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Hans Ulrich Obrist
Lives of the Artists, Lives of the Architects
[Vite degli Artisti, Vite degli Architetti]
London, Allen Lane, 2015, 544 pagine
(recensione di Francesco Mazzaferro)
Parte Prima: l'arte universale in un mondo globale
[Versione originale: gennaio-febbraio 2016 - nuova versione: aprile 2019]
Insomma, senza la multiculturalità della Svizzera, la curiosità
dell’adolescente, la cortesia degli artisti di fronte ad un giovane sconosciuto
e senza i viaggi scolastici in cuccetta attraverso l’Europa, oggi non potremmo
leggere un'opera monumentale che documenta l'arte
contemporanea.
NOTE
Parte Prima: l'arte universale in un mondo globale
[Versione originale: gennaio-febbraio 2016 - nuova versione: aprile 2019]
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Fig. 1) La copertina del libro nell'edizione Allen Lane del 2015 |
Il mito di Vasari e quello della
parola
Il mito di Giorgio Vasari rivive con l’ultimo volume di Hans Ulrich Obrist
(1968-), forse il più famoso dei curatori contemporanei. È lui stesso a
confermarlo nelle (uniche) 2 pagine di introduzione alla sua corposa raccolta
di dialoghi con diciannove artisti ed architetti del XX e XXI secolo, pubblicata nel 2015. L’autore ci racconta di essersi ispirato alle Vite vasariane, lette nei primi anni
della sua precocissima formazione. L’interesse per la storiografo aretino
(evidentemente non dimenticato neppure da chi ha fatto della sperimentazione
museale la propria missione di vita [1]) non si limita solo all’aspetto
biografico (come immediatamente confermato dal titolo dell’opera), ma molto di
più si nutre di un concetto di arte
globale che ha origine proprio nell’arte italiana del rinascimento (dove
geni universali non sono solo capaci di destreggiarsi nella produzione di
pittura, scultura ed architettura, ma padroneggiano anche la scrittura).
Riferirsi a Vasari ha un valore evocativo che – per uno svizzero di lingua
tedesca di grande cultura – rievoca la missione di un grande compatriota, Jakob Burckhardt: creare un legame tra la cultura classica e quella romantica. Nel
mondo di lingua tedesca l’universalità dell’arte si tramanda del resto dal rinascimento
vasariano al concetto tardo-romantico dell’opera d’arte totale, il Gesamtkunstwerk. Non a caso un’altra
recente opera di Obrist, il piacevolissimo saggio sull’arte del curatore,
intitolato Ways of curating, [2],
presenta un intero capitolo col nome di Curating,
Exhibitions and the Gesamtkunstwerk (pp. 22-35), dedicato alla mostra Der Hang zum Gesamtkunstwerk (L’inclinazione verso un’arte totale) che
si tenne a Zurigo tra febbraio ed aprile 1983. Obrist l'ha visitata 41 volte. Nelle
sue interviste il curatore chiede agli architetti di parlare di arti
decorative, ed a pittori e scultori di parlare d’architettura. Nei colloqui con
tutti cerca di evidenziare gli aspetti più concettuali dell’arte
contemporanea, quelli dunque che possono essere meglio descritti dal linguaggio
parlato. Sembra voler affermare che i decenni a cavallo tra il XX ed il
XXI secolo siano appunto un’epoca dove il concetto di arte si amplia a
tal punto da giungere alla smaterializzazione dell’opera d’arte stessa,
rendendo impossibile una sua comprensione senza il dialogo con l’artista. Ways of curating include anche un
omaggio alla mostra Les immateriaux
organizzata nel 1985 dal filosofo Jean-François Lyotard al Centre Pompidou di
Parigi. È lì che, per la prima volta, si teorizza un’arte smaterializzata, non
più legata alla fisicità della materia, e proprio per questo capace di un
rapporto diretto con filosofia, poesia, letteratura e cinema.
Il volume pone le preferenze estetiche degli artisti, le loro vicende
personali, i successi e i fallimenti lungo le loro carriere al
centro della comprensione dell’arte contemporanea. L’autore offre al lettore
un’ampia selezione di testimonianze di artisti tutti profondamente segnati
dalla riflessione personale sull’arte. Quel che contraddistingue Obrist è la
convinzione assoluta della centralità della parola. Con una sola eccezione si
cercherà invano, nelle 544 pagine del volume, una qualsiasi foto o
illustrazione delle opere su cui vertono le interviste. Domina la sobrietà del
verbo, nell’accezione biblica della chiesa evangelica riformata, che si può
forse spiegare nelle origini zurighesi dell’autore. Si tratta del resto di una
caratteristica comune a molte delle sue opere. I precedenti volumi di
interviste del 2003 e 2010 contengono colloqui con più di 150 personalità (non
solamente artisti), per un totale di più di duemila pagine [2]. Bene, in
nessuna di queste opere figurano illustrazioni.
Obrist è al centro della produzione di letteratura artistica contemporanea.
A lui si devono, in cooperazione con altri studiosi, le edizioni degli scritti
di figure cruciali dell’arte odierna come Gerhard Richter (The Daily Practice of Painting - Writings and Interviews 1962-1993,
pubblicato nel 1993) e Louise Bourgeois (Destruction
of the Father / Reconstruction of the Father, pubblicato nel 1998). È
l’intervista a fungere da perno della sua riflessione estetica, così come il
dialogo è l’essenza della filosofia di Platone. Si è già fatto riferimento ai
due volumi del 2003 e del 2010, frutto di trascrizioni di centinaia di ore di
interviste registrate su magnetofono. Obrist è anche il curatore, per i tipi
della casa editrice della Libreria Walther König di Colonia (uno dei maggiori
editori tedeschi d’arte), della Conversation
Series, una collana di libri tascabili a basso prezzo, ognuno dei quali
presenta i dialoghi tra Obrist stesso e un artista contemporaneo di spicco. Dal
2007 ad oggi ne sono usciti 28. Per una lista dell’intera collezione si veda: http://www.artbook.com/huoconv.html.
Lives of the Artists, Lives of the
Architects è dunque il recente
tentativo di Obrist di operare una sintesi dello sterminato materiale
documentario che è riuscito a raccogliere nel corso degli ultimi decenni.
Un’utile appendice spiega da dove provengano i testi. È chiaro che si
tratta di un’antologia tratta dalle proprie numerosissime precedenti
pubblicazioni. Solo in pochissimi casi siamo di fronte a testi inediti. A mio
parere, questo è un pregio, proprio perché riflette lo sforzo di operare una
scelta accurata all’interno di un percorso di ricerca già tracciato, e non di
aggiungere ulteriore materiale ad una massa così corposa di testi. Una sintesi
è sempre, per sua natura, operazione crudele, soprattutto per una personalità
dagli interessi così vasti e, molto probabilmente, prigioniera di un’inesauribile
curiosità, come quella di Obrist. Sarebbe facile, infatti, catalogare il volume
come un semplice tentativo di testimoniare, attraverso interviste, l’estrema
diversità delle esperienze di artisti a volte legati a visioni culturali opposte. Si potrebbe anzi vedere nella pubblicazione di un’ennesima
antologia di interviste (e non di un saggio) quasi una nuova prova che il mondo
dell’arte contemporanea, nel suo illimitato polistilismo, non possa in nessun
modo essere ridotto a una qualsiasi unità. Non credo però che questa sia la chiave
di lettura più corretta.
Certo, molte domande sono legittime. Chi è al centro dell’antologia? Sono
gli artisti e gli architetti, oppure l’intervistatore? Obrist si limita a
proporci testimonianze di una galassia informe di artisti, oppure registra il
perimetro di un mondo intellettualmente multipolare, irriducibile ad unità, o,
ancora, cerca di definire un sistema di coordinate per un’interpretazione
unitaria dell’arte del nostro tempo? L’intento dell’autore è quello di
presentare medaglioni diversi delle Vite
degli autori oppure di mostrare al lettore un’idea coerente della creatività
negli ultimi decenni? Siamo in presenza di un’opera sostanzialmente
giornalistica – che documenta incontri con artisti – oppure di un saggio
sull’arte in forma di dialogo, sia pur con interlocutori che cambiano di volta
in volta? Personalmente, la lettura ripetuta del volume mi ha portato a
ritenere la validità di questa seconda opzione. Nella ripetizione di alcune
domande, nella riproposizione incrociata di alcuni temi, nell’insistenza su
alcune interpretazioni della creatività artistica si cela un pensiero
sistematico, che è il frutto di una stratificazione di esperienze, alcune delle
quali risalenti alla prima adolescenza. Posso certamente sbagliarmi, e sarei
davvero interessato a sentire l’opinione dell’autore. Obrist ha spesso
dichiarato: “non si tratta di me, ma degli artisti”. Eppure, la sua personalità
– come intervistatore – rimane ovviamente centrale durante la lettura.
Svizzera e cosmopolitismo – alla
ricerca della nuova arte meticcia
Così come Vasari vuol provare che l’arte ha una sua dimensione
territoriale, con la prevalenza toscana nel processo di rinascita dell’arte, in
Obrist la geografia ha un ruolo fondamentale: non per identificare un centro di
diffusione, ma al contrario per estendere la discussione all’intera superficie
abitabile del pianeta. La sua tesi è infatti che l’arte totale debba essere per
antonomasia anche arte globale. Anzi, arte meticcia, nel senso che non bisogna
esportare il modello dell’emisfero settentrionale (Europa e Stati Uniti) ma
giungere ad una vera e propria contaminazione tra i continenti. Lo prova la
scelta di includere nel volume interviste con artisti ed architetti di tutto il
mondo (ponendo Africa, Asia ed America Latina in posizione uguale ad Europa e
Stati Uniti) e soprattutto con grandi viaggiatori, con espatriati, con figure
difficilmente “classificabili” come appartenenti culturalmente ad una sola regione.
Non a caso, Obrist ha diretto al Museo d’arte contemporanea di Parigi il “Programme Migrateurs” a partire dal
1993, quand’era dunque venticinquenne, in anni in cui l’opinione pubblica
francese si divideva sulla legge del ministero degli interni Charles Pasqua per
espellere gli immigrati clandestini, i sans
papiers. All’arte Obrist assegna il compito di creare una rete di rapporti
locali e globali, di tracciare un intreccio di contiguità che passa attraverso
vere e proprie conoscenze personali, ma anche lungo percorsi imprevisti,
semplici curiosità ed a volte affinità casuali (Goethe parlerebbe di Wahlverwandschaften, affinità elettive.)
Le interviste documentano un mondo dove gli artisti attraversano sempre confini (fisicamente e mentalmente), per le ragioni più disparate. Alcuni esempi.
L’architetto olandese Rem Koolhaas lo fa attendere un’intera giornata in
Olanda, ed uscendo a tarda sera dal suo studio si scusa, spiegando che
l’intervista non si può fare: sta partendo per la Cina. Obrist non fa una
piega, parte per l’Asia con il primo volo disponibile da Amsterdam e la sera
seguente ottiene l’intervista in un hotel di Hong Kong. I due diventano grandi
amici. Un altro caso è l’artista iraniana Monir Shahroudy Farmanfarmaian,
rientrata in Iran nel 2004 dopo aver vissuto negli Stati Uniti – prima negli
anni ‘40 e poi immediatamente dopo la rivoluzione khomeinista – in piena
sintonia con l’avanguardia americana (Pollock, Stella, Warhol e molti altri), e
dunque fortemente legata a due mondi tra loro opposti ed anzi rivali. Vorrei
citare infine l’artista di colore sud-africano Ernest Mancoba, che ottiene una
borsa di studio in Francia negli anni ‘40, lì conosce un gruppo di giovani
artisti danesi e diviene componente atipico del mondo artistico scandinavo
(partecipando a tutte le vicissitudini dell’arte europea durante e dopo la
seconda guerra mondiale). Del resto, di Obrist si sa che è in viaggio per buona
parte del suo tempo, dormendo pochissimo e leggendo avidamente qualsiasi opera
scritta da artisti, prima, eventualmente, di contattarli per chieder loro
un’intervista.
Nel recente saggio Ways of curating,
Obrist narra come le sue origini svizzere abbiano influenzato la sua formazione
culturale durante gli anni dell’adolescenza, quando ancora era studente liceale.
La Svizzera può essere un mondo molto geloso
delle proprie caratteristiche e chiuso ad influenze esterne. E tuttavia
per la propria multiculturalità, la Svizzera può anche essere un laboratorio –
assai in piccolo – di un mondo aperto ed interattivo. Si pensi, negli anni
precedenti il conflitto mondiale, alla scoperta delle avanguardie parigine e
monacensi da parte di Paul Klee, ed al ruolo che Zurigo ebbe per il lancio del
surrealismo da parte di Hans Arp. Ancora sedicenne, Obrist non esita a cercare
il contatto con la coppia di artisti svizzeri Peter Fischli e David Weiss (noti
professionalmente come Fischli/Weiss) [4]. Lo stesso anno approfitta della gita
scolastica a Parigi per visitare il francese Christian Boltanski. Dai primi
impara che l’esperienza di Duchamp è ancora vitale: l’arte può ancora basarsi
su oggetti quotidiani. Dal secondo apprende che il ruolo del curatore è quello
di creare, per ogni mostra, nuove regole del gioco [5]. Anni dopo, nel 1991, organizzerà
con questi artisti la sua prima mostra, nella cucina di casa, che non usava mai
per mangiare. È Boltanski a suggerirgli di trasformare in tal modo un luogo
“inutile” per la vita in un luogo “utile” per l’arte. La regola di Boltanski
viene applicata rigorosamente, al punto che alcune delle mostre itineranti
curate da Obrist (famosa la serie di mostre “Do it”, cui hanno partecipato una quindicina di artisti) si basano
su istruzioni ricevute dai rispettivi artisti esposti, che vengono però
intenzionalmente interpretate in modo differente dai curatori in ogni luogo
dove si tiene l’esibizione.
Dopo la gita a Parigi, un anno dopo, si va tutti a Roma, e ciò consente al
diciasettenne di visitare Alighiero Boetti [6], su consiglio di Fischli/Weiss.
Da lui Obrist riceve alcune indicazioni che segneranno la sua attività: un
curatore non deve semplicemente offrire uno spazio agli artisti. Deve parlare
con loro e interrogarli su quali siano i progetti che essi non sono ancora
riusciti a realizzare. È una domanda che Obrist farà sempre a tutti i suoi
interlocutori, spiegando in due modi la sua insistenza: vi è sempre un elemento
di creatività in un fallimento e, in secondo luogo, il compito del curatore è
quello di aiutare l’artista a realizzare i sogni incompiuti. Durante il viaggio
di ritorno, nella cuccetta, Obrist decide che offrire agli artisti la possibilità
di conseguire i loro progetti sarà l’obiettivo della sua vita e che
l’intervista diverrà il genere essenziale per giungere al conseguimento di tale
risultato. Il suo rimane comunque un percorso atipico. Invece di proseguire gli
studi in accademie di belle arti, si iscrive alla facoltà d’economia di San
Gallo. Questo spiega, ad esempio, perché nelle sue interviste con gli artisti
egli discuta con loro dei meriti e della crisi dell’integrazione europea, di
globalizzazione e di terrorismo.
Nuova universalità, nuovo umanesimo
Si è già fatto riferimento alla centralità della parola. Ovviamente, dal
momento che qui si tratta di interviste, non è solamente la centralità dello
scritto, ma anche del parlato. La
retorica torna, anzi, alla sua dignità d’arte, con le interviste-maratona di 24
ore che Obrist organizza alla Serpentine Gallery di Londra, di cui è
co-direttore dal 2006, nel corso del mese di ottobre e che diventano veri e
propri eventi irrinunciabili della vita culturale londinese. Le maratone
(giunte quest’anno alla decima edizione) sono manifestazioni durante le quali
Obrist chiede ad una serie di artisti d’interloquire ininterrottamente con il pubblico
durante il corso di un’intera giornata. Tutta la documentazione delle dieci
maratone è disponibile su http://www.serpentinegalleries.org/explore/marathon. L’ultima, lo scorso 17 ottobre 2015, è stata
dedicata al tema della trasformazione. [7]
La Serpentine Gallery è anche divenuta luogo di sperimentazione nel
rapporto tra architettura ed arte, una relazione che è ritenuta centrale
nell’ambito di Lives of the Artists,
Lives of the Architects. Ogni anno (da quindici anni, dunque ancor prima
dell’arrivo di Obrist) la Galleria commissiona ad un famoso architetto un
padiglione per l’esposizione di opere d’arte (per il 2015 si veda http://www.serpentinegalleries.org/exhibitions-events/serpentine-pavilion-2015). Uno dei temi centrali del volume è il ruolo
dell’architettura nell’esposizione delle opere, ed il ruolo del curatore come
organizzatore del necessario dialogo tra architetti ed artisti per rispondere a
esigenze a volte divergenti.
NOTE
[1] Del resto, le Vite del Vasari sono state appena tradotte integralmente in tedesco, divise in 45 brevi testi
tascabili per facilitarne la diffusione tra i lettori.
[2] Obrist, Hans
Ulrich with Raza, Asad - Ways of Curating,
London New York, Allen Lane, 2014, p. 180
[3] Obrist, Hans Ulrich - Interviews, Volume 1, Edizioni Charta, Milano,
2003, p. 967 e Hans Ulrich Obrist, Interviews, Volume 2, Edizioni Charta,
Milano, 2010, p. 956.
[4] “La mia prima visita nel loro
studio divenne il mio momento di rivelazione. Sono nato nello studio di
Fischli e Weiss: è lì che ho deciso di curare mostre, sebbene io avessi
osservato opere d’arte, collezioni e mostre per gran parte della mia
adolescenza. Fischli e Weiss, maestri nel porre domande, furono i primi a
chiedermi che cos’altro avessi visto, e che cosa pensassi di quello che avevo
visto, ed in tal modo io iniziai a sviluppare una coscienza critica, un impeto
a spiegare e giustificare le mie reazioni all’arte – ad entrare in dialogo.
Grazie alla straordinaria varietà del loro lavoro, ho anche iniziato a pensare
in modo molto più globale. Con il loro lavoro, Fischli e Weiss hanno esteso la
mia definizione d’arte – e questa è forse la migliore definizione d’arte: quel
che espande la definizione. La loro amicizia ed il loro interesse per me avviarono
una specie di reazione a catena che non ha mai avuto fine.” Obrist, Hans Ulrich e Raza, Asad - Ways of Curating, citato, p. 5.
[5] “Boltanski fu molto chiaro su un
punto che è divenuto uno dei miei principi cardine: le esibizioni, egli disse,
devono sempre inventare una nuova regola del gioco. Diceva che le persone
ricordano sempre le mostre che inventano nuove forme di esibizione, e questa
dovrebbe essere l’ambizione di ogni mostra.” Obrist,
Hans Ulrich e Raza, Asad - Ways of
Curating, citato, p. 79.
[6] “Boetti mi disse che, se volevo
curare mostre, in nessun modo avrei dovuto fare quello che fa ogni altro curatore:
semplicemente dare agli artisti un determinato spazio ed invitarli a riempirlo.
Sarebbe stato molto più importante parlare con gli artisti su quali fossero i
progetti che non potevano realizzare in quel momento.” Obrist, Hans Ulrich with Raza, Asad - Ways of Curating, citato, p.
10.
[7] Si veda
anche Obrist, Hans Ulrich e Koolhaas, Rem - London Dialogues, Serpentine
Gallery 24-Hour Interview Marathon, Milano, Skira Editore, 2012, p. 377.
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