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lunedì 2 marzo 2015

Giovanni Mazzaferro. Il 'Libro dell'Arte' di Cennino Cennini (1821-1950): un esempio di diffusione della cultura italiana nel mondo

English Version

Giovanni Mazzaferro
Il Libro dell'Arte di Cennino Cennini (1821-1950): un esempio di diffusione della cultura italiana nel mondo. Parte prima

estratto da
Zibaldone. Estudios italianos de la Torre del Virrey vol III, numero 1, gennaio 2015


La copertina del numero 1/2015 di Zibaldone
Questo saggio è stato pubblicato sul numero 1, gennaio 2015 della rivista online Zibaldone. Estudios italianos de la Torre del Virrey. E' consultabile anche in formato pdf cliccando qui:

Per gentile concessione dell'editore lo riproduciamo ora su Letteratura artistica, diviso in tre parti, fornendone anche la traduzione inglese

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La letteratura artistica italiana è universalmente nota per alcuni testi fondamentali: i trattati di Leon Battista Alberti, le Vite del Vasari, il Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci e il Libro dell’Arte di Cennino Cennini. Tuttavia, al contrario dei primi tre, la fortuna editoriale del testo di Cennino è un fatto relativamente recente. [1] La prima edizione a stampa del trattato (a cura di Giuseppe Tambroni) è del 1821. Da allora (e specialmente nel corso del XX secolo) si è assistito a una fioritura di edizioni e traduzioni di cui, fino a qualche tempo fa, non si aveva perfettamente coscienza. [2] È fuori di dubbio che la fortuna editoriale del Libro dell’Arte si debba innanzi tutto all’essere, nella sostanza, un manuale di tecniche artistiche medievali (anche se, come vedremo, questa definizione può apparire per molti versi riduttiva); le edizioni a stampa aumentano quindi rapidamente con l’incremento dell’interesse per le tecniche medievali. Tuttavia, esattamente come nel caso delle opere di Alberti, Vasari e Leonardo, non vi è dubbio che il trattato cenniniano sia stato interpretato in maniera diversa dai suoi esegeti.
Scopo di questo saggio è proprio quello di delineare alcune linee di tendenza svoltesi dal 1821 (anno della prima edizione) al 1950 circa attraverso l’esame delle sue edizioni a stampa.

Cennino Cennini, Nascita di Maria, Museo Comunale, Colle Val d’Elsa


Cennino da Vasari al 1821: “essendo oggi notissime tutte quelle cose…”. L’esistenza del trattato cenniniano è nota sin dai tempi del Vasari, che ne aveva accennato appunto nelle sue Vite. [3] Ci si può chiedere legittimamente se Vasari avesse letto il manoscritto dell’artista di Colle Val d’Elsa, manoscritto di cui dice essere una copia presso tal Giuliano, orefice senese. Non si capisce bene, giudicando con occhi moderni e non a lui contemporanei, come, nel voler descrivere la parabola degli accadimenti artistici secondo una visione toscano-centrica, secondo cui l’arte era stata rifondata da Giotto ed aveva raggiunto la perfezione con Michelangelo, Vasari manchi completamente l’appuntamento con Cennino e si limiti a scrivere che Cennini nel suo libro aveva trattato “molti… avvertimenti, de’ quali non fa bisogno ragionare, essendo oggi notissime tutte quelle cose che costui ebbe per gran secreti e rarissime in que’ tempi”. [4] Per secoli, dopo Vasari, Cennini viene citato (di rado) e mai preso seriamente in considerazione. Baldinucci addirittura fornisce la collocazione di uno dei manoscritti che lo testimoniano ma nessuno si preoccupa di pubblicare l’opera. [5] Non è il caso di stupirsene più di tanto; l’interesse per il Libro dell’Arte segue lo stesso andamento dell’interesse per l’arte degli Antichi Maestri; è cioè sostanzialmente nullo almeno fino ai primi del XIX secolo.


La prima edizione a stampa (1821). La prima edizione a stampa del trattato cennianiano risale al 1821, ed è opera di Giuseppe Tambroni. [6] Tambroni era un personaggio ben noto nel mondo italiano dell’erudizione di stampo accademico e neoclassico. C’è da chiedersi innanzi tutto che cosa lo spinga a proporre la princeps del Libro dell’Arte. A giudicare dal suo commento, non vi è dubbio che Tambroni avverta l’esigenza di divulgare e far meglio conoscere le tecniche artistiche in contrapposizione a complesse impalcature teoriche che vanno per la maggiore in quei tempi:

Fra tutti coloro, che scrissero trattati dell’arte del dipingere…, tutti gli altri, volendo sottilizzare e metafisicare, entrarono nelle dispute delle idee, e perdettero di veduta lo scopo principale. Anzi può dirsi che quanto più si è voluto parlare di cose sublimi e fantastiche, tanto più si è smarrita l’arte, la quale maggior incremento s’ebbe sempre più dalla pratica che dalla teoria. Perocchè veggiamo che Raffaello e tanti altri principali maestri non attinsero ad altre fonti che a quelle della natura e della pratica, e che i tanti trattati del bello e dell’ideale non hanno prodotto dappoi un solo di que’ valenti.” [7]

Frontespizio dell'edizione Tambroni 1821

 Tambroni non fa mistero di ritenere che il manoscritto possa essere di grande utilità pratica per gli artisti, specie per coloro che esercitano l’arte dell’affresco, ormai andata totalmente smarrita (Tambroni si trova a Roma e molto probabilmente l’accenno è ai primi Nazareni tedeschi, che all’inizio dell’800 hanno qui stabilito la loro base). Tuttavia non scende mai su un piano squisitamente tecnico (probabilmente non ne è in grado) e non è dato sapere quanto realmente il trattato possa essere stato di una qualche utilità per un artista che lo volesse consultare.
L’impressione è che la spinta principale sia data dalla volontà di utilizzare il manoscritto come importante strumento per risolvere una querelle famosissima: ovvero se effettivamente la pittura ad olio fosse stata ‘inventata’ da Van Eyck e, tramite Antonello da Messina, fosse poi transitata in Italia, come dice il Vasari nelle sue Vite; o se fosse praticata già precedentemente. La questione aveva fatto versare fiumi d’inchiostro (e altrettanti ne avrebbe fatti prosciugare nei decenni successivi), specie dopo che, nel 1774, Lessing aveva pubblicato la princeps dell’altro grande trattato di tecniche artistiche medievali, il De diversis artibus del monaco Teofilo, ritenuto dell’XI secolo d.C., in cui già compariva testimonianza delle tecniche ad olio. [8] Il trattato cenniniano è considerato un altro testimone in questo senso, e quindi la dimostrazione che Vasari si era sbagliato (anche se poi le conclusioni che Tambroni ne trasse, ovvero che anche la pittura ad olio fosse stata ‘invenzione’ italiana, sulla base delle presunte origini peninsulari di Teofilo, erano del tutto sbagliate).
Non è poi da sottovalutarsi un interesse di ordine linguistico; si tratta, anzi, di un tema molto sentito all’epoca, e lo sarà sempre più man mano che ci si inoltrerà nel secolo risorgimentale (basti pensare che Tommaseo comincia a lavorare al suo progetto di Dizionario già nel 1827, a partire da un’edizione del Vocabolario della Crusca del 1806). Scrive Tambroni:

“E questo libro di Cennino non è soltanto di molta utilità per l’arte. Esso è ancora di giovamento alla lingua nostra. Perocchè quantunque lo stile ne sia incolto e quasi sempre disadorno, quale poteva usare uno scrittore ignaro delle buone lettere, pure la lingua, comechè ripiena di modi plebei e d’idiotismi, è nullameno buona nell’universale, e contiene d’assai parole nuove ed eccellenti, sopratutto per le cose dell’arte… Delle quali parole io darò alla fine di questo libro un indice, onde i compilatori de’ vocabolarj possano giovarsene, e i filologi se ne servano a rischiarare qualcheduna delle quistioni, che toccano il fondo e le origini della lingua. [9]

E aggiunge in nota, in corrispondenza dell’indice promesso:

“Le voci, che ho qui riunite, potranno servire per la maggior parte ad accrescere il vocabolario delle belle arti del Baldinucci, il quale ha in vero lasciato troppo a desiderare in simile argomento… Sarà… opera de’ principali letterati italiani l’ammettere le voci che crederanno illustri, ed escludere le viete e rozze. E a niuno sarà più onesto di darne sentenza, quanto a que’ nobili ingegni del Monti, del Perticari, del Giordani, del Cesari, del Niccolini, e degli altri che si occupano ora della grave materia della lingua nostra.” [10].


Il problema testuale del trattato di Cennino: il dibattito italiano dal 1821 al 1859. Dobbiamo a questo punto fare un passo indietro. Quando stampa la sua edizione del libro cenniniano, Tambroni è a conoscenza dell’esistenza di due manoscritti (non originali) che ne tramandano il testo. Si tratta del codice Vaticano Ottoboniano 2974 (su cui conduce l’edizione critica) e del codice Mediceo Laurenziano P.78.23. Ben presto divampa la polemica sul perché Tambroni abbia preferito il primo (chiaramente più recente e largamente incompleto) al secondo. Il dibattito (che non riguarda solo la scelta del manoscritto su cui condurre l’edizione, ma si allarga anche al lessico utilizzato dal Tambroni, giudicato troppo ‘normalizzato’) si dipana quasi integralmente sull’Antologia Viesseux già da giugno 1821, ed è frutto di una recensione molto critica ad opera di Antonio Benci. Fu Benci, peraltro, a segnalare, in questa recensione, l’esistenza di un terzo manoscritto col testo cenniniano (conservato presso la biblioteca Riccardiana). Non è qui il caso di richiamare tutti i termini della questione, in cui disse la sua anche Leopoldo Cicognara, ma si vogliono sottolineare due aspetti: a) la discussione ebbe ad oggetto aspetti prettamente filologici; b) lo stesso Benci attese ad una nuova edizione dell’opera, che però non riuscì a pubblicare. Pur non avendo avuto modo di consultare il testo (che è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze), mi sembra di capire che Benci, conscio dei suoi limiti, si sia premurato di rivolgersi a chimici da un lato ed ad artisti dall’altro per cercare di verificare i punti meno comprensibili del Libro dell’Arte. [11]
Senza dubbio il problema principale, in quei decenni, è quello di stabilire un testo filologicamente valido. Si può senz’altro dire che la questione venga affrontata e risolta brillantemente dalla seconda edizione italiana, quella dei fratelli Gaetano e Carlo Milanesi nel 1859. [12] L’edizione, innanzi tutto, è condotta sui due manoscritti fiorentini (mediceo-laurenziano e riccardiano) fra loro interpolati. Viene accantonato il manoscritto vaticano di Tambroni (largamente incompleto). È inoltre arricchita da ricerche archivistiche che permettono di stabilire come, molto probabilmente, Cennino avesse composto l’opera (nella sua integralità o in gran parte) in quel di Padova. Il trattato, dunque, sarebbe il frutto di due culture (linguistiche ed artistiche): quella toscana e senese in particolare e quella veneta e patavina dall’altro. Tutte le edizioni italiane successive proporranno aggiustamenti in un senso o nell’altro; proporranno, ad esempio, un maggiore o minore utilizzo di venetismi, una diversa scansione in capitoli dell’opera, ma, nella sostanza, avranno come stella polare l’edizione Milanesi. Edizione che viene alla luce in clima pienamente puristico, e che non a caso vede come dedicatario dell’opera Luigi Mussini, una delle figure artistiche di spicco del purismo italiano.

Il frontespizio dell'edizione Milanesi 1859


Piace, peraltro, che i due fratelli siano chiaramente consci dei loro limiti, avvertano l’esigenza di verificare sul campo l’effettiva efficacia delle ricette cenniniane, ma abbiano il coraggio di ammettere: “Dopo aver detto in generale di quali materie tratta il libro del Cennini, dovremmo tenergli dietro ad esaminare e comprovare le sue esperienze; ma questo sarebbe assunto maggiore delle nostre forze; né solo basterebbe il conoscersi di chimica, di metallurgia e di geologia, ma si richiederebbero eziandio altre notizie e pratiche che noi non abbiamo. Puossi nonpertanto affermare, per testimonianza di alcuni pochi dei nostri artisti che hanno assai studiato negl’insegnamenti di Cennino, che a molte di quelle pratiche si perviene, e che non tanto le conferma l’esperienza, quanto sono buone in effetto, e meritevoli ancora di esser rimesse in corso. [13]


Le prime traduzioni: Merrifield (1844) e Victor Mottez (1858). Va detto che, prima dell’edizione Milanesi, e quindi basandosi sull’incompleto manoscritto vaticano trascritto da Tambroni, erano uscite le prime due traduzioni di Cennino: la prima (1844), in inglese, a cura di Mary Philadelphia Merrifield, [14] la seconda, in francese, secondo la versione fornita da Victor Mottez. [15]
Pur se generate da circostanze fra loro molto diverse, la traduzione inglese del 1844 e quella francese del 1859 hanno in comune il grande interesse per la tecnica dell’affresco.
Mary Philadelphia Merrifield è un’affascinante figura di autodidatta, studiosa, accanita ricercatrice, scienziata polivalente della prima Inghilterra vittoriana. [16]  Alla base della sua decisione di tradurre Cennino sta una precisa scelta programmatica del governo inglese.  In seguito alla distruzione per un incendio di larga parte di Westminster (1834), il governo inglese decide infatti di ricostruirlo e di decorarlo con affreschi che illustrino episodi della storia locale. Viene istituita una Commission of Fine Arts che ha come Presidente il consorte della Regina Vittoria, il Principe Albert, appassionato di arte, e come segretario Charles Lock Eastlake, grande conoscitore e futuro direttore della National Gallery. Si decide che l’occasione di Westminster debba essere anche un modo per innalzare il livello qualitativo dell’arte inglese e che, quindi, siano artisti britannici ad essere incaricati dell’opera. Il problema è, molto semplicemente, che manca una benché minima conoscenza delle tecniche murali e viene quindi promosso lo studio delle fonti medievali. In questo senso, il trattato cenniniano è perfetto. La Merrifield, di sua spontanea volontà e a sue spese, si fa carico di tradurre il Libro dell’Arte, usando appunto il testo tambroniano ed arricchendolo di note proprie. 


Frontespizio dell'edizione Merrifield (1844)


È importante vedere come l’interesse sia tutto sullo tecniche. La pittura medievale non è certo l’ideale artistico della traduttrice, che adora chiaramente il cromatismo della pittura veneziana del secolo d’oro; ma la traduzione – che ha grande successo – è eseguita, per così dire, per spirito patriottico. La prefazione, del resto, dice tutto: “In the pictures of period of which we are now speaking, we meet with none of the beautiful demi-tints and broken colours observable in pictures of a later period; every colour is distinct and forcible, and the figures appear as if inlaid upon the ground. There is no harmonising, or lowering, or reflecting of one colour upon another; no optical arrangement or balancing of the colours, and a glimmering only of the light of perspective and chiaro-scuro…”. [17] Da non trascurare, poi, il senso di distacco – ampiamente comprensibile se si tien conto che siamo in un paese anglicano – rispetto ai soggetti religiosi che vengono rappresentati. La traduttrice sente il bisogno di chiarire subito: “A few points, however, not remarked upon in the notes [n.d.r. di Tambroni], suggest themselves. The first is, the religious feeling which pervades the book, and which, at a cursory glance, and to a Protestant reader, almost assumes the appearance of idolatry. But this impression soon disappears, when we consider that to this feeling of devotion we are principally indebted for the preservation of the arts during the dark ages, and their subsequent revival”. [18]

Il caso di Victor Mottez, invece, è ben diverso. Mottez (allievo di Ingres) è il primo artista professionista a fornire una propria versione del testo cenniniano. 


Frontespizio dell'edizione Victor Mottez (1858)


Anch’egli mostra una predilezione per le indicazioni fornite da Cennino in materia di pittura murale; il francese, reduce da un soggiorno italiano, con una buona conoscenza dei Nazareni, è imbevuto di cultura purista e cerca di reinserire la tecnica dell’affresco nel bagaglio tecnico degli artisti d’Oltralpe. Naturalmente l’affresco è sinonimo di pittura monumentale, di larghe superfici e, in Francia, di pittura sacra. Se Mottez fornisce una traduzione (1858) è perché dice di aver eseguito affreschi (purtroppo tutti distrutti o in pessimo stato di conservazione) seguendo semplicemente le indicazioni di Cennino e di aver quindi intenzione di trasferire le sue conoscenze alle generazioni future. Appena un anno dopo (come abbiamo visto) esce la nuova edizione italiana dei fratelli Milanesi. Gaetano e Carlo dimostrano di conoscere bene sia l’edizione Merrifield sia quella Mottez; in particolare mi pare felice il giudizio espresso su quest’ultima (frutto a mio avviso di un comune sentire purista): “Il signor Mottez non stimò utile di dar luogo a tutta quella discussione [n.d.r. ovvero non tradusse la parte dell’introduzione tambroniana in cui si parla delle vicende legate alla pittura ad olio], perché essa non ha nulla a che fare con lo scopo dell’opera di Cennino, ché è quello di richiamare l’attenzione altrui ai modi per i quali gli antichi maestri hanno potuto condurre quelle grandi opere che sono la maraviglia nostra. La pittura a olio, sia o no inventata dagl’Italiani, certamente ha prodotto assai capolavori; ma il Mottez crede che essa abbia distrutto la pittura monumentale, non tanto con l’introdurre il gusto e la moda delle cose piccole, quanto ancora col rendere il lavoro così lungo e uggioso e non atto ad una impresa grande. Se gli antichi pittori non avessero avuto nell’in fresco il modo semplice, pronto e spedito di operare le loro pitture… come avrebbero potuto condurre tanti e così vasti lavori? E i privati e i comuni d’Italia come avrebbero potuto fare così magnifiche cose d’arte, che le grandi monarchie oggidi non potrebbero? Infine, la questione della pittura ad olio non ha importanza per noi. Se gli antichi maestri han prescelto l’in fresco e la tempera, i monumenti superstiti testimoniamo che ebbero ragione, e il libro del Cennino prova che essi nol fecero per ignoranza”. [19]

Riassumendo, dunque, sia la traduzione inglese sia quella francese vanno ricondotte a un nuovo interesse per la pittura monumentale (e quindi per l’affresco) che, in ultima analisi, genera dai Nazareni tedeschi di primo Ottocento. Nel caso della Merrifield, tale interesse è meramente tecnico e si spiega per una sorta di patriottismo artistico, che le fa percepire la traduzione come un servizio reso alla grandezza dell’Inghilterra vittoriana; nel caso di Mottez, invece, opera una più intima consonanza spirituale dell’artista, che cerca di impadronirsi delle tecniche per tornare a una pittura più semplice, dignitosa e pura


Fine Prima Parte


NOTE

[1] La prima edizione a stampa del De Pictura di Leon Battista Alberti è del 1540, le Vite del Vasari sono del 1550 (edizione torrentiniana) e del 1568 (edizione giuntina); la princeps del Trattato della pittura di Leonardo è del 1651.

[2] Per una rassegna completa della edizioni a stampa del Libro dell’Arte rimando a Giovanni Mazzaferro, Cennino Cennini e il “Libro dell’Arte”: censimento delle edizioni a stampa, pubblicato online su http://letteraturaartistica.blogspot.com. D’ora in poi, tutti i riferimenti bibliografici a materiale online si intendono, salvo diversa indicazione, derivanti dall’indirizzo internet sopra fornito.

[3] Per la precisione nella seconda edizione delle Vite (la Giuntina), all’interno della vita di Agnolo Gaddi: G. Vasari, Le Vite, ed. R. Bettarini, P. Barocchi, Vol. II, Firenze, 1967, p. 248.

[4] Non è da sottovalutare l’ipotesi che la conoscenza vasariana del trattato fosse indiretta e provenisse da Vincenzo Borghini, notoriamente uno dei collaboratori nell’impresa dell’aretino. In un documento manoscritto Borghini dimostra di conoscere il testo del Libro dell’Arte. Cfr. C. Cennini, Il libro dell’arte, ed. F. Frezzato, Vicenza, 2003, p. 28.

[5] F. Baldinucci, Notizie dei Professori del Disegno da Cimabue in qua, VII volumi, S.P.E.S. Studio per Edizioni Scelte, Firenze, 1974-1975. In particolare cfr. Vol. I, pp. 308-313.

[6] C. Cennini, Di Cennino Cennini Trattato della Pittura messo in luce per la prima volta con annotazioni dal cavalier Giuseppe Tambroni, Stamperia Paolo Salviucci, Roma, 1821.

[7] C. Cennini, Di Cennino Cennini Trattato della Pittura… cit., pp. XX-XXI.
[8] Theophilus Presbyter, Vom Alter der Oelmalerey aus dem Theophilus Presbyter, ed. G.E. Lessing, Braunschweig, 1774.

[9] C. Cennini, Di Cennino Cennini Trattato della Pittura… cit., p. XVIII.

[10] C. Cennini, Di Cennino Cennini Trattato della Pittura… cit., p. 158.

[11] Si vedano Gli scritti d’arte della Antologia di G.P. Viesseux 1821-1833, a cura di Paola Barocchi, VII volumi, S.P.E.S., Studio per Edizioni Scelte, Firenze, 1975-1979. In particolare la recensione di Benci è contenuta nel fascicolo di giugno 1821 (Vol. I, 117-144), la replica di Tambroni e la controreplica di Benci nel numero di agosto (I, 211-220 e 220-229); l’intervento di Cicognara è di ottobre 1822 (I, 567-586). Si veda inoltre la nota critica di Paola Barocchi (Vol. VI, pp. 20-24) e la nota 46 a p. 59 dello stesso volume, in cui viene riportata la bozza del testo introduttivo all’edizione cenniniana preparata da Benci.

[12] C. Cennini, Il Libro dell’Arte, o Trattato della Pittura di Cennino Cennini da Colle Val d’Elsa, di nuovo pubblicato, con molte correzioni e coll’aggiunta di più capitoli tratti dai codici fiorentini, ed. Gaetano e Carlo Milanesi, Firenze, 1859.

[13] C. Cennini, Il Libro dell’Arte, o Trattato della Pittura… ed. Milanesi… cit., p. XIV. Va peraltro detto che è certo che i Milanesi si rivolsero ad Ulisse Forni, uno dei restauratori italiani più famosi dell’epoca per avere chiarimenti su passaggi oscuri. Le osservazioni in risposta di Ulisse Forni sono contenute a p. 137 di M.V. Thau, Forni e dintorni. Pittori senesi a Roma e la cultura scientifica di Ulisse Forni, Firenze, 2008.

[14] C. Cennini, A Treatise on Painting written by Cennino Cennini, In the year 1437; and first published in Italian in 1821, with an introduction and notes, by Signor Tambroni; containing practical directions for painting in fresco, secco, oil, and distemper with the art of gilding and illuminating manuscripts adopted by the Old Masters; ed. Mary Philadelphia Merrifield, Londra, 1844.

[15] C. Cennini, Traité de la Peinture mis en lumière pour la prèmiere fois avec des notes par le Chevalier G. Tambroni. Ed. Victor Mottez, Paris-Lille, 1858.


[17] C. Cennini, A Treatise on Painting… ed. Merrifield, cit., p. VII.

[18] C. Cennini, A Treatise on Painting… ed. Merrifield, cit., p. VI.

[19] C. Cennini, Il Libro dell’Arte, o Trattato della Pittura… ed. Milanesi… cit., p. XXVIII. 

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