Giovanni Mazzaferro
Il Libro dell'Arte di Cennino Cennini (1821-1950): un esempio di diffusione della cultura italiana nel mondo. Parte prima
estratto da
Zibaldone. Estudios italianos de la Torre del Virrey vol III, numero 1, gennaio 2015
La copertina del numero 1/2015 di Zibaldone |
Questo saggio è stato pubblicato sul numero 1, gennaio 2015 della rivista online Zibaldone. Estudios italianos de la Torre del Virrey. E' consultabile anche in formato pdf cliccando qui:
Per gentile concessione dell'editore lo riproduciamo ora su Letteratura artistica, diviso in tre parti, fornendone anche la traduzione inglese
***
La letteratura artistica italiana è
universalmente nota per alcuni testi fondamentali: i trattati di Leon Battista Alberti, le Vite del Vasari, il Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci e il Libro dell’Arte di Cennino
Cennini. Tuttavia, al contrario dei primi tre, la fortuna editoriale del testo
di Cennino è un fatto relativamente recente. [1] La prima edizione a stampa del
trattato (a cura di Giuseppe Tambroni) è del 1821. Da allora (e specialmente
nel corso del XX secolo) si è assistito a una fioritura di edizioni e
traduzioni di cui, fino a qualche tempo fa, non si aveva perfettamente
coscienza. [2] È fuori di dubbio che la fortuna editoriale del Libro dell’Arte si debba innanzi tutto
all’essere, nella sostanza, un manuale di tecniche artistiche medievali (anche
se, come vedremo, questa definizione può apparire per molti versi riduttiva);
le edizioni a stampa aumentano quindi rapidamente con l’incremento
dell’interesse per le tecniche medievali. Tuttavia, esattamente come nel caso
delle opere di Alberti, Vasari e Leonardo, non vi è dubbio che il trattato
cenniniano sia stato interpretato in maniera diversa dai suoi esegeti.
Scopo di questo saggio è proprio quello di
delineare alcune linee di tendenza svoltesi dal 1821 (anno della prima
edizione) al 1950 circa attraverso l’esame delle sue edizioni a stampa.
Cennino Cennini, Nascita di Maria, Museo Comunale, Colle Val d’Elsa |
Cennino da Vasari al 1821: “essendo oggi notissime tutte quelle cose…”. L’esistenza
del trattato cenniniano è nota sin dai tempi del Vasari, che ne aveva accennato
appunto nelle sue Vite. [3] Ci si può
chiedere legittimamente se Vasari avesse letto il manoscritto dell’artista di
Colle Val d’Elsa, manoscritto di cui dice essere una copia presso tal Giuliano,
orefice senese. Non si capisce bene, giudicando con occhi moderni e non a lui
contemporanei, come, nel voler descrivere la parabola degli accadimenti
artistici secondo una visione toscano-centrica, secondo cui l’arte era stata
rifondata da Giotto ed aveva raggiunto la perfezione con Michelangelo, Vasari
manchi completamente l’appuntamento con Cennino e si limiti a scrivere che Cennini
nel suo libro aveva trattato “molti… avvertimenti, de’ quali non fa bisogno
ragionare, essendo oggi notissime tutte quelle cose che costui ebbe per gran
secreti e rarissime in que’ tempi”. [4] Per secoli, dopo Vasari, Cennini viene
citato (di rado) e mai preso seriamente in considerazione. Baldinucci
addirittura fornisce la collocazione di uno dei manoscritti che lo testimoniano
ma nessuno si preoccupa di pubblicare l’opera. [5] Non è il caso di stupirsene
più di tanto; l’interesse per il Libro
dell’Arte segue lo stesso andamento dell’interesse per l’arte degli Antichi
Maestri; è cioè sostanzialmente nullo almeno fino ai primi del XIX secolo.
La prima edizione a stampa (1821). La
prima edizione a stampa del trattato cennianiano risale al 1821, ed è opera di Giuseppe
Tambroni. [6] Tambroni era un personaggio ben noto nel mondo italiano
dell’erudizione di stampo accademico e neoclassico. C’è da chiedersi innanzi
tutto che cosa lo spinga a proporre la princeps
del Libro dell’Arte. A giudicare dal
suo commento, non vi è dubbio che Tambroni avverta l’esigenza di divulgare e
far meglio conoscere le tecniche artistiche in contrapposizione a complesse
impalcature teoriche che vanno per la maggiore in quei tempi:
“Fra tutti coloro, che scrissero trattati
dell’arte del dipingere…, tutti gli altri, volendo sottilizzare e metafisicare,
entrarono nelle dispute delle idee, e perdettero di veduta lo scopo principale.
Anzi può dirsi che quanto più si è voluto parlare di cose sublimi e
fantastiche, tanto più si è smarrita l’arte, la quale maggior incremento s’ebbe
sempre più dalla pratica che dalla teoria. Perocchè veggiamo che Raffaello e
tanti altri principali maestri non attinsero ad altre fonti che a quelle della
natura e della pratica, e che i tanti trattati del bello e dell’ideale non hanno prodotto dappoi un solo di que’
valenti.” [7]
Frontespizio dell'edizione Tambroni 1821 |
Tambroni non fa mistero di ritenere che il
manoscritto possa essere di grande utilità pratica per gli artisti, specie per
coloro che esercitano l’arte dell’affresco, ormai andata totalmente smarrita
(Tambroni si trova a Roma e molto probabilmente l’accenno è ai primi Nazareni
tedeschi, che all’inizio dell’800 hanno qui stabilito la loro base). Tuttavia
non scende mai su un piano squisitamente tecnico (probabilmente non ne è in
grado) e non è dato sapere quanto realmente il trattato possa essere stato di
una qualche utilità per un artista che lo volesse consultare.
L’impressione è che la spinta principale sia
data dalla volontà di utilizzare il manoscritto come importante strumento per
risolvere una querelle famosissima:
ovvero se effettivamente la pittura ad olio fosse stata ‘inventata’ da Van Eyck
e, tramite Antonello da Messina, fosse poi transitata in Italia, come dice il
Vasari nelle sue Vite; o se fosse
praticata già precedentemente. La questione aveva fatto versare fiumi
d’inchiostro (e altrettanti ne avrebbe fatti prosciugare nei decenni
successivi), specie dopo che, nel 1774, Lessing aveva pubblicato la princeps dell’altro grande trattato di
tecniche artistiche medievali, il De
diversis artibus del monaco Teofilo, ritenuto dell’XI secolo d.C., in cui
già compariva testimonianza delle tecniche ad olio. [8] Il trattato cenniniano
è considerato un altro testimone in questo senso, e quindi la dimostrazione che
Vasari si era sbagliato (anche se poi le conclusioni che Tambroni ne trasse,
ovvero che anche la pittura ad olio fosse stata ‘invenzione’ italiana, sulla
base delle presunte origini peninsulari di Teofilo, erano del tutto sbagliate).
Non è poi da sottovalutarsi un interesse di
ordine linguistico; si tratta, anzi, di un tema molto sentito all’epoca, e lo
sarà sempre più man mano che ci si inoltrerà nel secolo risorgimentale (basti
pensare che Tommaseo comincia a lavorare al suo progetto di Dizionario già nel 1827, a partire da
un’edizione del Vocabolario della Crusca
del 1806). Scrive Tambroni:
“E questo libro di
Cennino non è soltanto di molta utilità per l’arte. Esso è ancora di giovamento
alla lingua nostra. Perocchè quantunque lo stile ne sia incolto e quasi sempre
disadorno, quale poteva usare uno scrittore ignaro delle buone lettere, pure la
lingua, comechè ripiena di modi plebei e d’idiotismi, è nullameno buona
nell’universale, e contiene d’assai parole nuove ed eccellenti, sopratutto per
le cose dell’arte… Delle quali parole io darò alla fine di questo libro un
indice, onde i compilatori de’ vocabolarj possano giovarsene, e i filologi se
ne servano a rischiarare qualcheduna delle quistioni, che toccano il fondo e le
origini della lingua.” [9]
E aggiunge in nota, in corrispondenza dell’indice
promesso:
“Le voci, che ho qui
riunite, potranno servire per la maggior parte ad accrescere il vocabolario
delle belle arti del Baldinucci, il quale ha in vero lasciato troppo a
desiderare in simile argomento… Sarà… opera de’ principali letterati italiani
l’ammettere le voci che crederanno illustri, ed escludere le viete e rozze. E a
niuno sarà più onesto di darne sentenza, quanto a que’ nobili ingegni del
Monti, del Perticari, del Giordani, del Cesari, del Niccolini, e degli altri
che si occupano ora della grave materia della lingua nostra.” [10].
Il problema testuale del trattato di Cennino: il
dibattito italiano dal 1821 al 1859. Dobbiamo a questo punto
fare un passo indietro. Quando stampa la sua edizione del libro cenniniano,
Tambroni è a conoscenza dell’esistenza di due manoscritti (non originali) che
ne tramandano il testo. Si tratta del codice Vaticano Ottoboniano 2974 (su cui
conduce l’edizione critica) e del codice Mediceo Laurenziano P.78.23. Ben
presto divampa la polemica sul perché Tambroni abbia preferito il primo
(chiaramente più recente e largamente incompleto) al secondo. Il dibattito (che
non riguarda solo la scelta del manoscritto su cui condurre l’edizione, ma si
allarga anche al lessico utilizzato dal Tambroni, giudicato troppo ‘normalizzato’)
si dipana quasi integralmente sull’Antologia
Viesseux già da giugno 1821, ed è frutto di una recensione molto critica ad
opera di Antonio Benci. Fu Benci, peraltro, a segnalare, in questa recensione,
l’esistenza di un terzo manoscritto col testo cenniniano (conservato presso la
biblioteca Riccardiana). Non è qui il caso di richiamare tutti i termini della
questione, in cui disse la sua anche Leopoldo Cicognara, ma si vogliono
sottolineare due aspetti: a) la discussione ebbe ad oggetto aspetti prettamente
filologici; b) lo stesso Benci attese ad una nuova edizione dell’opera, che
però non riuscì a pubblicare. Pur non avendo avuto modo di consultare il testo
(che è conservato presso la Biblioteca Nazionale di Firenze), mi sembra di
capire che Benci, conscio dei suoi limiti, si sia premurato di rivolgersi a
chimici da un lato ed ad artisti dall’altro per cercare di verificare i punti
meno comprensibili del Libro dell’Arte.
[11]
Senza dubbio il problema principale, in quei
decenni, è quello di stabilire un testo filologicamente valido. Si può
senz’altro dire che la questione venga affrontata e risolta brillantemente
dalla seconda edizione italiana, quella dei fratelli Gaetano e Carlo Milanesi
nel 1859. [12]
L’edizione, innanzi tutto, è condotta sui due manoscritti fiorentini
(mediceo-laurenziano e riccardiano) fra loro interpolati. Viene accantonato il
manoscritto vaticano di Tambroni (largamente incompleto). È inoltre arricchita
da ricerche archivistiche che permettono di stabilire come, molto
probabilmente, Cennino avesse composto l’opera (nella sua integralità o in gran
parte) in quel di Padova. Il trattato, dunque, sarebbe il frutto di due culture
(linguistiche ed artistiche): quella toscana e senese in particolare e quella
veneta e patavina dall’altro. Tutte le edizioni italiane successive proporranno
aggiustamenti in un senso o nell’altro; proporranno, ad esempio, un maggiore o
minore utilizzo di venetismi, una diversa scansione in capitoli dell’opera, ma,
nella sostanza, avranno come stella polare l’edizione Milanesi. Edizione che
viene alla luce in clima pienamente puristico, e che non a caso vede come
dedicatario dell’opera Luigi Mussini, una delle figure artistiche di spicco del
purismo italiano.
Il frontespizio dell'edizione Milanesi 1859 |
Piace, peraltro, che i due fratelli siano
chiaramente consci dei loro limiti, avvertano l’esigenza di verificare sul
campo l’effettiva efficacia delle ricette cenniniane, ma abbiano il coraggio di
ammettere: “Dopo aver detto in generale
di quali materie tratta il libro del Cennini, dovremmo tenergli dietro ad
esaminare e comprovare le sue esperienze; ma questo sarebbe assunto maggiore
delle nostre forze; né solo basterebbe il conoscersi di chimica, di metallurgia
e di geologia, ma si richiederebbero eziandio altre notizie e pratiche che noi
non abbiamo. Puossi nonpertanto affermare, per testimonianza di alcuni pochi
dei nostri artisti che hanno assai studiato negl’insegnamenti di Cennino, che a
molte di quelle pratiche si perviene, e che non tanto le conferma l’esperienza,
quanto sono buone in effetto, e meritevoli ancora di esser rimesse in corso.”
[13]
Le prime traduzioni: Merrifield (1844) e Victor Mottez
(1858). Va detto che, prima dell’edizione Milanesi, e
quindi basandosi sull’incompleto manoscritto vaticano trascritto da Tambroni,
erano uscite le prime due traduzioni di Cennino: la prima (1844), in inglese, a
cura di Mary Philadelphia Merrifield, [14] la seconda, in francese, secondo la versione
fornita da Victor Mottez. [15]
Pur se generate da circostanze fra loro molto
diverse, la traduzione inglese del 1844 e quella francese del 1859 hanno in
comune il grande interesse per la tecnica dell’affresco.
Mary Philadelphia Merrifield è un’affascinante
figura di autodidatta, studiosa, accanita ricercatrice, scienziata polivalente
della prima Inghilterra vittoriana. [16]
Alla base della sua decisione di tradurre Cennino sta una precisa scelta
programmatica del governo inglese. In
seguito alla distruzione per un incendio di larga parte di Westminster (1834),
il governo inglese decide infatti di ricostruirlo e di decorarlo con affreschi
che illustrino episodi della storia locale. Viene istituita una Commission of Fine Arts che ha come
Presidente il consorte della Regina Vittoria, il Principe Albert, appassionato
di arte, e come segretario Charles Lock Eastlake, grande conoscitore e futuro
direttore della National Gallery. Si decide che l’occasione di Westminster
debba essere anche un modo per innalzare il livello qualitativo dell’arte
inglese e che, quindi, siano artisti britannici ad essere incaricati
dell’opera. Il problema è, molto semplicemente, che manca una benché minima
conoscenza delle tecniche murali e viene quindi promosso lo studio delle fonti
medievali. In questo senso, il trattato cenniniano è perfetto. La Merrifield,
di sua spontanea volontà e a sue spese, si fa carico di tradurre il Libro dell’Arte, usando appunto il testo
tambroniano ed arricchendolo di note proprie.
Frontespizio dell'edizione Merrifield (1844) |
È importante vedere come
l’interesse sia tutto sullo tecniche. La pittura medievale non è certo l’ideale
artistico della traduttrice, che adora chiaramente il cromatismo della pittura
veneziana del secolo d’oro; ma la traduzione – che ha grande successo – è
eseguita, per così dire, per spirito patriottico. La
prefazione, del resto, dice tutto: “In
the pictures of period of which we are now speaking, we meet with none of the
beautiful demi-tints and broken colours observable in pictures of a later
period; every colour is distinct and forcible, and the figures appear as if
inlaid upon the ground. There is no harmonising, or lowering, or reflecting of
one colour upon another; no optical arrangement or balancing of the colours,
and a glimmering only of the light of perspective and chiaro-scuro…”. [17] Da non trascurare, poi, il senso di
distacco – ampiamente comprensibile se si tien conto che siamo in un paese
anglicano – rispetto ai soggetti religiosi che vengono rappresentati. La
traduttrice sente il bisogno di chiarire subito: “A few points, however, not remarked upon in the notes [n.d.r. di
Tambroni], suggest themselves. The first is, the religious feeling which pervades the book, and which,
at a cursory glance, and to a Protestant reader, almost assumes the appearance
of idolatry. But this impression soon disappears, when we consider that to this
feeling of devotion we are principally indebted for the preservation of the
arts during the dark ages, and their subsequent revival”. [18]
Il caso di Victor Mottez, invece, è ben diverso.
Mottez (allievo di Ingres) è il primo artista professionista a fornire una
propria versione del testo cenniniano.
Frontespizio dell'edizione Victor Mottez (1858) |
Anch’egli mostra una predilezione per le
indicazioni fornite da Cennino in materia di pittura murale; il francese,
reduce da un soggiorno italiano, con una buona conoscenza dei Nazareni, è
imbevuto di cultura purista e cerca di reinserire la tecnica dell’affresco nel
bagaglio tecnico degli artisti d’Oltralpe. Naturalmente l’affresco è sinonimo
di pittura monumentale, di larghe superfici e, in Francia, di pittura sacra. Se
Mottez fornisce una traduzione (1858) è perché dice di aver eseguito affreschi
(purtroppo tutti distrutti o in pessimo stato di conservazione) seguendo
semplicemente le indicazioni di Cennino e di aver quindi intenzione di
trasferire le sue conoscenze alle generazioni future. Appena un anno dopo (come
abbiamo visto) esce la nuova edizione italiana dei fratelli Milanesi. Gaetano e
Carlo dimostrano di conoscere bene sia l’edizione Merrifield sia quella Mottez;
in particolare mi pare felice il giudizio espresso su quest’ultima (frutto a
mio avviso di un comune sentire purista): “Il
signor Mottez non stimò utile di dar luogo a tutta quella discussione [n.d.r.
ovvero non tradusse la parte dell’introduzione tambroniana in cui si parla
delle vicende legate alla pittura ad olio], perché essa non ha nulla a che fare
con lo scopo dell’opera di Cennino, ché è quello di richiamare l’attenzione
altrui ai modi per i quali gli antichi maestri hanno potuto condurre quelle
grandi opere che sono la maraviglia nostra. La pittura a olio, sia o no
inventata dagl’Italiani, certamente ha prodotto assai capolavori; ma il Mottez
crede che essa abbia distrutto la pittura monumentale, non tanto con
l’introdurre il gusto e la moda delle cose piccole, quanto ancora col rendere
il lavoro così lungo e uggioso e non atto ad una impresa grande. Se gli antichi
pittori non avessero avuto nell’in fresco il modo semplice, pronto e spedito di
operare le loro pitture… come avrebbero potuto condurre tanti e così vasti
lavori? E i privati e i comuni d’Italia come avrebbero potuto fare così
magnifiche cose d’arte, che le grandi monarchie oggidi non potrebbero? Infine,
la questione della pittura ad olio non ha importanza per noi. Se gli antichi
maestri han prescelto l’in fresco e la tempera, i monumenti superstiti
testimoniamo che ebbero ragione, e il libro del Cennino prova che essi nol
fecero per ignoranza”. [19]
Riassumendo, dunque, sia la traduzione inglese
sia quella francese vanno ricondotte a un nuovo interesse per la pittura
monumentale (e quindi per l’affresco) che, in ultima analisi, genera dai
Nazareni tedeschi di primo Ottocento. Nel caso della Merrifield, tale interesse
è meramente tecnico e si spiega per una sorta di patriottismo artistico, che le
fa percepire la traduzione come un servizio reso alla grandezza
dell’Inghilterra vittoriana; nel caso di Mottez, invece, opera una più intima
consonanza spirituale dell’artista, che cerca di impadronirsi delle tecniche
per tornare a una pittura più semplice, dignitosa e pura
Fine Prima Parte
NOTE
[1] La prima edizione a
stampa del De Pictura di Leon
Battista Alberti è del 1540, le Vite
del Vasari sono del 1550 (edizione torrentiniana) e del 1568 (edizione
giuntina); la princeps del Trattato della pittura di Leonardo è del
1651.
[2]
Per una rassegna completa della edizioni a stampa del Libro dell’Arte rimando a
Giovanni Mazzaferro, Cennino Cennini e il “Libro dell’Arte”:
censimento delle edizioni a stampa, pubblicato online su http://letteraturaartistica.blogspot.com.
D’ora in poi, tutti i riferimenti bibliografici a materiale online si
intendono, salvo diversa indicazione, derivanti dall’indirizzo internet sopra
fornito.
[3] Per la precisione nella
seconda edizione delle Vite (la
Giuntina), all’interno della vita di Agnolo Gaddi: G. Vasari, Le Vite, ed. R. Bettarini, P. Barocchi,
Vol. II, Firenze, 1967, p. 248.
[4] Non è da sottovalutare
l’ipotesi che la conoscenza vasariana del trattato fosse indiretta e provenisse
da Vincenzo Borghini, notoriamente uno dei collaboratori nell’impresa
dell’aretino. In un documento manoscritto Borghini dimostra di conoscere il
testo del Libro dell’Arte. Cfr. C.
Cennini, Il libro dell’arte, ed. F.
Frezzato, Vicenza, 2003, p. 28.
[5] F. Baldinucci, Notizie dei Professori del Disegno da
Cimabue in qua, VII volumi, S.P.E.S. Studio per Edizioni Scelte, Firenze,
1974-1975. In particolare cfr. Vol. I, pp. 308-313.
[6] C. Cennini, Di Cennino Cennini Trattato della Pittura
messo in luce per la prima volta con annotazioni dal cavalier Giuseppe Tambroni,
Stamperia Paolo Salviucci, Roma, 1821.
[7]
C. Cennini, Di Cennino Cennini Trattato
della Pittura… cit., pp. XX-XXI.
[8]
Theophilus Presbyter, Vom Alter der Oelmalerey aus dem Theophilus Presbyter, ed. G.E.
Lessing, Braunschweig, 1774.
[9]
C. Cennini, Di Cennino Cennini Trattato
della Pittura… cit., p. XVIII.
[10] C. Cennini, Di Cennino Cennini Trattato della Pittura…
cit., p. 158.
[11] Si vedano Gli scritti d’arte della Antologia di G.P.
Viesseux 1821-1833, a cura di Paola Barocchi, VII volumi, S.P.E.S., Studio
per Edizioni Scelte, Firenze, 1975-1979. In particolare la recensione di Benci
è contenuta nel fascicolo di giugno 1821 (Vol. I, 117-144), la replica di
Tambroni e la controreplica di Benci nel numero di agosto (I, 211-220 e
220-229); l’intervento di Cicognara è di ottobre 1822 (I, 567-586). Si veda
inoltre la nota critica di Paola Barocchi (Vol. VI, pp. 20-24) e la nota 46 a
p. 59 dello stesso volume, in cui viene riportata la bozza del testo
introduttivo all’edizione cenniniana preparata da Benci.
[12] C. Cennini, Il Libro dell’Arte, o Trattato della Pittura
di Cennino Cennini da Colle Val d’Elsa, di nuovo pubblicato, con molte
correzioni e coll’aggiunta di più capitoli tratti dai codici fiorentini,
ed. Gaetano e Carlo Milanesi, Firenze, 1859.
[13] C. Cennini, Il Libro dell’Arte, o Trattato della
Pittura… ed. Milanesi… cit., p. XIV. Va peraltro detto che è certo che i
Milanesi si rivolsero ad Ulisse Forni, uno dei restauratori italiani più famosi
dell’epoca per avere chiarimenti su passaggi oscuri. Le osservazioni in
risposta di Ulisse Forni sono contenute a p. 137 di M.V. Thau, Forni e dintorni. Pittori senesi a Roma e
la cultura scientifica di Ulisse Forni, Firenze, 2008.
[14]
C. Cennini, A
Treatise on Painting written by Cennino Cennini, In the year 1437; and first
published in Italian in 1821, with an introduction and notes, by Signor
Tambroni; containing practical directions for painting in fresco, secco, oil,
and distemper with the art of gilding and illuminating manuscripts adopted by
the Old Masters; ed. Mary Philadelphia Merrifield, Londra, 1844.
[15] C. Cennini, Traité de la Peinture mis
en lumière pour la prèmiere fois avec des notes par le Chevalier G. Tambroni.
Ed. Victor
Mottez, Paris-Lille, 1858.
[16] Si veda G. Mazzaferro, Mary Philadelphia Merrifield: la Signora di
Brighton che amava i colori.
[17]
C. Cennini, A
Treatise on Painting… ed. Merrifield, cit., p. VII.
[18]
C. Cennini, A
Treatise on Painting… ed. Merrifield, cit., p. VI.
[19]
C. Cennini, Il Libro dell’Arte, o
Trattato della Pittura… ed. Milanesi… cit., p. XXVIII.
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