English Version
Mappae clavicula
Alle origini dell’alchimia in Occidente
Testo-Traduzione-Note
A cura di Sandro Baroni, Giuseppe Pizzigoni e Paola Travaglio
Saonara (Pd), Il Prato, 2014
A cura di Sandro Baroni, Giuseppe Pizzigoni e Paola Travaglio
Saonara (Pd), Il Prato, 2014
Mappae clavicula è uno di quei testi che appaiono difficili da
comprendere nella loro complessità. Lo si potrebbe definire un ricettario
artistico medievale, e dunque una raccolta di precetti dedicati quasi
esclusivamente alla lavorazione dei metalli; in questo senso potrebbe essere
accostato al De diversis artibus del
monaco Teofilo o al Liber diversarum arcium di Montpellier. Tuttavia, mentre quest’ultime appaiono opere
espressamente redatte in epoca medievale (pur attingendo a una tradizione
pregressa), qui siamo di fronte a una realtà ben diversa. Mappae clavicula affonda le sue origini nella tradizione degli
scritti di alchimia storica del III e del IV secolo d.C. facenti capo alla
figura di Zosimo di Panopoli.
La difficoltà interpretativa è
acuita dal fatto che non esiste una sola Mappae
clavicula. Sotto questo nome è raccolta una famiglia di manoscritti di
epoche diverse (ma comunque sempre successivi alla cosiddetta riforma
carolingia) che presentano l’opera in forme più o meno estese, senza che però
si sia mai giunti alla definizione di un prototipo che, ragionevolmente, si
avvicini il più possibile all’originale (o manoscritto archetipo che dir si
voglia). La prima notizia relativa all’esistenza di un’opera intitolata Mappae clavicula è legata a un catalogo
redatto nell’abbazia benedettina di Reichenau nell’821-822 (cfr. p. 17) in cui
si parla di un manoscritto “Mappae
clavicula de efficiendo auro” che, purtroppo, oggi è perso. Nel 1847 Thomas
Phillipps pubblica la trascrizione integrale di un esemplare in suo possesso e
che oggi è conservato al Museo del Vetro di Corning, New York, con segnatura
ms. Philipps 3715. È un dato da non sottovalutare, perché, sino alla presente
edizione, si tratta dell’unica trascrizione a stampa dell’opera, e, come detto,
non risulta dalla collazione di diversi manoscritti nell’intento di stabilire
un’edizione critica, ma è appunto la semplice trasposizione dell’esemplare di
Corning, risalente al XII secolo.
Basandosi sull’esemplare di
Corning e su un secondo (importante) esemplare rinvenuto a Sélestat nel 1878,
John Hawthorne e Cyril Stanley Smith (che già abbiamo incontrato come curatori
di un’edizione del De diversis artibus
di Teofilo) producono la prima traduzione inglese integrale dell’opera nel
1974, fornendo, se non altro, la riproduzione anastatica di entrambi i codici.
Si capisce bene, dunque, che
l’obiettivo principale dei curatori è quello di stabilire un testo, secondo
criteri esplicati alle pp. 50-51, a partire dalla collazione di dodici dei
venticinque esemplari che oggi sono stati riconosciuti come testimoni della
tradizione di Mappae clavicula (le
esclusioni riguardano le copie senza dubbio di minor importanza e in cui le
citazioni sono frammentarie); a partire da questo testo, si è poi proceduto a
fornire la traduzione italiana, un prezioso commento tecnico e tutta una serie
di appendici che aiutano a meglio inquadrare il complesso dell’opera.
La pagina del sito del Corning Museum of Glass dedicato al manoscritto del Mappae clavicula.Fonte: http://www.cmog.org/library/manuscript-mappae-clavicula |
Un’opera sulla metallurgia
Le ricette o, per meglio dire, i
procedimenti presentati nell’opera sono relativi al mondo della lavorazione dei
metalli, secondo una scansione che va dal più prezioso (l’oro), per poi
procedere con argento, rame, ferro, piombo e stagno. Chiude il vetro in quanto
strumento di imitazione delle pietre preziose. Anche il numero delle ricette
(complessivamente circa 180) riflette l’importanza che viene attribuita ai
materiali: è così che le prescrizioni relative all’oro sono una settantina, e
calano man mano con gli altri metalli. Può sembrare strano, ma uno degli
aspetti affrontati più di sovente è legato ai metodi per imitare i metalli, o
per creare leghe con materiali meno nobili: ci si scontra quindi con la
scarsità della materia prima e con i metodi per simularne l’aspetto. Sono poi
presi in considerazione i momenti legati alla colorazione e alla decorazione
superficiale dei materiali. Una particolare attenzione è rivolta ai
procedimenti crisografici, ovvero a quelle procedure grazie alle quali si
possono ottenere dai metalli delle dispersioni utilizzabili per la scrittura o
la decorazione; si tratta, nella sostanza, di fornire le indicazioni necessarie
per poter “scrivere in oro”.
L'incipit del Manoscritto di Corning Fonte: http://www.cmog.org/library/manuscript-mappae-clavicula |
Le radici alchemiche e la diffusione della pratica alchemica in Europa
Come il sottotitolo del volume
lascia intendere, Mappae clavicula
viene interpretato come testimone delle antiche pratiche alchemiche praticate
in Oriente tra terzo e quarto secolo dopo Cristo. Non è un aspetto che è stato
sempre considerato scontato. A fronte di un’intuizione di questo tipo proposta già
a fine ‘800 da Berthelot, Hawthorne e Smith, ad esempio, ritengono che il
trattato testimoni invece il semplice interesse del mondo post-carolingio verso
la classicità, e che le ricette fossero tramandate proprio perché intese come
preziosa testimonianza di un glorioso mondo perduto.
Ma il punto non è questo. Quando
si parla di alchimia, si pensa immediatamente alla pietra filosofale e a cose
di questo genere. Si nega cioè oggigiorno una valenza pratica alle prescrizioni
che si ha modo di leggere. Qui dovremo, sia pur brevemente, ricordare che
l’alchimia storica a cui fanno riferimento i curatori ha sì un significato di
carattere filosofico che si esprime attraverso lo studio di discipline come la
chimica, la metallurgia e l’astrologia, ma è strettamente legata alla
conoscenze delle pratiche materiali. La purificazione dei metalli, negli
ambienti alchemici greco-ellenistici e
alessandrini, trova il suo corrispettivo teorico nella purificazione dello
spirito. Ma l’allegoria si regge su un dato materiale e veritiero, che come
tale è particolarmente prezioso per lo studio delle tecniche artistiche.
La tesi di Baroni, Pizzigoni e
Travaglio è molto semplice: quando l’Impero Romano si dissolve gli aspetti
materiali relativi alle lavorazioni alchemiche raggiungono (o hanno già
raggiunto) l’Europa occidentale tramite testi tradotti dal greco originario in
latino. Non abbiamo nessuna cognizione di come tutto ciò avvenga. Fatto sta
che, all’improvviso, dopo la riforma carolingia, riemergono nelle biblioteche scritti
proprio come Mappae clavicula che
riproducono testualmente documenti e prescrizioni appartenenti all’antica
tradizione alchemica.
Assistiamo insomma alla
traslazione di una tradizione dall’Oriente all’Occidente per quanto attiene gli
aspetti pratici; per ciò che riguarda il lato teorico dell’alchimia occorrerà
invece aspettare “il tramite di testi siriaci e arabi verso la fine del XII
secolo: solo allora le prassi operative riguardanti la lavorazione dei metalli,
che non avevano mai smesso di essere praticate e tramandate, si
ricongiungeranno all’aspetto più prettamente teorico entro il quale si erano
originariamente sviluppate” (p. 18). A voler essere confutata è l’idea che
l’alchimia sia giunta in Occidente solo con gli arabi: si tratta di un
meccanismo assai più complicato e sfaccettato che, quanto meno, si sviluppa in
due fasi.
Ma perché questa tesi possa
reggere è necessario collegare Mappae
clavicula al mondo dell’alchimia storica.
![]() |
L'edizione del Mappae clavicula a cura di Hawthorne e Smith Fonte: http://ganoksin.com/blog/primitive/files/2015/04/mappae-cover.jpg |
Zosimo di Panopoli e un errore di traduzione dal greco al latino
Una delle figure cardine
dell’alchimia storica è quella di Zosimo di Panopoli. Zosimo visse fra III e IV
secolo d.C. e fu autore di un’opera in greco intitolata τά χειρόκμητα (“cose
fatte con le mani”). Di quest’opera sappiamo che aveva natura alchemica e che
era organizzata in ordine alfabetico greco o copto. Ce ne restano frammenti in
greco e in siriaco. Appare sufficientemente sicuro che, dall’opera completa di
Zosimo, sia stata tratta una silloge, sempre in greco, intitolata Κλειδίον
χειροκμήτών (“piccola chiave delle cose fatte con le mani” o, molto più
semplicemente “piccola chiave per capire i τά χειρόκμητα” – un po’ come se ci
trovassimo di fronte a un’introduzione alla Divina
Commedia di Dante Alighieri). A realizzarla potrebbe essere stato lo stesso
Zosimo. La tesi dei curatori è che Mappae
clavicula sia la traduzione latina della Κλειδίον χειροκμήτών. E qui si
apre subito un problema, legato appunto al titolo latino dell’opera; un
problema che ha assillato gli studiosi per secoli: se è chiaro che “clavicula”
sta per chiave, molto meno immediato è il significato di mappae. In genere si è pensato a “disegno” (forzando un po’ la
traduzione), ma resta il fatto che in realtà siamo di fronte a un testo di
metallurgia; è stata avanzata l’ipotesi (Bernhard Bischoff, cfr, pp. 19-20) che
la “mappa” fosse un “panno”, intendendo come tale un “panno che nasconde
l’enigma”, rifacendosi quindi alle origini alchemiche del manoscritto. Sino a
quando, nel 1987, due studiosi (Robert Halleux e Paul Meyvaert) non hanno fatto
notare che in greco il termine “panno” è reso indifferentemente con i termini
χειρόμακτον o χειρεκμαγεϊον. L’ipotesi di Halleux e Meyvaert è banalissima: chi
effettua la traduzione non conosce benissimo il greco: il genitivo
“χειροκμήτών” (“delle cose fatte con le mani”) diventa un panno (χειρόμακτον) e
il gioco è fatto. Per completezza, va detto che in quest’occasione i curatori
preferiscono pensare a un titolo che suonasse proprio “Piccola chiave ai
χειρόκμητα”, ovvero all’opera composta da Zosimo di Panopoli. Fatto sta (e qui
è l’aspetto più interessante della cosa) che se confrontiamo le ricette di Mappae clavicula con i frammenti dell’opera
di Zosimo la coincidenza, in molti punti, è letterale.
Non possiamo poi tacere che
alcuni testimoni di Mappae (in
particolare il manoscritto di Sélestat) presentano un prologo che altrove
invece è assente. Queste righe, scritte in prima persona, erano sicuramente già
presenti nella silloge greca di Zosimo (e a questo punto c’è da chiedersi se la
versione ridotta sia stata scritta dallo stesso Zosimo) perché la versione
latina tradisce una sintassi faticosa che riflette costruzioni grammaticali
proprie del greco. Riportiamo per intero (nella versione italiana) il prologo
qui di seguito, perché appare indiscutibile che definisca la natura originaria
dell’opera (p. 59):
“Delle molte e mirabili cose scritte in questi miei libri fu nostra cura
proporre un commentario, non perché sembri di toccare i sacri testi e di
lavorare molto senza nessun risultato, ma perché, spiegando punto per punto
questa dottrina concessa per dono del fato, ogni immagine e ogni lavoro che
sono in queste stesse azioni, aiutiamo coloro che vogliono comprendere queste
cose. In questo modo proponiamo la denominazione “Mappae clavicula” [n.d.r.
abbiamo appena spiegato l’errore] per questa composizione, perché chi abbia
toccato molti di questi argomenti ma non li abbia saputi interpretare ritenga
di esserne stato escluso come da una chiave. Così, infatti, come nella
abitazioni serrate non è possibile impadronirsi facilmente di ciò che è dentro,
allo stesso modo, senza questo commentario, tutta la scrittura che è scritta
nei libri sacri mostrerà un senso inaccessibile e misterioso a colui che
leggerà. Scongiuro per il gran Dio chi troverà [questi testi] di non
consegnarli a nessuno se non a suo figlio, avendo da principio giudicato dai
suoi caratteri se possa avere un’intelligenza pia e giusta per conservare
queste cose. Pur potendo dire propriamente molto altro sulle virtù di ciò di
cui si parlerà, incominciando da questi stessi capitoli, ora inizierò da qui.”
Indice e trasformazioni del Mappae
clavicula
Il manoscritto di Sélestat, più
antico rispetto a quello Phillipps, contiene anche un indice che è stato
considerato dai più come quello originario del Mappae clavicula. L’indice di Sélestat contiene 197 titoli.
Purtroppo, però, lo scriba dell’esemplare interrompe la sua copiatura dopo
trentanove ricette. Dall’indice apprendiamo, ad esempio, dell’esistenza di due
sezioni finali intitolate rispettivamente “Preghiera da dire ogni volta che fai
le preparazioni suddette, o quando fondi, affinché ne risulti un buon prodotto”
e “Interpretazione dei discorsi e delle immagini”. Si tratta di sezioni che
sono andate definitivamente perse; nel caso di Sélestat perché il copista si
ferma appunto alla trentanovesima ricetta e non completa l’opera; in altre
situazioni (molto probabilmente) perché l’interesse di chi sta copiando nuovi
esemplari non è più sugli aspetti alchemici, ma esclusivamente sulle tecniche
metallurgiche. Peraltro, nel tentativo di stabilire un testo critico originale,
i curatori individuano all’interno dello stesso indice di Sélestat alcune
rubriche che chiaramente individuano inserimenti avvenuti dopo la stesura della
traduzione originale (pp. 28-32) e quindi li cassano. Nella sostanza, l’indice
di Sélestat non testimonia la scansione del manoscritto cosiddetto archetipo,
ma di una fase successiva al medesimo (il cosiddetto “stemma codicum”
ricostruito dagli autori, con suddivisione degli esemplari sopravvissuti in due
grandi famiglie, è riportato a p. 39). Il manoscritto Phillipps (o di Corning
che dir si voglia) testimonia un momento nettamente successivo, risalente
grosso modo al XII secolo. Vi compaiono interpolazioni e aggiunte “con lemmi in
lingua inglese e traslitterazioni dell’arabo […], nonché tabelle di rune […]
che, a giudizio degli studiosi, «correspond to the English system»”. Proprio
tale intervento sul testo […] diede origine all’ipotesi di una revisione
operata da Adelardo di Bath, il cui nome figura nell’indice del ms. Royal
15.C.IV della British Library (f. 2v, Liber Magistri Adalardi Bathoniensis qui
dicitur Mappae clavicula)” (p. 44).
A partire dal manoscritto
archetipo è dunque evidente (ed è questo il lavoro principale svolto dai
curatori) che le prescrizioni di Mappae
claviculae vengono integrate con altre o, a loro volta, sono frammentate ed
inserite in altre famiglie di manoscritti che testimoniano tradizioni
differenti. Il caso più eclatante è quello della cosiddette Compositiones ad tingenda musiva della
Biblioteca Capitolare di Lucca [1] che riportano testualmente quattro ricette
del Mappae clavicula relative alla cosiddetta
crisografia, ovvero alle modalità con cui è possibile scrivere in oro.
L’esegeta è dunque chiamato a un lungo lavoro di analisi, inclusione ed
esclusione che, nel caso specifico, ha portato al presente testo critico
proposto per la prima volta all’attenzione dei lettori.
NOTE
[1] Il testo delle Compositiones è stato pubblicato in
Adriano Caffaro, Scrivere in oro.
Ricettari medievali d’arte e d’artigianato (secoli IX-XI): Codici di Lucca e
Ivrea, Napoli, Liguori, 2003.
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