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Francesco Mazzaferro
Il Conte Benedetto Giovanelli von Gerstburg:
archeologia ed erudizione nel Tirolo italiano della prima metà del XIX secolo
Parte Seconda
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Fig. 9) Giulio Serafini, Ritratto di Benedetto Giovanelli, senza data (ma dopo 1812). Fonte: https://www.academia.edu/15515369/_Alla_scuola_del_celebre_Canova_prime_indagini_sullo_scultore_Salvatore_de_Carlis |
Gli scritti del Conte Benedetto Giovanelli sulle belle arti
sono molto meno estesi di quelli di natura storico-archeologica su Trento ed il
Tirolo italiano. In questo post ne commentiamo tre: una lettera al Canova del
1806 e due manoscritti del 1832 e 1833.
La lettera di
raccomandazione dello scultore Salvatore de Carlis ad Antonio Canova (1806)
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Fig. 10) Antonio Canova, Monumento funebre a Maria Cristina d'Austria, 1798-1805 |
Nel 1805 Giovanelli, trentenne, è a Vienna, dove incontra
Canova che si trova nella capitale dell’impero per ultimare il monumento
funebre a Maria Cristina d’Austria. Il conte trentino è accompagnato da un
membro della casata nobiliare Sizzo de Noris; i Giovanelli e i Sizzo
rappresentano il fior fiore della nobiltà trentina di retaggio asburgico. Un
anno dopo, il 18 settembre 1806, il conte scrive a Canova una lettera di
raccomandazione in favore dello scultore trentino Salvatore de Carlis (1785–1825). Il testo della lettera è stato pubblicato nel 2010 dallo storico
dell’arte trentino Roberto Panchieri [27].
Signor Cavaliere
Padrone mio Colendissimo, La gentilezza, con la quale Vossignoria Illustrissima
si compiacque accogliermi, quando in compagnia del Conte Sizzo ebbi la sorte di
visitarla in Vienna, mi accresce il coraggio, onde nuovamente raccomandarle il
giovane Scultore Decarlis [sic] mio Patriota. Ha egli già l’onore d’esserLe
noto, e così essendo, credo Vostra Signoria Illustrissima persuaso, ch’ei non
sia indegno degli effetti della di Lei bontà. Pensa lo stesso di dedicarsi
costì seriamente allo studio di scultore, e ne sono certo, ch’il suo natural
talento, già acceso di brama di perfezionarsi, ajutato dalli consiglj di
Vossignoria Illustrissima riuscirà si, che terminato il corso de suoi studj, il
nome di Allesandro [sic] Vittoria non sarà più l’unico fra nostri Patrioti nel
numero de buoni Scultori. Ed essendo il raccomandato giovane privo di beni di
fortuna, alcuni amici si sono meco uniti a somministrargli annualmente la tenue
somma di Scudi Romani N. ottanta cinque. Egli secondo il permesso di
Vossignoria Illustrissima a me in Vienna accordato, riceverà quella dalle di
Lei mani, e ripartirà secondo li suoi reali bisogni. Se a tale favore, che Vossignoria
Illustrissima fà [sic] con questo al Giovane, ed agli Amici, Ella volesse
compiacersi di aggiungere pure quello di riceverlo in una delle Sue Accademie
sotto la propria Direzione, reputerei
ben felice lo raccomandato, e la Patria, e gli amici e me sopra ogni modo grati
e contenti. Condoni l’incomodo, che osai recarLe, a quella verace stima, e
rispetto con cui ho l’onore di contestarmi. Di Vossignoria Illustrissima
Devotissimo Obbligatissimo Servitore Benedetto Conte Giovanelli
Dal testo si deduce che Giovanelli ha già organizzato una
colletta a favore del giovane artista tra le famiglie abbienti di Trento, in
modo che egli si possa mantenere nel corso degli studi fuori dalla città. Il
denaro è però affidato nelle mani del Canova, in modo tale da essere
sapientemente speso. Al Canova si chiede inoltre di accogliere il giovane a
bottega. È in realtà un modo elegante per pagare direttamente i costi del suo
tirocinio. La lettera conferma infine che il ‘culto’ del Conte di Alessandro
Vittoria – lo scultore trentino per antonomasia cui egli dedicherà uno scritto
venticinque anni dopo – è già vivissimo in Giovanelli nei primi anni
dell’Ottocento. L’opera più nota del de Carlis, che lavorerà soprattutto tra
Roma, dove viene impiegato nella bottega di Canova (“una delle Sue Accademie”), testimonia il gusto neoclassico
dell’epoca: è un busto di Winckelmann che fu commissionato dalla casa di
Baviera (cui l’intero Tirolo – compreso il Trentino – è annesso nel 1806, prima
di essere unito al Regno d’Italia nel 1810) e conservato fino al 1840 nella
Gliptoteca di Monaco, nella sezione sugli scultori contemporanei (insieme ad
opere di Canova, Thorvaldsen, Schadow e Rauch) [28].
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Fig. 11) Salvatore de Carlis, Busto di Johannes Winckelmann, 1808 |
Il manoscritto 1262
alla Biblioteca di Innsbruck
Se si esclude la breve lettera al Canova, i primi testi del
Giovanelli sulle belle arti si trovano in un manoscritto datato 1832 e
conservato nella Biblioteca del Ferdinandeum di Innsbruck con il codice ms.
1261 ed il titolo Verschiedene historisch-topographische Nachrichten
aus Tirol (Diverse notizie storico-topografiche dal Tirolo). Si
tratta di tre testi indirizzati al Barone Andreas Di Pauli (1761– 1839), alto
magistrato tirolese e presidente dell'Associazione del Museo di Innsbruck. Come
scrive ancora nell’Ottocento il conservatore della biblioteca K. Schwarz,
citato nell’antologia di Giulio Benedetto Emert [29] del 1937, i tre testi nel
manoscritto 1261 sono datati “fra il
gennaio e l’ottobre del 1832; il primo di essi reca qualche notizia sul Coro
ligneo intagliato dell’Inviolata a Riva; poi [il secondo] dice di un pittore trentino: Francesco di
Maestro Sardo di Trento, il quale – secondo il Carli (Istoria di Verona, 1736,
p. 117) – avrebbe lavorato in Verona nel primo Quattrocento; infine [il terzo
include] notizie sul medaglista trentino Scolari del primo XVI, e altre meno
notabili, sui Dossi pittori, con un cenno all’opera loro nella serie dei
vescovi affrescati nel Buon Consiglio, restaurati e ridipinti in sulla fine del
Settecento dal rivano Zeri” [30]. Sembra dunque che l’interesse del
manoscritto 1262 sia, tutto sommato, ancorato a fenomeni campanilistici e, mi
sia permesso, concentrato su artisti poco noti (con l’eccezione dei Dossi)
fuori dal territorio di origine.
Il manoscritto 1261
ed i“Dipinti ragguardevoli in Trento
veduti nell’anno 1833”
È invece del 1833 un secondo manoscritto, con segnatura
1261, sempre conservato nella Biblioteca del Ferdinandeum, dal titolo “Dipinti ragguardevoli in Trento veduti nell’anno
1833”. Il testo viene interamente pubblicato nel 1904 dal giurista e
storico trentino Francesco Menestrina (1872-1961) [31] e poi nella già citata
antologia dell’Emert [32], che segnala che il testo è sfuggito allo Schlosser.
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Fig. 12) Marcello Fogolino, Carlo Magno in trono, ca. 1528. Trento, Castello del Buonconsiglio |
Il manoscritto del 1833 è però in realtà semplicemente una
lista di quadri ed affreschi visionati in edifici pubblici e privati della
città. È probabile che, come dice anche l’Emert, il Conte volesse partire da
questa compilazione per elaborare un qualche scritto più impegnativo sulla
pittura a Trento (o una guida artistica della città). Seguendo lo stesso metodo
sperimentato per le iscrizioni romane, avrebbe potuto trarre spunto da quelle
opere per allargare lo sguardo a storia e geografia del territorio. E tuttavia,
molto probabilmente, ciò fu reso difficile da un deficit di conoscenza: mentre
Giovanelli è chiaramente un esperto in questioni di epigrafia, proponendo la propria
interpretazione del testo delle steli, mostrando grande dimestichezza con le
raccolte di antichità romane e conoscendo a menadito la letteratura latina, le
sue incertezze sulla pittura rinascimentale (compresa quella trentina) sono
notevoli.
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Figg. 13-16) Marcello Fogolino, I quattro ovali con episodi della vita di Giulio Cesare, 1533. Trento, Magno Palazzo del Castello del Buonconsiglio, Camera terrena del Torrion da basso. |
Ecco qualche esempio. Al Magno Palazzo del Castello del
Buonconsiglio, oltre agli affreschi del Romanino e dei fratelli Dossi, vi è un
ciclo di Marcello Fogolino (1483/88 circa – dopo il 1558) con episodi della
vita di Giulio Cesare (in quattro ovali), ritratti di imperatori (in
quattordici archi) e figure di donne (in quattordici ovali). Si tratta di un
pittore manierista molto influenzato dagli altri artisti presenti con i loro
affreschi nel Castello, ed oggi considerato di secondo piano; è comunque un
artista che lavora intensamente in quegli anni a Trento dove, oltre agli affreschi
al primo piano del Magno Palazzo, ha lasciato anche pitture murali in alcuni
palazzi nobiliari e sulle facciate di numerose case patrizie del centro
cittadino. Ebbene, Fogolino non è citato affatto nel manoscritto. Ecco invece
quello che scrive Giovanelli a proposito del ciclo di affreschi sulla vita di
Giulio Cesare: “Nella rotonda del primo
piano nel soffitto in sull’asse: negli archi, 14 imperatori. Nelle soprastanti
lunette graziosissimi arabeschi e capricci. Ne’ 14 ovali altrettanti bellissime
figure di donne. I 4 ovali grandi rappresentano fatti antichi, fra’ quali è
particolarmente ammirabile il trionfo d’un imperatore sopra un carro tirato da elefanti, figurante
la solenne entrata in una città al lume di accese faci, di un effetto
meraviglioso. Quest’è opera di Giulio Pippi, detto Giulio Romano” [33].
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Fig. 17) Marcello Fogolino, Ornamenti nella Camera terrena del Torrion da basso. Trento, Magno Palazzo del Castello del Buonconsiglio. |
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Fig. 18) Giulio Romano, Il Banchetto di Amore e Psiche, 1526-1528. Mantova, Palazzo Te. Camera di Psiche, Parete sud |
Gli affreschi del Fogolino in Palazzo Sardagna (oggi molto
deteriorati, ma allora ancora “di ottima conservazione”) sono attribuiti dal
Conte a Tiziano [34]. Anche qui, semplicemente un colpo d’occhio permette di
sollevare interrogativi sulla verosimiglianza dell’attribuzione.
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Fig. 19) Marcello Fogolino, Affreschi della Sala dello Zodiaco, 1535-1540, Trento, Palazzo Sardagna |
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Fig. 20) Tiziano Vecellio, Sant'Antonio da Padova e il miracolo del piede risanato, 1511. Padova, Scuola del Santo |
Dunque, invece di Fogolino, si inventano opere di Giulio
Romano e Tiziano Vecellio. Vien da pensare che non solamente Benedetto
Giovanelli non sia né uno storico dell’arte (concetto assai vago in quegli
anni) né un conoscitore, ma che egli persegua un obiettivo campanilistico:
rivendicare alla propria città i migliori artisti del mondo rinascimentale, in
modo tale che Trento sia vista come centro importante nella fase di maggior
sviluppo dell’arte. Nel manoscritto, del resto, Giovanelli attribuisce alla sua
stessa famiglia la proprietà nel 1833 di un Caravaggio (“Il bacio dipinto in tela”), di un Van Dyck, di un Cima da
Conegliano e di uno Spagnoletto, tutte opere che l’Emert non riesce più ad
identificare nel 1937, ovvero cent’anni dopo la stesura, e sulle quali mancano
altre fonti. Si chiede dunque se sia un caso evidente di dispersione di una
collezione di capolavori [35], ma – aggiungo io – potrebbe anche trattarsi di
evidenti sopravvalutazioni del valore di opere altrui (vere e proprie croste?).
Una testimonianza di primo piano sul cambiamento di gusto, dal neoclassicismo al romanticismo
Una testimonianza di primo piano sul cambiamento di gusto, dal neoclassicismo al romanticismo
Se
le attribuzioni contenute nel manoscritto non sono attendibili, vi è comunque
un aspetto interessante, che riguarda il passaggio di Trento dal gusto
neoclassico dell’inizio Ottocento a quello romantico degli anni trenta del
secolo e, come vedremo, testimonia la discussione sull’arte anche a Milano
(allora austriaca). Giovanelli cita infatti due recenti dipinti di Francesco
Hayez a Casa Malfatti [36]. Uno è una “Venere
che sorte dal bagno”, oggi conosciuto come la “Venere che gioca con due colombe” del 1830 (oggi al MART di
Rovereto). Il secondo è “Venere che
conduce Elena al letto di Paride” (indicato negli Atti della cesarea regia accademia della belle arti di Milano come
“Venere conduce Elena a Paride”
[37]), una tela dello
stesso anno di cui si è purtroppo persa traccia. Prima di essere consegnati a
Malfatti, ovvero al committente (il quale per sfuggire ai debitori liquiderà
l’intera collezione sia d’arte antica sia d’arte moderna, che include anche
opere di Palagio Palagi e Giuseppe Canella [38]), i due quadri vengono mostrati all’Esposizione di Belle Arti a Brera nel
1830. E qui suscitano scandalo.
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Fig. 21) Francesco Hayez, Venere che scherza con due colombe (Ritratto della ballerina Charlotte Chabert), 1830 |
Vi
sono in realtà questioni ‘di gossip’ che soffiano sul fuoco delle polemiche al
momento dell’esibizione dei quadri di Hayez: Venere è ritratta nelle spoglie di
Charlotte Chabert, una ballerina francese di cui Girolamo Malfatti è follemente
innamorato. Il Malfatti commissiona almeno due quadri per ritrarre la Chabert
nuda: la Venere all’Hayez, e la Diana Cacciatrice a Pelagio Palagi (1775–1860), quadro oggi conservato alla Galleria Comunale d’Arte di Bologna. Il solo fatto che i
due maggiori pittori italiani del tempo siano interpellati per ritrarre l’amata
Charlotte deve essere stato motivo di scandalo. A questo si aggiunge che le
malelingue attribuiscono alla donna l’origine del dissesto finanziario
dell’uomo, che morirà solo e poverissimo.
Quando
compila il manoscritto nel 1833 Giovanelli, come podestà di una piccola città
di provincia, non può certo ignorare le dicerie. Il già citato storico
dell’arte trentino Roberto Panchieri ha dedicato alla vicenda un romanzo, pubblicato
nel 2010, dal titolo “La Venere di Hayez.
Cronaca di uno scandalo” [39], in cui attribuisce ad Hayez stesso
un’infuocata storia con la modella durante le sessioni di posa (basandosi su
una vera lettera inviata da Hayez al barone Sigismondo Trechi, in cui si
compiace di raccontare l’episodio); egli aggiunge che la tresca tra il pittore
e la ballerina francese viene scoperta dal Malfatti e che la donna viene
allontanata a Venezia. A proposito di Giovanelli, Panchieri scrive che egli sa
tutto, ma che “si dice convinto che
l'avvenimento gioverà alla città, rianimando sulle rive dell'Adige il culto
delle belle arti”.
Al
di là del pettegolezzo, vi è però anche una polemica di valore estetico. I due
quadri di Hayez segnano il passaggio di gusto dal classicismo al romanticismo.
I motivi sono classici, appartenendo alla mitologia, ma il modo con cui sono
rappresentati rompono l’iconografia tradizionale. Quando vengono esposti a
Brera, su di loro si scatena lo scontro tra chi (come il segretario di Brera,
Ignazio Fumagalli) vorrebbe preservare il gusto neoclassico ed i partigiani del
romanticismo. In ogni caso, il fatto che Girolamo Malfatti abbia commissionato
le due opere ad Hayez (e l’ulteriore quadro a Pelagio Palagi) mostra che vi
deve essere già nella Trento di quegli anni un nucleo d’interesse per quella
che oggi noi chiameremmo arte contemporanea.
Analizziamo
prima di tutto quello che Fumagalli scrive nella rivista Biblioteca Italiana a proposito della “Venere che gioca con due colombe”: “Venere che scherza con due colombre, appena uscita dal bagno, dello
stesso [Hayez] – Singolari pregi
riscontransi in questa figura: grazia ed anima ne’ movimenti, una tal quale
novità in ciò che da’ professori dicesi l’insieme, maestria somma di pennello, facilità di esecuzione. Non ci sembra
però bastevolmente puro il disegno, né perfetto l’accordamento delle forme: il
volto poco vezzoso, poco avvenente. Laonde questa figura non è a parer nostro
totalmente adatta a rappresentare l’immagine di Venere, la figliuola di Giove,
la bellissima delle Dive.”
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Fig. 24) Paragone tra una rappresentazione romantica (Hayez, a sinistra) e classica (Palagi, a destra) del corpo della stessa modella, Charlotte Chabert |
“Meschina nelle spalle e
nella schiena; posciachè dai fianchi in giuso si risente del carattere d’una
donna assai più grande e più robusta di quello che annuncino la schiena e le
spalle. Chi bene la consideri giudicarla dee non come di un solo getto, per
così dire, ma quasi un’accozzamento di due dimezzati corpi appartenenti a due
modelli, diversi per proporzioni e grandezza. Non bene intese le scapule a
tutto rigore di notomia; ineleganti le gambe, poco accurate le estremità, di
poco rilievo le membra. Le tinte tendono eccessivamente al color piombino.
Troppo sparsavi è la luce, dal che producesi una poca gradevole e quasi aspra
sensazione”
[40].
Insomma,
il corpo della Venere è sproporzionato e il colore della sua pelle troppo
metallico, non riflettendo le linee della bellezza ideale. Se si considera il
dipinto di Pelagio Pelagi si può forse immaginare quel che il Fumagalli avrebbe
preferito: un’immagine meno ‘naturale’ del corpo umano. Riferendosi in generale
al modo con cui Hayez rappresenta i corpi in scene mitologiche, egli scrive
sempre nel 1830: “La loro fisionomia
direbbesi lombarda, anzi che frigia o troiana” [41].
La
polemica non è meno virulenta per la Venere
che conduce Elena al letto di Paride. Così come si è detto, il quadro è
perduto, e dunque si può cercare di ricavarne un’impressione dallo scambio di
argomenti contrari nelle recensioni milanesi.
Ecco
una vera e propria stroncatura, scritta da Bernardo Biondelli (1804 –1886) per
la rivista Poligrafo: “Dopo gli
accennati, che diremo di Venere che conduce Elena a Paride? Io dirò che il signor Hayez ha dimenticato
in questo lavoro se stesso; dirò che il disegno poteva essere molto meglio
condotto, e che le carni, particolarmente nelle mezze tinte, sono ben lontane
dall’esser carni” [42].
Il
criterio estetico seguito da Fumagalli è invece quello di assicurarsi che la
pittura offra una rappresentazione quanto più fedele del testo letterario. È
per questo motivo che il quadro della Venere
che conduce Elena al letto di Paride di Hayez viene prima di tutto
paragonato ai versi dell’Iliade nella traduzione di Vincenzo Monti (all’epoca è
un testo assai recente, che risale ai primi decenni dell’Ottocento, con la
pubblicazione della versione definitiva nel 1825). Ecco che cosa scrive
Fumagalli:
“L’altro quadro di genere eroico è tratto dal
Libro III dell’Iliade e rappresenta allorquando Venere conduce Elena a Paride
che reduce dalla pugna sostenuta da Menelao.
Già negli odorati
Talami stassi e su trapunti letti
Tutto risplende di beltà divina
In sí gajo vestir, che lo diresti
Ritornarsi non già dalla battaglia;
Ma inviarsi alla danza, o dalla danza
Riposarsi (Traduzione di Vincenzo Monti)
Talami stassi e su trapunti letti
Tutto risplende di beltà divina
In sí gajo vestir, che lo diresti
Ritornarsi non già dalla battaglia;
Ma inviarsi alla danza, o dalla danza
Riposarsi (Traduzione di Vincenzo Monti)
Aggiungeremo a maggiore
chiarezza ed illustrazione i seguenti versi descrittivi che hanno somministrato
l’argomento del quadro all’egregio pittore:
L’alma figlia di Leda a questo
dire
Tremò, si chiuse nel suo bianco velo,
E cheta cheta in via si pose, a tutte
Le Troadi celata, e percorreva
A suoi passi la Dea. Poiché venute
Fur d’Alessandro alle splendenti soglie,
Corser di qua di là le scaltre ancelle
Ai donneschi lavori, ed ella intanto
Bellissima saliva e taciturna
Ai talami sublimi.”
Tremò, si chiuse nel suo bianco velo,
E cheta cheta in via si pose, a tutte
Le Troadi celata, e percorreva
A suoi passi la Dea. Poiché venute
Fur d’Alessandro alle splendenti soglie,
Corser di qua di là le scaltre ancelle
Ai donneschi lavori, ed ella intanto
Bellissima saliva e taciturna
Ai talami sublimi.”
Segue
una prima serie di considerazioni positive di Fumagalli sul quadro per quel che
riguarda la composizione.
“La composizione, quantunque ardua per
l’esecuzione, atteso lo scarso numero delle figure, avvisiamo, non disgrada a
petto delle più decantate, ché ben contrastate ne sono le linee, e bilanciate
le masse del chiaroscuro. Nella spressione di ciascuna figura troviamo che
Hayez seguì fedelmente il poeta nel suo racconto, e anche da un freddo momento,
oltremodo difficile a rappresentarsi da un pittore, seppe ricavarne un felice
risultamento. Elena è dignitosa e ravvolta nel suo bianco velo; la di lei
fisionomia indica la rampogna che chiude in petto e che poscia deve irrumpere
verso lo sposo. Venere che l’accompagna, sembra aver appena ricomposto il viso
che un momento prima erasi di lei mostrato sdegnoso. Le attitudini non
saprebbero essere meglio aggruppate ad un tempo e più leggiadro; in quella di
Paride tu trovi la mollezza di cui viene sì sovente dal poeta tacciato. Nel
fondo poi veggonsi le scalze ancelle correndo ripigliare i donneschi lavori”
[43].
Invece,
ancora una volta non piacciono
a Fumagalli il colorito ed i disegni dei corpi:
“Ma nella parte del colorito di questo
quadro, sebbene generalmente variato e robusto sulle norme de’ celebri antichi
veneti, ci sembra che nelle parti ombrose delle carni e specialmente nel torso
e nelle braccia di Venere egli abbia dato in tinte bigie ed alquanto ferrigne
che riescono disaggradevoli. Ella è questa una menda che a nostro avviso,
qualora egli la riscontri tale, può di leggieri farsi scomparire. Ci sembra
parimenti che tra lineamenti sì nobili e forme sì delicate qualche braccie
femminili pecchi di pesantezza in relazione delle altre membra piuttosto
svelte, e che tanto nella testa di Venere, quanto in quella di Paride siasi
l’autore attenuato ad una forma forse troppo oblunga. Volendo poi discendere
agli scrupoli, non gli tacciamo di aver desiderato che i panneggiamenti i quali
coprono la parte inferiore del corpo della Dea fossero meno aderenti alle
membra, e non sostenuti da quel nodo, giacchè ci ricordano Citerea uscita dal
bagno” [44]. Il riferimento è al quadro precedente dello stesso pittore,
duramente criticato per l’assenza di proporzioni.
A
proposito dei medesimi quadri, i giovani romantici la pensano assai
diversamente: i fratelli Defendente e Giuseppe Sacchi, in una Relazione sulle Belle Arti in Milano, pubblicata in “Il nuovo ricoglitore” scrivono: “In quest’anno Hayez volle sempre inspirarsi colle greche memorie: egli
ne rannodò le antiche colle moderne e ne fe’un serto di fiori. Paride non seppe
vincere Menelao: Venere lo velò in un nembo odoroso e lo ricondusse nel talamo.
Apparsa ad Elena, volle questa pure ricondurre appresso al suo diletto; e
mentre la leggiadra figlia di Leda rampognava il guerriero che avea ceduto la
vittoria al rivale, l’incognita conciliatrice de’due amanti [nota di
redazione: Venere] spariva lasciandoli. Il pittore ci dipinse quest’omerico
soggetto nel punto in cui Venere presenta a Paride la sua Elena; questa in atti
ritrosi, non vuol rispondere all’invito della Dea, e Paride corrucciato si
spoltrisce dalle morbide coltri. La figura di Elena, questa sola figura, è
veramente bella per l’ antica bellezza; è l’Elena di Omero. Venere e Paride ci
rammentano le creature di questo mondo e di questa età: nulla sanno di greco.
Gli ignudi sono però ben condotti, sebbene qua e là allividiti, mirabile è il
chiaroscuro, i contorni sono lindi e perspicui, semplice tutto l’insieme”
[45]. Il quadro
raccogli tali consensi che il poeta Domenico Biorci (1795-1872) dedica
all’opera un’ode di quattro pagine in versi nel 1831 [46].
In
conclusione, Benedetto Giovanelli – grande esperto dell’antico mondo romano e
medievale – fu solamente osservatore della vita artistica dei primi anni trenta
dell’Ottocento. E tuttavia il suo manoscritto 1261 ci rivela due elementi di
informazione: primo, Giovanelli attribuiva a grandi pittori del Rinascimento (Giulio Romano e Tiziano) i cicli di affreschi di Marcello Fogolino al Castello del
Buonconsiglio e a Palazzo Sardagna a Trento, in tal modo certificando che
anche il colto podestà ignorava la storia dell’arte della sua amata città; secondo,
il podestà di Trento testimoniava il passaggio nel mondo asburgico di lingua
italiana (inclusa Milano) dal classicismo al romanticismo.
NOTE
[27] Panchieri, Roberto - “Alla scuola del celebre Canova”: prime indagini sullo scultore Salvatore de Carlis, in Studi Trentini di Scienze Storiche, Anno LXXXIX, Sezione II, pagine 209-216, 2010. Il testo è disponibile su
[28] Panchieri, Roberto - “Alla scuola del celebre
Canova” … (citato).
[29] Emert, Giulio Benedetto – Fonti manoscritte
inedite per la storia dell’arte nel Trentino, Firenze, Sansoni, 1939; pagine
232.
[30] Emert, Giulio Benedetto – Fonti manoscritte... (citato),
p. 18
[31] Menestrina Francesco, Strenna dell’Alto Adige,
1904
[32] Emert, Giulio Benedetto – Fonti manoscritte (citato),
pp. 135-141
[33] Emert, Giulio Benedetto – Fonti manoscritte (citato),
p. 135
[34] Emert, Giulio Benedetto – Fonti manoscritte (citato),
p. 136
[35] Emert, Giulio Benedetto – Fonti manoscritte (citato),
p. 139
[36] Emert, Giulio Benedetto – Fonti manoscritte (citato),
p. 138
[37] Atti della Cesarea Regia Accademia delle Belle
Arti di Milano: discorsi letti nella grande aula del Regio Cesareo Palazzo
delle Scienze e delle Arti in Milano, 1831, p. 74. Si veda: https://books.google.de/books?id=C_xSAAAAcAAJ&pg=PA74&lpg=PA74&dq=hayez+malfatti+pagamento&source=bl&ots=bwjgcQlJ1D&sig=AWY0HeF1LRLU7mk9sygDP7__WSY&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjn6fLMnKjRAhXBXRQKHWHAA3YQ6AEITjAO#v=onepage&q=hayez%20malfatti%20pagamento&f=false
[38] Pinamonti, Gioseffo - Trento, sue vicinanze,
industria, commercio e costumi de' Trentini, Trento, 1836, Giuseppe Antonio
Marietti, p. 55. Si veda:
[39] Pancheri, Roberto - La Venere di Hayez. Cronaca di
uno scandalo, Curcu e Genovese Ass., 2010, 104 pagine.
[40] Biblioteca italiana, o sia giornale di
letteratura, scienze ed arti, Anno XV, Luglio, Agosto e Settembre 1830, Milano,
pagina 282. Si veda:
[41] Biblioteca italiana 1830 (citata) … p. 282
[42] Bionelli, Bernardo – Esposizione di Belle Arti nel
Palazzo Brera a Milano, pubblicato in: Poligrafo, Giornale di scienze, lettere
ed arti, Tomo IX, gennaio 1832, pagina 128. Si veda:
[43] Biblioteca italiana, o sia giornale di
letteratura, scienze ed arti, Tomo LXIII, Luglio, Agosto, Settembre, 1831, pagina
262. Si veda:
[44] Biblioteca italiana 1831 (citato) … p. 262
[45] Defendente Sacchi e Giuseppe Sacchi, Le Belle Arti
in Milano, Anno VI, in: Il Nuovo Ricoglitore, Anno VII, Milano, 1831, p. 651.
Si veda:
[46] Biorci Domenico, Venere che conduce Elena al letto
di Paride (pagine 29-32) in: Biorci Domenico, I più bei quadri di pittura e di
scultura esposti in Brera nelle gallerie dell’I.R. Accademia della Belle Arti
nel Settembre del 1831 in altrettanti quadri poetici, Milano, Giuseppe Crespi,
1831, 76 pagine. Si veda:
https://archive.org/stream/ipiubeiquadridip00bior#page/28/mode/2up/search/paride
https://archive.org/stream/ipiubeiquadridip00bior#page/28/mode/2up/search/paride
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