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mercoledì 7 ottobre 2015

Mappae clavicula. Alle origini dell'alchimia in Occidente. A cura di Sandro Baroni, Giuseppe Pizzigoni e Paola Travaglio


English Version

Mappae clavicula
Alle origini dell’alchimia in Occidente

Testo-Traduzione-Note
A cura di Sandro Baroni, Giuseppe Pizzigoni e Paola Travaglio

Saonara (Pd), Il Prato, 2014




Mappae clavicula è uno di quei testi che appaiono difficili da comprendere nella loro complessità. Lo si potrebbe definire un ricettario artistico medievale, e dunque una raccolta di precetti dedicati quasi esclusivamente alla lavorazione dei metalli; in questo senso potrebbe essere accostato al De diversis artibus del monaco Teofilo o al Liber diversarum arcium di Montpellier. Tuttavia, mentre quest’ultime appaiono opere espressamente redatte in epoca medievale (pur attingendo a una tradizione pregressa), qui siamo di fronte a una realtà ben diversa. Mappae clavicula affonda le sue origini nella tradizione degli scritti di alchimia storica del III e del IV secolo d.C. facenti capo alla figura di Zosimo di Panopoli.

La difficoltà interpretativa è acuita dal fatto che non esiste una sola Mappae clavicula. Sotto questo nome è raccolta una famiglia di manoscritti di epoche diverse (ma comunque sempre successivi alla cosiddetta riforma carolingia) che presentano l’opera in forme più o meno estese, senza che però si sia mai giunti alla definizione di un prototipo che, ragionevolmente, si avvicini il più possibile all’originale (o manoscritto archetipo che dir si voglia). La prima notizia relativa all’esistenza di un’opera intitolata Mappae clavicula è legata a un catalogo redatto nell’abbazia benedettina di Reichenau nell’821-822 (cfr. p. 17) in cui si parla di un manoscritto “Mappae clavicula de efficiendo auro” che, purtroppo, oggi è perso. Nel 1847 Thomas Phillipps pubblica la trascrizione integrale di un esemplare in suo possesso e che oggi è conservato al Museo del Vetro di Corning, New York, con segnatura ms. Philipps 3715. È un dato da non sottovalutare, perché, sino alla presente edizione, si tratta dell’unica trascrizione a stampa dell’opera, e, come detto, non risulta dalla collazione di diversi manoscritti nell’intento di stabilire un’edizione critica, ma è appunto la semplice trasposizione dell’esemplare di Corning, risalente al XII secolo.

Basandosi sull’esemplare di Corning e su un secondo (importante) esemplare rinvenuto a Sélestat nel 1878, John Hawthorne e Cyril Stanley Smith (che già abbiamo incontrato come curatori di un’edizione del De diversis artibus di Teofilo) producono la prima traduzione inglese integrale dell’opera nel 1974, fornendo, se non altro, la riproduzione anastatica di entrambi i codici.

Si capisce bene, dunque, che l’obiettivo principale dei curatori è quello di stabilire un testo, secondo criteri esplicati alle pp. 50-51, a partire dalla collazione di dodici dei venticinque esemplari che oggi sono stati riconosciuti come testimoni della tradizione di Mappae clavicula (le esclusioni riguardano le copie senza dubbio di minor importanza e in cui le citazioni sono frammentarie); a partire da questo testo, si è poi proceduto a fornire la traduzione italiana, un prezioso commento tecnico e tutta una serie di appendici che aiutano a meglio inquadrare il complesso dell’opera.


La pagina del sito del Corning Museum of Glass dedicato al manoscritto del Mappae clavicula.Fonte: http://www.cmog.org/library/manuscript-mappae-clavicula


Un’opera sulla metallurgia

Le ricette o, per meglio dire, i procedimenti presentati nell’opera sono relativi al mondo della lavorazione dei metalli, secondo una scansione che va dal più prezioso (l’oro), per poi procedere con argento, rame, ferro, piombo e stagno. Chiude il vetro in quanto strumento di imitazione delle pietre preziose. Anche il numero delle ricette (complessivamente circa 180) riflette l’importanza che viene attribuita ai materiali: è così che le prescrizioni relative all’oro sono una settantina, e calano man mano con gli altri metalli. Può sembrare strano, ma uno degli aspetti affrontati più di sovente è legato ai metodi per imitare i metalli, o per creare leghe con materiali meno nobili: ci si scontra quindi con la scarsità della materia prima e con i metodi per simularne l’aspetto. Sono poi presi in considerazione i momenti legati alla colorazione e alla decorazione superficiale dei materiali. Una particolare attenzione è rivolta ai procedimenti crisografici, ovvero a quelle procedure grazie alle quali si possono ottenere dai metalli delle dispersioni utilizzabili per la scrittura o la decorazione; si tratta, nella sostanza, di fornire le indicazioni necessarie per poter “scrivere in oro”.


L'incipit del Manoscritto di Corning
Fonte: http://www.cmog.org/library/manuscript-mappae-clavicula


Le radici alchemiche e la diffusione della pratica alchemica in Europa

Come il sottotitolo del volume lascia intendere, Mappae clavicula viene interpretato come testimone delle antiche pratiche alchemiche praticate in Oriente tra terzo e quarto secolo dopo Cristo. Non è un aspetto che è stato sempre considerato scontato. A fronte di un’intuizione di questo tipo proposta già a fine ‘800 da Berthelot, Hawthorne e Smith, ad esempio, ritengono che il trattato testimoni invece il semplice interesse del mondo post-carolingio verso la classicità, e che le ricette fossero tramandate proprio perché intese come preziosa testimonianza di un glorioso mondo perduto.

Ma il punto non è questo. Quando si parla di alchimia, si pensa immediatamente alla pietra filosofale e a cose di questo genere. Si nega cioè oggigiorno una valenza pratica alle prescrizioni che si ha modo di leggere. Qui dovremo, sia pur brevemente, ricordare che l’alchimia storica a cui fanno riferimento i curatori ha sì un significato di carattere filosofico che si esprime attraverso lo studio di discipline come la chimica, la metallurgia e l’astrologia, ma è strettamente legata alla conoscenze delle pratiche materiali. La purificazione dei metalli, negli ambienti alchemici  greco-ellenistici e alessandrini, trova il suo corrispettivo teorico nella purificazione dello spirito. Ma l’allegoria si regge su un dato materiale e veritiero, che come tale è particolarmente prezioso per lo studio delle tecniche artistiche.

La tesi di Baroni, Pizzigoni e Travaglio è molto semplice: quando l’Impero Romano si dissolve gli aspetti materiali relativi alle lavorazioni alchemiche raggiungono (o hanno già raggiunto) l’Europa occidentale tramite testi tradotti dal greco originario in latino. Non abbiamo nessuna cognizione di come tutto ciò avvenga. Fatto sta che, all’improvviso, dopo la riforma carolingia, riemergono nelle biblioteche scritti proprio come Mappae clavicula che riproducono testualmente documenti e prescrizioni appartenenti all’antica tradizione alchemica.

Assistiamo insomma alla traslazione di una tradizione dall’Oriente all’Occidente per quanto attiene gli aspetti pratici; per ciò che riguarda il lato teorico dell’alchimia occorrerà invece aspettare “il tramite di testi siriaci e arabi verso la fine del XII secolo: solo allora le prassi operative riguardanti la lavorazione dei metalli, che non avevano mai smesso di essere praticate e tramandate, si ricongiungeranno all’aspetto più prettamente teorico entro il quale si erano originariamente sviluppate” (p. 18). A voler essere confutata è l’idea che l’alchimia sia giunta in Occidente solo con gli arabi: si tratta di un meccanismo assai più complicato e sfaccettato che, quanto meno, si sviluppa in due fasi.

Ma perché questa tesi possa reggere è necessario collegare Mappae clavicula al mondo dell’alchimia storica.


L'edizione del Mappae clavicula a cura di Hawthorne e Smith
Fonte: http://ganoksin.com/blog/primitive/files/2015/04/mappae-cover.jpg



Zosimo di Panopoli e un errore di traduzione dal greco al latino

Una delle figure cardine dell’alchimia storica è quella di Zosimo di Panopoli. Zosimo visse fra III e IV secolo d.C. e fu autore di un’opera in greco intitolata τά χειρόκμητα (“cose fatte con le mani”). Di quest’opera sappiamo che aveva natura alchemica e che era organizzata in ordine alfabetico greco o copto. Ce ne restano frammenti in greco e in siriaco. Appare sufficientemente sicuro che, dall’opera completa di Zosimo, sia stata tratta una silloge, sempre in greco, intitolata Κλειδίον χειροκμήτών (“piccola chiave delle cose fatte con le mani” o, molto più semplicemente “piccola chiave per capire i τά χειρόκμητα” – un po’ come se ci trovassimo di fronte a un’introduzione alla Divina Commedia di Dante Alighieri). A realizzarla potrebbe essere stato lo stesso Zosimo. La tesi dei curatori è che Mappae clavicula sia la traduzione latina della Κλειδίον χειροκμήτών. E qui si apre subito un problema, legato appunto al titolo latino dell’opera; un problema che ha assillato gli studiosi per secoli: se è chiaro che “clavicula” sta per chiave, molto meno immediato è il significato di mappae. In genere si è pensato a “disegno” (forzando un po’ la traduzione), ma resta il fatto che in realtà siamo di fronte a un testo di metallurgia; è stata avanzata l’ipotesi (Bernhard Bischoff, cfr, pp. 19-20) che la “mappa” fosse un “panno”, intendendo come tale un “panno che nasconde l’enigma”, rifacendosi quindi alle origini alchemiche del manoscritto. Sino a quando, nel 1987, due studiosi (Robert Halleux e Paul Meyvaert) non hanno fatto notare che in greco il termine “panno” è reso indifferentemente con i termini χειρόμακτον o χειρεκμαγεϊον. L’ipotesi di Halleux e Meyvaert è banalissima: chi effettua la traduzione non conosce benissimo il greco: il genitivo “χειροκμήτών” (“delle cose fatte con le mani”) diventa un panno (χειρόμακτον) e il gioco è fatto. Per completezza, va detto che in quest’occasione i curatori preferiscono pensare a un titolo che suonasse proprio “Piccola chiave ai χειρόκμητα”, ovvero all’opera composta da Zosimo di Panopoli. Fatto sta (e qui è l’aspetto più interessante della cosa) che se confrontiamo le ricette di Mappae clavicula con i frammenti dell’opera di Zosimo la coincidenza, in molti punti, è letterale.

Non possiamo poi tacere che alcuni testimoni di Mappae (in particolare il manoscritto di Sélestat) presentano un prologo che altrove invece è assente. Queste righe, scritte in prima persona, erano sicuramente già presenti nella silloge greca di Zosimo (e a questo punto c’è da chiedersi se la versione ridotta sia stata scritta dallo stesso Zosimo) perché la versione latina tradisce una sintassi faticosa che riflette costruzioni grammaticali proprie del greco. Riportiamo per intero (nella versione italiana) il prologo qui di seguito, perché appare indiscutibile che definisca la natura originaria dell’opera (p. 59):

Delle molte e mirabili cose scritte in questi miei libri fu nostra cura proporre un commentario, non perché sembri di toccare i sacri testi e di lavorare molto senza nessun risultato, ma perché, spiegando punto per punto questa dottrina concessa per dono del fato, ogni immagine e ogni lavoro che sono in queste stesse azioni, aiutiamo coloro che vogliono comprendere queste cose. In questo modo proponiamo la denominazione “Mappae clavicula” [n.d.r. abbiamo appena spiegato l’errore]  per questa composizione, perché chi abbia toccato molti di questi argomenti ma non li abbia saputi interpretare ritenga di esserne stato escluso come da una chiave. Così, infatti, come nella abitazioni serrate non è possibile impadronirsi facilmente di ciò che è dentro, allo stesso modo, senza questo commentario, tutta la scrittura che è scritta nei libri sacri mostrerà un senso inaccessibile e misterioso a colui che leggerà. Scongiuro per il gran Dio chi troverà [questi testi] di non consegnarli a nessuno se non a suo figlio, avendo da principio giudicato dai suoi caratteri se possa avere un’intelligenza pia e giusta per conservare queste cose. Pur potendo dire propriamente molto altro sulle virtù di ciò di cui si parlerà, incominciando da questi stessi capitoli, ora inizierò da qui.”


Indice e trasformazioni del Mappae clavicula

Il manoscritto di Sélestat, più antico rispetto a quello Phillipps, contiene anche un indice che è stato considerato dai più come quello originario del Mappae clavicula. L’indice di Sélestat contiene 197 titoli. Purtroppo, però, lo scriba dell’esemplare interrompe la sua copiatura dopo trentanove ricette. Dall’indice apprendiamo, ad esempio, dell’esistenza di due sezioni finali intitolate rispettivamente “Preghiera da dire ogni volta che fai le preparazioni suddette, o quando fondi, affinché ne risulti un buon prodotto” e “Interpretazione dei discorsi e delle immagini”. Si tratta di sezioni che sono andate definitivamente perse; nel caso di Sélestat perché il copista si ferma appunto alla trentanovesima ricetta e non completa l’opera; in altre situazioni (molto probabilmente) perché l’interesse di chi sta copiando nuovi esemplari non è più sugli aspetti alchemici, ma esclusivamente sulle tecniche metallurgiche. Peraltro, nel tentativo di stabilire un testo critico originale, i curatori individuano all’interno dello stesso indice di Sélestat alcune rubriche che chiaramente individuano inserimenti avvenuti dopo la stesura della traduzione originale (pp. 28-32) e quindi li cassano. Nella sostanza, l’indice di Sélestat non testimonia la scansione del manoscritto cosiddetto archetipo, ma di una fase successiva al medesimo (il cosiddetto “stemma codicum” ricostruito dagli autori, con suddivisione degli esemplari sopravvissuti in due grandi famiglie, è riportato a p. 39). Il manoscritto Phillipps (o di Corning che dir si voglia) testimonia un momento nettamente successivo, risalente grosso modo al XII secolo. Vi compaiono interpolazioni e aggiunte “con lemmi in lingua inglese e traslitterazioni dell’arabo […], nonché tabelle di rune […] che, a giudizio degli studiosi, «correspond to the English system»”. Proprio tale intervento sul testo […] diede origine all’ipotesi di una revisione operata da Adelardo di Bath, il cui nome figura nell’indice del ms. Royal 15.C.IV  della British Library (f. 2v, Liber Magistri Adalardi Bathoniensis qui dicitur Mappae clavicula)” (p. 44).

A partire dal manoscritto archetipo è dunque evidente (ed è questo il lavoro principale svolto dai curatori) che le prescrizioni di Mappae claviculae vengono integrate con altre o, a loro volta, sono frammentate ed inserite in altre famiglie di manoscritti che testimoniano tradizioni differenti. Il caso più eclatante è quello della cosiddette Compositiones ad tingenda musiva della Biblioteca Capitolare di Lucca [1] che riportano testualmente quattro ricette del Mappae clavicula relative alla cosiddetta crisografia, ovvero alle modalità con cui è possibile scrivere in oro. L’esegeta è dunque chiamato a un lungo lavoro di analisi, inclusione ed esclusione che, nel caso specifico, ha portato al presente testo critico proposto per la prima volta all’attenzione dei lettori.


NOTE

[1] Il testo delle Compositiones è stato pubblicato in Adriano Caffaro, Scrivere in oro. Ricettari medievali d’arte e d’artigianato (secoli IX-XI): Codici di Lucca e Ivrea, Napoli, Liguori, 2003.

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