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Storia delle antologie di letteratura artistica
Florent Fels,
Propos d'Artistes [I propositi degli artisti]
Parigi, La Renaissance du livre, 1925, 215.
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda
[Versione originale: maggio 2017 - Nuova versione: aprile 2019]
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Fig. 14) Florent Fels, Maurice de Vlaminck, La vita e l’artista, 1928. Sulla copertina, l’autoritratto con pipa del pittore, datato 1920. |
È difficile, nonché
contrario alla filosofia anarco-individualista dell’autore, trarre conclusioni
unitarie dalla lettura di una raccolta che vuole invece (come già spiegato
nella prima parte di questo post) offrire un’immagine della diversità di
motivazioni e argomenti degli artisti contemporanei. Tuttavia mi sembra che un
tentativo sia indispensabile, se non si vuole considerare Propos d’Artistes [19] come
una semplice iniziativa giornalistica. Abbiamo considerato Fels, nella prima
parte di questo post, come il protagonista di un tentativo di dialogo
franco-tedesco. Se lo osserviamo invece in un quadro semplicemente francese,
come faremo soprattutto nella seconda parte, egli è probabilmente anche parte
della fronda anti-cubista che cerca la propria conferma nei propositi
manifestati dai pittori fauvisti (Derain, de Vlaminck, Utrillo), da quelli
eclettici (Ensor) e dai pittori più giovani che stanno cercando uno sbocco
naturalista (Friesz, Kisling, Pascin, Dunoyer de Segonzac) e trova la sua
legittimazione persino nei testi più recenti di Picasso. Nonostante egli
provenga dall’universo dadaista/surrealista e conservi un impianto culturale
anarchico, Fels dunque è (e questo è un elemento parallelo al suo
corrispondente tedesco Paul Westheim) un partigiano del ritorno al classico.
Certo, questa posizione
non è talmente evidente da fare di Propos
des Artistes un vero e proprio manifesto estetico. I testi, tuttavia,
presentano la singolarità (come già spiegato) di mischiare le voci degli
artisti con quella dell’autore, creando un tessuto che – in termini di genere
letterario – è intermedio tra intervista ed antologia, e che permette dunque di
esprimere orientamenti e indirizzi estetici. Nella postfazione Fels spiega che
la raccolta abbina ad artisti che lui sente più vicini altri che invece non
rappresentano le sue idee ma sono di moda, e che per tal ragione l’autore non
include giudizi sugli artisti e sulle loro opere; mi sembra però che una
lettura più attenta dei diciassette capitoli permetta di tessere una trama,
individuando alcuni aspetti rilevanti nelle loro dichiarazioni, o per usare il
termine francese, dei loro “propositi”.
Non è infatti impossibile
che Fels – nel corso delle conversazioni che sono alla base della raccolta
– abbia posto all’attenzione delle sue
controparti alcuni temi comuni. Così, ad esempio, egli raccoglie le
dichiarazioni dei pittori sul tema dell’internazionalità dell’arte. Per Chagall,
“l’arte è internazionale, ma l’artista
deve essere nazionale” [20]; per Ensor, che pur osserva quanto stia
divenendo più facile viaggiare in ogni parte del mondo, “la pittura non sarà mai un’arte internazionale. Gli uomini-pittori,
come gli altri uomini, più che gli altri uomini, più degli altri, differiscono
per gesti, portamento, lingua, gusto, educazione, razza, accento e costruzione”
[21]. Lo stesso dice de Vlaminck, che usa le affermazioni più forti: “Per me, l’arte non può essere, e non
è internazionale. È un’utopia che avvelena pittura e letteratura. L’arte è
locale ed individualista, come una pianta di rose sul suo terreno, una pianta
di arancio in un giardino del Mediterraneo. Si può avere una moneta, una
locomotiva, una patria internazionale, un esercito internazionale per andare ad
occupare la luna, non può esistere un’arte internazionale. Allo stesso modo non
può esservi una cucina, una medicina internazionale. Si può acclimatare una
pianta di arancio in Norvegia, i miei figli possono fare il giro del mondo; e
tuttavia l’origine della vita, che situa l’essere o l’opera, è locale. I
pittori sognano troppo dei mercanti internazionali, finiscono per dimenticare
la cosa principale, fare la pittura” [22]. Solo a proposito di Matisse, Fels scrive: “L’artista aspira all’armonia universale e l’arte è il solo linguaggio
internazionale” [23]. Dunque, se Fels è parte di un dialogo culturale con
la Germania (ampiamente documentato nella prima parte di questo post), la
cultura in cui vive è spesso – se mi si consente il termine – ancora
sostanzialmente ‘tribale’: il mondo è diviso in sensibilità diverse e le
distanze culturali sono incolmabili. Probabilmente egli si oppone, in tal modo,
a movimenti artistici che – nella loro radicalità –avevano invece l’obiettivo di
creare nuovi riferimenti globali (come ad esempio arte astratta, cubismo,
costruttivismo e realismo socialista).
Allo stesso modo, Fels
chiede a numerosi artisti se sono soliti visitare i musei. Probabilmente, pone
la domanda perché vuole verificare quale sia il loro rapporto con la tradizione
classica. Le risposte sono a volte ambigue e a volte perentorie. Solamente
James Ensor gli regala una carrellata di giudizi su Rubens, Jordaens, Bruegel e
i fiamminghi, dando prova di conoscere a memoria le gallerie di Bruxelles [24].
Friesz racconta invece di esser stato presentato a Cézanne nella sala degli
olandesi al Louvre, un giorno in cui era in licenza dal fronte della Prima
Guerra Mondiale. Il maestro gli consiglia: “Ah!
Sì, gli antichi. Bisogna venire sempre venire ad ammirarli, a porre loro
domande, poi … quando si esce … silenzio! bisogna dimenticarli” [25]. “Io vado al museo – sono le parole di Moïse
Kisling – ma non traggo ispirazione da
nessun maestro e nessuno mi pone sotto la sua influenza, ma piuttosto costituisce
per me una sorte d’attitudine, di volontà eroica, un ideale” [26]. Pascin
confessa: “Quando ero giovane ho molto
studiato nei musei, ma adesso non ci vado più: non ho visto nessuno dei quadri
che sono esposti al Louvre” [27]. De Vlaminck è ancora più esplicito: “Io non vado mai in un museo. Ne fuggo l’odore,
la monotonia e la severità” [28].
In questo post abbiamo
riservato più spazio a Maurice de Vlaminck (1876–1958), perché di Fels (1891-1977)
fu grande amico, nonostante la differenza d’età. È con l’articolo a lui
dedicato che si apre la serie dei “Propos
d’Artistes”, su “Les
Nouvelles Littéraires” del 26 maggio
1923 [29]; sempre a lui che è dedicato il libro omonimo del 1925; ed infine su
di lui Fels pubblicherà una monografia nel 1928 [30]. Traduco al termine di questo
articolo l’intero testo di Fels su de Vlaminck, anche per offrire un esempio
dei criteri estetici, della tecnica di racconto e del linguaggio usati
dall’autore.
Prima di tutto, tuttavia,
ecco una breve rassegna dei ‘propositi’ degli altri artisti.
Claude Monet
Il primo capitolo di Propos des Artistes è la riproduzione
esatta dell’articolo pubblicato il 2 febbraio 1924 su “Les Nouvelles Littéraires”, in cui Fels racconta dell’incontro a Giverny,
un paese a nord di Parigi, con l’anziano pittore. “Vi guardo, ma non vi vedo” [31] così inizia a parlare Monet (1840-1926),
spiegando che l’operazione agli occhi di dieci anni prima non ha ripristinato
in pieno le sue capacità visive; vede ombre, e, a volte, sprazzi di luce. Monet
considera uno “scandalo” [32] i
prezzi – a suo parere del tutto eccessivi – a cui si vendono le sue tele, e
parla di tutti gli operatori di mercato – e persino di operatori di mercato
decisivi per il successo dell’impressionismo, come Durand-Ruel [33] – come di
cinici che in realtà non amano affatto la sua arte. Racconta della sua
solitudine dopo che molti degli amici pittori della sua generazione sono morti,
della sua cooperazione con Cézanne e Renoir, delle visite dei giovani Bonnard e
Vuillard e del loro spirito “di battaglia
e di scoperta” [34]. Infine dice dei cubisti: “Sono sicuro che valgano di più di quel che si possa pensare dalle
riproduzioni nelle riviste d’arte” [35].
Théodore Duret
L’articolo originale del
12 gennaio 1924 è il resoconto della notte di Capodanno passata insieme al
critico e mercante d’arte Théodore Duret (1838- 1927) ormai novantenne. Fels,
che ha con lui legami famigliari (asseriva di esserne il nipote naturale [36]),
lo celebra come grande difensore dell’impressionismo ed il “campione della nuova estetica” [37] (non
solamente dell’impressionismo: scopre anche l’importanza dell’arte giapponese
ed è il primo francese ad apprezzare Wagner [38]). Le dichiarazioni di Duret ricordano
il percorso personale di Manet, nato abbiente e morto povero, ed eppure sempre
vissuto con grande dignità [39], e raccontano del rapporto tra il pittore e
Zola [40]. Duret parla della sua profonda amicizia con Courbet [41]. Quanto ai
pittori moderni, egli afferma di non conoscerli: la sua attività di critico si
ferma alla generazione di Renoir (1841-1919) [42].
Marc Chagall
Chagall (1887-1985),
artista russo che dice di “amare la
Russia ma Parigi più di tutto” [43], è considerato come “pittore dal gusto veramente francese”
[44] per aver “osato sui colori al limite
dell’impossibile” [45]. Il pittore racconta il suo odio per ogni
intellettualismo e per le manifestazioni ufficiali, come i Saloni parigini
(vive ritirato). Parla entusiasta della guerra come di un’occasione di
rinnovamento estetico: “un’altra opera
plastica, in cui ci siamo immersi totalmente e che ha ricreato le forme,
distrutto le linee e ricomposto un nuovo aspetto dell’universo” [46].
Riconosce di aver cooperato con il governo bolscevico nei primi anni, quando –
credendo ad un’ “arte proletaria”
[47] – aveva persino ammesso all’accademia degli imbianchini “che conoscevano il mestiere di pittore
meglio di me” [48]. Insieme a loro aveva decorato “case, tram, vagoni ferroviari” [49]. Ma il bilancio è amaro: “L’arte proletaria non ha prodotto nulla.
Abbiamo semplicemente spezzato il cuore a qualche essere umano” [50].
André Derain
Dérain (1880-1954) è un
uomo di cui Fels ammira l’intelligenza e l’arguzia, ed un pittore con cui
condivide l’attenzione “alle ricerche
tecniche e psicologiche dell’arte”
[51], giocando su una semplificazione radicale della tavolozza. Ma è anche
persona con cui è sempre difficile costruire un rapporto empatico. Di lui Fels
dice che ci vuole una buona mezz’ora per “sgelarlo”
[52] e che ancora usa con lui la forma “Monsieur
Fels” [53] nonostante si conoscano da anni. Insomma, un gran borghese,
abituato a tenere le distanze. E proprio per questo l’intervista è tutta legata
a temi teorici e non lascia trapelare nulla della lunga consuetudine tra i due.
“La trasposizione delle figure e degli oggetti è una conseguenza della
creazione plastica originale. Ella permette l’identificazione degli stili, è
alla base di ogni genio creatore. Che si tratti di El Greco o Delacroix, Giotto
o Fouquet, la forma ricreata dai loro sensi è trovata involontariamente, ma determina il ritmo dell’opera”
[54]. In questo senso l’arte è espressione di un’inquietudine eterna, che non
appartiene solamente ai moderni; la storia dell’arte vive, infatti,
semplicemente di incrementi marginali verso la perfezione. E tuttavia, a
confermare la difficoltà della persona, l’ultimo proposito manifestato a Fels è
negativo: “Mi oppongo a che una
conversazione sia presentata come l’essenziale del mio pensiero. Voglio avere
il diritto di sbagliarmi” [55].
James Ensor
La lunga intervista a
James Ensor (1860-1949) parte dai primi anni all’accademia di Bruxelles e
ripercorre un’intera vita. Racconta prima l’antipatia per Rubens [56], poi il
ritorno d’interesse per il colore dei fiamminghi, “precursori di Chardin, Courbet e dei maestri realisti” [57], la
simpatia per Bruegel [58], ma anche l’interesse eclettico per Ingres (e per “le sue linee severe” [59]). Ensor è ben
cosciente di aver anticipato l’espressionismo con il suo “L’entrata di Cristo a Bruxelles” del 1889 [60]. Narra di tutte le
sperimentazioni che lo allontanano, a partire da allora, dalla pittura del suo
tempo. Spiega che la tecnica in lui “varia
a seconda del soggetto” [61] e che impiega “tutti i modi possibili” [62] (comprese “masse cubiste, fiocchi impressionisti, schegge futuriste, cavalieri
dada, gesti espressionisti, legami costruttivisti” [63] e cercando se
necessario “la deformazione sottile della
linea che viene mangiata dai colori” [64]), ma ciò non vuol dire che vi non
vi sia un limite all’eclettismo: è infatti nemico giurato dei divisionisti (“detesto la scomposizione della luce, il
puntillismo che tende ad uccidere sia il sentimento sia la visione personale ed
innocente” [65]), ed in genere di qualsiasi sistema che non sia possibile
combinare con altri: “tutte le regole,
tutti i canoni dell’arte vomitano la morte” [66]. Anche del cubismo, come
struttura pittorica a suo parere indifferenziata ed omogenea, non dice bene: “Ardentemente, io condanno ogni decisione
uniforme e perpetua. Il cubismo, bella trovata, belle schegge disperse in
cristalli, scuotimento della retina, composizione di movimenti, un bisogno
reazionario” [67].
Othon Friesz (1879–1949),
oggi uno dei pittori meno conosciuti fra quelli inclusi nei Propos d’Artistes, appare tuttavia come
uno degli animatori dell’innovazione della pittura francese nei primissimi anni
del 1900. Nel 1904 contribuisce a creare i Fauves
(le “bestie selvagge”), nome attribuito loro prima come rimprovero, ma “che poi ci doveva rimanere. Designava quelli
che impiegavano le leggi dei colori complementari e dei contrasti, in rottura
con l’impressionismo. La composizione colorata, filtrata attraverso il cervello
del pittore, ci obbligava a dare ai colori il loro valore assoluto con il
volume appropriato al loro effetto. (…) Mi incontravo con Derain, Matisse. (…)
Le conversazioni molto precise che scambiavamo sulle nostre opere davano
nascita a nuovi concetti” [68]. Persegue l’obiettivo del trionfo del colore
puro, fino a quando (in parallelo a Derain e de Vlaminck) nel 1908 rompe con il
fauvismo (“creatori del fauvismo, siamo
stati i primi ad immolarlo” [69]) ed inizia una ricerca impetuosa che lo
conduce al cubismo ed a molte sperimentazioni. Poi si verifica quella che
potremmo definire una manifestazione del ‘ritorno all’ordine’ (termine che
Friesz non usa però mai nelle pagine citate ). “Da un anno – dichiara a Fels
– il rilassamento di tutte queste ricerche, di tutta questa accumulazione di
materiali, mi permette di lavorare un po’ con il mio cuore. Dopo aver
assimilato le teorie, adesso ritrovo le emozioni dei miei quindici anni dopo un
viaggio nei paesi dell’estetica. Ho
il diritto di fare un ritratto, un nudo, senza sentirmi un sacrilego, in modo
naturale e sicuro” [70]. Quanto
ai viaggi, ricorda quelli in Italia per ammirare Giotto [71] e Raffaello [72] e
la forte impressione dall’arte in Portogallo [73].
Georg Grosz
Unico pittore tedesco
nell’antologia, Georg Grosz (1893-1959) è ammirato per la sua capacità di
sfidare il potere militarista prussiano in una fase in cui, subito dopo la
sconfitta della Grande Guerra, gli insorti comunisti del 1918 vengono ancora
fucilati nelle carceri di Berlino [74]. È dunque celebrato come l’equivalente
tedesco di Daumier [75], l’artista che sostiene la Comune di Parigi nel 1871.
Si è già detto nella prima parte di questo post che Fels ha molto scritto su
Grosz. “D’istinto – sono le parole di
Fels nella parte del capitolo dove esprime le sue opinioni – Grosz è aggressivo come lo sono i tedeschi:
nella storia, nell’«ordine morale», nella rappresentanza
degli imperativi categorici. Ma è difficile mantenere la misura, reprimere la
libido debordante di un popolo vigoroso” [76]. Ecco come Grosz risponde: “Si
è sempre detto che un vero pittore debba essere un idiota. D’altra parte, si ripete
che gli artisti costituiscono la nobiltà di ciascuna nazione. La nobiltà della
nazione ha il diritto di limitarsi alla cultura dei sentimenti e di restare
ignorante per tutto il resto? Considero che il dovere dell’artista sia piuttosto
di acquisire più conoscenza possibile, anche a rischio di arrivare a detestare
piuttosto che amare” [77].
“Quando è scoppiata la guerra, ho capito più chiaramente che mai che la
massa non aveva una volontà propria. La folla sfilava nelle strade, come
affascinata dalla volontà dei militari. Io stesso subivo quella volontà. Ma non
ne sono mai stato entusiasta, perché sentivo troppo che la libertà individuale
dietro la quale mi ero raccolto era minacciata. Correvo il rischio di essere
costretto ad entrare in comunione con l’umanità che detestavo. Il mio odio si
concentrava sugli uomini che volevano sottomettermi. Consideravo la guerra come
l’espressione della lotta costante per il possesso delle ricchezze. Questa
lotta mi disgustava già nel dettaglio, a maggior ragione all’ingrosso. Ciò non
ha impedito che io divenissi un soldato prussiano. Con mia grande sorpresa, ho
presto scoperto che tra i miei camerati vi erano persone che erano altrettanto
insoddisfatte della guerra di quanto lo fossi io. Cominciai a detestare queste
persone meno degli altri. Mi sentivo meno isolato. Feci dei disegni che
riproducevano la vita del soldato. Mostravo questi disegni ai miei camerati,
che ne gioivano apertamente. Il loro apprezzamento mi faceva più piacere di un
complimento di un amatore d’arte, che evidentemente non poteva che giudicare i
miei lavori se non da un punto di vista speculativo. Da quel momento mi sono
messo a disegnare” [78]. Segue una lunga spiegazione di quel che successe
al ritorno a Berlino: la scoperta del dadaismo (ma non l’adesione ad esso) come
movimento antimilitarista, ed il desiderio di dipingere per tutti gli uomini,
ma contro le istituzioni del potere e gli uomini che le proteggono.
Moïse Kisling
Anche nel caso di Moïse Kisling
(1891-1953) siamo di fronte a un artista oggi meno noto rispetto ad altri; uno
(per inciso) tra i più giovani menzionati in Propos d’Artistes. Ritrattista, appartiene senz’altro al circolo
degli amici di Fels fin dai tempi della rivista Action. Cahiers individualistes de philosophie et d’art e di lui Fels
era convinto che già appartenesse
alla storia della pittura moderna, per il contributo al fauvismo. Il pittore
replica: “Quel che ho acquisito è una
facoltà d’osservazione che mi ha permesso ora di ritrovare la ragione più
intima delle cose. Io non faccio ritratti psicologici, ma cerco, grazie
all’atmosfera, al vestito, all’aspetto esteriore del corpo, alla vita intensa
dello sguardo o delle mani di collocare i miei personaggi nella loro esistenza
corrente” [79]. Seguono alcuni commenti negativi sia sul fallimento del
cubismo sia sulla necessità di un “ritorno
al classico, che è tutto semplicemente, la fifa di sbagliarsi” [80].
Fernand Léger
Le dichiarazioni di
Fernand Léger (1881-1955) sono in gran parte tratte dalla conferenza su “L’estetica della macchina. La manifattura –
L’artigiano e l’artista” tenuta nel 1924 al Collegio di Francia e già
pubblicata sul primo numero del famosissimo Bulletin
de l'effort moderne [81] di Léonce Rosenberg e sulla rivista Sélection [82].
Gran parte dell’articolo originario di Fels su Les Nouvelles Littéraires del 30 giugno 1924 (e del capitolo del libro) è la riproduzione esatta di quell’intervento. Solo la parte finale dello scritto (l’ultima pagina e mezza) è (forse) ricavata da uno scambio di vedute diretto. Credo che tutto ciò sia sintomo di rapporti personali fra i due molto freddi o addirittura inesistenti. Osservo che, mentre Fels era un anti-militarista convinto, Léger scrive: “Io trovo lo stato di guerra molto più normale e desiderabile dello stato di pace. (…) Se mi pongo di fronte alla vita, con tutte le sue possibilità, amo quel che si è deciso chiamare lo stato di guerra, che non è null’altro se non la vita a ritmo accelerato. Lo stato di pace è la vita al ritmo rallentato, è una situazione di blocco, dietro le persiane chiuse, quando tutto si svolge nella strada dove il creatore deve trovarsi” [83]. La distanza psicologica ed intellettuale tra i due appare dunque molto estesa. Il testo citato è comunque di valore assoluto per comprendere la nuova estetica del pittore (non a caso, lo stesso testo viene citato in parallelo da Paul Westheim nella sua antologia “Confessioni di artisti” edita a Berlino lo stesso anno [84].
Alla conferenza del
Collegio di Francia il pittore teorizza la sua preferenza per la macchina come
oggetto artistico rispetto alla natura. Si tratta di una citazione assai lunga
(pagine 98-106) che non è possibile riportare se non in alcuni punti. “Ciascun artista possiede un’arma offensiva
che gli permette di brutalizzare la tradizione. Cercando lo scontro e
l’intensità, io mi sono servito della macchina, come altri invece hanno scelto
di far uso del corpo nudo o della natura morta [85] (…) L’elemento meccanico non è per me un partito preso, un’attitudine,
ma un mezzo per arrivare a dare una sensazione di forza e di potenza [86]. (…) La bellezza plastica è totalmente indipendente dai valori sentimentali,
descrittivi ed imitativi. Ciascuno oggetto, tavola, architettura,
organizzazione ornamentale ha un valore in sé, assoluto, indipendente da tutto
quel che può rappresentare. Ogni oggetto creato può comportare lui stesso una bellezza intrinseca, come tutti i fenomeni
di ordine naturale, ammirati dal mondo per tutta l’eternità. Non vi è il bello, catalogato, provato, gerarchizzato. Il
bello è dappertutto, nell’ordine di una serie di pentole sul muro bianco di una
cucina, così come in un museo. La bellezza moderna si confonde quasi sempre con
la necessità pratica. Esempi: la locomotiva è sempre più simile al cilindro
perfetto; per ragioni di velocità, l’automobile si è abbassata ed allungata, si
è centrata, ha raggiunto un rapporto
equilibrato tra linee curve ed orizzontali, nate dall’ordine geometrico” [87].
André Lhote
Lhote (1885–1962) è oggi
comunemente conosciuto come cubista. I ‘propositi’ che esprime a Fels sono
invece quelli di un eclettico che non vuol essere sottomesso ad alcuna
corrente. “Io dipingo per gusto della
dissoluzione. L’arte, in effetti, non è null’altro, a mio parere, che una
dissoluzione spirituale. Nessun’altra attività mi permette degli errori
talmente deliziosi. Il giorno in cui mi si convincerà che l’arte è un’altra
cosa rispetto all’impiego arbitrario della natura secondo i capricci della
sensibilità, io cesserò di dipingere. Se
amo teorie e leggi che invento per il mio uso personale, non è per restarne
prigioniero, ma piuttosto per il piacere di essere loro infedele. Voglio scrivere,
un giorno, un’Estetica dell’Infedeltà” [88]. Lothe sa di essere chiamato “capo del neoclassicismo”, anche se non
condivide affatto tale onore: depreca infatti l’orientamento di chi
improvvisamente cerca riferimento in Poussin, David ed Ingres [89]. perché il
classicismo “implica un atteggiamento
audace dello spirito e non un’applicazione scolastica, o l’utilizzo sterile di
procedure ormai superate” [90]. E
tuttavia egli ritiene che si debbano recuperare gli “elementi della tecnica pittorica scomparsa” [91] (e viene da
pensare al Ritorno al mestiere di
Giorgio de Chirico, pubblicato in Valori
Plastici nel 1919 [92]).
Henri Matisse
Pittore-poeta per
eccellenza, secondo Fels, Henri Matisse (1869-1954) spiega che vi sono due modi
di esprimere le cose: l’una è di mostrarle brutalmente, l’altra è di evocarle.
È chiaro che preferisce la seconda opzione. “Per riuscirci, io cerco di mettere l’una vicino all’altra, di
precisarle grazie alle loro caratteristiche individuali, ed in rapporto tra gli
elementi che le compongono e le dispongono: questi rapporti esistono non meno
tra le combinazioni dei colori che tra quelle delle forme. Il semplice fatto
nuovo ottenuto dal contrasto dei colori è
già una fonte di sensazioni piacevoli, ma superficiali. A volte in passato me
ne sono contentato. Ma un quadro necessita una condensazione di stati sensibili
e controllati dalla calma. Allora il mio fine è di lasciare sussistere, in
un’opera che resta sempre vera, la dignità, la freschezza ed il fascino di un
sentimento spontaneo. Mettere ordine ai colori è mettere ordine alle idee”
[93].
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Fig. 16) Maurice de Vlaminck, il secondo volume di memorie, intitolato "Una svolta pericolosa" (1929) |
Jules Pascin
Con Julien Pascin (1885-1930)
Fels si imbatte in un vero cosmopolita: nato in Bulgaria da famiglia ebraica
sefardita (con origini in Spagna ed Italia), è naturalizzato americano ma vive
a Parigi. Pascin ci racconta delle differenti sensibilità del pubblico
statunitense e francese, spiega che Charlie Chaplin è molto più amato in Europa
che negli Stati Uniti [94] e ci parla dell’arte contemporanea al di là
dell’Atlantico, non senza qualche ingenuità: “I giovani pittori americani non mancano di talento, ma dovrà passare
ancora qualche secolo prima che si possa parlare di pittura americana degna di
questo paese meraviglioso. Chi ha avuto una grande influenza per far uscire gli
artisti americani dal loro provincialismo e far conoscere ai newyorkesi le
possibilità artistiche della loro città è Marchel Duchamp” [95]. Le ultime
parole su Duchamp sono dedicate allo sbigottimento per la sua decisione di
lasciare l’arte e dedicarsi professionalmente agli scacchi, intorno al 1920.
Pablo Picasso
Picasso (1881-1973) viene
presentato da Fels come “il più dinamico
dei pittori, ovvero colui la cui opera non è mai immobile e porta sempre dei
nuovi problemi rivelando più possibilità aperte per forma e colore; è anche il
più discusso ed il più copiato” [96]. Di lui viene riprodotta (come già spiegato
nella prima parte di questo post) gran parte della dichiarazione sul cubismo
rilasciata originariamente in spagnolo al critico d’arte messicano Marius de
Zayas [97] e pubblicata in inglese nel 1923 [98]. Fels evita però di spiegare
quale è la fonte di quelle parole, che oggi sono famosissime, ma che forse ai
suoi lettori dovettero sembrare come il testo di una vera e propria intervista
esclusiva: “Noi sappiamo oggi che l’arte
non è la verità. L’arte è una menzogna che ci permette di avvicinarci alla
verità, almeno la verità che è per noi comprensibile. L’artista deve inventarsi
il modo con cui convincere il pubblico dell’intera veracità delle sue menzogne”
[99]. Sembrerebbe puro narcisismo, ma da esso deriva
il rifiuto di ogni sperimentazione e dell’arte astratta (“il più grande errore dell’arte moderna. Lo spirito di ricerca ha
intossicato coloro che non hanno capito tutto il lato positivo dell’arte
moderna e vogliono dipingere l’invisibile e non il pittorico” [100]).
Sembra un attacco diretto a Paul Klee ed al sua famoso motto, pubblicato nella
Confessione creatrice del 1920, secondo cui “L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile.”
Seguono parole che debbono essere sembrate a molti davvero sorprendenti: quello
di David, Ingres e persino Bouguereau non è naturalismo; allo stesso modo il
cubismo non è astrazione. “Il cubismo non
è differente dalle scuole convenzionali di pittura. Gli stessi principi e gli
stessi elementi sono comuni a tutti” [101].
Georges Rouault
Roualt (1871 –1958), oggi
considerato il fauvista francese più vicino all’espressionismo tedesco, ci dice
“Non ho mai lavorato con i Fauvisti. La
mia sola influenza è Rembrandt” [102]. Per Fels è piuttosto un pittore
maledetto, vicino a El Greco e Bosch per temperamento, ed uno spirito
eccezionalmente originale in Francia. Di lui Fels riproduce un Battesimo di Cristo, tema che il pittore
ha ripreso più volte anche negli anni seguenti. In Propos d’Artistes Rouault racconta in particolare gli anni passati
con il maestro simbolista Gustave Moreau [103], che paragona a Degas e Renoir
[104]. I ricordi sono accompagnati da poesie di tema classicissimo (“Orfeo”; “Disegni di Ingres”, “Composizione
classica”, “Miserere” [105]).
André Dunoyer de Segonzac
Dunoyer de Segonzac
(1884–1974) è un coetaneo di Fels, che di lui non solamente è amico ma che ne
condivide l’approccio: “né realista, né
naturista, è natura in sé. Ha creato un’apparenza nuova agli oggetti [106]. (…) Libertà ed ordine, leggerezza e forza,
Dunoyer de Segonzac è un vero francese [107]”.
Le dichiarazioni del pittore sono una vera e propria rivolta contro ogni
avanguardia, ed hanno un retrogusto di radicalismo conservatore, forse
reazionario. “Ed ecco l’era del cubismo [108]. (…) Simbolo dell’arte antinaturale che
subiamo da quindici anni. Non si osa più fare un gesto – è troppo semplice … e
troppo difficile … – una smorfia ha più effetto: è più forte e più avanzata [109].
(…) Sento che in Francia si vuole
riprendere ad essere naturali. L’estetismo
è la morte dell’arte. Con le teorie degli ultimi anni ci avviciniamo molto più
alle mentalità dei rosa-croce, preraffaellite, ecc. che all’epoca della
purezza, come la Grecia arcaica, il dodicesimo secolo francese, il
diciannovesimo secolo di Corot, ed infine Cézanne e Rousseau [110]”.
Maurice Utrillo
È uno dei grandi favoriti
di Fels. Di Utrillo (1883–1955) è pubblicata nella raccolta una versione della Chiesa di San Severino del 1922, diversa
da quella precedente (pur molto simile) oggi esposta alla National Gallery di
Washington. Nell’immagine del 1922 compare anche l’insegna dell’atelier del
pittore (con la scritta: Quadri di tutti
i generi), assente in quella del 1913.
Dopo alcune pagine a suo
nome, Fels riproduce una conversazione tra Utrillo, sua madre Suzanne Valadon
(1865–1938) ed il giovane marito di lei André Utter (1886–1948), tutti pittori.
La Valadon ricorda Van Gogh e l’impatto che la sua pittura ha avuto su di lei
[111]. André Utter interpreta la pittura murale di Utrillo [112]. Quest’ultimo
interviene infine per spiegare le ragioni della sua preferenza per la pittura
dei quartieri meno agiati di Parigi, e la sua difficoltà a dipingere invece
nella natura [113].
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Fig. 17) La traduzione tedesca delle memorie di de Vlamincks, intitolate "Pericolo in vista" (1930) |
Maurice de Vlaminck
Le pagine seguenti [114] sono la traduzione
integrale in italiano del capitolo su Maurice de Vlaminck (1876-1958) nel
volume Propos d’Artistes del 1925
(alle pagine 189-201; è una versione ampliata del testo già comparso nella
rivista Le Nouvelles Littéraires il
26 maggio 1923). Seguendo le convenzioni del libro, il testo in caratteri
normali è quello che esprime il punto di vista di Fels, quello in corsivo è
invece attribuibile a de Vlaminck. Lo stile è fortemente ispirato alla
scrittura letteraria. In alcuni casi la sintassi è libera. Alcuni passi sono
fortemente caratterizzati da espressioni metaforiche. Nel caso di passaggi
controversi, il testo francese è indicato in nota. Vorrei sin da ora
ringraziare per qualsiasi proposta di traduzione migliore, nel caso sia
necessario.
***
L’arte è
all’opposto delle idee generali, non descrive
se non ciò che è individuale, non desidera se non ciò che è unico
Marcel Schwor
se non ciò che è individuale, non desidera se non ciò che è unico
Marcel Schwor
Vlaminck è nato a Parigi,
nel quartiere delle Halles, Rue Pierre-Lescot, nella casa dei Decugis, dove si
compravano provviste, frutti esotici e primizie, il 4 aprile 1876. La sua
famiglia è di origine fiamminga.
Per tutti coloro che
amano lo zodiaco, sarà forse interessante sapere che Émile Zola è nato anch’egli
un 4 aprile.
Le signore delle Halles,
il grigio blu dei cavoli, le donne possenti, le comari, un piccolo bicchiere di
bianco al tavolo della locanda, l’odore d’alcool sugli aranci, mischiato
all’aroma che sprizza dai frutti e i legumi dell’Ile-de-France, il buon senso,
l’energia in azione [115].
Educato a Le Vésinet,
dove i fiumi sono di cemento [nota dell’editore: Le Vésinet è una nuova città-parco
sulla Senna creata alla metà del 1800, con un sistema artificiale di 5 laghi
artificiali e corsi d’acqua che li collegano, ed edificata da allora con
abitazioni in stile storicista o art nouveau. De Vlaminck vi passò l’infanzia e
l’adolescenza fino ai sedici anni] e le griglia sono d’oro (Vlaminck le
pitturava di minio per far arrabbiare i borghesi), dove la vegetazione dei
giardini è composta di bolle in vetro illuminate, e la fauna acquatica, i pesci
rossi, il torrone servono a fabbricare delle case ornate di finestre cieche, di
torrette, di cucine a piombatura, di capanni degli attrezzi muniti di merli, di
panchine verdi, di sedie in ferro su cui non ci si può sedere, il tutto
acquistato nei grandi magazzini Allez fréres, e pagabili con i buoni acquisto
dei grandi magazzini Dufayel [116].
Studente fantastico di
maestri tristi, le sue note ce ne offrono l’immagine: «Cattivo
alunno, indisciplinato, collerico, esuberante, irritabile. Non conosce la
geografia. Ricostruisce la storia secondo il suo umore ed il suo buon senso».
Suo padre era musicista.
[Maurice] suonava il violino come uno tzigano, quasi senza averlo studiato, e ne
visse fino a 35 anni, aggiungendo alle sue deboli risorse quel che racimolava
da qualche campionato di corse ciclistiche.
Il giorno in cui il
marchese Vollard venne a comprargli il suo «atelier»
[nota dell’editore: nel marzo 1906 il commerciante Ambroise Vollard acquistò
per 1200 franchi tutti i quadri
di Vlaminck], quando il carro per il
trasloco, riempito delle sue tele e di una tavola che aveva scolpito – ceduta a
prezzo inferiore di mercato – se ne era ormai andato, egli si doleva di aver
ingannato questa «persona perbene», nonostante
gli avesse ceduto le sue opere per una cifra, tutto sommato, assai modica
[117].
Il suo piacere era di far
rinascere il paesaggio, osservato nelle sue giornate di tempo libero e di
vagabondaggio sentimentale, quando all’alba – spingendo il pedale con
disinvoltura – riprendeva il lavoro come fosse rivitalizzato dal sole che si
levava: la casa con le tapparelle blu che tardano ad aprirsi, le porte da cui
escono personaggi impauriti, il giornalaio, il fattorino, l’odore dell’erba che
si sveglia, gli alberi che si stiracchiano, il primo locale di cabaret ad
aprire, la bella ragazza che fatica a svegliarsi dal suo sogno, la tavola
coperta da una tela cerata con immagini impresse, il pane, il vino, la
salciccia e tutto l’appetito del mondo.
Non avrebbe mai preteso
di vivere della sua pittura. «Avrei avuto paura che mi si
dicesse: tu sei robusto, avresti potuto andare a lavorare». Non
ha mai cessato il suo mestiere di [nota dell’editore: violinista] tzigano e le
sue imprese di corridore, da quando si è reso conto che, pur incassando una
mensilità di soli qualche centinaia di franchi, egli non arricchiva il suo
mercante ma poteva sfamare moglie e figlia.
Che non ci s’inganni
sulle apparenze. Vlaminck ha più energie di quel che vengono a lui attribuite.
Un giorno, in una piccola taverna, alcuni balordi lo deridevano. Vicino ad una
bilancia erano posati dei pesi che uomini assai robusti facevano gara a
sollevare. Ma nessuno riusciva ad alzare il peso da 24 chili. Infuriato dal
fatto di esser preso in giro da questi gigolò della domenica, Vlaminck si alzò,
si avvicinò ai pesi e sfidò i presenti a sollevare il più pesante. Egli, che in
realtà era ben allenato a far uso dei manubri da pesistica, faceva finta di
avere difficoltà ad alzarlo, tenendo sotto controllo gli altri senza darlo a
vedere. Molti tra i più forti non fecero nessun altro sforzo se non spostare i
ventiquattro chili, senza sollevarli, sicuri che lui non avrebbe fatto più di
loro. Ma con decisione e disinvoltura, egli prima portò il peso all’altezza
della spalla, poi allungò le braccia tutte diritte tendendo il peso in mano, ed
infine lo posò di nuovo tenendo le braccia tese. Se ne tornò poi a sedere,
senza fare un solo commento.
Anche in pittura,
Vlaminck non dà sempre tutto. Ha ancora molto da dire.
Si esprime attraverso la
pittura, ma ama anche offrire ai suoi contemporanei aneddoti truculenti, poesie
comiche ed espressioni di buon senso. «Come ha fatto a scrivere tante cose? »
chiesero a Voltaire. – «Mi è bastato non vivere a Parigi». Se Vlaminck può
tanto scrivere e dipingere, è perché non è stato trattenuto dal farlo né dagli
spettacoli mondani né da Parigi. È l’uomo di campagna a cui le chiromanti assegnano
un ruolo quando bisogna far cambiare il corso delle cose [118].
Non è un uomo originale,
è un temperamento.
Vlaminck non ha mai
considerato la pittura come un matrimonio con una ragazza che gli portava la
dote. Solido, potente, non ha mai pensato di approfittare di quel che gli
sembrava una cosa senza prezzo e senza valore, un piacere. Per rispetto umano, «avrei
preferito il guadagno quotidiano di un mestiere manuale piuttosto d’essere
l’artista povero, l’anticonformista sregolato, il mendicante in incognito».
Avendo dipinto per pura
gioia, continua a lavorare in tal modo, per la sua e la nostra gioia, sensibile
alla tragedia ed alla tenerezza della banlieue parigina, a quei paesaggi che
risentono del piacere della domenica, del dramma coniugale e della cronaca
nera. È anche pittore di natura morta, come solamente i suoi antenati, gli
olandesi.
Il suo amico di gioventù,
André Derain, ha detto una volta: «Vlaminck, il più pittore di tutti noi».
Pittore di temperamento,
si vedrà quel che pensa della tecnica, della quarta dimensione [nota
dell’editore: si tratta della geometria a quattro dimensioni. Il saggio di Henri
Poincaré su La Science et l'Hypothèse, pubblicato nel 1902, influenza tutta
l’arte contemporanea francese a partire da Matisse e dai cubisti] e di diversi
concetti estetici.
Sono un uomo del Nord. Non amo lo spirito, né la
luce del sud, il Midi. Ho vissuto con Derain. A Martigues [nota dell’editore: vicino Marsiglia] aspettavo il crepuscolo per mettermi
davanti al cavalletto e Derain commentava: «Tu vieni nel Midi e, per dipingere,
aspetti poi che assomigli a Chatou» [nota dell’editore: località vicino
Parigi dove de Vlaminck si trasferisce dall’età di sedici anni e realizza le
prime opere].
… Bisogna intendersi una buona volta sul classico.
Un classico non è colui che raccoglie e adatta quel che una volta è stato ben
fatto. Il classico ricrea il mondo per se stesso, allo stesso modo di come si
dà la vita. Non si occupa dunque degli altri, ma di se stesso. I primitivi
hanno creato un mondo uguale a se stessi, come lo vedevano seguendo la loro
visione e non sulla base di un modello. Il primo uomo che ho amato è stato mio
padre, ma io non penso a lui per produrre una tela o fare un figlio. Non vi è
nessun altro modello se non la vita. Non bisogna confondere servire ed essere
asserviti.
… Non vi è il disegno, ma il disegno di qualcuno.
Si disegna come si parla. Uno si esprime male, un altro è confuso. Ma non direi
mai: «È disegnato male». Se io disegno nello spirito di Ingres, non disegno dei
Vlaminck, ma degli Ingres, e non sono d’accordo con me stesso, non sono vero.
Il braccio può essere troppo lungo, la gamba
troppo corta: se ciò esprime quel che deve essere espresso, è bene che sia così.
Quando si fa un bambino in natura, senza sapere come farlo, non si prende un
esempio. L’opera d’arte, semplicemente l’arte, nasce quando si possiede il
mezzo, il dono: non si aggiungono il proprio carattere, i propri difetti, le
proprie qualità. La razza, gli antenati, il «pedigree» hanno un’importanza
primordiale, per gli uomini come per gli animali. Alla base dell’arte vi è l’istinto.
Tale l’uomo, tale la pittura. Il classico è l’uomo che crea. Ogni volta che
faccio una tela, è come se io ricominciassi tutto, tutta la mia opera ed
addirittura tutta la pittura. Monsieur Ingres non mi aiuta nel mio lavoro. Se
non sono capace di creare, non sono un artista, ma un copista.
.… Per me, l’arte non può essere, e l’arte non è
internazionale. È un’utopia che avvelena pittura e letteratura. L’arte è locale
ed individualista, come una pianta di rose sul suo terreno, una pianta di
arancio in un giardino del Mediterraneo. Si può avere una moneta, una
locomotiva, una patria internazionale, un esercito internazionale per andare ad
occupare la luna, non può esistere un’arte internazionale. Allo stesso modo non
può esservi una cucina, una medicina internazionale. Si può acclimatare una
pianta di arancio in Norvegia, i miei figli possono fare il giro del mondo;
tuttavia, l’origine della vita, che situa l’essere o l’opera, è locale. I
pittori sognano troppo dei mercanti internazionali, finiscono per dimenticare
la cosa principale, fare la pittura. Rousseau padre, che faceva gentilmente,
stupidamente una cosa piccola nella sua testa, che è nato in una portineria del
Vaugirard, è conosciuto dal mondo intero. Il negro, nel suo caso, vicino alla
donna che trita il cous-cous, è un’opera che è accettata nei grandi musei
d’Europa. Derain potrebbe dipingere non importa come, io potrei dipingere non
importa cosa, lui è Derain, io sono Vlaminck. Ma tutti quelli che hanno
adottato un ordine, sono entrati in meccanismi formali e non possono cambiare
la loro maniera, né evolvere. Emerson [forse Ralph Waldo Emerson (1803–1882), filosofo americano] ha detto: “L’opera di un uomo è il frutto
del suo carattere”. In pittura come nella vita, io prendo tutte le
responsabilità delle mie azioni, delle mie opere. Se faccio tele cattive, non è
colpa di Rousseau, è la mia, e non ho circostanze attenuanti. Nulla mi
obbliga a fare pittura. Facendola, ne prendo la responsabilità e non la lascio
né ad un teorico estetico né ad un mercante.
… I moderni pensano troppo spesso come gli
architetti. Un colpo di telefono, si fa arrivare il cemento da Portland, il
carbone dalla Ruhr, la quarta dimensione dalla Polonia. Ma in tal modo non si
ottiene quella piccola casa cui ci si assomiglia e ci s’identifica poco a poco.
… Ci sono troppi uomini di lettere che non pensano
che a manipolare i premi. È questa la ragione per la quale mi sono dimesso dal
Comitato del Prix des peintres
[nota dell’editore: creato nel 1923 e non più rinnovato. Era un premio che un
gruppo di pittori assegnava ad un letterato].
È incredibile come io sia amato dagli scrittori dopo questo famoso premio. La
mia casa è talmente invasa di letteratura che non trovo più pace per lavorare.
Se avessi votato, sarebbe stato per un uomo che io possa valutare grazie alla
sua opera. Un uomo spregevole non può essere un vero artista. Le opere di Max
Jacob fabbricate a colpi di metafore inverificabili mi disgustano, e Paul
Morand che non ha il coraggio di servirsi di un grimaldello, e Serge de Lenz
neppure della letteratura, del giorno come della notte, avendo a cuore
solamente gli stivali lucidi [119].
Non mancano giovani scrittori che possano piacermi. Ma sicuramente non quelli
dalla cultura a colpi di fertilizzanti chimici, capaci – grazie ad un’abile
forzatura – di ottenere in due mesi un premio letterario come una semplice
patente per la macchina.
… Ci si serve dei negri [nota dell’editore: della pittura africana] come certi si servono di Delacroix o di
Ingres, invece di lasciarli nell’ordine naturale. Possono servire d’esempio, ma
non da concetto estetico. Io ho posseduto i primi negri [nota dell’editore:
pitture africane] che abbiano ornato un
atelier. Mi pongo ancora la questione: «Perché hanno attirato la mia attenzione
allo stesso tempo del mio interesse per Cézanne?» Dall’ordine cézanniano si è
passati al cubismo, che la statuaria negra arricchisce di una giustificazione
terra terra. Adesso, Cézanne, i negri, non sono più sufficienti. Ci sarà
bisogno di nuovi contributi, di un nuovo concime, di valori stranieri, che si
esauriscono anch’essi … Il giorno in cui i mezzi di fortuna mancano, le mani
sono vuote. L’uomo si trova di fronte all’opera che deve fare, faccia a faccia.
È da li che bisogna sempre cominciare.
… Se avessi un figlio, vorrei che se ne andasse
per boschi, che vedesse – quando scova i nidi – quel che è la vita, la morte,
che egli esiste solo per e a causa di quel che lui è, e non secondo apparenze
scelte e classificate nei manuali. Non avrei mai la pretesa di insegnargli a vedere la vita, sarebbe come se uno gli togliesse la vista.
Io non vado mai in un museo. Ne fuggo l’odore, la
monotonia e la severità. Vi ritrovo le stesse collere di mio nonno quando
marinavo la scuola [120]. Io mi sforzo di dipingere con tutte le mie
forze, senza preoccuparmi dello stile.
Per amare mia moglie, non chiedo mai ad un amico
in qual modo egli ami la sua, né gli chiedo quale donna io debba amare, e non
mi occupo mai di come si amassero le donne nel 1824. Io amo come un uomo, e non
come un collegiale o un professore.
Io non debbo far piacere a nessuno, se non a me
stesso.
Lo stile a priori come il cubismo, il
futurismo, ecc. ecc. mi lascia indifferente. Non sono uno stilista di moda, né
dottore né uomo di scienza.
Odio la scienza. Ignoro la matematica, la quarta
dimensione, la sezione aurea.
L’uniforme cubista è, a mio parere, troppo
militarista e lei sa quanto io sia poco «un
soldato tipo». La caserma mi rende nevrastenico e la disciplina
cubista mi ricorda le parole di mio padre: «Il
reggimento ti farà bene! Ti darà carattere».
Io detesto la parola «classico» nel senso in cui
lo impiega il pubblico.
I pazzi mi fanno paura. La follia ragionata,
matematica, cubista e scientifica del 4 agosto 1914 [nota dell’editore: data di inizio della Prima
Guerra Mondiale] ci ha crudelmente
dimostrato il fallimento dell’idealismo. Io non credo che alla forza. Quando si
è forti, si è ricchi. Quando si è forti, si è buoni. Se deboli, si è buoni
solamente per la codardia.
… Quel che vorrei dire, gridare, è che la nostra
epoca è terribilmente priva di buon
senso. E in fondo il genio è un po’ di
senso comune. Si dimentica la vita elementare. Tutto ciò ha avuto inizio prima della guerra. Credo che quella sia
stata l’origine della guerra. Ho sempre pensato alla guerra come ad un incidente
cubista. Quando si è capaci di sopportare un’opera cubista, si è pronti ad
ammettere la guerra, l’ultima guerra, la guerra di diritto, ecc. Addirittura il
comunicato era cubista. Poincaré: [Raymond Poincaré, 1860-1934, Presidente
della Repubblica durante la prima guerra mondiale]. Persino il suo nome è cubista. «Più ci si ritira, più si vince» diceva
il tenente colonello Rousset e Clemenceau: «Fino all’ultimo uomo, fino
all’ultimo cavallo». Fino all’ultimo punto, fino all’ultima linea. L’ultima
bellezza, il nulla. Non si vede più nulla. È ammirevole.
… crisi di responsabilità. Gli uomini si sono
disabituati a dire sì e a dire no, anche quando si tratta della loro esistenza.
Non osano più nulla. L’arte della nostra epoca? Arte fatta di teorie, pittura
metafisica, dove l’astrazione rimpiazza la sensibilità. Arte che manca di
sanità morale, riduce alle speculazioni, prende a prestito dalla matematica,
dalla geometria, nel ventesimo secolo della cultura, arte del ventesimo secolo
che saccheggia i negri della Costa d’Avorio e divora i cannibali delle Nuove
Ebridi. In arte, le teorie hanno la stessa utilità che le ricette dei medici;
per crederci, bisogna essere malato.
… Io non vado ai funerali, io non ballo il 14
luglio [nota dell’editore: giorno
della festa nazionale in Francia, anniversario della Presa della Bastiglia], non gioco a cavalli e non manifesto per la
strada. Adoro i bambini.
NOTE
[19] Fels, Florent - Propos
d'artistes, Paris, La Renaissance du livre, 1925, 215 pagine.
[20] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 33
[21] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 54
[22] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 195-196
[23] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 123
[24] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 49-51
[25] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 67-68
[26] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 93
[27] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 132
[28] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 199
[29] Si veda: http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k64423888/f4.item
[30] Fels, Florent, Vlaminck, Paris,
Marcel Seheur, 1928, 205 pagine.
[31] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 14
[32] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 15
[33] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 16
[34] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 18
[35] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 18
[36] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 22
[37] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 23
[38] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 24
[39] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 25
[40] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 26
[41] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 27
[42] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 28
[43] Fels, Florent - Propos d'artistes,
(citato), p. 33
[44] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 32
[45] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 32
[46] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 33
[47] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 34
[48] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 33
[49] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 34
[50] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 34
[51] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 37
[52] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 161
[53] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 161
[54] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 41-42
[55] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 43
[56] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 49
[57] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 50
[58] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 50
[59] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 51
[60] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 52
[61] Fels, Florent - Propos d'artistes,
(citato), p. 56
[62] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 56
[63] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 56-57
[64] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 56
[65] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 59
[66] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 59
[67] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 59
[68] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 65-66
[69] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 69
[70] Fels, Florent - Propos d'artistes,
(citato), pp. 70-71
[71] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 68
[72] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 68
[73] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 68
[74] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 75
[75] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 76
[76] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 77
[77] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 78
[78] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 78-79
[79] Fels, Florent - Propos d'artistes,
(citato), p. 91
[80] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 92
[81] Léger, Fernand - L'esthétique de la machine : l'objet
fabriqué. L'artisan et l'artiste, in: Bulletin de l'effort moderne, gennaio
1924, N. 1, pagine 5-7.
[82] Léger, Fernand - L'esthétique de la machine: l'objet
fabriqué, l'artisan et l'artiste, in "Sélection", terzo anno, n.
4, febbraio 1924, pagine 374-382.
[83] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 103
[84] Westheim, Paul - Künstlerbekenntnisse: Briefe, Tagebücher,
Betrachtungen heutiger Künstler, Berlin, Propyläen, 1923, 359 pagine.
[85] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 98
[86] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 99
[87] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 101-102
[88] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 111-112
[89] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 117
[90] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 118
[91] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 116
[92] De Chirico, Giorgio - Il ritorno
al mestiere, in “Valori Plastici”, Roma, anno I, n.11-12, novembre-dicembre
1919, pagine 15-19.
[93] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 126-127
[94] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 135
[95] Fels, Florent - Propos d'artistes,
(citato), p. 136
[96] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 140-141
[97] Picasso, Pablo – Declaración hecha
a Marius de Zayas, 1923
[98] De Zayas, Marius – Picasso
speaks, in: The Arts, New York, maggio 1923, pagine 315-326
[99] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 141
[100] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 141-142
[101] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 143
[102] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 157
[103] Fels, Florent - Propos d'artistes,
(citato), p. 150 e seguenti
[104] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 151
[105] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 154-155
[106] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 163
[107] Fels, Florent - Propos d'artistes,
(citato), p. 164
[108] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 165
[109] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 166
[110] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 167
[111] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), p. 179
[112] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 180-181
[113] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 181-182
[114] Fels, Florent - Propos d'artistes, (citato), pp. 189-201
[115] Les dames de la Halle, le gris bleu des choux, les
forts, les commères, le coup de blanc au zinc, l’odeur d’éther des oranges,
mêlée à l’arôme expirant des fruits et légumes de l’Ile-de-France, le bon sens,
l’ardeur au travail.
[116] Élevé au Vésinet, où les rivières sont de ciment,
les grilles d’or (Vlaminck les passait au minium pour embêter le bourgeois), où la végétation des jardins
est de boules solaires, la faune aquatique, de poissons rouges, le nougat
servant à fabriquer de maisons ornées de fausses fenêtres, de poivrières, de
cuisines à mâchicoulis, de remises à outils garnies de créneaux, de bancs
verts, de chaises de fer, sur lesquelles on ne peut s’asseoir, le tout de chez
Allez frères, et payables en bons Dufayel.
[117] Le jour où le marchand Vollard vint lui acheter
« son atelier », lorsque la voiture de déménagement chargée de ses
toiles et d’une table qu’il avait sculptée – donnée par-dessus le marché – eut
disparu ; il se reprocha d’avoir trompé « ce brave homme » en
lui cédant ses ouvres pour une somme modique.
[118] C’est l’homme de la campagne auquel les
chiromanciennes attribuent un rôle lorsqu’il fait faire tourner la chance.
[119] Si j’avais voté, c’eût été pour un homme que je
pusse estimer à travers son œuvre. Un homme méprisable ne peut être un
véritable artiste. Les œuvres de Max Jacob fabriquées à coup de métaphores
invérifiables me dégoûtent, et Paul Morand qui n’a pas le courage de se servir
d’une pince-monseigneur, Serge de Lenz de la littérature, de jour comme de
nuit, a le cœur en bottines vernies.
[120] J’y retrouve les colères de mon grand-père quand
je faisais l’école buissonnière.
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