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Heidi C. Gearhart
Il ‘De diversis artibus’ di Teofilo
La figura dell’artista e la creazione artistica nel XII secolo
Parte Seconda
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Fig. 4) Altare portatile di Henry di Werl, Vescovo di Paderborn,
Roger of Helmarshausen, c. 1107-1122. Paderborn, Diözesanmuseum
© Diözesanmuseum, Paderborn
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Collezionare, copiare e leggere il De diversis artibus
La storia di come Teofilo fu
letto, e da chi, è stupefacente. A partire dal XII secolo per arrivare al XXI
senza interruzione alcuna, il De diversis
artibus ha catturato l’attenzione di intellettuali di fama: da Giorgio
Agricola a Josias Simmler (uno dei primi collezionisti della modernità), da
Gotthold Lessing a Julius von Schlosser. Dai primi lettori umanisti ai moderni
curatori, il trattato è divenuto parte della storia dei libri e della cultura,
con un ruolo man mano sempre più importante nell’ambito della comprensione
della storia delle tecniche artistiche e comunque significativo per la stessa
storia dell’arte. La nostra comprensione del De diversis artibus è racchiusa nella sua storia; dobbiamo quindi
prendere in considerazione come Teofilo fu capito e i motivi e gli assunti che
hanno inciso sulla sua interpretazione, per costruire a partire dai nostri
predecessori e guardare al testo con occhi nuovi.
Ci sono prove che il De diversis artibus fu considerato come
fonte di riferimento e prescelto per le informazioni che forniva sin dai primi
del XIV secolo. L’autore anonimo di un testo intitolato Lumen animae è il primo a citare un libro di un certo Teofilo, che
chiama Brevilorum diversarum artium e
dice di aver acquisito da un monastero in Germania [29]. Il Lumen Animae è una fonte enciclopedica
che descrive il mondo naturale in termini di concetti cristiani; seguendo la
tradizione delle Etimologie di
Isidoro di Siviglia, descrive in dettaglio, ad esempio, le associazioni
esistenti fra animali e virtù, o le proprietà magiche delle pietre e delle
gemme [30]. La citazione, tuttavia, è vaga, sicché, mentre alcune delle prime
edizioni a stampa del De diversis artibus
hanno incluso i passaggi che si rintracciano nel Lumen animae considerandoli derivanti da Teofilo, altre e più
recenti edizioni, come quella di Dodwell, li hanno scartati [31]. Come spiega
quest’ultimo, gli estratti si riferiscono a fenomeni paranaturali come la
sterilità degli alberi, l’esistenza di serpenti che nuotano e gli odori trasudati
dai ciechi, e quindi sono “troppo lontani dal buon senso e dall’empirismo
pratico” del De diversis artibus per
provenire dallo stesso testo [32]. È tuttavia possibile che il riferimento a
Teofilo e gli estratti siano relativi a una variante allargata del trattato a
noi oggi ignota. In ogni caso, la citazione è segno che Teofilo era stimato per
la sua conoscenza delle proprietà del mondo naturale e che la sua reputazione
si mantenne alta anche quando le sue informazioni furono mescolate ad altre
fonti probabilmente non opera di Teofilo.
Nel XV secolo, Teofilo catturò
l’attenzione di Jean le Bègue, un umanista parigino. Come attestato dal
colophon della sua opera, Le Bègue fece una propria copia del De diversis artibus che inserì in una
raccolta di trattati sulla pittura [33]. Le Bègue era membro di un circolo di
umanisti francesi che condividevano un comune interesse nel copiare gli stili
di scrittura del passato. È noto per essersi interessato di miniature e testi
medievali e sembra che fosse abituato a comparare fra loro e analizzare le
tecniche pittoriche [34]. Il libro è scritto con una calligrafia pulita,
verticale, con iniziali rosse e blu; tutti elementi che, pur semplici,
tradiscono tuttavia grande cura nell’esecuzione del lavoro. Il manoscritto
contiene anche un glossario dei termini e dei sinonimi con cui venivano
indicati colori equivalenti, rendendo il libro sia un esempio di produzione
elegante sia una fonte di conoscenza in merito alla pratica della pittura.
L’interesse di Le Bègue per Teofilo era di natura tecnica, storica ed erudita.
Lo stesso manoscritto di Le Bègue
divenne parte di una delle grandi collezioni di libri di quell’epoca. Nel sedicesimo
secolo era custodito nella raccolta del bibliofilo francese Louis Martel di
Rouen. Da lui lo comprò agli inizi del XVII secolo l’intellettuale e
collezionista Jean Bigot, membro anziano della corte fiscale (cour des aides) di Normandia [35]. La
biblioteca di Bigot conteneva più di 500 manoscritti e, a quanto si dice, Bigot
stesso era molto generoso nel rendere consultabile la sua collezione a una
comunità più ampia; sotto suo figlio Emeric, la biblioteca Bigot divenne un
centro in cui si tenevano regolari riunioni di intellettuali [36]. Non esiste
traccia di come fosse classificato il manoscritto da Bigot. Nel 1692, dopo la
morte di Robert, figlio di Jean, il libro di Le Bègue passò in possesso delle
collezioni reali assieme al resto della biblioteca. Qui un catalogo del 1744 lo
elencava sotto la voce “Filosofia recente e scolastica” [37]. Il De diversis artibus sembra essere stato
considerato la testimonianza di un passato in cui il fare artistico si concentrava
sulle tecniche e il catalogo mostra questo interesse settecentesco per una
prospettiva storiografica dell’arte medievale; un interesse che potrebbe
caratterizzare anche lo studio di Lessing sul De diversis artibus risalente al 1774. L’artista di cui si parla
nel libro di Teofilo sarebbe stato presto considerato come emblematico dello
spirito “medievale”.
La storia del manoscritto di
Wolfenbüttel offre un caso similare in cui si segnalano cambiamenti di
interpretazione del testo ed illustri proprietari dell’esemplare. Il
manoscritto rimase a San Pantaleone forse fino al termine del XIV o al XV
secolo. Nel 1545, a quanto pare, era nelle mani di Giorgio Agricola, autore di
un’opera classica sulla scienza e la natura dei metalli, il De re metallica [38]. Agricola era
strettamente legato ai circoli intellettuali che operavano nella zona di
Colonia; ciò rende molto probabile il fatto che abbia acquisito lì il
manoscritto e induce a domandarsi se altri suoi colleghi in zona, come Erasmo
da Rotterdam, potessero avere avuto anche loro familiarità con il De diversis artibus. [39] L’interesse di
Agricola nei confronti del manoscritto, tuttavia, era prima di tutto
focalizzato sulla copia di Vitruvio che essa conteneva: Agricola cita l’autore
romano in maniera estensiva nel Bermannus,
il suo dialogo sulla metallurgia pubblicato nel 1528, ma non fa menzione di
Teofilo [40].
Agricola, tuttavia, prese in
considerazione Teofilo come fonte per la storia della metallurgia. Nel De re metallica del 1556 tornò al
progetto cominciato nel Bermannus di
trasformare la conoscenza pratica dei metalli in un sistema intellettuale e
scientifico e di chiarire l’uso dei termini fatto nella scienza metallurgica.
[41]. Compilando essenzialmente una storia dell’alchimia e della metallurgia
che abbraccia un lasso temporale di secoli, dall’antichità fino al XV secolo
[42], Agricola “riconosce la dovuta gratitudine nei confronti delle persone i
cui scritti si trova ad utilizzare, anche in maniera molto blanda” e dice che
il suo progetto è un nuovo tentativo di fare chiarezza e correggere “l’oscuro
linguaggio” utilizzato dagli alchimisti, nella cui lista include anche Teofilo
[43]. Che Agricola possa aver letto Teofilo è assolutamente significativo,
tuttavia i termini con cui vi fa riferimento sono ambigui. Il suo giudizio
sembra racchiudere un’idea relativa agli scrittori medievali ancora
persistente: Agricola pare tenere in conto il De diversis artibus per il suo interesse storico, ma guarda ad esso
anche come una fonte che va chiarita, aggiornata e sistematizzata per l’uso
moderno.
Anche Cornelio Agrippa,
contemporaneo di Agricola e a volte critico nei suoi confronti, fece uso di
Teofilo, rappresentandolo come un personaggio importante nella storia delle
manifattura del vetro. Il suo De
incertitudine et vanitate scientiarum, stampato nel 1527 a Colonia, è una
trattazione scettica contro il valore della cultura scientifica. Il testo
comprende un capitolo dedicato ad alchimia e chimica. È qui che Teofilo entra
in gioco. Agrippa si scagliò contro l’esercizio della chimica e di ciò che ai
suoi occhi appariva derivare da essa, come la metallurgia, definendo i chimici
“i più perversi fra tutti gli uomini” perché “mirano a scalare montagne dorate
usando la fatica delle donne e il gioco dei bambini” [44]. Ma non tutto è da
buttare, perché “dalla metallurgia” – continua Agrippa “fiorì l’arte di
produrre ogni sorta di vetro; una nobilissima invenzione, su cui Teofilo ha
scritto un meraviglioso trattato” [45]. Agrippa, mentre denigra la vana scienza
della chimica, loda il libro di Teofilo perché parla della produzione dei
vetri, ignorando curiosamente i libri sulla metallurgia o sulla pittura.
Non è noto come Agrippa fosse
arrivato a conoscere il De diversis
artibus, ma il fascino che esercitava su di lui poteva risiedere
nell’orientamento etico e religioso che esso conteneva. Charles Nauert ha
sostenuto che l’atteggiamento critico di Agrippa nei confronti della cultura
scientifica nel De vanitate e la
successiva adesione all’occultismo nel De
occulta philosophia sono parte di un processo in cui il dubbio verso il
mondo della scienza dà il via alla ricerca della conoscenza tramite il divino
[46]. Ritengo possibile quindi che la presentazione della conoscenza operata
dal monaco medievale come derivazione divina fosse in linea con questo
desiderio.
È più chiaro che, per Agrippa,
Teofilo non rappresenta altro che un episodio in una narrazione storica più
ampia. Agrippa offre una breve storia della tecnologia legata al vetro. Riporta
il racconto di Plinio sull’invenzione del vetro e la condanna dell’imperatore
Tiberio nei confronti di quest’attività artigianale, considerata una potenziale
minaccia nei confronti dei valori dei metalli. Il trattato di Teofilo sul
vetro, con il suo sistema ordinato e basato su determinati principi funge da
antidoto rispetto alla bramosia e alla vanità di Tiberio. “Plinio riferisce che
l’arte di temperare il vetro fu scoperta all’epoca di Tiberio; ma la
manifattura fu fatta chiudere da Tiberio e il suo artefice, se dobbiamo credere
a Isidoro, fu messo a morte, per paura che il vetro potesse mettere in secondo
piano l’oro, e l’argento e l’ottone perdessero il loro valore” [47]. Sia
Agricola sia Agrippa presentarono Teofilo come rappresentante di una fase in
una più ampia traiettoria di apprendimento. Col passare del tempo, man mano che
il Medio Evo diveniva più remoto, le informazioni tecniche conservate
nell’opera divennero l’aspetto più considerato di essa e la sua rarità storica
fu sempre più riconosciuta e celebrata.
Teofilo nelle biblioteche: catalogare e classificare il De diversis artibus
Il riferimento fatto da Agrippa
al De diversis artibus in ultima
analisi assicurò molta maggior fama a Teofilo; l’opera divenne una fonte
conosciuta da molti fra i principali bibliografi, bibliotecari ed eruditi della
prima età moderna. Cominciamo così a vedere Teofilo divenire noto come
esponente della cultura medievale e il De
diversis artibus venir considerato innanzi tutto come una fonte di
informazioni tecniche. Due aspetti fra loro strettamente legati: Teofilo è
visto come una prova fondamentale a supporto dell’idea che l’arte, nel Medio
Evo, fosse essenzialmente considerata come un’impresa di carattere tecnico, una
mansione riservata all’umile artigiano. La fama di Teofilo andava quindi
aumentando man mano che le citazioni si succedevano l’una all’altra; con esse
si stratificavano anche le interpretazioni del trattato, via via allontanandosi
dal contesto del XII secolo e considerando sempre più Teofilo come una fonte
tecnica.
Il De diversis artibus fu in effetti incluso in uno dei primissimi
cataloghi enciclopedici della cultura erudita, la Bibliotheca universalis, compilata dal naturalista e umanista
svizzero Conrad Gesner e pubblicata nel 1545. Lo scopo che Gesner perseguiva
con la sua opera era quello di allestire una bibliografia dei libri noti
scritti nelle tre lingue principali: l’ebraico, il latino e il greco. La sua
speranza era di catalogare l’intera gamma dell’umana conoscenza per preservarla
contro la perdita dei libri (e quindi della cultura) in cui erano incorse, a
causa del fuoco e delle guerre, antiche biblioteche come quella di Alessandria d’Egitto.
Il suo scopo era quindi di aiutare ad avere un quadro preciso dei libri
esistenti e di organizzare la conoscenza attorno ad essi, anche perché il loro
numero andava esponenzialmente aumentando con la nascita della stampa [48].
Per Gesner Teofilo era una fonte
fra le tante e la sua conoscenza del De
diversis artibus derivava direttamente dalla lettura di Agrippa, da cui
citava: “Un certo Teofilo che scrisse il più bello dei libri sulla lavorazione
del vetro. Hen. Cornelius Agrippa” [49]. Tuttavia, pur conoscendolo solo di
seconda mano, Gesner sembra aver classificato Teofilo assieme a un gruppo di
autori illustri. La Pandectarum, sive
partitionum universalium è una versione espansa, sempre ad opera di Gesner,
della Bibliotheca universalis
pubblicata nel 1548 [50]. Qui Gesner divise per argomento la sua bibliografia e
mise il libro di Teofilo sul vetro in una sezione intitolata “Sul vetro e gli
specchi” (de vitro et speculis) che
cade all’altezza del libro XIII, sotto “Arti meccaniche ed altre arti non
letterarie” [51]. La sezione fornisce riferimenti bibliografici seguendo la
narrazione di Agrippa sulla storia del vetro [52]. Comincia con Plinio il
Vecchio, citando il suo racconto sull’origine del materiale; poi presenta il
racconto dell’umanista fiorentino Pietro Crinito sul comportamento di Tiberio;
le notizie dell’urbinate Polidoro Virgilio, umanista contemporaneo di Crinito,
sui minerali e, alla fine, Teofilo sulla manifattura del vetro [53]. Teofilo
occupa curiosamente l’ultimo posto alla fine della lista; al contrario delle
sue controparti umanistiche, coi loro racconti di invenzioni e storie antiche,
Teofilo è il referente delle sue stesse tecniche; è un rappresentante diretto della
cultura medievale.
Il testo di Gesner non fu una
semplice lista: le copie della sua bibliografia circolarono e furono spesso
usate come modelli dai bibliotecari. Una copia della bibliografia di Gesner
sopravvive ancora a Monaco; leggermente più tarda rispetto alla Bibliothecae universalis, ha tutte le
pagine riportate su un più ampio foglio di carta in maniera tale da creare
spazio per i commenti ai margini. Questi ultimi furono riempiti con annotazioni
e descrizioni dei volumi posseduti dalla biblioteca bavarese nel XVI secolo
[54].
La bibliografia di Gesner fornì linee
guida per le successive catalogazioni nelle biblioteche e senza dubbio alcuno
creò dei modelli di riferimento per collezionare libri. Il De diversis artibus acquistò prestigio grazie al suo inserimento
nel catalogo. La raccolta contribuì a definire il posto di Teofilo nel contesto
della letteratura latina, rendendo il suo trattato una parte dell’eredità
letteraria europea, ma rinsaldò anche lo status di Teofilo come simbolo
storico: la sua opera veniva valutata come un catalogo di tecniche che preservava
le conoscenze del passato [55].
L’opera di Gesner fu ampliata
ancora nel 1555, questa volta da Josias Simmler, che sembra avere molta maggior
familiarità con il De diversis artibus
rispetto al suo predecessore [56]. In una nuova appendice all’Epitome bibliothecae Conradi Gesneri,
Simmler, un teologo protestante e professore di esegesi biblica a Zurigo,
descrive con una certa completezza testo ed autore, menzionando anche gli
esemplari manoscritti noti e i suoi possessori:
“Tre Libri di Teofilo monaco. Il
primo è su come si temperano i colori, il secondo sui metodi di lavorazione del
vetro, il terzo sull’arte di fondere e sui metalli. Ne sopravvivono un
manoscritto su pergamena posseduto da Giorgio Agricola, uno nell’antico monastero
di Cella [Altzelle], che è stato portato alla biblioteca di Lipsia. Allo stesso
Teofilo si fa riferimento nel Tractatum diversarum artium, nel libro chiamato Lumen anime.” [57]
Le raccolte bibliografiche basate
sull’opera di Gesner continuarono ad essere ampliate e copiate; con esse
aumentò la fama del De diversis artibus,
con la controindicazione che il trattato fu classificato in maniera sempre più
settoriale. Joachim Feller, professore e bibliotecario presso l’Università di
Lipsia, ampliò quanto detto da Simmler nella sua prefazione al catalogo della
biblioteca universitaria stilato nel 1686:
“Fra i medici, non senza gioia, ho
trovato il libro di Teofilo monaco sulle arti dei colori e sulla realizzazione
del vetro, che oggi nessuno protegge dalla distruzione; è lo stesso libro,
presente nella Bibliotheca di Gesner
e Simmler, che Johannes Jacobus Frisius ebbe modo di lodare: un certo Teofilo
ha scritto un libro di una bellezza straordinaria sulle arti del vetro. (Di
quest’opera ci sono tre esemplari) che sopravvivono: una pergamena nelle mani
di Giorgio Agricola e una proveniente dall’antico monastero di Cella, che fu
portata alla biblioteca di Lipsia” [58].
Sicuramente per Feller il De diversis artibus si distingueva
nettamente rispetto alle opere degli uomini di medicina collazionate nello
stesso manoscritto, appartenendo a un genere completamente diverso; Feller
peraltro sembra averne compreso la natura unica, posto che, a margine del suo
catalogo, c’è disegnata una piccola mano che indica proprio il trattato di
Teofilo [59].
In seguito alla compilazione di
tutti questi cataloghi e bibliografie, il credito dato al De diversis artibus continuò a crescere, anche se, con
l’accumularsi delle citazioni da un autore all’altro, l’interpretazione che se
ne dava divenne man mano più restrittiva. Daniel Georg Morhof, cercando di
organizzare e presentare i campi del sapere nella sua Polyhistor sive auctorum notitia et rerum commentarii del 1688 si
rifece a Feller. Citando la decrizione del manoscritto di Lipsia, Morhof ne isolò
il De diversis artibus: per lui si
trattava di un esempio fondamentale di un prezioso trattato antico salvato
dall’oblio [60]. Il trattato giocò un suo ruolo anche in un precoce dibattito
artistico: in una recensione del 1690 al Veteri
Monumenta di Giovanni Ciampini, un libro che descriveva i monumenti della
prima Cristianità nella loro derivazione dai precedenti romani [61], l’autore
(forse lo stesso Feller [62]) cita il De
diversis artibus per controbattere all’affermazione di Ciampini secondo cui
il primissimo trattato sulla fabbricazione del vetro sarebbe stato scritto da
Antonio Neri nella Firenze del XVI secolo [63].
Le copie del De diversis artibus operate nel XVII secolo parlano di un interesse
continuo e crescente nei confronti di Teofilo. È da quest’epoca che possiamo
osservare che l’attribuzione a Ruggero nel manoscritto di Vienna (il più antico
testimone di Teofilo) comincia ad avere il suo effetto. La consapevolezza
dell’attribuzione a Ruggero sembra essersi diffusa mentre il manoscritto era
proprietà di Bernhard Rottendorff, un medico e collezionista di Münster, il cui
nome si trova scritto sul primo folio del manoscritto viennese. Rottendorff
probabilmente acquisì il manoscritto nella regione della Westfalia, dove
notoriamente aveva cercato codici nei vecchi monasteri [64]. Più o meno
all’epoca di Rottendorff vennero realizzate due copie del De diversis artibus. Una di queste si trova anch’essa ora a Vienna,
dove le è stato attribuito il numero 11236. L’altra è l’esemplare oggi
conservato a Venezia, Biblioteca Marciana, con segnatura Lat. VI. 199 (3597).
Entrambi i manoscritti sono copie pulite e in ordine con ampi margini esterni.
Sia l’uno sia l’altro sono copie realizzate con attenzione e scritte da una
sola mano. E però, se entrambe contengono l’indicazione di essere copie dell’ “antico
manoscritto conservato nella biblioteca di Vienna”, ed entrambe citano
l’attribuzione a Ruggero del soprannome Teofilo, in realtà tutte e due
contengono il testo nella versione tramandata dall’esemplare di Wolfenbüttel
[65]. La provenienza di questi due manoscritti è sconosciuta, e, posto che
chiaramente entrambi fanno riferimento sia a V sia a G, l’idea che Rottendorff
possa aver posseduto sia l’esemplare di Wolfenbüttel sia quello di Vienna è
davvero intrigante. Ad ogni modo, le copie del XVII secolo tradiscono un
interesse nel conservare il testo e l’interesse attribuito ad esse sembra
quello degli oggetti ricercati dai collezionisti come copie di un venerabile
esemplare più antico. Anche se dovessero rivelarsi aggiunte scorrette, quindi,
le titolazioni dei due manoscritti sono segno del richiamo che produceva il
nome di Ruggero e mostrano che alcuni esemplari del trattato erano abbastanza
famosi da rendere eloquente il riferimento ad essi.
La collezione di Rottendorff
comprendeva un gran numero di manoscritti e la sua sembra esser stata una
biblioteca di lavoro che includeva una gran varietà di testi eruditi antichi e
medievali. Il De diversis artibus pare
aver occupato un posto in mezzo ad autori che spaziavano da Cicerone, Giovenale
e Seneca ad Avicenna, Oddone di Cluny e Ugo di S. Vittore [66]. L’interesse di
Rottendorff nei confronti dei manoscritti andava al di là della passione
collezionistica; si trattava di un autore che amava rifarsi largamente alle
fonti classiche latine, anche impiegando direttamente citazioni da Vitruvio in
definizioni attinenti agli aspetti architettonici [67]. Chiaramente aveva una
profonda cultura in materia di libri: assieme a Bernhard von Mallinckrodt, suo
amico, collega bibliofilo e decano della Cattedrale di Münster compilò un
catalogo dei libri e dei manoscritti all’epoca conservati nelle biblioteche
della Germania del nord, in Olanda e in Svezia [68]. Il catalogo,
sventuratamente, oggi è perso e con lui ulteriori informazioni sulla collezione
di Rottendorff.
Buona parte della biblioteca di
Rottendorff rimase intatta dopo la sua morte, nel 1687, ma, stranamente, il
manoscritto di Vienna (MS 2527) in un qualche momento non precisato, ne fu
separato. Marquard Gude iniziò a comprare manoscritti di Rottendorff a partire
dal 1683, e alla fine ne acquistò da lui almeno ventinove [69]. Quando Gude
morì, molti dei suoi manoscritti passarono all’interno della biblioteca di
Wolfenbüttel; tra questi c’era il bell’esemplare che comprendeva Vitruvio e
Teofilo, oggi noto come il Codice di Wolfenbüttel Guelph Gudianus lat 2°69.
Come Gude abbia ottenuto il manoscritto di Wolfenbüttel, perché non abbia
acquistato da Rottendorff il manoscritto di Vienna e come tale manoscritto sia
divenuto separato rispetto al resto della collezione di Rottendorff, seguendo
una strada diversa che lo avrebbe portato all’Österreichische
Nationalbibliothek, rimane un mistero.
Man mano che i manoscritti di
Teofilo venivano trasferiti nell’ambito di biblioteche, e lo studio dei
manoscritti si sviluppava come disciplina, il De diversis artibus veniva sempre più apprezzato come una rarità
medievale e come fonte per la storia della tecnica. Nel 1699 Humphrey Wanley
realizzò per suo studio personale una copia dell’esemplare segnato Cambridge E
e. 6 39, dando vita a un manoscritto pulito e chiaro realizzato in una
calligrafia elegante. Wanley è noto per aver condotto all’epoca una serie di
progetti di ricerca indipendenti sui manoscritti medievali, raccogliendoli e
copiandoli. Quest’esercizio gli fu probabilmente ben utile; Wanley fu
notoriamente il bibliotecario nonché colui che si preoccupò di procurare
manoscritti per la collezione di Lord Harley, e in tale veste potrebbe essere
stato coinvolto nell’acquisto dell’esemplare Harley di Teofilo (Harley MS
3915), oggi custodito alla British Library. La stessa copia del De diversis artibus realizzata da
Wanley, tuttavia, doveva avere un valore per Harley, posto che si trovava nella
sua collezione privata ed è sopravvissuta fino a noi, non come parte della
collezione Harleiana, ma come MS Sloane 81 della British Library.
Dopo la pubblicazione del De diversis artibus da parte di Lessing,
il commercio e la circolazione degli esemplari manoscritti del trattato aumentò
di buon passo, specie perché venivano preparate per la pubblicazione nuove
edizioni dell’opera. Charles de l’Escalopier, la cui traduzione francese di
Teofilo apparve nel 1843, sembra aver posseduto tre esemplari del trattato;
tutti e tre sono ora parte della collezione l’Escalopier ad Amiens. Il più
antico (MS l’Escalopier 46a) è una copia del tardo XV secolo strettamente
relazionata al manoscritto di Wolfenbüttel [70]. Gli altri due furono
realizzati sotto la supervisione dello stesso de l’Escalopier. Il più vecchio
(MS 47) fu ordinato nel 1841 a richiesta di J.-Marie Guichard, bibliotecario della
Bibliothèque Royal di Parigi e autore dell’introduzione alla traduzione di de
l’Escalopier. Il manoscritto fu esteso dall’editore londinese William
Pickering, che lo fece copiare da un certo M. Baker [71]. È scritto in
calligrafia corsiva su grandi fogli di bella carta veneziana: una trascrizione
accurata, comprende anche le note marginali copiate dall’originale; alcune note
addizionali nei margini segnalano le stranezze del testo e furono
presumibilmente scritte da Guichard per collazionare il testo per il suo
progetto di traduzione. I contrassegni nel manoscritto indicano che il libro
faceva parte della biblioteca privata di de l’Escalopier, che cedette alla
biblioteca di Amiens nel 1870 [72]. Il manoscritto più recente (MS 117) è una
trascrizione del MS 46. I suoi sigilli mostrano che una volta era posseduto
dalla Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi. Gli esemplari di Amiens evidenziano
la cura editoriale che è stata posta in merito alla qualità del testo; usati
per studio e a fini comparativi, dimostrano
l’interesse erudito nel collazionare le versioni esistenti di Teofilo per
stabilire un testo autentico e originale.
I modi con cui il De diversis artibus fu citato, copiato e
collezionato da figure come Le Bègue, Agricola, Simmler o Feller pongono in
evidenza le molte funzioni che ha svolto il trattato di Teofilo. Per Le Bègue
offriva informazioni sulle tecniche pittoriche del passato; per Agricola si
trattava di una curiosità alchemica; per Simmler era una rarità medievale
riferita al mondo monastico, e per Feller si trattava di una preziosa
testimonianza sopravvissuta riscoperta a sorpresa tra una collezione di testi
medici. Per tutti e quattro il testo era un raro documento superstite che
offriva una preziosa panoramica sullo stato della conoscenza nel periodo
compreso fra l’antichità e i loro tempi. Nel corso dei secoli il De diversis artibus è stata un’opera da
cui compilatori, umanisti e accademici hanno raccolto informazioni sulla storia
delle tecniche artigianali così come praticate nel Medio Evo cristiano. Dal
momento che sappiamo davvero così poco sull’opera (sull’identità dell’autore,
sulle ragioni che portarono a scriverla o sullo scopo che aveva ai suoi tempi)
la tendenza a valutare il De diversis
artibus come testimone delle pratiche tecniche ha assunto un ruolo
centrale, dando corpo a preconcetti sull’artista medievale come umile e anonimo
artigiano. E tuttavia, con la consapevolezza degli scopi che vennero perseguiti
dalle riletture di cui abbiamo parlato sino ad ora, possiamo iniziare a
guardare al De diversis artibus in
maniera nuova, ed essere incoraggiati a prendere in considerazione l’opera nei
termini in cui fu realmente scritta e in relazione alla cultura monastica per
cui fu prodotta, e scoprire una nuova via per comprendere il fare artistico in
quel periodo.
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NOTE
Fine Parte Seconda
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NOTE
[29] Lumen animae, liber moralitatum elegantissimus magnarum rerum
naturalium lumen anime dictus, cum septem apparitioribus, necnon sanctorum
doctorum orthodosse fidei professorum, poetarum etiam ac oratorum
auctoritatibus per modum pharatre secundum ordinem alphabeti collectis (Augusta:
Anton Sorg, 1477); recentemente pubblicato e tradotto in Nigel Harris (a cura
di), The Light of Soul, the Lumen
anime C and Ulrich Putsch’s Das
Liecht der sel (New York: Lang, 2007); e Raspe (vedi nota 25), p. 145.
[30] Si veda, ad esempio, la
discussione sul testo in Raspe (cfr. nota 25), pp. 124-149, e per le virtù e gli
animali pp. 131-133.
[31] Come Dodwell ha argomentato,
sembra altamente improbabile che il riferimento del Lumen animae sia al De
diversis artibus di Teofilo, mentre un certo numero delle prime edizioni a
stampa, come quelle di Raspe, A Critical
Essay on Oil-Painting (vedi nota 25); Teophilus Presbyter, Libri 3, seu Diversarum artium schedula:
Théophile: Essai sur divers arts, a cura di Charles de l’Escalopier,
introduzione J. Marie Guichard (Parigi 1843) ristampa Nogent-le-Roi: Librairie
des arts et métiers, 1977); e Albert Ilg, in Theophilus, Schedula Diversarum Artium, a cura di Albert Ilg, Quellenschriften
für Kunstgeschichte und Kunsttechnik des Mitteralters, 7 (Vienna: W.
Braumüller, 1874) hanno operato il legame fra il trattato di Teofilo e gli
estratti. Si veda Dodwell (cfr. nota 5), p. XLV.
[32] Si veda Dodwell, DDA (cfr. nota 5), pp. XLV-XLVI; Smith e
Hawthorne escludono anche loro gli estratti del Lumen Animae; si veda Smith e Hawthorne (cfr. nota 8).
[33] Si veda Byrne, “Jean
Lebègue” (cfr. nota 28) e, per un esempio del colophon e dell’abitudine a
postillare i testi di Lè Bègue, in particolare Byrne, p. 46. La tavola dei
sinonimi è intitolata: Experimenta 118 de
coloribus: preamittur tabula ordine alphabetico digesta de vocabulis synonymis
et aequivocis colorum, eorumque accedentium, folii 2r-20v.; la collezione
delle ricette, scritte sia in francese sia in latino, è intitolata: Differentes receptes fur les couleurs, recueilles
par Jean le Bègue, Gressier de la Monnoye, folii 92r.-101v.
[34] In merito all’interesse
degli umanisti francesi per i manoscritti, e in particolare per quello del
maestro di Le Bègue, Jean de Montreuil, si veda Gilbert Ouy, “Jean de Montreuil
et l’introduction de l’écriture humanistique en France au début du XVe siècle”,
in Miniatures, Scripts, Collections,
Essays Presented to G.I. Lieftinck, Litterae textuales 4 (Amsterdam: A.L.
Van Gendt, 1976), pp. 53-61.
[35] J. Bidez et alii (a cura di), Catalogue des manuscrits alchimiques latins,
manuscrits des Bibliothèques de Paris antérieurs au XVIIIe siècle
(Bruxelles: Palais des Academies, 1939) Vol. 1: Manuscrits des Bibliothèques Publiques de Paris, pp. 39-48. Altri
manoscritti passati da Louis Martel a Jean Bigot: si veda, ad esempio, Paris,
BnF lat. 2636, un manoscritto del XII secolo contenente il De creatione hominis di Gregorio di Nissa, l’Expositio missae di Remi d’Auxerre e l’Epistola ad Henricum regem contra Bruonem et Berengarium di
Theoduinus di Liegi. Il manoscritto è descritto in Ph. Lauer et alii (a cura
di), Bibliothèque Nationale, catalogue
général des manuscrits latins 2 (Parigi, 1940), pp. 558-559. Per Jean
Bigot, la sua collezione e i suoi discendenti si veda “Bigot” in La grande Encyclopédie: inventaire raisonné
des sciences, des lettres, et des arts, par une societé de savants et de gens
des lettres, a cura di MM. Berthelot et alii (Parigi, 1855-1902), p. VI e
811.
[36] La grande Encyclopedie (vedi nota 35): p. VI e 811.
[37] Il libro si trova sotto il
titolo Philosophia e il sottotitolo Philosophi recentiores et scholastici;
si veda Catalogus codicum manuscriptorum
bibliotechae Regiae, parte III (Parigi, 1744), p. IV e 273-274. Si veda anche Daniel V. Thompson,
“The Schedula of Theophilus Presbyter” in Speculum
7/2 (1932), pp. 199-220, in particolare p. 219.
[38] Theophili monachi libri 3. Primus de temperamentis colorum, secundus de
ratione vitri, tertius de fusoria et metallica. Extant apud Georgium Agricolam
in pergamenis, et in Cella veteri monasterio, quae bibliothecae Lipsiam
translata est. Idem Theophilus in tractatum diversarum artium adducitur, in
libro qui inscribitur Lumen animae in Epitome,
bibliothecae Conradi Gesneri, conscripti primum a Conrado Lychosthene
Rubeaquensi, nunc denuo recognita et plus quam bis mille authorum accessione
(qui ommes asterico signati sunt) locupletata: per Josiam Simmlerum Tigurinum,
Tigui apud Christophorum, Froschoverum, Mense Martio, 1555; ristampato in Millaria faksimiledruck zur Documentation
der Geistentwicklung 5, a cura di Hellmut Rosenfeld e Otto Zeller
(Osnabrück: Otto Zeller Verlagsbuchhandlung, 1966), f. 173v. Il solo indizio
che il manoscritto fosse posseduto da Agricola sembra provenire da Simmler. Si
tratta di un’affermazione che è ripetuta da Raspe in A Critical Essay on Oil-painting (si veda nota 25), p. 38; e quindi
ripresa da Ilg in Schedula Diversarum
Artium (cfr. nota 31), p. II; anche Lessing fa la stessa affermazione, ma
senza aggiungere riferimenti in Vom Alter
der Oelmalerey (vedi nota 1), p. 331. Dodwell sostiene che il manoscritto
era nelle mani di Agricola nel 1530 e cita Lehmann, che dà poche indicazioni in
più sulla data. Si veda Dodwell, DDA
(cfr. nota 5), p. LVIII e Paul Lehmann, “Aus dem Leben… eines Helfers der
Philologen” in Archiv für
Kulturgeschichte, 28 (1938), pp. 163-190. Per l’interesse dimostrato da
Agricola nei confronti delle arti si veda Michael Baxandall, “Rudolph Agricola
and the Visual Arts” in Intuition and
Kunstwissenschaft, Festschrift for Hanns Swarzenski Festschrift (Berlino,
1973), pp. 409-419.
[39] Ad esempio il filosofo
Erasmo, che scrisse la lettera introduttiva al Bermannus si trovava a Lovanio attorno al 1517; il filologo Petrus
Mosellanus, mentore di Agricola all’Università di Lipsia, era nato nella
regione tedesca della Mosella e aveva studiato all’Università di Colonia nel
1512 circa; e anche Pierre Plateanus, amico stretto di Agricola che studiò a
Liegi e a Lovanio e più tardi visse a Joachimsthal, la città mineraria sulle
cui attività si basa molta parte del Bermannus. Per la vita, gli studi e il
circolo erudito di Agricola, con particolare riferimento all’ambiente
intellettuale di Lovanio e Liegi, che comprendeva figure come il filosofo
Erasmo e l’erudito Pierre Plateanus, si veda l’introduzione al Bermannus nell’edizione a cura di
Halleux e Yans: Georgius Agricola, Bermannus,
(le mineur) un dialogue sur le mines, a cura di Robert Halleux e Albert
Yans (Parigi: Belles lettres, 1990), p. 95 e XI-XVII. Si vedano anche Long, Openness, Secrecy, Authorship (cfr. nota 9), p. 334-336; Owen
Hannaway, “Georgius Agricola as Humanist” in Journal of the History of Ideas 53/4 (1992), pp. 553-560. Su
Petraneus, pp. 558-560 e su Mosellanus pp. 555-557.
[40] Si veda ad esempio la
discussione sul carbuncolo, in cui l’antiquario Naevius consiglia cautela nel
considerare il nome delle cose: “I Greci” – egli scrive – “hanno chiamato
cinabro molte cose differenti per via della somiglianza del loro colore. Ad
esempio, nella parole di Vitruvio si tratta dei filoni di minio (venam miniii), una gemma nobilissima,
così come Plinio chiama Carbuncle (carbunculum)
ciò che normalmente è chiamato rubino (rubinus)”.
Multas certe res ob coloris similitudinem
ανθρακας Greaci nominarunt. Nam minii venam, ut verba Vitruvii declarant, gemmam
nobilissimam, quam Plinius inde Carbunculum vulgus Rubinum vocat. In
Halleux e Yans, Bermannus (vedi nota
39), p. 95.
[41] Per uno studio analitico
dell’interesse di Agricola in merito al lessico delle pietre si veda Hannaway,
“Georgius Agricola as Humanist” (vedi nota 39).
[42] Giorgio Agricola, De re metallica, traduzione di H.C.
Hoover e L.H. Hoover (New York: Dover, 1950), Prefazione, pp. XXVI-XXVII. Per
un esame dei personaggi compresi nella lista si vedano in particolare pp.
XVII-XX, nota 12.
[43] Agricola, De re metallica, Prefazione. Edizione
Hoover (vedi nota 42), pp. XXVII-XXVIII.
[44] Henry Cornelius Agrippa, The Vanity of Arts and Sciences;
traduzione del De incertitudine et
vanitate scientiarum, Anversa, 1530 (Londra: stampato da R.E. per R.B. e
vendibile da C. Blount, 1684), p. 315. Sullo scetticismo di Agrippa nel testo si veda Charles G. Nauert Jr.,
“Magic and Sketpticism in Agrippa’s Thought” in Journal of the History of Ideas 18/2 (1957), 161-182.
[45] Agrippa, The Vanity of Arts and Sciences (vedi nota 44), p. 316. Si
veda anche Dodwell (cfr. DDA, nota
5), p. LII. Per una breve rassegna del più ampio contesto intellettuale in cui
si muovevano Agrippa e Agricola si veda la recensione di William McPeak
all’edizione curata da Halleux e Yans del Bermannus
(le mineur): Un dialogue sur les mines di Agricola (Parigi: Les belles
lettres, 1990) in Isis 83/1 (1992),
pp. 124-125.
[46] Nauert, “Magic and Skepticism” (vedi nota
44). Per una discussione sull’interesse di Agrippa per il magico come
altra forma di religiosità si veda Paola Zambelli, “Magic and Radical
Reformation in Agrippa of Nettesheim” in Journal
of the Warburg and Courtauld Institutes 39 (1976), pp. 69-103.
[47] Agrippa, The Vanity of Arts and Sciences (vedi nota 44), p. 316.
[48] Conrad Gesner, Prefazione
alla Bibliotheca universalis, sive
catalogus omnium scriptorium… Conrad Gesner (Zurigo: Froschouerus, 1545)
ristampata in Milliaria, Faksimiledrucke
zur Dokumentation der Geistesentwicklung 5, a cura di Hellmut Rosenfeld e
Otto Zeller (Osnabrück: Otto Zeller Verlagsbuchhandlung, 1966), fogli 2r.-3v.
[49] Theophilus
quidam pulcherrimum de vitrificatoria librum conscripsit. Hen. Cornelius
Agrippa. Gesner, Bibliotheca
universalis (vedi nota 48), p. 614.
[50] Conrad Gesner, Pandectarum, sive Partitionum universalium… libri XXI (Zurigo
1548), ristampata in Margaret Daly Davis (a cura di), Excerpted Bibliographies for the History of Art and the Study of
Antiquity (Heidelberg: Universitätsbibliothek der Universität Heidelberg,
2007).
[51] De vitro & speculis si trova nel Libro XIII, de mechanicis et aliis illiteratis artibus;
Conrad Gesner, Pandectarum (vedi nota
50), p. 28. La lista completa dei testi compresi in questa sezione è la
seguente: De vitro & speculis / De
origine vitri, & ratione faciendi; & de obsidiano vitro & de
veneribus multiformibus vitri, Plinius 36.26. / Quod imperante Tiberio vitrum
flexile ac ductile redditum sit, & qua poena tantae inventionis author
damnatus fuerit, Crinitus 23.4 / De origine vitri & electri, & quis
primus invenerit minium, & myrrhina in urbem asportaverit, & de
crystallo, Polydorus 2.22. / De vitrificatoria, Theophilus.
[52] Sembra evidente che Gesner
abbia utilizzato intensivamente Agrippa come fonte, anche se trovi il suo punto
di vista sulla religione apportatore di problemi. Si veda Paola Zambelli,
“Magic and Radical Reformation” (si veda nota 46); pp. 73-74.
[53] Il primo scritto dell’elenco
è la trattazione di Plinio il Vecchio sull’origine e la lavorazione del vetro
nell’Historia naturalis: sull’origine
del vetro e il metodo per lavorarlo: de
origine vitri, & ratione facendi: & de obsidiano vitro & de
veneribus multiformibus vitri, Plinio 36.26. Gesner, Pandectarum
(vedi nota 50), p. 28; e Plinio il Vecchio, The
historie of the world, commonly called, the naturall histoie of C. Plinius
secundus, traduzione di Philemon Holland (Londra: Adam Islip, 1601) Libro
36. Il secondo saggio è la versione della storia di Tiberio fornita
dall’umanista fiorentino Pietro Crinito, tratta dal De honesta disciplina del 1504: Quod
imperante Tiberio vitrum flexile ac ductile redditum sit, & qua poena
tantae inventionis author damnatus fuerit, Crinitus 23.4 Gesner, Pandectarum (nota 50), p. 28. Per una
breve nota su Pietro Crinito nell’ambito della cerchia umanista, si veda Delio
Cantimori e Frances A. Yates, “Rhetoric and Politics in Italian Humanism” in Journal of the Warburg Institute 1 / 2
(1937), pp. 83-102, pp. 87-88 n. 4. Il terzo è un capitolo sull’invenzione e la
scoperta dei minerali dell’urbinate Polidoro Virgilio, umanista contemporaneo
di Crinito: De origine vitri &
electri, & quis primus invenerit minium, & myrrhina in urbem
asportaverit, & de crystallo, il tutto dal De inventoribus rerum (Sugli inventori delle cose) di Polidoro
Virgilio, un umanista italiano che scriveva per la corte urbinate alla fine del
XV secolo. Il testo attinge ampiamente da Plinio per descrivere,
rispettivamente, la scoperta del vetro dalle sabbie della Fenicia (de origine vitri & electri); la
scoperta del cinabro, o vermiglione, ad Efeso ed il suo utilizzo fatto dai
romani come segno di santità, la storia del trasporto della mirra dall’Oriente
operato da commercianti e ladri, e la credenza che il cristallo si formasse da
acqua gelata: De origine vitri &
electri, & quis primus invenerit minium, & myrrhina in urbem
asportaverit, & de crystallo, Polydorus 2.22. Gesner, Pandectarum
(vedi nota 50), p. 28; e Polidoro Virgilio, The
works of the famous antiquary, Polidore Virgil containing the original of all
arts, sciences, mysteries, orders, rites, and ceremonies, both ecclesiastical
and civil: a work useful for all divines, historians, lawyers, and all
artificers, traduzione di Thomas Langley (Londra: Stampato per conto di
Simon Miller at the Star in St. Paul Church-yard, 1663) Libro II, cap. XIV, p.
113-114. Si veda anche Brian P. Copenhaver, “The Historiography of Discovery in
the Renaissance: The Sources and Composition of Polydore Vergil’s De inventoribus rerum, I-III) in Journal of the Warburg and Courtauld
Institutes 41 (1978), pp. 192-214. Infine, Theophilus, de vitrificatoria: Gesner, Pandectarum (vedi nota 50), p. 28.
[54] Monaco, Bayerisches
Staatbibliothek L. impr. C. n. Mss. 46. L’edizione è quella pubblicata da
Josias Simmler e pubblicata nel 1555, Epitome,
bibliothecae Conradi Gesneri (vedi nota 38).
[55] Trattati che oggi sono
spessi raggruppati assieme a Teofilo, come il De coloribus di Eraclio e il Mappae
clavicula, non compaiono nella lista di Gesner. Né quest’ultimo incluse
altre fonti collegate a Teofilo, come Varrone, a significare che la sua
conoscenza di Teofilo non scaturiva dall’ottica della letteratura didattica
antica e medievale. Pur tuttavia, inserì Palladio: Palladi, Rutili, Tauri
Aemiliani de re rustica lib. 13, im presi Lugduni apud Gryphium 1535, ex alibi,
cum Columella et reliquis rei rusticae scriptoribus latinis, foli. 141r. in
Simmler (a cura di) Epitome, bibliothecae
Conradi Gesneri (vedi nota 38).
[56] Josias Simmler (a cura di), Appendix Bibliothecae Conradi Gesneri,
Tiguri apud Christophorum, Froschoverum, Mense Martio, 1555, ristampato in Millaria, Faksimiledrucke zur Dokumentation
der Geistesentwicklung 5, a cura di Hellmur Rosenfeld e Otto Zeller
(Osnabrück: Otto Zeller Verlafsbuchhandlung, 1966) e Epitome, Bibliothecae Conradi Gesneri (vedi nota 38).
[57] Theophili monachi libri 3. Primus de temperamentis colorum, secundus de
ratione vitri, tertius de fusoria et metallica. Extant apud Georgium Agricolam
in pergamenis, et in Cella veteri monasterio, quae bibliothecae Lipsiam
translata est. Idem Theophilus in tractatum diversarum artium adducitur, in
libro qui inscribitur Lumen animae, in Epitome,
bibliothecae Conradi Gesneri (vedi nota 38), f. 173v.
[58] Inter medicos non sine gaudio inveniebam Theophyli monachi librum de
arte colorandi ac coquendi vitra… quam plane intercidisse hodie non-nulli
asserunt; quin illum ipsum librum de quo Joh. Jacobus Frisius in Bibliotheca
Gesneri & Simleri amplificata p. 778: Theophilus quidam pulcherrimum de
arte vitrificatoria librum scripsit. Extant (libri eius tre) apud Georgium
Agricolam in Pergamenis, & in Cella veteri Monasterio, quae Bibliotheca
Lipsiam traslata est. Joachim Feller, Catalogus
codicum, MSSCtorum bibliothecae Paulinae in academia Lipsiensi (Lipsia:
Gleditsch, 1686) prefazione senza numerazione pagine. Per la lista vera e
propria si veda p. 255, n. 21.
[59] Si veda sotto la categoria
MEDICA (serie I, in folio), n. 21: Jacobi
Alchindi liber de gradibus medicinarum / Albertus M. de mineralibus. / (Immagine
della mano che indica) Theophili Monachi
libri de coloribus & de arte colorandi vitra / Quaestiones super libros
Meteororum Aristotelis. / Aegidii, Monachi Corbeiensis, liber metricus de
puslibus cum glossis. / Galeni libri de Crisi. Feller, Catalogus codicum (vedi nota 58), p. 255.
[60] Edidit superiore anno celleberrimae Academiae Lipsiensis Catalogum
Codicum Mstorum Cl. Fellerus, optime hac opera de Academia non solum, sed &
orbe literato meritus, qui in praefatione Catalogi sinularia quaedam & notabilia
summatim exponit. Reperiuntur illic libri partim plane incogniti, partim
perquam rari, Patres & Historici Graeci. Habetur in illis Theophili Monachi
liber de arte colorandi ac coquendi vitra, quem intercidisse plane nonnulli
existimant, merito conferendus cum illis, qui hodie de eodem argumento scripti
sunt. Latitant ini illis pulirimi veterum Germanorum libri Rhyhmici, non
immerito eodem, si non majori, a nobis pretio habendi, quo haberi solent
aliarum gentium venerandae antiquitatis rudera. Descritto da Daniel George
Morhof nella sua Polyhistor sive de
notitia auctorum et rerum commentarii, quibus praeterea varia ad omnes
disciplinas consilia et subsidia proponuntur (Lubecca, Böckmannus,
1688-1692), I, pp. 59-60.
[61] Recensione anonima al Veteri monumenta, in quibus praecipue musiva
opera, sacrarum profanarumque aedium structura, ac nonnulli antiqui ritus
dissertationibus iconibusque illustrantur, di Giovanni Ciampino romano
(Roma: Komareck, 1690) in Acta eruditorum,
Augusta, 1690, pp. 419-420.
[62] Dodwell, DDA (vedi nota 5), p. LIII.
[63] Il recensore descrive il
trattato come segue: il libro primo è classificato come “Sui colori e la loro
mistura” (de coloribus et eorum mixtura);
il secondo “Sulla costruzione di un forno per fare le finestre e la produzione
degli strumenti necessari” (de
constructione furni ad operandum vitrum et instrumentis hanc in rem necessariis)
e il terzo “Sugli stampi e i vasi per fondere l’oro e sull’applicazione e la
lucidatura del niello” (de limis, de
vasculis ad liquefaciendum aurum, et de nigello imponendo et poliendo) in Acta eruditorum (vedi nota 80), pp.
419-420. Secondo Dodwell e altri, il manoscritto di Lipsia è menzionato anche
nelle Nouvelles de la République des
Lettres, Amsterdam, Settembre 1686, p. 1027.
[64] Probabilmente Rotterdorf
entrò in possesso del manoscritto in un qualche momento dopo il 1646, posto che
è in quell’anno che P. Claude Aubry divenne custode della collezione di Vienna,
e il manoscritto riporta appunto la sua sigla. Rottendorff morì nel 1671. Sulla
sua attività di collezionista si veda Paul Lehmann, “Aus dem Leben” (vedi nota
38). Più in generale, si veda anche Hermann Hugenroth, Zum dichterischen Werk des Münsterchen Artzes und Humanisten Bernhard
Rottendorff (1594-1671), a cura di Franz-Josef Jakobi, con il contributo di
Helmut Lahkamp e Bertram Haller (Münster: Aschendorffsche Verlag, 1991); e per
una panoramica sulla vita di Rottendorff si veda, nello stesso volume, il
saggio di Helmut Lahrkamp “Ein Arzt und Dichter im Barockzeitalter. Aus dem
Leben des Dr. med. Bernhard Rottendorff”, pp. 3-55. Degering e Lehman hanno
ipotizzato che Rottendorff possedesse entrambi gli esemplari di Vienna e
Wolfenbüttel, ma si tratta di indizi circostanziali. Si veda Degering, “Theophilus
Presbiter” (cfr. nota 12), pp. 259-262. Sulla figura di Aubry, si veda Lehmann,
“Aus dem Leben” (nota 38), p. 125.
[65] Vienna, ÖNB MS 11236
contiene una titolazione sul folio 1
in cui si può leggere Theophilus monachi…
qui et Rogerus libri tres, e una scritta sul medesimo folio in cui si dice che il manoscritto è stato copiato da un
“antico esemplare nella biblioteca imperiale di Vienna”, il che sembra legarlo
al manoscritto posseduto da Rottendorff, se non fosse che si tratta piuttosto
di una copia dell’esemplare di Wolfenbüttel, motivo per cui è presumibile che
si tratti di un’informazione incoerente e successiva alla realizzazione della
copia. Il folio 1v contiene inoltre
una dicitura della stessa mano che fa riferimento alla citazione di Teofilo
all’interno del Lumen animae: Vienna
ÖNB 11236, fol. 1r: Ex antiquo codice
membranaceo (in 12 mo. Catog meono notato) Augustiana Bibliotheca Casarea
Vindonobonensis; e, con la stessa mano, aggiunto sotto: Liber ist olim pertmisirit ad Bern. Rottendorf D. Medicum Coserverin et Electoral, A cls hc xlvii. Il folio 1v. recita: De hoc
auctore consulendis est liber lumen animae nuncupatis, ab anangma conscriptus
tempore Joannis PP xxiii typis ver eiilgatus A. 1477. Opera fratrsi Matthiew Farmatoris de Vienne
ordini Carmelitarium. La copia di Venezia, Lat. VI 199 (3597) contiene il
seguente titolo: Theophili monachi qui et
Rugerus. Libri tres. I de temperamentis colorum, II de arte vitriana, III de
arte fusili: descripti ex antiquo codice membranaceo msto augustissima
bibliotheca casared, Vindobonensis.
[66] Alcuni degli autori e dei
testi citati da Lehmann sono: Prisican, Rhetorica
ad herennium, Cicerone (almeno quattro copie), Terenzio (almeno due copie),
Orazio, Giovenale (almeno due copie), Seneca (almeno due copie), Ovidio (almeno
quattro copie), varie glosse su Virgilio; Terenzio, Catone (almeno tre copie
più una glossa), Aristotele, Claudiano, Fulgenzio, Aviano (almeno due copie più
una glossa), Avicenna, Boezio sull’Aritmetica e la Consolazione della Filosofia, Esopo, Macrobio, la glossa di Arnulfo
Aureliano sul Vangelo di Luca, lo Speculi
historiali, Theodulus (più una glossa), Oddone di Cluny sulla musica, San
Bernardo sulla musica, il Divi Augustini
musica; il Didascalicon di Ugo di
S. Vittore; e l’Historia Apollonii. I
manoscritti coprono un arco temporale che va dall’undicesimo al XIV e XV
secolo. Si veda Lehmann (nota 38), pp. 115-118.
[67] Hugenroth, “Zum
dichterischen Werk Bernhard Rottendorffs,” in Zum dichterischen werk des Münsterischen Artzes (vedi nota 64), pp.
85-121, in particolare pp. 99-119 come pure si vedano gli altri capitol del
libro per una trattazione più ampia delle opere di Rottendorff, dei suoi
interessi e per un abbozzo biografico. Cfr. anche Lehmann (nota 38), pp.
126-127.
[68] Lehmann, “Aus dem Leben”
(vedi nota 52), pp. 109-110.
[69] Lehmann sostiene che Gude
possa averne acquistati molti di più. Lehmann, “Aus dem Leben” (vedi nota 52),
pp. 123-126.
[70] Amiens, Bibliothèque
Municipale, l’Escalopier MS 46a. Dodwell, DDA
(vedi nota 5), p. LVIII.
[71] Lettera da W. Pickering a
J.-Marie Guichard, datata 1841; foglietto sciolto conservato nella biblioteca
municipale di Amiens, MS. 47D.
[72] J.F. Delion, Catalogue de la bibliothèque de M. le comte Charles de L’Escalopier:
avec une notice sur la vie, des notes historiques, littéraires, biographiques
et bibliographiques, une table des noms d’auteurs, des ouvrages anonymes et des
matières (Parigi: Delion, 1866-1867). Il MS 47 è a catalogo ad
Amiens col numero 2507.
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