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venerdì 27 maggio 2016

Giovanna Perini. Gli scritti dei Carracci. Ludovico, Annibale, Agostino, Antonio, Giovanni Antonio.


Recensione di Giovanni Mazzaferro
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Giovanna Perini

Gli scritti dei Carracci
Ludovico, Annibale, Agostino, Antonio, Giovanni Antonio


Introduzione di Charles Dempsey

Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1990

Fig. 1) Storie di Medea e Giasone, Medea si invaghisce di Giasone
Bologna, Palazzo Fava, Fregio dei Carracci (entro il 1584)
Fonte: Wikimedia Commons

SU GIOVANNA PERINI FOLESANI SI VEDA IN QUESTO BLOG: Giovanna Perini Folesani, Luigi Crespi storiografo, mercante e artista attraverso l’epistolario (Parte prima e seconda); Sandra Costa, Giovanna Perini Folesani. I savi e gli ignoranti. Dialogo del pubblico con l’arte (XVI-XVIII secolo); Giovanna Perini, Gli scritti dei Carracci. Ludovico, Annibale, Agostino, Antonio, Giovanni Antonio; Roger de Piles, Dialogo sul colorito, A cura di Giovanna Perini Folesani e Sandra Costa (Parte prima e seconda); Giovanna Perini Folesani, Sir Joshua Reynolds in Italia (1750-1752), Passaggio in Toscana. Il taccuino 201 a 10 del British Museum

A più di venticinque anni dalla sua pubblicazione, la raccolta degli scritti dei Carracci presentata da Giovanna Perini [1] mostra ancora tutta la sua validità. Affrontare il tema dei documenti carracceschi (esclusi i contratti) giunti sino ai nostri giorni vuol dire infatti addentrarsi in un campo minato. Quanto ci è giunto ha natura estremamente frammentaria. Basti pensare che – storicamente – il testo che ha avuto maggior impatto sulla letteratura artistica è costituito dalle postille di Annibale a una copia delle Vite vasariane (postille correttamente indicate da Bellori come opera di Annibale, ma invece ritenute di Agostino dal Malvasia e così classificate sino a cinquant’anni fa). Vi sono poi alcune lettere dei tre; le più numerose sono quelle di Ludovico, ma si tratta di circostanza che non significa nulla: potrebbe essere stata semplicemente opera del caso. Restano inoltre tracce della produzione poetica di Agostino, fra cui un sonetto che ha sollevato vivaci dibattiti sul cosiddetto “eclettismo” carraccesco. Del tutto marginali le tre lettere finali di Antonio, figlio di Annibale, che dopo la morte del padre (1609) si rivolge al Cardinal Farnese chiedendogli di confermare a lui la protezione già accordata al genitore e quella, singola, di Giovanni Antonio, fratello di Agostino e Annibale, che, in seguito al decesso di quest’ultimo si rivolge anch’egli al Farnese per chiedergli di intervenire in una squallida vicenda di soldi con Ludovico, mettendo in dubbio anche il fatto che Antonio fosse realmente figlio di Annibale.

Il vero punto della questione è che la maggior parte degli scritti carracceschi non ci sono giunti in originale, ma ci sono testimoniati tramite la Felsina Pittrice del Malvasia. Dapprima accolti senza troppi problemi nelle raccolte antologiche ottocentesche, la critica positivista ne ha messo seriamente in discussione la veridicità. Il fatto, poi, che gli originali delle lettere non siano stati trovati fra le carte preparatorie del Malvasia, oggi conservate presso l’Archiginnasio di Bologna, ha fatto sì che si sia parlato di falsi realizzati ad hoc dall’erudito bolognese. Si badi bene: si tratta di affermazioni che, con sfumature diverse, hanno coinvolto il Gotha della critica d’arte del ‘900, da Roberto Longhi a Sir Denis Mahon e al bolognese Francesco Arcangeli.

Fig. 2) Storie di Medea e Giasome, Gli incantesimi di Medea
Bologna, Palazzo Fava, Fregio dei Carracci (entro il 1584)
Fonte: Wikimedia Commons

Per scrivere un libro come questo, un libro che invece ribalta e rispedisce al mittente le accuse di falsificazione nella quasi totalità dei casi, ci voleva una grandissima preparazione e tanto, tanto coraggio. Qualità che a Giovanna Perini non manca (al contrario della linearità nell’esposizione). È quindi inevitabile che l’analisi dei singoli testi dei Carracci sia legata a filo doppio con la figura del Malvasia, con lo studio del suo metodo storiografico (metodo semplicemente negato dalla critica più intransigente) e, sia pure in maniera non sempre convincente, con il superamento dell’accusa di eccessivo campanilismo mossa alla Felsina Pittrice. In merito si spende soprattutto, nella sua introduzione, Charles Dempsey. Riportiamo un passaggio chiave: “Anche se, almeno dai tempi di Schlosser, la reazione dell’Italia settentrionale contro le Vite vasariane è stata interpretata come prova di un profondo municipalismo, ovvero di un orgoglio civico ferito che si sforza di resistere, contrapponendosi alla centralità nazionale di Roma sostenuta in parte da Vasari e poi, dopo di lui, da Bellori, proprio le parole «campanilismo» e «municipalismo» sono portatrici di connotazioni anacronistiche e inadatte a descrivere la vera situazione storica. Entrambe sono neologismi risorgimentali, specificamente coniati da patrioti nazionalisti per caratterizzare e colpire le resistenze provinciali alla causa dell’unificazione italiana e al progresso politico ed economico del nuovo paese nel suo complesso. Prima del 1861 la storia d’Italia si configurava come un insieme di storie «regionali» e la controversia tra Malvasia e Bellori… non era tanto una guerra tra centro e periferia, ma piuttosto la lotta tra due potenti visioni del futuro della cultura visiva nazionale ed internazionale” (p. 20). Una lotta di “gusto”, la si potrebbe definire oggi: il classicismo romano, declinato via via fino al Maratta, e il naturalismo derivante dalla rivoluzione carraccesca dall’altro, fortemente ispirato dall’arte veneta e lombarda. Terreno di scontro, ovviamente, la figura di Annibale, chiamato ad essere campione sia dell’una sia dell’altra fazione a seconda delle versioni fornite dal Bellori da una parte e da Malvasia dall’altra (che non a caso, a scanso di equivoci, attribuisce grande importanza anche a Ludovico, sicuramente esente dal virus romano). Tutto vero, per carità. Se non che ci sarebbe da chiedersi perché le storie «regionali» non dovrebbero essere considerate storie campanilistiche e basterebbe ricordare che Bologna, seconda città dello Stato pontificio per importanza, era istituzionalmente periferia di Roma. La percezione di essere periferia e la voglia di rivincita spiegano ad esempio, in chiave architettonica, la resistenza ai modelli di edificazione classica tosco-romana a favore di temi che ricordano il gotico e, d’altro canto, i ben noti interventi urbanistici voluti dal Cardinal Legato a metà del Cinquecento.

Ma andiamo con ordine e proviamo ad esaminare per sommi capi i singoli scritti.


Annibale Carracci

Fig. 3) Annibale Carracci, Cristo morto e strumenti della passione, 1583-1585, Staatsgalerie Stoccarda
Fonte: Wikimedia Commons

Le postille di Annibale sono straordinariamente famose, e – in qualche modo – inaugurano un genere a cui prossimamente dedicheremo maggior attenzione. Uno degli aspetti più strani è che non rimangono un fatto privato, ma diventano quasi immediatamente pubbliche. Le conosce Bellori, che si preoccupa di citarne una, depotenziandone la forza corrosiva (per Bellori, che le attribuisce correttamente ad Annibale, quest’ultimo è l’artefice della rinascita dell’arte italiana basata sul bello ideale, in contrapposizione al tardo manierismo da un lato e al naturalismo senza decoro di Caravaggio). Malvasia le dice opera di Agostino e tale attribuzione resiste assai a lungo. L’esemplare originale delle Vite su cui sono apposte (solo l’ultimo volume di un’edizione Giuntina) è stato a lungo smarrito e a testimoniarle erano solo due copie settecentesche (rivelatesi peraltro fedeli) in cui erano a loro volta attribuite ad Agostino dal copista. Solo nel 1972 l’originale è stato ritrovato e poi donato all’Archiginnasio; le postille sono state pubblicate integralmente da Mario Fanti fra 1979 e 1980 [2]. Due cose sono apparse immediatamente evidenti: l’esemplare originale, in realtà, era stato postillato da almeno sei o sette persone diverse (circostanza che ovviamente non era percepibile nelle copie settecentesche in cui la grafia era una sola); quelle di Annibale sono però state facilmente identificate da Fanti (che le ha comunque riportate tutte) grazie a riscontri calligrafici. Giovanna Perini opera in merito una scelta precisa: decide di scartare tutte le annotazioni a margine non attribuibili ad Annibale e pubblica solo quelle del Carracci. Per prima cosa, ottiene come risultato quello di purgare il libro da buona parte degli insulti rivolti a Vasari (avremo modo di parlare in altra occasione del perché si postilla un’opera. Uno dei motivi più ragionevoli – tutti noi l’abbiamo fatto almeno una volta – è perché si ha una reazione di rifiuto nei confronti di ciò che si è appena letto, e le annotazioni, in queste circostanze, non sono mai benevole). Resta, sia chiaro, la famosissima postilla in cui Annibale definisce Vasari  un “viso di cazzo” e vi sono anche altre espressioni meno colorite che però aiutano a spiegare – a mio avviso - perché Malvasia, scrivendo la Felsina Pittrice, non ebbe troppi scrupoli a parlare di Raffaello come “boccalaio urbinate”. Ma l’impressione generale è che, considerate complessivamente come una particolare specie di genere letterario, le postille siano coerenti e mostrino la grande passione di Annibale per la pittura veneta del secondo Cinquecento, dal “divinissimo” Tiziano a Jacopo Bassano, da Sansovino (annesso ai “veneti” doc) a Giorgione, dal Tintoretto al Veronese.

Fig. 4) Annibale Carracci, Il mangiafagioli, 1584-85, Roma, Palazzo Colonna
Fonte: Wikimedia Commons

Perini, intelligentemente, segnala come l’assenza di annotazioni in corrispondenza di artisti che sappiamo essere fondamentali per l’arte di Annibale (il caso tipico è quello di Correggio) non può dar adito al ridimensionamento dell’influenza dei medesimi sul pittore bolognese. Semplicemente è un dato di fatto che Annibale annota solo un gruppo di biografie vasariane nel terzo volume della Giuntina; non è detto che le abbia lette tutte. Nel caso di una letteratura così frammentaria – insomma – le presenze contano più delle assenze. Un dato da non dimenticare. Le postille carraccesche, peraltro, hanno un ruolo fondamentale nelle argomentazioni di Perini a sostegno della genuinità delle poche lettere del medesimo.

Interessante è la questione della datazione delle postille. In genere le si faceva risalire al 1590 circa, ovvero a prima del trasferimento di Annibale a Roma. L’autrice ritiene invece che debbano collocarsi ai primi anni della permanenza romana dell’artista, quando Annibale si scontra a Roma con colleghi tardo-manieristi come lo Zuccari (Annibale li definisce “michelangiolisti”). È in questo contesto che il bolognese deve aver sentito l’urgenza di legger (o rileggere) Vasari per far fronte alle argomentazioni della “maniera”: “in tali condizioni, per Annibale leggersi o rileggersi Vasari non poteva non caricarsi di un sentimento polemico particolare, non scevro di motivazioni nazionalistiche (i padani vs i tosco-romani) che sono soprattutto estetiche, e in parte anche etiche: ad esse la penna dava espressione duratura non meno che sfogo” (p. 39). Il grosso degli insulti è opera degli altri annotatori. Resta quel “viso di cazzo” (di cui Annibale si scusa immediatamente, come se gli fosse scappata una bestemmia in chiesa) che troppe volte ha finito per negare la valenza estetica delle sue note.

Fig. 5) Annibale Carracci, La grande macelleria, Christ Church Picture Gallery, Oxford
Fonte: Wikimedia Commons

Due testi particolarmente contestati sono le lettere di Annibale in data 18 e 28 aprile 1580 inviate da Parma al cugino Ludovico, trascritte dal Malvasia e pubblicate nella Felsina Pittrice. Il contenuto delle lettere, nella sostanza, consiste nell’esaltazione dell’arte di Correggio. Secondo larga parte della critica le lettere sarebbero false sulla pura base di evidenze stilistiche: nella sua prima opera giovanile, la Crocifissione del 1583 (fig. 6), oggi ospitata nella Parrocchia di Santa Maria della Carità a Bologna, non si rinverrebbero influenze correggesche, ma soltanto relative alla pittura veneta. Perini argomenta ampiamente le sue tesi a favore della veridicità dei testi, facendo notare, fra le altre cose, che tali influenze si notano ad esempio nel fregio coevo di Palazzo Fava (figg. 1 e 2), e – mi pare di capire – rifiutando l’esistenza di un nesso automatico fra ciò che si scrive e ciò che si fa. Secondo i detrattori, a quella data, Carracci non era ancora stato a Parma. In realtà un dato di fatto vede tutti d’accordo. Negli anni successivi, e prima dell’esordio ufficiale, fu a Venezia. Normale quindi che il giovane artista possa aver scelto atmosfere diverse per generi diversi (da un lato la pittura sacra, dall’altro il racconto mitologico).

Fig. 6) Annibale Carracci, Crocifissione con San Francesco e San Petronio, 1583,
Bologna, Chiesa di Santa Maria della Carità
Fonte: Wikimedia Commons
In merito mi sia permessa una considerazione del tutto personale. La Crocifissione del 1583 viene indicata normalmente come aderente allo spirito controriformistico che aveva avuto la sua più evidente manifestazione nel Discorso sulle immagini sacre e profane del Cardinal Paleotti, pubblicato a Bologna un anno prima. Mi chiedo seriamente se chi lo dice abbia mai letto il Discorso sulle immagini sacre, dove le raccomandazioni di carattere stilistico di fatto non esistono, ma invece quelle iconografiche sono chiare. In nome del principio di verosimiglianza il pittore deve rappresentare la scena così come narrata dalle Sacre scritture: si capisce quindi come il Cristo sia rappresentato nell’atmosfera resa pesante dell’oscurità che scende sul Golgota al momento della morte; ma contemporaneamente la raccomandazione è di non commettere falsi storici e di non rappresentare santi che, manifestamente, non potevano essere presenti alla scena. Tenuto conto che qui compaiono sia San Petronio sia San Francesco c’è da ritenere che Annibale abbia dato più retta alla committenza che al Cardinal Paleotti. E le piante callose dei piedi di San Francesco (dei piedi che sono l’esatta replica di quelli dei contadini del Bassano e ricordano quelli di molti personaggi che ritroveremo nei quadri caravaggeschi di lì a poco) ben poco hanno a che fare col decoro di cui si fa promotore Paleotti. Non per questo, tuttavia, qualcuno si sognerebbe di dire che il Discorso sulle immagini sacre e profane sia un falso. L’argomento, insomma, appare del tutto capzioso.


Agostino Carracci

Fig. 7) Agostino Carracci Crocifissione di Cristo (1589)
Incisione dalla Crocifissione di Tintoretto alla Scuola Grande di S. Rocco
Fonte: http://wellcomeimages.org/indexplus/obf_images/56/43/1f3e4ffe8916180bb93e6ee9a19a.jpg

Di Agostino Carracci sopravvive praticamente nulla (specie ora che le postille sono state riportate correttamente al loro legittimo autore). Ma un sonetto (in lode di Nicolò dell’Abate), ancora una volta riportato dal Malvasia, è stato oggetto di particolari discussioni. Considerato un manifesto dell’“eclettismo” carraccesco, è stato dichiarato manifestamente falso quando sono state ritrovate le carte preparatorie della Felsina e non lo si è trovato. Le ragioni della falsificazioni sarebbero state due: da un lato rivendicare l’inesistente “bolognesità” di Nicolò (il titolo con cui il sonetto compare nella Felsina è “Sonetto in lode di Nicolò Bolognese”), dall’altro sostenere l’eclettismo dei Carracci. La contestazione principale, ancora una volta, è che il termine “eclettismo” sarebbe di origine tardo secentesca-primo settecentesca; sarebbe cioè un’invenzione di Malvasia. Qui ci sarebbe da discutere per pagine e pagine. Anche oggi gli stessi sostenitori dei Carracci rifiutano l’idea che i medesimi fossero “eclettici” attribuendo al termine un valore sminuente, ma, parlando di rivoluzione carraccesca, preferiscono richiamarsi allo studio analitico del vero. A Perini (che ha una profonda preparazione anche in ambito di semiotica) basta far notare che – di per loro – le parole sono vuote e assumono il significato che di volta in volta le si vuole attribuire. Se di eclettismo si vuole parlare in termini riduttivi, come “semplice giustapposizione meccanica di motivi e qualità formali di origine eterogenea” forse è il caso di guardare, a Bologna, a “certi quadracci vasariani” e sicuramente non ai Carracci. “Di fronte a questo eclettismo superficiale; epidermico, da collage, i Carracci si propongono un eclettismo interiorizzato, intellettuale, l’imitazione e la combinazione non di forme esteriori, ma di metodi e principi d’osservazione, onde non creare un patchwork mostruoso, ma un complesso unitario organico e coerente; autonomo e nuovo” (pp. 45-46). In questo senso – sembra dire Perini – il contenuto del sonetto sembra programmaticamente perfettamente allineato col pensiero dei Carracci e non c’è bisogno di pensare che sia un’ “invenzione” del Malvasia; d’altro canto, in ottica contemporanea; non appare assurdo parlare di eclettismo in senso “intimo”. Basta mettersi d’accordo sulle parole. La distanza rispetto all’ “imitazione dal vero” di cui si preferisce parlare oggi appare davvero minima.

Fig. 8) Agostino Carracci, Comunione di San Girolamo, 1592-97 circa, Pinacoteca Nazionale di Bologna
Fonte: Wikimedia Commons

In quanto alla rivendicazione di bolognesità di Nicolò non si può certo escludere che il titolo sia un’invenzione “redazionale” di Malvasia. Ciò non significa che il sonetto sia falso. In particolare nel sonetto tale affermazione non compare e la frase “Chi farsi un bon pittor cerca e desia… si ponga solo l’opre ad imitare che qui lascioci il nostro Nicolino” appare semmai essere una dichiarazione di affetto nei confronti del pittore che li ha preceduti di qualche decennio. Dichiarazione – aggiungo io – che mi pare del tutto logica; soprattutto se si tiene conto che fra tali opere c’era anche il fregio (oggi perduto, salvo la decorazione del camerino con storie dall’Orlando Furioso) di Palazzo Torfanini (eseguito fra 1548 e 1552). E palazzo Torfanini si trova letteralmente a 50 metri in linea d’aria rispetto a Palazzo Fava, dove i Carracci esordirono con il fregio di Giasone (1583). Impossibile pensare che, incaricati della commissione, i Carracci non abbiano studiato con estrema attenzione il capolavoro oggi perduto di Nicolò, instaurando un rapporto intimo con l’opera e il loro autore che porta Agostino a parlarne come del “nostro Nicolino”.


Ludovico Carracci

Dell’epistolario di Ludovico, relativamente più numeroso, l’aspetto che più colpisce è come egli fosse in contatto con figure di letterati ed appassionati che alimentano il circuito del collezionismo di quadri e disegni in quegli anni.  La lettera inviata da Giovambattista Marino a Ludovico (p. 145) si inserisce perfettamente in un quadro compreso fra cortigianeria e collezionismo che, a suo tempo, è stato descritto nella recensione all’epistolario del celebre poeta. Siamo nell’ambito della piaggeria, condita con richieste di “qualche altro scherzo di suo capriccio” da eseguire “negli avanzi dell’ozio”. E subito dopo il mittente chiarisce i contorni della sua richiesta, invitando il pittore a “scherzare sopra qualche favoletta antica, come sarebbe per esempio quella di Salmace e d’Ermafrodito, rappresentadoli ignudi ed abbracciati in mezo della fontana”. Ma naturalmente Marino s’affretta a spiegare a Ludovico (che appare essere un fervente cattolico) di non porsi problemi ad esercitare “la sua mano in favolette oscene e lascive”, perché già lo hanno fatto il Barocci e Palma il Giovane, e il tutto rimarrà “nello studio di un signore” (ovvero dello stesso Marino).

Ludovico Carracci, Madonna col Bambino che appaiono a San Giacinto, 1594, Parigi, Museo del Louvre
Fonte: Wikimedia Commons

Il rapporto con Ferrante Carlo, altro letterato di statura senz’altro inferiore al Marino, appare sempre legato a committenze e richieste di opere, ma – ad essere onesti – sembra ispirato da un rapporto di amicizia e, comunque, di rispetto. Si tratta di un elemento da non sottovalutare, posto che Malvasia non pare avere troppo in simpatia il Carlo, probabilmente perché entrato in polemica con Marino (e Malvasia era profondamente legato al marinismo). Stando alla vulgata raccolta da Malvasia proprio Carlo sarebbe stato la causa indiretta della morte di Ludovico. Quest’ultimo avrebbe chiesto al letterato un parere sull’affresco dell’Annunziata nel cantiere di San Pietro e Carlo avrebbe risposto che andava tutto bene. Se non che, tolti i ponteggi, sarebbe emerso un grave errore di prospettiva che avrebbe amareggiato a tal punto il pittore da condurlo alla morte. In realtà, tutto ciò poco si concilia con l’epistolario, se non altro perché l’ultima lettera di Ludovico (febbraio 1619) è indirizzata proprio a Carlo. Ludovico vi spiega la situazione e, ben consapevole che la sua è una prosa stentatissima, chiede all’amico di scrivere una lettera di scuse da parte sua, una lettera “ben tirata, purché sia umile” (p. 144). Ben difficilmente Ludovico avrebbe inviato la richiesta proprio a chi sarebbe stato il responsabile del suo errore.

L’epistolario con Carlo sembra piuttosto biunivoco. È vero che il letterato sollecita l’esecuzione e l’invio di quadri, ma è anche vero che altrettanto fa Ludovico. Appare curioso, e forse utile per la storia delle scienze, il carteggio in cui il pittore chiede all’amico l’invio di un miracoloso olio di zolfo perché i figli di un amico hanno i vermi; invio che avviene puntualmente, accompagnato anche da una breve spiegazione sul contenuto e le proprietà dell’olio nonché sulla sua posologia (pp. 120-124). Leggendo la spiegazione a me parere improbabile che Carlo avesse la benché minima conoscenza di medicina (“l’oglio è fatto di principal sostanzia di zolfo entrovi decotto per molti e molti mesi sale d’oro, rubini smeraldi perle granate”). Certo è che appare chiaro come, ancora in quegli anni, la produzione di medicine avvenga nei conventi (Don Ferrante era un religioso) e la circolazione delle medesime si diffonda anche tramite un circuito erudito che ne esalta le proprietà (poche righe più sotto Ferrante dice che “spero questa primavera… finiremo un oglio per ferite, spasimo, ferite avvelenate, cancri, et ulcere” dove la prima persona plurale non sta ad indicare un suo coinvolgimento diretto nella produzione, ma l’appartenenza ad una comunità conventuale in cui si effettuano esperimenti).

Ludovico Carracci, Annunciazione (1585 circa), Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: Wikimedia Commons

Tornando ad aspetti artistici, non può passare inosservato come Ludovico sia vigile spettatore del panorama artistico anche in età avanzata e segnali al Carlo per ben due volte, nel 1617, la presenza di un certo Giovan Francesco da Cento (il Guercino): “Uno giovane di patria di Cento che dipinge con tanta felicità de inventione e gran disignatore e felicissimo coloritore, e mostro di natura e miracolo da far stupire a chi vede le sue opere” (p. 141).

Ma la lettera probabilmente più importante di Ludovico è quella che l’artista fa scrivere (l’ortografia è troppo curata perché sia sua) ed invia a Galeazzo Paleotti, parente del cardinale, che sta raccogliendo informazioni sul funzionamento dell’Accademia carraccesca degli Incamminati per conto di Federico Borromeo, che a sua volta sta progettando di aprirne una a Milano. Siamo nel 1613. Tenuto conto che parte della critica sosteneva che la stessa esistenza dell’Accademia fosse un’invenzione malvasiana, la lettera fa finalmente giustizia dell’annosa questione ed appare volta soprattutto a spiegare come il meccanismo dei premi nei concorsi sia strutturato in maniera tale da non lasciar dubbi nell’alunno sull’imparzialità dei maestri; la credibilità dell’insegnante e del meccanismo premiale è l’aspetto fondamentale che attribuisce autorità al docente nel momento in cui interviene a segnalare gli errori e le manchevolezze del discente. Emerge cioè una particolare attenzione ai meccanismi della didattica che sembra essere una delle prerogative precipue dell’Accademia.


NOTE

[1] Oggi Giovanna Perini Folesani, per l’aggiunta del cognome materno.

[2] Si veda Mario Fanti, Le postille carraccesche alle Vite del Vasari: il testo originale, in Il Carrobbio, V, 1979, pp. 148-164 e Mario Fanti, Ancora sulle postille carraccesche alle Vite del Vasari in Il Carrobbio, VI, 1980, pp. 136-141.

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