Heidi C. Gearhart
Il ‘De diversis artibus’ di Teofilo
La figura dell’artista e la creazione artistica nel XII secolo
Parte Terza
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La figura dell’artista e la creazione artistica nel XII secolo
Parte Terza
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Fig. 5) Altare portatile dell'abbazia di Abdinghof, Roger of Helmarshausen, c. 1107-1122. Paderborn Diözesanmuseum © Diözesanmuseum, Paderborn |
Sull’attribuzione: lo stato dell’arte
Lo studio del De diversis artibus ci obbliga a
rivedere le nostre supposizioni sugli artisti medievali. Mentre oggi la
datazione del manoscritto agli inizi del XII secolo è largamente accettata, la
reticenza del testo in merito alla paternità e alla sua origine ha incoraggiato
la nascita di differenti opinioni fra loro in contrasto. Le polemiche
verificatesi in passato evidenziano molti dei preconcetti e delle supposizioni
sul ruolo dell’artista medievale che la presente dissertazione intende
smantellare e quindi vale la pena di rivederle, sia pur brevemente. Il primo
esame del trattato fu operato da Lessing, che lo datò al nono secolo e
identificò Teofilo come il leggendario artista Tuotilo di San Gallo. Sulla base
di tale identificazione, Lessing fu in grado di collegare Teofilo alle famosa
tradizione della miniatura di cui erano espressione i monasteri di San Gallo e
Reichenau. Lessing poté quindi sostenere che l’invenzione della pittura ad
olio, all’epoca considerata come un momento fondamentale nella storia dell’arte
occidentale, non solo avvenne nella Germania meridionale, ma 500 anni prima di
quanto si pensasse in origine [73]. Nel XIX secolo, Teofilo venne
cronologicamente ricondotto a un arco temporale che andava dall’inizio dell’ XI
secolo al XIII secolo, soprattutto a seconda di come il testo veniva
interpretato e classificato [74]. Joseph-Marie Guichard, nella sua introduzione
alla traduzione dell’opera di de l’Escalopier, collocò il De diversis artibus nel contesto delle enciclopedie di fine XII e
del XIII secolo, collegando il trattato di Teofilo a testi come lo Speculum maius di Vincenzo di Beauvais;
Sir Charles Lock Eastlake, direttore della National Gallery a Londra dal 1855
al 1865, ne curò un’edizione nel XIX secolo e lo datò al XIII secolo, inserendo
Teofilo nel suo corpus letterario sulle tecniche pittoriche [75].
Alla fine del XIX e all’inizio
del XX secolo si affermarono due approcci al De diversis artibus che furono quelli seguiti fino alle nuove
edizioni del trattato pubblicate negli anni ’60. Il primo fu proposto da Albert Ilg, nell’edizione a sua cura, pubblicata nel 1874 [76]. Ilg era un allievo di
Rudolph Eitelberger, primo professore di storia dell’arte all’Università di Vienna,
il cui metodo, basato su un approccio attento all’analisi dei documenti e degli
oggetti, avrebbe formato la base della “Scuola viennese” di storia dell’arte.
L’edizione di Teofilo operata da Ilg faceva parte della collana di Eitelberger
dedicata alle fonti per la storia dell’arte, le Quellenschriften für Kunstgeschichte und Kunsttechnik des Mittelaters
[77]. Fu il primo a servirsi del manoscritto di Vienna come fonte, riconoscendo
che quell’esemplare, con l’iscrizione che citava il nome di Ruggero, forniva
l’indizio più significativo sul fatto che Teofilo fosse un artista praticante
[78]. Che ci fosse una tradizione che citava e ricordava l’autore del trattato
come un certo Ruggero e che tale tradizione risalisse addirittura al Medio Evo,
è di per sé significativo e può cambiare le nostre opinioni in merito alla
considerazione in cui proprio nel Medio Evo erano tenuti gli artisti.
L’identificazione con Ruggero, tuttavia, è stata condotta a lungo dibattendo su
chi fosse Ruggero. Non ci siamo chiesti tuttavia perché fosse ricordato.
Ilg fu il primo a sostenere che
Ruggero fosse Ruggero di Helmarshausen, esperto nella lavorazione dei metalli
vissuto agli inizi del XII secolo e la cui esistenza è attestata
indipendentemente dal trattato [79]. Ruggero è noto soprattutto grazie a un
documento che lo cita come artefice di un altare portatile realizzato per
Enrico di Werl, vescovo di Paderborn, ancor oggi ivi conservato (Fig. 4).
Dall’attribuzione a Ruggero di quest’oggetto ne è derivata una serie di altri
manufatti, cosicché Ruggero si vede ogni assegnato un corpus di opere, una
traiettoria di carriera e una cerchia di seguaci. In aggiunta all’altare
portatile oggi a Paderborn, le opere che gli sono attribuite comprendono un
secondo altare portatile, sempre a Paderborn (Fig. 5), una croce decorata con
gioielli oggi a Berlino e nota come
Enger Cross, un crocifisso a Francoforte, una croce
intagliata a Colonia e la copertina di un manoscritto a Treviri. Lo stile di Ruggero è stato riconosciuto anche in un capolettera miniato
della Bibbia di Stavelot, il che ha portato a supporre che Ruggero
avesse iniziato la sua carriera nell’abbazia di Stavelot (nell’attuale Belgio)
e si fosse poi trasferito presso l’abbazia di Helmarshausen, nel vescovado di
Paderborn [80].
Gli oggetti ricondotti alla
“cerchia di Ruggero” o ai suoi “seguaci” comprendono un reliquario a St.
Godehard a Hildesheim, un crocifisso a Colonia e una croce a Fritzlar. L’identificazione di Teofilo e la datazione operate da Ilg sono
state ampiamente accettate e sono state alla base della voce dedicata a Teofilo
nella Kunstliteratur di Julius von Schlosser, una raccolta di letteratura tecnica artistica pubblicata per la
prima volta nel 1924 [81]. L’analisi
operata da Ilg sul legame fra Teofilo e Ruggero persiste come chiave per
l’identificazione dell’autore e il posto occupato da Teofilo nel corpus moderno
della letteratura artistica è dovuto in gran parte al lavoro di Schlosser, che
fece perno su una tradizione erudita iniziata precocemente sin dai tempi di Le
Bègue.
Un’altra ipotesi sull’identità di
Ruggero fu fatta nel 1928 da Hermann Degering, conservatore del fondo
manoscritto alla Biblioteca di Stato della Prussia, a Berlino. In un articolo
sull’identità di Teofilo, Degering datò il De
diversis artibus al IX o X secolo d.C. e suggerì che il manoscritto di
Wolfenbüttel, così come quello di Vienna, fosse stato compilato in origine a
San Pantaleone a Colonia [82]. Degering (uno dei pochissimi studiosi a
sostenere che Teofilo non fosse un artista, ma uno scrittore) collocò il De diversis artibus nell’ambito della
collezione di letteratura tecnica di San Pantaleone e dimostrò i suoi legami
con l’arte e la cultura bizantine. Datando al X secolo (sulla base di argomenti
paleografici) il manoscritto di Vienna, egli sostenne inoltre che “Teofilo” non
era uno pseudonimo, ma il nome di un monaco greco che sarebbe arrivato a
Colonia, dove gli sarebbe stato dato il nome latino di “Ruggero”. Per Degering
è il nome Ruggero ad essere uno pseudonimo, e non Teofilo. Sulla base dell’analisi
della terminologia e del latino utilizzati, Degering sostiene che il Ruggero
del De diversis artibus era molto
probabilmente lo stesso “Ruggero” che aveva scritto la Vita dell’arcivescovo Bruno di Colonia, fondatore di San Pantaleone
[83]. Con questa sua tesi, Degering creò un quadro di riferimento in cui la
tecnica e l’arte greche erano state portate in Germania a Colonia, e in
particolare a San Pantaleone, con l’appoggio dell’imperatrice bizantina
Teofano, sul finire del X secolo. L’errore nella datazione del manoscritto,
tuttavia, mina alle basi le sue conclusioni.
Cinque anni dopo, nella sua
traduzione del testo risalente al 1933, Wilhelm Theobald, un ingegnere che nel
corso degli anni ’20 aveva servito a Berlino nei ranghi superiori dell’apparato
governativo prussiano, sostenne le tesi di Degering e a sua volta affermò che
Teofilo era, in verità, un greco venuto a Colonia, che avrebbe preso i voti a
San Pantaleone, che sarebbe divenuto noto col nome latino di Ruggero e che
avrebbe scritto un libro in cui risultavano riunite insieme le conoscenze
dell’arte greca (specialmente della pittura e metallurgia bizantine) e le
abilità dell’arte tedesca [84]. Theobald (studioso di storia dell’ingegneria)
tradusse solamente il secondo e il terzo Libro, ovvero quelli che avevano a
fare più da vicino con ciò che si poteva considerare la tecnica industriale, e
di conseguenza presentò Teofilo come una figura chiave nella storia della
tecnologia.
L’opera di Theobald ha anche un
profilo distintamente nazionalistico. Dando importanza al ruolo poco noto di
Teofilo nella storia tedesca, l’introduzione comincia con una citazione dal Faust di Goethe su quanto sia importante
far propria l’eredità culturale di chi è venuto prima di noi: “Tutto quello che
hai, e che ti è stato trasmesso da tuo padre, devi guadagnarlo per poterne
godere” [85]. Theobald prosegue: “A dispetto del fatto che sia stato scritto su
suolo tedesco, mille anni fa, il De
diversis artibus del monaco Teofilo rimane sconosciuto per la maggior parte
dei tedeschi… Abbiamo opere tedesche che si occupano delle tecnologie egizia,
greca e romana; di recente sono state spese molte energie nello studio della
metallurgia rinascimentale, sia locale sia straniera; ma la collezione di
scritti tecnici di questo monaco medievale benedettino, di per sé unica,
attende ancora l’apprezzamento che si merita” [86]. Theobald fa leva sulle
conclusioni di Degering per fare di Teofilo un vero tedesco e ne interpreta la
componente bizantina come parte di un’eredità culturale che si dipana dai greci
e dai romani fino al Sacro Romano Impero e oltre, fino alla moderna Germania.
La tensione nazionalistica nell’interpretazione fornita da Theobald non passò
inosservata: una copia dell’edizione da lui curata fu persino posseduta dallo
stesso Hitler, permettendo di meglio comprendere le ripercussioni (a volte
fosche) della lunga storia del nostro trattato e i programmi a cui lo piegarono
differenti interpretazioni [87].
Oggigiorno la datazione nella
prima metà del XII secolo e la provenienza dal nord della Germania sono
ampiamente accettate grazie all’edizione e alla traduzione del De diversis artibus operata da Charles
Reginald Dodwell nel 1961. L’analisi di Dodwell si basò su indizi che
derivavano da tutti e quattro i primi esemplari manoscritti giunti sino a noi,
ma in particolare sui due più antichi, quelli ora a Wolfenbüttel e a Vienna. Su
basi paleografiche lo studioso dimostrò che questi ultimi erano entrambi
databili a metà del XII secolo e che la loro stesura poteva essere localizzata
nel nord della Germania [88]. Oltre alle evidenze risultanti dall’esame
paleografico dei manoscritti, Dodwell si basò su pecularità testuali che
collocarono in maniera convincente il trattato nell’ambito della cultura del
XII secolo e, più specificamente, in quello della Germania del Nord: lo stile
della prosa, una manciata di germanismi presenti nei manoscritti e l’uso di
frasi non abituali, come l’armariolum
cordis (“lo scrigno del cuore”), un’espressione che proveniva dall’arabo
attraverso la testimonianza della Disciplina
clericalis di Petrus Alphonsus (del 1106) [89]. Dodwell iniziò anche ad
inquadrare il testo in relazione agli scritti religiosi del XII secolo,
argomentando che temi introdotti da Teofilo, come il riferimento ai doni dello
Spirito Santo nel terzo prologo, l’asserzione che l’immagine dell’uomo è a
somiglianza di quella di Dio, la riaffermazione del raziocinio umano e il modo
di descrivere il Cristo sofferente sulla
Croce corrispondevano tutti ad aspetti dibattuti in quel periodo [90].
Lo studioso raccolse inoltre
degli indizi basati sulla storia dell’arte. La descrizione operata da Teofilo
di alcune tecniche come la brunitura del rame e la consuetudine di stendere i
colori a strati nella pittura a muro, come pure la realizzazione di oggetti
come l’incensiere fuso in uno stampo che Teofilo descrive nel dettaglio – sostenne
Dodwell – indicano tutti una datazione dell’opera attorno al XII secolo. La
brunitura del rame è una tecnica visibile nella parte inferiore dell’altare
portatile dell’abbazia di Stavelot risalente alla metà del secolo, mentre il metodo per stendere i colori descritto da Teofilo è molto
evidente nell’immagine di un profeta proveniente da S. Gereon a Colonia; un esempio di turibolo fuso in uno stampo, come quello descritto da
Teofilo, è il cosiddetto incensiere di Gozbertus, ora a Treviri.
Dodwell notò anche che l’apparente predilezione per le lavorazioni in metallo
di uso tedesco, più marcato nella lista delle varie regioni e delle loro
eccellenze artistiche nel primo prologo, supportava ulteriormente l’idea che
l’opera fosse di provenienza tedesca [91]. Con poche eccezioni, coloro che di
recente si sono dedicati allo studio del trattato hanno accettato la datazione
di Dodwell, considerando Teofilo come appartenente al mondo del primo XII
secolo che era quello dell’Abate Sugero di S. Denis, Ugo di San Vittore, Rupert
di Deutz e Bernardo di Chiaravalle [92].
La datazione del De diversis artibus è basata in gran
parte sulla somiglianza visiva tra oggetti dell’epoca giunti sino ai nostri
giorni e tecniche descritte da Teofilo. Ciò ha confermato la tendenza di
pensare al trattato come a una guida scritta da un artista per i veri
artigiani: un’interpretazione che sicuramente non è sbagliata ma risulta essere
insufficiente sotto molti aspetti. Anche se la datò, sbagliandosi, al nono
secolo d.C. e identificò Teofilo con Tuotilo, l’idea di Lessing che l’opera
fosse stata scritta da un artista si diffuse velocemente, pur con il cambio
della data di redazione e del nome dell’autore.
La maggior parte delle
indicazioni contenute nel De diversis
artibus sono, del resto, plausibili, dettagliate e meticolose [93]. Ogni
capitolo di ogni libro è dedicato a una tecnica e – come ha notato Reudenbach –
si concentra quasi sempre sulla realizzazione di uno specifico oggetto: “Come
l’oro e l’argento [in polvere] sono applicati ai libri”, “Ampolle con il collo
lungo” o “incensiere a sbalzo” [94]. L’opera, inoltre, è fortemente sbilanciata
a favore della descrizione della lavorazione dei metalli, e ciò ha dato vigore
all’idea che a scriverla sia stato appunto un lavoratore del settore. Mentre ci
sono trentasei capitoli nel libro sulla pittura e trentuno in quello sul vetro,
il libro sulla metallurgia ne contiene novantasei. Le istruzioni in genere
descrivono processi complessi colti in una serie di passaggi: la procedura per
realizzare un calice in argento, ad esempio, è esposta in cinque capitoli che
descrivono come fondere l’argento, purificarlo, dividerlo in proporzioni,
fonderlo in uno stampo circolare e, in conclusione, forgiarlo nella forma di un
calice [95]. Sono pochi i calici giunti sino a noi; quelli che ci sono arrivati
generalmente sono ricchi di ornamenti, con molte dorature e una molteplicità di
parti fuse; il Calice Wilten, risalente a metà del XII secolo ed ora a Vienna,
è stato realizzato, in parte, secondo i processi descritti da Teofilo. La precisione con cui questi ultimi sono esposti e l’enfasi del testo
sulla metallurgia fanno pensare appunto che il De diversis artibus sia un libro che raccoglie le conoscenze di un
artigiano praticante, molto probabilmente un uomo esperto nella lavorazione dei
metalli, e con estrema probabilità Ruggero di Helmarshausen, che lo avrebbe
compilato verso la fine della sua carriera [96].
Mentre la letteratura che
utilizza il trattato nell’analisi tecnica è vastissima, un recente studio
storiografico, condotto da Baumann-Schwarz, ha fatto presente che un numero
crescente di studiosi cominciano a interpretare il De diversis artibus come fonte teorica, un esercizio scritto, in
maggior o minor misura separato dalla pratica [97]. Un saggio recente di
Andreas Speer e Hiltrud Westerman-Angerhausen, ad esempio, sostiene che sia
fondamentale per gli studi su Teofilo capire se il De diversis artibus fosse innanzi tutto un testo di natura
spirituale o pratica [98]. Anche se questi studi mostrano uno slittamento nel
modo di pensare al trattato, l’approccio al medesimo continua a dare per scontato
che il testo sia semplice, monodimensionale, per cui debba essere visto o come
teorico o come pratico, ma mai come qualcosa di più complesso, mai
contemporaneamente teorico e pratico. In questo studio io sosterrò che il
trattato poteva agire non nell’ambito di una sola sfera d’influenza, ma che
poteva servire a più di una funzione e che l’interesse che si merita sta
proprio nel modo in cui teneva unite insieme teoria e pratica, combinandole fra
loro.
Panoramica e approccio al testo
In questa dissertazione io metto
in discussione la pratica di cercare di collocare il De diversis artibus nell’ambito di un singolo genere, di darne una
definizione in relazione a un unico scopo o di dare per scontato che esista una
frattura fra i suoi fini teorici e pratici. Faccio uso dei manoscritti ancora
esistenti come punto d’inizio da cui riunire indizi su chi lo lesse, sul
contesto letterario e sulla sua funzione. In definitiva, il mio obiettivo è
quello di dimostrare come diversi materiali contenuti nel De diversis artibus possano essere presi tutti insieme in
considerazione per dare una svolta alla nostra comprensione degli oggetti
d’arte dell’epoca. Teofilo non si limita
soltanto a registrare tecniche o a dare una giustificazione dell’arte religiosa
da una prospettiva benedettina; il libro può essere visto come un tutto
integrato, coi prologhi e le ricette posti in relazione reciproca fra di loro. Il
testo è estremamente strutturato ed è scritto con un livello di grande
raffinatezza letteraria. Cercando di rendere conto dei modelli e delle metafore
ricorrenti nel trattato, delle sue stranezze e delle inclusioni o esclusioni,
lo esamino alla luce delle tendenze letterarie, esegetiche e pedagogiche più
significative all’inizio del XII secolo; mostro inoltre come il testo si
allinei a indizi testuali a lui contemporanei derivanti da altre fonti sugli
artisti, il lavoro manuale, l’apprendimento, la spiritualità. Il mio progetto
complessivo è di collocare il De diversis
artibus nel suo contesto culturale e nell’ambito in cui il testo vide la
luce per la prima volta in forma manoscritta: la valle dei fiumi Reno e Mosa
all’inizio e alla metà del XII secolo. All’epoca la regione ospitava diversi
monasteri benedettini e presentava un’economia mercantile in via d’espansione
che faceva base sui centri urbani di Liegi, Huy, Colonia e Maastricht, abitati
da un numero crescente di commercianti e artigiani non abitanti nei monasteri.
Il grosso della crescita economica dell’area era dovuto al commercio e
all’estrazione dei metalli, ambiti in cui sia le abbazie sia le città giocavano
un ruolo simile. Prendere in considerazione questi aspetti mette in luce quelli
che potevano essere i propositi di Teofilo e molte caratteristiche del testo,
così come fa chiarezza sulla produzione artistica del tempo. Ogni capitolo si
sofferma su un particolare esemplare del De
diversis artibus, traendone indizi utili per portare a nuove considerazioni
sui valori in gioco nel fare artistico dell’epoca.
Il capitolo due si apre con
l’analisi del manoscritto di Wolfenbüttel, l’esemplare contenuto in un volume
tipicamente destinato alla consultazione in una biblioteca e contenente una
copia del De architectura di
Vitruvio; utilizza gli indizi contenuti in questa copia del De diversis artibus per iniziare a
esaminare da vicino la struttura del testo. Io, qui, analizzo da vicino la
retorica del trattato e prendo in considerazione la relazione tra teoria e
pratica, un legame che taglia trasversalmente i libri con le istruzioni e i
prologhi. Interpreto il testo e la sua struttura complessiva in relazione a
testi pedagogici, esegetici e monastici dello stesso periodo. Il terzo capitolo
fa uso del manoscritto di Vienna, ovvero l’esemplare che contiene il
riferimento a Ruggero, per iniziare a rivisitare gli elementi che hanno portato
ad attribuire l’opera a Ruggero di Helmarshausen. Le implicazioni a cui conduce
l’inserimento del nome di Ruggero portano a prendere in considerazione i
concetti di paternità di un’opera e di identità e memoria artistica nell’ambito
del contesto della valle del Reno-Mosa del primo XII secolo, e a studiare
inoltre la circolazione e lo scambio di manufatti, materiali e artisti nella
stessa area. Il quarto capitolo si apre con il manoscritto Harley, risalente
agli inizi del XIII secolo, e prende in esame la relazione tra artista e
manufatto. Considera come le virtù di cui Teofilo dà una definizione nel
trattato, come insieme di idee astratte, possano essere messe in pratica nel
lavoro dell’artista. L’ultimo capitolo comincia con il manoscritto di Cambridge
(XIII secolo), un manoscritto in origine rilegato all’interno di una raccolta
di testi scientifici. Partendo da qui, il capitolo si apre alla “vita
successiva” dell’opera, prendendo in esame gli esemplari, le loro variazioni nel
tempo e altri testi assieme ai quali il De
diversis artibus fu rilegato, per cercare di determinare le tipologie
funzionali che furono attribuite al testo e il genere di apprendimento che si
ritenne potesse offrire. Nel corso di tutta la dissertazione, io dimostrerò
come le teorie dell’arte e del fare artistico che emergono nell’opera di
Teofilo potessero essere rese manifeste nelle opere d’arte realizzate. In
definitiva, leggere Teofilo sotto una nuova luce e guardare nuovamente all’ars sacra del XII secolo attraverso le
lenti ricalibrate del De diversis artibus
comporta conseguenze significative per lo studio dell’arte medievale [99].
L’esplorazione di temi come la spiritualità, la paternità delle opere, la
memoria di un artista, il lavoro manuale, l’apprendimento e i valori che sono
veicolati dal De diversis artibus
portano a un nuovo modo di leggere le forme, determinare i significati e
comprendere più in generale l’arte degli inizi del XII secolo.
Il trattato di Teofilo,
ovviamente, è stato molto studiato. Il numero delle sue traduzioni e delle sue
edizioni continua a moltiplicarsi. Nel corso del XIX secolo ne sono state
pubblicate sei fra edizioni e traduzioni (in tedesco, francese, inglese e
polacco), basate su differenti collazioni di otto fra gli esemplari più antichi
e completi [100]. Nel corso del XX secolo sono entrate in circolazione
ulteriori undici edizioni in tutto il mondo [101]. Il testo, tuttavia, rimane
curiosamente enigmatico e (come la figura stessa dell’artista medievale) non
ben compreso: lo stereotipo dell’artigiano umile e anonimo ha comportato
limitazioni al modo con cui Teofilo è letto. Teofilo è stato visto, ad esempio
(in contrapposizione alla “personalità erudita” dell’artista rinascimentale)
come rappresentante dei “semplici artigiani” delle “epoche precedenti, quando
‘l’ ‘arte’ non si era ancora chiaramente differenziata dall’umile e quotidiano
lavoro manuale.” [102]. Il De diversis
artibus è stato dunque inteso come uno scritto semplice e autosufficiente,
scritto in maniera poco raffinata e senza un proposito sottostante. Come
mostreremo, la classificazione del trattato come facente parte del genere della
letteratura tecnica non è certo ingiustificata, e l’ideale dell’artigiano come
uomo modesto è sicuramente sostenuta nel testo; ma questo è solo l’inizio. Se
il De diversis artibus è correlato
con la letteratura tecnica, non necessariamente ne fa sempre parte; la
conoscenza tecnica non serviva solo alla pratica manuale [103]. In maniera
simile, la vocazione dell’artista cristiano può emergere in mezzo a metafore di
umiltà, ma le metafore, di per sé, possono essere usate con tutta una serie di
funzioni [104]. Le metafore si dimostrano allineate con gli aspetti tecnici del
trattato a formare un racconto sofisticato con importanti implicazioni per la
nostra comprensione dell’artista e del fare artistico medievale. La natura di
tale racconto emergerà non appena osserveremo più da vicino il manoscritto di
Wolfenbüttel nel prossimo capitolo.
NOTE
[73] Lessing, Vom Alter der Oelmalerey (vedi nota 1),
p. 330.
[74] L’abate Jacques-Rémi-Antoine
Texier datò il trattato alla fine del XII o inizio del XIII secolo in “Analyse
de Traité de Théophile” in Annales
Archéologiques, a cura di Edouard Didron (Parigi, 1846) ristampato in
Texier, Dictionnaire d’orfevrerie, de
gravure et de ciselure chrétiennes, a cura di J.P. Migne, Terza e ultima
enciclopedia teologica 27 (Petit-Montrouge: Migne, 1857), colonne 1383-1393.
Nella prima edizione in lingua inglese dell’opera, Robert Hendrie sostenne che
era stata scritta nella prima metà dell’ XI secolo: Theophilus, qui et Rogerus (vedi nota 5), p. XV; mentre l’edizione
francese dell’abate Jean-Jacques Bourassé, pubblicata nel 1863, ritiene che la
datazione giusta sia la metà del XII secolo: Abbé Jean-Jacques M. Bourassé,
“Essai sur Diver Arts… par Théophile, prêtre et moine, formant une encyclopédie
de l’Art Chrétien au XII siècle” in Jacques-Paul Migne (a cura di) Dictionnaire d’archéologie sacrée 12
(Parigi: Migne, 1863), colonne 729-1014.
[75] Joseph-Marie Guichard lascia
aperta anche la possibilità che la data di redazione del trattato sia da far
risalire al XIV secolo: Guichard, introduzione a Libri 3 seu Diversarum artium schedula (cfr. nota 31), p. XLVIII. Charles Lock Eastlake, nel suo
studio sul testo, colloca l’opera fra fine XII e inizio XIII secolo: Methods and materials of painting of the
great schools and masters, (ripubblicato New York: Dover Publications,
1960), p. 17.
[76] Albert Ilg, Schedula Diversarum Artium (cfr. nota 31).
[77] Rudolph Eitelberger e Albert Ilg, Quellenschriften für Kunstgeschichte und
Kunsttechnik des Mittelaters und der Neuzeit, 18 volumi (Vienna:
Braumüller, 1871 e 1882); per una breve storia del progetto, si veda la
recensione del testo fatta da A.L.F. Jr. in The
American Journal of Archaelogy and of the History of the Fine Arts 5/1
(1889), pp. 63-64.
[78] Vienna ÖNB MS 2527, fol. 1r.
[79] Pur essendo stata operata
per primo da Ilg nel XIX secolo, la connessione è stata largamente accettata
grazie all’opera di Eckard Freise, “Roger von Helmarshausen in seiner
monastischen Umwelt” in Frühmittelalterliche
Studien 15 (1981), pp. 180-293.
[80] Capolettera del libro di
Geremia, Bibbia di Stavelot, Londra, British Library Add. MS 28106, fol. 161.r.
Sulla traiettoria seguita dalla carriera di Ruggero, si veda Freise, “Roger von
Helmarshausen” (nota 79), e Lasko, “Roger of Helmarshausen, Author and
Craftsman” (nota 12).
[81] Julius von Schlosser, Die Kunstliteratur (vedi nota 9), pp.
22-25.
[82] Degering datò l’opera al
nono o al decimo secolo in “Theophilus Presbiter” (nota 12), p. 256.
[83] Degering, “Theophilus Presbiter” (vedi nota
12), p. 257.
[84] Wilhelm Theobald, Technik des Kunsthandwerks im zehnten Jahrhundert: Des Thophilus
Presbyter Diversarum Artium Schedula (Berlino: Verein Deutscher Ingenieur,
1933).
[85] Dal Faust, Parte prima, Scena prima: “Was
du ererbt von deinen Vätern hast, erwirb es, zu besitzen”. Cito dalla
traduzione [n.d.t. in inglese] della frase operata da George Madison Priest in
Johann Wolfgang von Goethe, Faust,
traduzione di George Madison Priest (New York: Knopf, 1963), p. 23.
[86] […] Theobald, Technick des kunsthandwerks (vedi nota
84): introduzione, p. XI.
[87] La copia si trova nella
Biblioteca del Congresso, Washington DC.
[88] Wolfenbüttel, Herzog-August Bibliothek
cod. Guelph Gudianus lat. 2°69, fol. 1r. Vienna ÖNB MS 2527, Dodwell (vedi nota
5), pp. XXII-XXXIII. Per il manoscritto di Wolfenbüttel si veda: Kataloge der Herzog-August-Bibliothek
Wolfenbüttel, die Gudischen Handschriften 9 (Francoforte sul Meno: Vittorio
Klostermann, 1966), pp. 121-122; e, per il manoscritto di Vienna, Otto Mazal, Byzanz und das Abendland, Austellung der
Handschriften- und Inkunabelsammlung der Österreichischen Nationalbibliothek,
Handbuch und Katalog (Graz: Akademische Druck- und Verlagsanstalt, 1981),
vol II, p. 486 n. 388; e Tabulae codicum
manu scriptorum, praeter graecos et prientalis in bibliotheca palatina
Vindobonensi asservatorum (Graz: Akademische Druck – und Verlagsanstalt,
1965), vol. II, p. 92.
[89] Un esempio di locuzioni
vernacolari tedesche sparse nel testo è l’utilizzo del termine meizel nel capitolo sui lavori a
traforo, Teofilo, Libro III, Cap. LXXII; Dodwell, DDA (nota 5), p. 130 e introduzione, pp. XVII-XX.
[90] Dodwell, DDA (nota 5): pp. XX-XXV.
[91] Dodwell, DDA (nota 5): pp. XXV-XXXVI, e Teofilo,
Prologo I, p. 4
[92] Nel 1964 Mojmir S. Frinta ha
proposto l’XI secolo come datazione del testo: “A Note on Theophilus, Maker of
Many Wonderful Things” in Art Bulletin
46 (1964), pp. 525-529 e in particolare p. 528; il che corrisponde in gran
parte alle conclusioni di Heinz Roosen-Runge che ha datato l’opera all’inizio
dell’XI secolo e l’ha collocata come origine nella regione del Lago di Costanza
sulla base di una corrispondenza tra le tecniche pittoriche visibili in
quell’area e quelle descritte nel De
diversis artibus. “Die Buchmalereirezept des Theophilus” (vedi nota 9), pp.
159-171. Gli studi più recenti sul pubblico di Teofilo all’interno di questa
particolare sfera comprendono Virginia C. Raguin, “The Reception of Theophilus’
De diversis artibus” e Birgitte
Kurmann-Schwarz ‘ “[…] quicquid discere,
intelligere vel excogitare possis artium […]’: le traité De diversis artibus de Théophile, état de la recherche et
questions”, entrambi in Boulanger e Hérold (a cura di), Le Vitrail, (vedi nota 18): pp. 11-28 e 29-44.
[93] È stato spesso notato che le
descrizioni di Teofilo non sono sempre plausibili, come ad esempio la
descrizione per produrre l’oro spagnolo, “preparato con rame rosso, polvere di
basilisco, sangue umano e aceto”: Libro III, c. XLVIII; Dodwell, DDA (vedi nota 5), pp. 96-97.
[94] Theophilus, Libro I, cap. XXIX, “How
[Powdered] Gold and Silver are Applied in Books”; Dodwell, DDA (vedi nota 5), p. 28; Libro II, cap. XI “Flasks with a Long
Neck”; idem, p. 44; e Libro III, cap. LX, “The Repoussé Censer”; idem; pp.
111-112.
[95] Libro III, capitoli XXII-XXVI: “Crucibles
for Melting Gold and Silver”, “The Refining of Silver”, “Dividing up the Silver
for the Work”, “Casting Silver” e “Making the Smaller Chalice”; Dodwell, DDA (vedi nota 5): pp. 74-79.
[96] Dodwell, DDA (vedi nota 5), pp. XV-XVII e
XXXVI-XXXIX. Si veda inoltre supra
nota 12.
[97] Kurmann-Schwarz. “quicquid discere” in Le Vitrail (vedi nota 92). Per la letteratura
su Teofilo come fonte tecnica si veda Birgit Bänsch, Kölner Goldschmiedekunst (vedi nota 9); David Buckton, “Theophilus
and Enamel” (cfr. nota 9); Donald Royce-Roll, “Twelfth-Century Stained Glass
Technology” (vedi nota 9) e idem, The
Importance of Two Twelfth-century Glass Texts” (cfr. nota 9). Sulle
tecniche pittoriche: Roosen-Runge, “Die Buchmalereirezepte des Theophilus”
(cfr. nota 9); e idem. “Die
Farben – und Malrezepte” (nota 9); nonché Gullick, “A Bibliography of Medieval
Painting Treatises” (cfr. nota 9).
[98] Speer e Westermann-Angerhausen, “Ein
Handbuch mittelalterlicher Kunst?” (vedi nota 2).
[99] Michael Baxandall, Painting and experience in fifteenth century Italy: a primer in the
social history of pictorial style (Oxford: Clarendon Press, 1972).
[100] Si tratta di: de
l’Escalopier, Libri 3 seu Diversarum artium
schedula (nota 31); l’edizione di L’Escalopier rendeva conto dei
manoscritti Cambridge University Library 1131, Parigi BnF lat. 6741,
Wolfenbüttel Gud. Lat. 2°69, Egerton 840°, Venezia Lat VI 199 (3597) e Lipsia
MS 1157. La prima traduzione inglese fu quella di Robert Hendrie, Theophilus, qui et Rogerus, pubblicata
nel 1847 (vedi nota 5). Il lavoro di Hendrie faceva affidamento in gran parte
sull’edizione di L’Escalopier (nota 31), ma, in maniera significativa,
aggiungeva al gruppo dei manoscritti quello conservato alla British Library,
Harley, 3915. L’esemplare Parigi, Bibl. Nat. Lat. 6741 fu pubblicato parzialmente
da Mary P. Merrifield (vedi nota 14). L’edizione del 1863 curata da Bourassé,
“Essai sur Divers Ars” (cfr. nota 74), si fondava su quella di Hendrie, usando
i manoscritti Harley ed Egerton. Albert Ilg, Schedula Diversarum Artium (vedi nota 31) descriveva la maggior
parte dei manoscritti del gruppo, utilizzando anche le precedenti edizioni
Escalopier, Hendrie e Raspe, ma collazionando gli esemplari di Wolfenbüttel e
Lipsia con quello di Vienna, che fu il primo ad usare. Dodwell, tuttavia, ha
criticato la mancanza di accuratezza di Ilg (Dodwell, DDA, cfr. nota 5, p. LVI). Due edizioni meno note sono: Theophilus
Presbyter, Diversarum artium schedula
liber secundus Theophilus, Presbyter, a cura di Georges Bontemps (Parigi:
Librairie du Dictionnaire des arts et manifactures, 1876) e Teofil Zebrawski, Teofila o sztukach rozmaitych (Cracovia:
Akademii Umiejetnosci, 1880). Non ho consultato queste ultime due versioni.
[101] Oltre all’edizione Dodwell
del 1961 (vedi nota 5) e a quella di Smith e Hawthorne del 1963 (vedi nota 8)
esistono: Traité des divers arts par
Théophile, prêtre et moine (Parigi: Émile Paul Frères, 1924); Theobald, Technik des Kunsthandwerks (vedi nota
84); Wilhelm Hanke, Kunst und Geist. Das philosophische und theologische Gedankengut der Schrifte ‘De
Diversis Artibus’ des Priesters und Mönchs Theophilus Rugerus (Bonn: Hofbauer, 1962). Altre
edizioni sono: André Blanc (a cura di), Essai
sur divers arts en trois livres (Paris: Piccard, 1980); Vilmos Takács, Theophilus Presbyter – A különféle müvességerkö
(Budapest: Müszaki Könyvkiadó, 1986); Theophilus Presbyter, Samazama no gino ni tsuite, traduzione
di Hiroshi Mori (Tokyo: Chuo Koron Bijutsu Shuppan, 1996); Theopilus Presbyter,
Traité des divers arts (Lione:
Editions du Cosmogone, 1998); Teofilo Monaco, Le Varie Arti. De
diversis artibus; manuale di tecnica artistica medievale, a cura di Adriano
Caffaro (Salerno: Palladio, 2000); Theophilus Presbyter, Las diversas artes: tratado medieval sobre pintura, trabajo en vidrio y
metalistería (México: La Rana, 2002).
[102] La citazione è presa
dall’introduzione di The Changing Status
of the Artist, a cura di Emma Barker, Nick Webb e Kim Woods (New Haven:
Yale University Press, 1999): 7-8.
[103] Il problema del “genere” di
un’opera letteraria è stato uno di quelli più discussi in anni recenti. Negli
studi medievali è divenuto di particolare importanza nell’ambito della “Nuova
Filologia”, che si basa sull’idea secondo cui possono esserci tante molteplici
funzioni e comprensioni di un testo, quante sono le copie manoscritte che ne
esistono; e che la ricerca del testo “originale” è sempre piena di insidie. Si vedano: Bernard Cerquiglini, In Praise of the Variant: a Critical History
of Philology, traduzione di Betsy Wing (Baltimora: Johns Hopkins University
Press, 1999); A.J. Minnis, A.B. Scott e David Wallace, Medieval Literary Theory and Criticism (Oxford: Clarendon Press,
1988); il volume 65/1 di Speculum
(1990) dedicato esclusivamente alla Nuova Filologia e che comprende: Lee
Patterson, “On the Margin: Postmodernism, Ironic History, and Medieval
Studies”, pp. 87-108; Gabrielle M. Spiegel, “History, Historicism, and the
Social Logic of the Text in the Middle Ages”, pp. 59-86; R. Howard Bloch, “New
Philology and Old French”, pp. 38-58; Suzanne Fleischman, “Philology,
Linguistics, and the Discourse of the Medieval Text”, pp. 19-37; Stephen
Nichols e Siegfried Wenzel (a cura di), The
Whole Book: cultural Perspectives on the Medieval Miscellany (Ann Arbor:
University of Michigan Press, 1996). Per uno studio su come i testi
medievali possano servire a funzioni diverse, attraverso i generi, si veda, ad
esempio, Karin Ugé: “Creating a Usable Past in the Tenth Century: Folcuin’s ‘Gesta’
And the Crises at Saint-Bertin, in Studi
Medievali, ser. 3, vol. 37, n. 2 (1996), pp. 887-903.
[104] Si è scritto molto sulle
metafore degli artisti, ma gli studi si sono concentrati meno sul Medio Evo che
sulla prima modernità e sull’era moderna o sulle metafore legate agli artisti e
al fare artistico. Il testo
classico in materia è Ernst Kris e Otto Kurz, Legend, Myth, and Magic in the Image of the Artist: a Historical
Experiment, traduzione di Alistar Laing (New Haven: Yale University press,
1979); si veda anche Carl Goldstein, “The Image of the Artist Reviewed” in Word and Image 9/1 (1993), pp. 9-18; e
per gli scritti degli artisti in relazione al collezionismo, Thomas Ketelsen, Künstlerviten, Inventare, Kataloge: Drei
Studien zur Geschichte der kunsthistorischen Praxis (Ammersbek: Lottebeck
Jensen, 1990). Bruno Reudenbach ha sostenuto che il richiamo all’umiltà
di Teofilo sia un traslato che proviene dalle formule dei prologhi medievali in
“Werrkünste und Künstlerkonzept” (vedi nota 18). Per i problemi legati allo studio degli artisti
medievali si veda Lawrence Ness, “The Originality of the Early Medieval
Artists” in Literacy, Politics and
Artistic Invention in the Early Medieval West, Saggi presentati al
“Symposium on Early Medieval Culture’, Bryn Mawe College, Bryn Mawr, PA, a cura
di Celia Chazelle (New York: New York University Press, 1989), pp. 77-109. Per
le questioni relative ai nomi degli artisti nel Medio evo, si veda Peter C.
Claussen, “Künstlerinschriften” in Ornamenta
Ecclesiae, catalogo della mostra (Colonia: Schnütgen Museum, 1985), I, pp.
263-276; e Claussen, “Nachrichten von den Antipoden oder der mittelatlerlichen
Künstler über sich selbst” in Der
Künstler über sich und in seinem Werk: internationales Symposium der Bibliotheca
Hertziana, Rom 1989, a cura di Matthias Winner (Weinheim: VCH, Acta
Humaniora, 1992), pp. 19-54. Per il problema dei traslati nella storia
della scrittura, si veda C. Stephen Jaeger, “Pessimism in the Twelfth-century
‘Renaissance’”, in Speculum 78/4 (2003),
pp. 1151-1183. Per le metafore
nelle vite dei santi, si veda Ineke van’t Spijker, “Model Reading: Saints’
Lives and Literature of Religious Formation in the Eleventh and Twelfth
Centuries”, ‘Scribere sanctorum gesta’ in Recueil
d’études d’hagiographie médiévale offertes à Guy Philippart, a cura di
Étienne Renard e altri (Turnhout: Brepols, 2005), pp. 135-156; e sulle metafore
in merito ai santi nel mondo artistico, si veda Cynthia Hahn, “Picturing the
Text: Narratives in the ‘life’ of Saints” in Art History 13/1 (1990), pp. 1-33; nonché “Seeing and Believing:
The Construction of Sanctity in Early Medieval Saints’ Shrines”, in Speculum 72/4 (1997), pp. 1079-1106.
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