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Lorenzo Ghiberti
I commentarii
(Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333)
Introduzione e cura di Lorenzo Bartoli
Firenze, Giunti, 1998
Recensione di Giovanni Mazzaferro
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Lorenzo Ghiberti, Autoritratto (Firenze, Battistero, Porta del Paradiso) Fonte: Wikimedia Commons |
Attenzione: Si veda anche la recensione a Ghiberti teorico. Natura, arte e coscienza storica nel Quattrocento, Milano, Officina Libraria, 2019
Un’opera di difficile interpretazione
Pochi testi della letteratura
artistica italiana risultano ancor oggi essere di difficile interpretazione
come i Commentarii del Ghiberti. Per
provare a riassumere è necessario ripercorrere le vicende dell’unico esemplare
che li ha fatti pervenire sino a noi. Si tratta del manoscritto conservato
presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333 ed appartenuto
sicuramente a metà Cinquecento a Cosimo Bartoli, erudito celebre, fra le altre
cose, per aver tradotto dal latino prima le Institutiones geometricae di Albrecht Dürer e poi il De
re aedificatoria di Leon Battista Alberti. Vasari consulta l’esemplare in
mano al Bartoli e lo utilizza come fonte per il Trecento, pur non dandone un
giudizio positivo [1].
Le citazioni successive al Vasari
sono inesistenti. A riscoprire l’opera è Leopoldo Cicognara che, nella sua Storia della Scultura (e siamo quindi
nel secondo decennio dell’Ottocento) ne riporta un estratto. In un clima di
interesse crescente nei confronti del manoscritto dello scultore fiorentino, a
riscoprirlo definitivamente è Julius von Schlosser che, nel 1912, ne pubblica
la prima edizione critica. L’edizione Schlosser diventa quella di riferimento,
ed è ad essa che fa riferimento Ottavio Morisani quando, nel 1947, fornisce la
prima versione integrale stampata in Italia. È Schlosser, ad esempio, ad
attribuire convenzionalmente il nome di Commentarii
al manoscritto di Ghiberti: lo fa a partire da un riferimento interno
all’opera, laddove l’autore ci dice “Finito è il secondo commentario, verremo
al terzo”. Lo stesso Schlosser codifica la divisione dello scritto in tre
commentarii: il primo, che si occupa della storia dell’arte antica; il secondo
che contiene la storia dell’arte moderna; e il terzo, che presenta la
trattazione di argomenti relativi all’ottica e alla prospettiva.
Sin qui sembrerebbe tutto chiaro.
Se non che è evidente che il manoscritto conservato alla Biblioteca Nazionale
non è di mano del Ghiberti; a provarlo sono da un lato la comparazione della
calligrafia con quella originale dello scultore in altri scritti giunti sino a
noi; dall’altro chiari esempi di errori di interpretazione del testo,
evidentemente dovuti a difficoltà di interpretazione nella trascrizione del
medesimo. Da evidenze interne appare chiaro che almeno la parte autobiografica
dell’opera è stata scritta poco prima della morte dello scultore, avvenuta nel
1450. Anche il manoscritto che ci testimonia l’opera è probabilmente della metà
del ‘400. Il che indurrebbe a pensare, in via del tutto ipotetica, ad una copia
di materiali sparsi e non del tutto organizzati avvenuta subito dopo la morte
dell’artista. Se così fosse, non è assolutamente detto che quanto ci viene
proposto nei Commentarii fosse stato
pensato per far parte di una stessa opera; o che il progetto fosse comunque
organizzato nelle modalità che oggi conosciamo.
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Lorenzo Ghiberti, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze Fonte: Wikimedia Commons |
Tre Commentari con caratteristiche assai diverse
Il dubbio è evidente notando la
profonda cesura che sussiste in particolare fra i primi due commentari, di
natura storica ed il terzo, di argomento scientifico. Non solo: è evidente a
una primissima occhiata la sproporzione che sussiste fra le tre sezioni
“codificate” da Schlosser: l’arte antica copre le carte 1r.-8v; la parte
sull’arte moderna (compresa l’autobiografia) va da carta 8v. a carta 12v.; i
ragionamenti su ottica e prospettiva occupano le carte 12v.-64r. Se ci
basassimo solo sull’estensione dei capitoli, dovremmo dire innanzi tutto che i Commentarii sono un libro che espone
questioni di ottica.
Eppure, i Commentarii sono stati ricordati quasi universalmente proprio per
le sezioni storiche; più in particolare ad essere conosciutissimo è il secondo,
che affronta le questioni dell’arte del Trecento fino a Ghiberti stesso. Tant’è
che se dell’opera nella sua versione integrale, come detto, esistono pochissime
edizioni a stampa, il Commentario Secondo
è stato ripetutamente pubblicato a sé stante, privo di quello che precede e di
quello che lo segue.
Lo studio del manoscritto della
Biblioteca Nazionale ha permesso peraltro di stabilire con precisione
l’eterogeneità delle fonti utilizzate da Ghiberti e il diverso livello di
elaborazione di ogni singola parte.
Il Commentario Primo attinge, di fatto, a Plinio il Vecchio e a
Vitruvio; assistiamo qui a una forma di rielaborazione delle fonti, che
dimostra comunque la presenza di un intervento “redazionale” operato da
Ghiberti per la preparazione del testo; il Secondo
Commentario riporta informazioni che si presume siano di prima mano (o
comunque inedite), e senza dubbio rappresenta la parte più originale dello
scritto dello scultore fiorentino; il terzo (a parte un paio di carte iniziali
introduttive) non presenta carattere alcuno di originalità e rappresenta “la
commistione di tre testi medievali di perspectiva:
il De aspectibus di Alhazen; la Perspectiva di Ruggero Bacone; la Perspectiva communis di Giovanni Pecham.
In queste carte, che ammontano ad un totale di 45 carte, sulle 48 complessive
dedicate all’argomento prospettico, di Lorenzo Ghiberti non vi è praticamente
nulla. In altre parole, il corpo fondamentale del discorso prospettico
ghibertiano… è costruito secondo una logica strettamente compilatoria” (pp.
13-14). Merito della presente edizione aver puntualizzato in particolare la
dipendenza letterale della sezione di ottica dagli scritti medievali (la
circostanza non è così banale, ed era sfuggita in precedenza agli esegeti
perché in realtà i brani dei tre autori si alternano secondo un ordine
estremamente confuso). D’altra parte non appare del tutto convincente (a nostro
parere) il voler ribadire che i tre Commentarii
fossero in realtà già in origine parti di un’opera unica. È possibilissimo (ed
indimostrabile) che in realtà dopo la morte dello scultore qualcuno ne abbia
fatto copiare le carte che contenevano la parte storica e gli appunti personali
sull’ottica. Naturalmente ciò non inficia l’immagine complessiva degli
interessi di Ghiberti, che evidentemente studiò ottica e prospettiva in maniera
intensiva; non per questo . lo si ripete - obbliga a pensare a un’opera unica.
Lorenzo Ghiberti, Incontro tra Salomone e la Regina di Saba (particolare), Porta del Paradiso, Battistero di Firenze Fonte: Wikimedia Commons |
Lorenzo Ghiberti, Storie di Giuseppe (particolare), Porta del Paradiso, Battistero di Firenze Fonte: Wikimedia Commons |
Lorenzo Ghiberti, Storie di Abramo (particolare), Porta del Paradiso, Battistero di Firenze Fonte: Wikimedia Commons |
Gli interessi storici
Naturalmente la parte dei Commentarii che è stata citata con
assoluta preminenza è la seconda, ovvero la sezione dedicata alla storia
moderna. Quello di Ghiberti è il primo scritto che, pur in maniera asistematica
e frammentaria, affronta comunque i temi dell’arte in una prospettiva
storicistica. L’autore si confronta qui con il problema del recupero e della
trasmissione della memoria degli artefici, posti in logica prosecuzione dei
classici dell’antichità tramite la figura di Giotto, che “arrhecò l’arte nuova,
lasciò la rozeza de’ Greci [n.d.r. intendendo per tali i bizantini], sormontò
excellentissimamente in Etruria. E fecionsi egregiissime opere e spetialmente nella
città di Firenze et in molti altri luoghi, et assai discepoli furono tutti
dotti al pari delli antichi Greci” (p. 84). È stato messo giustamente in
evidenza come proprio l’aspetto storicistico, declinato sotto un profilo
biografico, rappresenti il più evidente risultato dell’Umanesimo trionfante; in
fondo Ghiberti non fa che “specializzare” la trattazione storica nell’ambito
degli artisti; il genere biografico, peraltro, aveva già visto il De viribus illustribus di Petrarca, ma
soprattutto la diffusione delle Vite
di Plutarco in lingua volgare operata da Leonardo Bruni; a fine Trecento, peraltro, Filippo Villani
aveva dedicato una sezione del Liber de Origine Civitatis Florentiae et Eiusdem Famosis Civibus agli artisti cittadini più
importanti. Il corollario che ha sempre fatto seguito al testo ghibertiano è
che lo scritto dimostra l’accrescimento del ruolo che è riconosciuto agli
artefici man mano che l’Umanesimo si va affermando. Ciò che ci preme
sottolineare è che, nel Commentario
Secondo, sia pur – come detto – in maniera confusa e non sempre coerente
[2] emerge anche una lettura dei fatti storici. Questa lettura propone appunto
l’arte che viene fatta rinascere da Giotto, dopo essere stata sepolta per
seicento anni; e la vede maturare in un contesto toscano, fino a raggiungere il
suo apice proprio con la figura del Ghiberti. Da qui, non a caso
l’autobiografia, in cui Lorenzo non si dimostra certo modesto e che, per non
lasciare troppi dubbi, si conclude così: “poche cose si son fatte d’importanza
nella nostra terra [che] non sieno state disegnate et ordinate di mia mano” (p.
97). Una cosa tuttavia è chiara: Ghiberti propone già una visione storica che è
quella che sarà di Vasari (naturalmente riveduta e corretta, e con l’apice
toccato da Michelangelo) un secolo dopo.
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Lorenzo Ghiberti, San Giovanni Battista, Firenze, Orsanmichele Fonte: Wikimedia Commons |
Ghiberti e Cennino Cennini
Anche la presente edizione
propone un (interessante) confronto fra i Commentarii
di Ghiberti e il De pictura di Leon
Battista Alberti. Non mi pare però che ci si soffermi mai sullo scritto di
Lorenzo in confronto al Libro dell’arte
di Cennino Cennini. E, in effetti, la parentela, a prima vista, sembra lontana.
Le due opere sono separate da un lasso di tempo di circa 50 anni. Non sappiamo
se Lorenzo conoscesse l’opera di Cennino come pittore (ed in caso dobbiamo
ritenere che sia compreso nel novero dei “dimenticati”: “Moltissimi pictori
ebbe la città di Siena e fu molto copiosa di mirabili ingegni, molti ne
lasciamo indietro per no ne abondare nel troppo dire” (p. 90)); a maggior
ragione non ci è noto se Lorenzo sapesse che Cennino aveva scritto un trattato.
L’argomento appare totalmente diverso. Certo è, però che Cennino scrive a proposito di
Giotto: “il quale Giotto rimutò l’arte del dipignere di greco in latino e
ridusse al moderno”, che è poi quello che scrive anche Ghiberti. Sia chiaro: è
possibilissimo che la trasmutazione dalla pittura “greca” a quella “moderna”
sia un luogo comune dell’ambiente toscano esattamente come quello della
rinascita delle arti avvenuta in Etruria; e che questo luogo comune si sia
diffuso per via orale, fino a divenire quasi uno di quegli attributi con cui
normalmente si riconoscono i santi, e che è quindi necessario ricordare in ogni
occasione. Tuttavia, un dubbio legittimo c’è.
Se poi facciamo nostra la recente
interpretazione del Libro dell’Arte fatta da Lara Broecke (ovvero che in realtà l’opera, prima che un manuale di
tecniche artigianali, sia frutto di una consapevole strategia dell’artista
volta ad aumentare il credito di cui godeva), ecco che la parentela fra i due
testi (tutto si può dire tranne che Ghiberti non scriva col chiaro intento di
consegnare ai posteri un’immagine ingigantita dei suoi meriti) diventa più
stretta, ed indurrebbe a un’analisi più circostanziata che, prima o poi, ci
auguriamo che qualcuno voglia fare.
NOTE
[1] Cfr. p. 11: “Scrisse il
medesimo Lorenzo un’opera volgare, nella quale trattò di molte varie cose, ma
sì fattamente che poco costrutto se ne cava”. Curiosamente, alcuni interpreti
(non è il caso di quest’edizione) sono giunti a ritenere che l’aggettivo
“volgare” avesse anch’esso significato spregiativo, mentre chiaramente fa
riferimento al fatto che l’opera è scritta in volgare.
[2] Si pensi ad esempio all’ampia
parentesi dedicata, insolitamente, allo scultore tedesco Gusmin, che mal si
inquadra in questo discorso, e sembra più ispirata ad aspetti leggendari che a
dati storici.
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