quarta dimensione, la sezione aurea. 

L’uniforme cubista è, a mio parere, troppo militarista e lei sa quanto io sia poco «un soldato tipo». La caserma mi rende nevrastenico e la disciplina cubista mi ricorda le parole di mio padre: «Il reggimento ti farà bene! Ti darà carattere».

Io detesto la parola «classico» nel senso in cui lo impiega il pubblico.

I pazzi mi fanno paura. La follia ragionata, matematica, cubista e scientifica del 4 agosto 1914 [nota dell’editore: data di inizio della Prima Guerra Mondiale] ci ha crudelmente dimostrato il fallimento dell’idealismo. Io non credo che alla forza. Quando si è forti, si è ricchi. Quando si è forti, si è buoni. Se deboli, si è buoni solamente per la codardia.

… Quel che vorrei dire, gridare, è che la nostra epoca è terribilmente priva di buon senso. E in fondo il genio è un po’ di senso comune. Si dimentica la vita elementare. Tutto ciò ha avuto inizio prima della guerra. Credo che quella sia stata l’origine della guerra. Ho sempre pensato alla guerra come ad un incidente cubista. Quando si è capaci di sopportare un’opera cubista, si è pronti ad ammettere la guerra, l’ultima guerra, la guerra di diritto, ecc. Addirittura il comunicato era cubista. Poincaré: [Raymond Poincaré, 1860-1934, Presidente della Repubblica durante la prima guerra mondiale]. Persino il suo nome è cubista. «Più ci si ritira, più si vince» diceva il tenente colonello Rousset e Clemenceau: «Fino all’ultimo uomo, fino all’ultimo cavallo». Fino all’ultimo punto, fino all’ultima linea. L’ultima bellezza, il nulla. Non si vede più nulla. È ammirevole. 

… crisi di responsabilità. Gli uomini si sono disabituati a dire sì e a dire no, anche quando si tratta della loro esistenza. Non osano più nulla. L’arte della nostra epoca? Arte fatta di teorie, pittura metafisica, dove l’astrazione rimpiazza la sensibilità. Arte che manca di sanità morale, riduce alle speculazioni, prende a prestito dalla matematica, dalla geometria, nel ventesimo secolo della cultura, arte del ventesimo secolo che saccheggia i negri della Costa d’Avorio e divora i cannibali delle Nuove Ebridi. In arte, le teorie hanno la stessa utilità che le ricette dei medici; per crederci, bisogna essere malato.

… Io non vado ai funerali, io non ballo il 14 luglio [nota dell’editore: giorno della festa nazionale in Francia, anniversario della Presa della Bastiglia], non gioco a cavalli e non manifesto per la strada. Adoro i bambini.

Fig. 19) Maurice de Vlaminck, l'ultimo volume di memorie intitolato "Paesaggi e personaggi", 1953

NOTE

[19] Fels, Florent - Propos d'artistes, Paris, La Renaissance du livre, 1925, 215 pagine.

[20] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 33

[21] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 54

[22] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 195-196

[23] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 123

[24] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 49-51

[25] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 67-68

[26] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 93

[27] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 132

[28] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 199


[30] Fels, Florent, Vlaminck, Paris, Marcel Seheur, 1928, 205 pagine.

[31] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 14

[32] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 15

[33] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 16

[34] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 18

[35] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 18

[36] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 22

[37] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 23

[38] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 24

[39] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 25

[40] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 26

[41] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 27

[42] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 28

[43] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 33

[44] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 32

[45] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 32

[46] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 33

[47] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 34

[48] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 33

[49] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 34

[50] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 34

[51] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 37

[52] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 161

[53] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 161

[54] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 41-42

[55] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 43

[56] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 49

[57] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 50

[58] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 50

[59] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 51

[60] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 52

[61] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 56

[62] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 56

[63] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 56-57

[64] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 56

[65] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 59

[66] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 59

[67] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 59

[68] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 65-66

[69] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 69

[70] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 70-71

[71] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 68

[72] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 68

[73] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 68

[74] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 75

[75] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 76

[76] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 77

[77] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 78

[78] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 78-79

[79] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 91

[80] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 92

[81] Léger, Fernand - L'esthétique de la machine : l'objet fabriqué. L'artisan et l'artiste, in: Bulletin de l'effort moderne, gennaio 1924, N. 1, pagine 5-7.

[82] Léger, Fernand - L'esthétique de la machine: l'objet fabriqué, l'artisan et l'artiste, in "Sélection", terzo anno, n. 4, febbraio 1924, pagine 374-382.

[83] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 103

[84] Westheim, Paul - Künstlerbekenntnisse: Briefe, Tagebücher, Betrachtungen heutiger Künstler, Berlin, Propyläen, 1923, 359 pagine.

[85] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 98

[86] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 99

[87] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 101-102

[88] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 111-112

[89] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 117

[90] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 118

[91] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 116

[92] De Chirico, Giorgio - Il ritorno al mestiere, in “Valori Plastici”, Roma, anno I, n.11-12, novembre-dicembre 1919, pagine 15-19.

[93] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 126-127

[94] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 135

[95] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 136

[96] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 140-141

[97] Picasso, Pablo – Declaración hecha a Marius de Zayas, 1923

[98] De Zayas, Marius – Picasso speaks, in: The Arts, New York, maggio 1923, pagine 315-326

[99] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 141

[100] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 141-142

[101] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 143

[102] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 157

[103] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 150 e seguenti

[104] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 151

[105] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 154-155

[106] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 163

[107] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 164

[108] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 165

[109] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 166

[110] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 167

[111] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 179

[112] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 180-181

[113] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 181-182

[114] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 189-201

[115] Les dames de la Halle, le gris bleu des choux, les forts, les commères, le coup de blanc au zinc, l’odeur d’éther des oranges, mêlée à l’arôme expirant des fruits et légumes de l’Ile-de-France, le bon sens, l’ardeur au travail.

[116] Élevé au Vésinet, où les rivières sont de ciment, les grilles d’or (Vlaminck les passait au minium pour embêter le bourgeois), où la végétation des jardins est de boules solaires, la faune aquatique, de poissons rouges, le nougat servant à fabriquer de maisons ornées de fausses fenêtres, de poivrières, de cuisines à mâchicoulis, de remises à outils garnies de créneaux, de bancs verts, de chaises de fer, sur lesquelles on ne peut s’asseoir, le tout de chez Allez frères, et payables en bons Dufayel.

[117] Le jour où le marchand Vollard vint lui acheter « son atelier », lorsque la voiture de déménagement chargée de ses toiles et d’une table qu’il avait sculptée – donnée par-dessus le marché – eut disparu ; il se reprocha d’avoir trompé « ce brave homme » en lui cédant ses ouvres pour une somme modique.

[118] C’est l’homme de la campagne auquel les chiromanciennes attribuent un rôle lorsqu’il fait faire tourner la chance.

[119] Si j’avais voté, c’eût été pour un homme que je pusse estimer à travers son œuvre. Un homme méprisable ne peut être un véritable artiste. Les œuvres de Max Jacob fabriquées à coup de métaphores invérifiables me dégoûtent, et Paul Morand qui n’a pas le courage de se servir d’une pince-monseigneur, Serge de Lenz de la littérature, de jour comme de nuit, a le cœur en bottines vernies.

[120] J’y retrouve les colères de mon grand-père quand je faisais l’école buissonnière. 



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