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mercoledì 30 settembre 2015

Lorenzo Ghiberti. I commentarii. A cura di Lorenzo Bartoli


English Version

Lorenzo Ghiberti
I commentarii
(Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333)

Introduzione e cura di Lorenzo Bartoli


Firenze, Giunti, 1998

Recensione di Giovanni Mazzaferro


Lorenzo Ghiberti, Autoritratto (Firenze, Battistero, Porta del Paradiso)
Fonte: Wikimedia Commons

Attenzione: Si veda anche la recensione a Ghiberti teorico. Natura, arte e coscienza storica nel Quattrocento, Milano, Officina Libraria, 2019


Un’opera di difficile interpretazione

Pochi testi della letteratura artistica italiana risultano ancor oggi essere di difficile interpretazione come i Commentarii del Ghiberti. Per provare a riassumere è necessario ripercorrere le vicende dell’unico esemplare che li ha fatti pervenire sino a noi. Si tratta del manoscritto conservato presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, II, I, 333 ed appartenuto sicuramente a metà Cinquecento a Cosimo Bartoli, erudito celebre, fra le altre cose, per aver tradotto dal latino prima le Institutiones geometricae di Albrecht Dürer e poi il De re aedificatoria di Leon Battista Alberti. Vasari consulta l’esemplare in mano al Bartoli e lo utilizza come fonte per il Trecento, pur non dandone un giudizio positivo [1].

Le citazioni successive al Vasari sono inesistenti. A riscoprire l’opera è Leopoldo Cicognara che, nella sua Storia della Scultura (e siamo quindi nel secondo decennio dell’Ottocento) ne riporta un estratto. In un clima di interesse crescente nei confronti del manoscritto dello scultore fiorentino, a riscoprirlo definitivamente è Julius von Schlosser che, nel 1912, ne pubblica la prima edizione critica. L’edizione Schlosser diventa quella di riferimento, ed è ad essa che fa riferimento Ottavio Morisani quando, nel 1947, fornisce la prima versione integrale stampata in Italia. È Schlosser, ad esempio, ad attribuire convenzionalmente il nome di Commentarii al manoscritto di Ghiberti: lo fa a partire da un riferimento interno all’opera, laddove l’autore ci dice “Finito è il secondo commentario, verremo al terzo”. Lo stesso Schlosser codifica la divisione dello scritto in tre commentarii: il primo, che si occupa della storia dell’arte antica; il secondo che contiene la storia dell’arte moderna; e il terzo, che presenta la trattazione di argomenti relativi all’ottica e alla prospettiva.

Sin qui sembrerebbe tutto chiaro. Se non che è evidente che il manoscritto conservato alla Biblioteca Nazionale non è di mano del Ghiberti; a provarlo sono da un lato la comparazione della calligrafia con quella originale dello scultore in altri scritti giunti sino a noi; dall’altro chiari esempi di errori di interpretazione del testo, evidentemente dovuti a difficoltà di interpretazione nella trascrizione del medesimo. Da evidenze interne appare chiaro che almeno la parte autobiografica dell’opera è stata scritta poco prima della morte dello scultore, avvenuta nel 1450. Anche il manoscritto che ci testimonia l’opera è probabilmente della metà del ‘400. Il che indurrebbe a pensare, in via del tutto ipotetica, ad una copia di materiali sparsi e non del tutto organizzati avvenuta subito dopo la morte dell’artista. Se così fosse, non è assolutamente detto che quanto ci viene proposto nei Commentarii fosse stato pensato per far parte di una stessa opera; o che il progetto fosse comunque organizzato nelle modalità che oggi conosciamo.


Lorenzo Ghiberti, Porta del Paradiso, Battistero di Firenze
Fonte: Wikimedia Commons



Tre Commentari con caratteristiche assai diverse

Il dubbio è evidente notando la profonda cesura che sussiste in particolare fra i primi due commentari, di natura storica ed il terzo, di argomento scientifico. Non solo: è evidente a una primissima occhiata la sproporzione che sussiste fra le tre sezioni “codificate” da Schlosser: l’arte antica copre le carte 1r.-8v; la parte sull’arte moderna (compresa l’autobiografia) va da carta 8v. a carta 12v.; i ragionamenti su ottica e prospettiva occupano le carte 12v.-64r. Se ci basassimo solo sull’estensione dei capitoli, dovremmo dire innanzi tutto che i Commentarii sono un libro che espone questioni di ottica.

Eppure, i Commentarii sono stati ricordati quasi universalmente proprio per le sezioni storiche; più in particolare ad essere conosciutissimo è il secondo, che affronta le questioni dell’arte del Trecento fino a Ghiberti stesso. Tant’è che se dell’opera nella sua versione integrale, come detto, esistono pochissime edizioni a stampa, il Commentario Secondo è stato ripetutamente pubblicato a sé stante, privo di quello che precede e di quello che lo segue.

Lo studio del manoscritto della Biblioteca Nazionale ha permesso peraltro di stabilire con precisione l’eterogeneità delle fonti utilizzate da Ghiberti e il diverso livello di elaborazione di ogni singola parte.

Il Commentario Primo attinge, di fatto, a Plinio il Vecchio e a Vitruvio; assistiamo qui a una forma di rielaborazione delle fonti, che dimostra comunque la presenza di un intervento “redazionale” operato da Ghiberti per la preparazione del testo; il Secondo Commentario riporta informazioni che si presume siano di prima mano (o comunque inedite), e senza dubbio rappresenta la parte più originale dello scritto dello scultore fiorentino; il terzo (a parte un paio di carte iniziali introduttive) non presenta carattere alcuno di originalità e rappresenta “la commistione di tre testi medievali di perspectiva: il De aspectibus di Alhazen; la Perspectiva di Ruggero Bacone; la Perspectiva communis di Giovanni Pecham. In queste carte, che ammontano ad un totale di 45 carte, sulle 48 complessive dedicate all’argomento prospettico, di Lorenzo Ghiberti non vi è praticamente nulla. In altre parole, il corpo fondamentale del discorso prospettico ghibertiano… è costruito secondo una logica strettamente compilatoria” (pp. 13-14). Merito della presente edizione aver puntualizzato in particolare la dipendenza letterale della sezione di ottica dagli scritti medievali (la circostanza non è così banale, ed era sfuggita in precedenza agli esegeti perché in realtà i brani dei tre autori si alternano secondo un ordine estremamente confuso). D’altra parte non appare del tutto convincente (a nostro parere) il voler ribadire che i tre Commentarii fossero in realtà già in origine parti di un’opera unica. È possibilissimo (ed indimostrabile) che in realtà dopo la morte dello scultore qualcuno ne abbia fatto copiare le carte che contenevano la parte storica e gli appunti personali sull’ottica. Naturalmente ciò non inficia l’immagine complessiva degli interessi di Ghiberti, che evidentemente studiò ottica e prospettiva in maniera intensiva; non per questo . lo si ripete - obbliga a pensare a un’opera unica.

Lorenzo Ghiberti, Incontro tra Salomone e la Regina di Saba (particolare), Porta del Paradiso, Battistero di Firenze
Fonte: Wikimedia Commons

Lorenzo Ghiberti, Storie di Giuseppe (particolare), Porta del Paradiso, Battistero di Firenze
Fonte: Wikimedia Commons

Lorenzo Ghiberti, Storie di Abramo (particolare), Porta del Paradiso, Battistero di Firenze
Fonte: Wikimedia Commons


Gli interessi storici

Naturalmente la parte dei Commentarii che è stata citata con assoluta preminenza è la seconda, ovvero la sezione dedicata alla storia moderna. Quello di Ghiberti è il primo scritto che, pur in maniera asistematica e frammentaria, affronta comunque i temi dell’arte in una prospettiva storicistica. L’autore si confronta qui con il problema del recupero e della trasmissione della memoria degli artefici, posti in logica prosecuzione dei classici dell’antichità tramite la figura di Giotto, che “arrhecò l’arte nuova, lasciò la rozeza de’ Greci [n.d.r. intendendo per tali i bizantini], sormontò excellentissimamente in Etruria. E fecionsi egregiissime opere e spetialmente nella città di Firenze et in molti altri luoghi, et assai discepoli furono tutti dotti al pari delli antichi Greci” (p. 84). È stato messo giustamente in evidenza come proprio l’aspetto storicistico, declinato sotto un profilo biografico, rappresenti il più evidente risultato dell’Umanesimo trionfante; in fondo Ghiberti non fa che “specializzare” la trattazione storica nell’ambito degli artisti; il genere biografico, peraltro, aveva già visto il De viribus illustribus di Petrarca, ma soprattutto la diffusione delle Vite di Plutarco in lingua volgare operata da Leonardo Bruni; a  fine Trecento, peraltro, Filippo Villani aveva dedicato una sezione del Liber de Origine Civitatis Florentiae et Eiusdem Famosis Civibus agli artisti cittadini più importanti. Il corollario che ha sempre fatto seguito al testo ghibertiano è che lo scritto dimostra l’accrescimento del ruolo che è riconosciuto agli artefici man mano che l’Umanesimo si va affermando. Ciò che ci preme sottolineare è che, nel Commentario Secondo, sia pur – come detto – in maniera confusa e non sempre coerente [2] emerge anche una lettura dei fatti storici. Questa lettura propone appunto l’arte che viene fatta rinascere da Giotto, dopo essere stata sepolta per seicento anni; e la vede maturare in un contesto toscano, fino a raggiungere il suo apice proprio con la figura del Ghiberti. Da qui, non a caso l’autobiografia, in cui Lorenzo non si dimostra certo modesto e che, per non lasciare troppi dubbi, si conclude così: “poche cose si son fatte d’importanza nella nostra terra [che] non sieno state disegnate et ordinate di mia mano” (p. 97). Una cosa tuttavia è chiara: Ghiberti propone già una visione storica che è quella che sarà di Vasari (naturalmente riveduta e corretta, e con l’apice toccato da Michelangelo) un secolo dopo.


Lorenzo Ghiberti, San Giovanni Battista, Firenze, Orsanmichele
Fonte: Wikimedia Commons


Ghiberti e Cennino Cennini

Anche la presente edizione propone un (interessante) confronto fra i Commentarii di Ghiberti e il De pictura di Leon Battista Alberti. Non mi pare però che ci si soffermi mai sullo scritto di Lorenzo in confronto al Libro dell’arte di Cennino Cennini. E, in effetti, la parentela, a prima vista, sembra lontana. Le due opere sono separate da un lasso di tempo di circa 50 anni. Non sappiamo se Lorenzo conoscesse l’opera di Cennino come pittore (ed in caso dobbiamo ritenere che sia compreso nel novero dei “dimenticati”: “Moltissimi pictori ebbe la città di Siena e fu molto copiosa di mirabili ingegni, molti ne lasciamo indietro per no ne abondare nel troppo dire” (p. 90)); a maggior ragione non ci è noto se Lorenzo sapesse che Cennino aveva scritto un trattato. L’argomento appare totalmente diverso. Certo è, però che Cennino scrive a proposito di Giotto: “il quale Giotto rimutò l’arte del dipignere di greco in latino e ridusse al moderno”, che è poi quello che scrive anche Ghiberti. Sia chiaro: è possibilissimo che la trasmutazione dalla pittura “greca” a quella “moderna” sia un luogo comune dell’ambiente toscano esattamente come quello della rinascita delle arti avvenuta in Etruria; e che questo luogo comune si sia diffuso per via orale, fino a divenire quasi uno di quegli attributi con cui normalmente si riconoscono i santi, e che è quindi necessario ricordare in ogni occasione. Tuttavia, un dubbio legittimo c’è.

Se poi facciamo nostra la recente interpretazione del Libro dell’Arte fatta da Lara Broecke (ovvero che in realtà l’opera, prima che un manuale di tecniche artigianali, sia frutto di una consapevole strategia dell’artista volta ad aumentare il credito di cui godeva), ecco che la parentela fra i due testi (tutto si può dire tranne che Ghiberti non scriva col chiaro intento di consegnare ai posteri un’immagine ingigantita dei suoi meriti) diventa più stretta, ed indurrebbe a un’analisi più circostanziata che, prima o poi, ci auguriamo che qualcuno voglia fare.


NOTE

[1] Cfr. p. 11: “Scrisse il medesimo Lorenzo un’opera volgare, nella quale trattò di molte varie cose, ma sì fattamente che poco costrutto se ne cava”. Curiosamente, alcuni interpreti (non è il caso di quest’edizione) sono giunti a ritenere che l’aggettivo “volgare” avesse anch’esso significato spregiativo, mentre chiaramente fa riferimento al fatto che l’opera è scritta in volgare.

[2] Si pensi ad esempio all’ampia parentesi dedicata, insolitamente, allo scultore tedesco Gusmin, che mal si inquadra in questo discorso, e sembra più ispirata ad aspetti leggendari che a dati storici.

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