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venerdì 13 giugno 2014

Luciano Mazzaferro. Gli 'Original Treatises' di Mary Philadelphia Merrifield. Parte III. I manoscritti facenti capo alla famiglia Edwards

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Luciano Mazzaferro
Gli Original Treatises di Mary Philadelphia Merrifield
Parte terza: I manoscritti facenti capo alla famiglia Edwards


Palazzo Ducale, Venezia. Interno della Sala del Maggior Consiglio


AVVERTENZA:

Questo post è stato pubblicato nel 2014. Dopo tale data sono state scoperte a Brighton le lettere che Mary Philadelphia Merrifield inviò a suo marito dall’Italia nel corso del viaggio che la ricercatrice condusse fra 1845 e 1846 alla ricerca di manoscritti che testimoniassero le tecniche artistiche degli antichi maestri italiani. Molte delle informazioni contenute nel presente post risultano essere pertanto superate, incomplete e, a volte, non corrette. Ho pubblicato le lettere nel 2018 in La donna che amava i colori. Mary P. Merrifield: Lettere dall’Italia (1845-1846), Milano, Officina Libraria, 2018, isbn 88-99765-70-5. Invito pertanto gli interessati a far riferimento alla consultazione di tale volume. Ho comunque deciso di mantenere visibili i vecchi post per dare un’idea di quelle che erano le informazioni disponibili prima della scoperta delle lettere e di come le ricerche su Mary P. Merrifield siano evolute negli ultimi anni.


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Nota: Attorno al 1998, nostro padre, Luciano Mazzaferro, ha dedicato diversi mesi allo studio degli 'Original Treatises' pubblicati da Mary Philadelphia Merrifield nel 1849. Il risultato dei suoi studi è testimoniato da un manoscritto di una cinquantina di pagine che riproponiamo integralmente, suddiviso in quattro parti: innanzi tutto i manoscritti reperiti dalla Merrifield a Parigi (manoscritti Le Bègue), poi il manoscritto Volpato, quelli di Pietro e Giovanni Edwards e infine tutti i rimanenti. Le note al testo sono redazionali e compilate nel 2014, e tengono ovviamente conto di aggiornamenti sopraggiunti dal momento della compilazione ad oggi.

Questo saggio fa parte della serie dedicata alla vita e alle opere di Mary Philadelphia Merrifield. Per il primo rimandiamo a Giovanni Mazzaferro, Mary Philadelphia Merrifield, la Signora di Brightonche amava i colori.



PIETRO EDWARDS, On the Propriety of Restoring the Public Pictures. Extracts from a dissertation read in the Academy of Fine Arts at Venice. Dated March 1812

Va da p. 885 a p 889. Pietro Edwards discendeva da una famiglia cattolica inglese, immigrata nel nostro Paese dopo i noti accadimenti del 1688 [1] ed ormai saldamente integrata nell’ambiente italiano. L’Edwards scriveva in un buon italiano [2], solo di rado colorito da forme tipiche del dialetto veneziano. Sul finire del ‘700 e all’inizio dell’800, in alcuni documenti e scritti che lo riguardano, il suo cognome venne talvolta italianizzato in Eduard; poi si ritornò alla versione originale con il risultato, tuttavia, di ingenerare inesattezze e perplessità anche ora non completamente superate. Giovanni Previtali [3] s’interessa “dell’inglese Pietro Edwards”; l’IBN (Index Bio-Bibliographicus Notorum Hominum, Corpus Alphabeticum. I Sectio generalis) [4] lo definisce “italiano” ponendo però, per prudenza, un punto interrogativo che sta a testimoniare il disorientamento dei compilatori [5].

Il testo della conferenza, reperito presso l’Accademia delle Belle Arti di Venezia, è stato parzialmente trascritto dal figlio della Merrifield (p. 848). Non ne è indicata la collocazione e c’è da ritenere che non si tratti affatto di una disattenzione: il testo, conservato nell’ufficio del segretario dell’Accademia (p. 847), e non già nell’archivio o nella biblioteca, doveva esser privo di qualsiasi segnatura. Nella raccolta curata dalla Merrifield queste pagine figurano dopo lo scritto di Giovanni Edwards, il figlio di Pietro: prevalentemente per motivi cronologici qui si è rovesciato l’ordine di presentazione. La Merrifield ha steso un’unica nota introduttiva per i due Edwards (pp. 845-848). Dei loro testi viene fornita la versione inglese senza l’originale a fronte “as this MS. is rather historical than technical” (p. 848).

Dopo queste indicazioni preliminari, è bene soffermarsi sui motivi che hanno indotto la Merrifield ad interessarsi di Pietro Edwards e sull’esito, che ella stessa dichiara scarsamente fruttuoso, del suo lavoro a Venezia. Quando si venne avvicinando agli ultimi decenni del Settecento e agli esordi dell’Ottocento, la Merrifield non avvertì più l’esigenza di raccogliere materiale documentario inedito sulla tecnica praticata dagli artisti di quel periodo, sia di coloro che erano ancora legati ad esuberanti gusti espressivi sia di quanti si erano ormai inseriti nel modo di sentire che fu peculiare dell’età neoclassica. Preferì invece parlare dell’attività di restauro di quegli anni, mossa dal proposito cui si è fatto cenno all’inizio di questa rassegna, vale a dire dal desiderio di fornire elementi di conoscenza fruibili dai tecnici inglesi impegnati nel settore. L’attenzione della Merrifield si appuntò sulla scuola veneziana del restauro e, appunto, su Pietro Edwards, che ne era stato il rappresentante di maggior spicco. La sua attività aveva già attratto l’attenzione degli ambienti londinesi: “This restoration by Pietro Edwards” – si può leggere a pag. 845 – “has been noticed in the Art Union” [6]. La citazione si spiega probabilmente con il gran credito che taluni studiosi d’arte avevano riservato all’opera di Pietro Edwards. Si pensi in primo luogo, a Luigi Lanzi, autore largamente seguito in Italia e all’estero, la cui Storia pittorica era stata integralmente tradotta in inglese da T. Roscoe nel 1828 [7]. Orbene, il Lanzi, proprio in questo lavoro di vasta e meritata risonanza, aveva dedicato all’opera di restauro svolta in Venezia e al suo più valido esponente un brano dal tono più che lusinghiero, qui riprodotto con qualche sforbiciatura dovuta esclusivamente a ragioni di spazio: “… è da ricordare” – aveva scritto sul finire del Settecento il Lanzi – “un artifizio che in Venezia ha avuto in questo secolo non poco aumento, il quale comeché non tenda a moltiplicar pitture, è nondimeno alla pittura vantaggiosissimo, tendendo a conservarci le opere degli antichi maestri; ed è l’artifizio di rinfrescare e di rassettare i lor quadri. Era questo lavoro più che ad altra città necessario alla veneta, il cui clima nemicissimo de’ quadri specialmente ad olio non cessa mai co’ suoi sali di rodergli e di alterargli. Piacque dunque a quel sapientissimo governo di pensionare artefici, i quali vegliassero alla conservazione de’ quadri pubblici che si andavano deteriorando… Fu aperto… [uno] studio nel 1778 in un salone grandissimo a’ Santi Giovanni [e] Paolo, e commessa la presidenza del lavoro al degno signor Pietro Edwards. Le operazioni che si fanno intorno ad ogni quadro sono molte e lunghe, ed eseguite con incredibile accuratezza…” [8]. Né va dimenticato che, a pochi anni di distanza dalla prima edizione italiana del Lanzi, il suo giudizio era riapparso senza sostanziali modifiche e, semmai, con un tono più fermo e persuasivo nel testo di un valente cultore di cose veneziane che, dopo aver fornito notizie sui restauri compiuti su pitture della sua città, aveva concluso che il governo della Repubblica veneta non avrebbe potuto effettuare scelta migliore, quando si era deciso ad affidare la cura dell’intera impresa al chiaro sig. Pietro Edwards. Mi sto riferendo a G.A. Moschini, noto per varie sue pubblicazioni: innanzi tutto per uno studio sulla Letteratura veneziana del XVIII secolo e in particolare, per il terzo volume di tale opera in cui si fornisce un profilo dell’arte veneta di quei tempi e ove si trova il giudizio sull’Edwards [9]; quindi per le guide di Padova [10] e di Venezia [11] e per vari altri scritti anch’essi pensati e coniati in modo tale da cadere nelle mani dei visitatori, anche stranieri, con evidenti pretese culturali. Alla Merrifield, che ci sorprende spesso per la conoscenza di testi di scarsissima risonanza e pressoché ignoti negli stessi ambienti culturali italiani, non potevano essere sfuggite le valutazioni del Moschini, un autore la cui fama tra gli specialisti inglesi non fu mai effimera, neppure prima che i repertori e le guide bibliografiche s’incaricassero di diffondere la conoscenza delle sue opere e di accreditarne la larga affidabilità.

Tintoretto, Il Paradiso, Sala del Maggior Consiglio, Palazzo Ducale, Venezia

Nelle poche pagine riprodotte dalla Merrifield Pietro Edwards prende posizione nell’ormai annosa polemica sull’opportunità di eseguire opere di restauro. Se prima del 1730 o del 1740 ogni addetto ai lavori di restauro seguiva, senza un’adeguata valutazione critica, le tendenze allora prevalenti, nei decenni successivi – è questa la tesi dell’autore – diversi operatori, messi in guardia da molti errori commessi in passato, hanno adottato un metodo nettamente migliore e senza dubbio soddisfacente. La revisione dei procedimenti di restauro - si può leggere a p. 885 – è proseguita in modo graduale e continuo, “so that we can maintain on the base of indisputable facts, proved by the testimony of more than sixty years, that the art is now carried to a point of the highest utility, and has become so much the more valuable and important inasmuch as the necessity of our having recourse to its aid is daily augmenting”. Il discorso di Pietro Edwards è una difesa convinta e appassionata del lavoro compiuto dai restauratori dei suoi tempi. Le tesi in senso opposto non reggono alla verifica dei fatti e spesso si basano su assurdi (“foolish”) errori di datazione, ossia sulla considerazione che certi restauri, indubbiamente male effettuati, appartengano agli ultimi decenni e non già – come si sarebbe dovuto precisare – a periodi precedenti, quando si seguivano criteri empirici ormai definitivamente superati.  

Come si vede, l’Edwards respinge le posizioni polemiche dei detrattori e non condivide neppure le posizioni estremamente caute di coloro che, seguendo i principi già affermati da A.M.Zanetti [12], raccomandavano di ricorrere ai restauri solo in presenza di condizioni del tutto eccezionali. Ci si porrebbe però fuori strada, se si pensasse che, per partito preso o per amore del proprio mestiere, l’Edwards fosse portato – come taluni “ridipintori” di epoche lontane – a legittimare gli interventi privi di una seria motivazione e di concrete prospettive di successo. Anche se in questa “dissertazione” non se ne parla, occorre egualmente tener conto di alcuni punti fermi che l’Edwards enunciò in varie occasioni e ai quali non intese mai rinunciare. Già in uno scritto risalente all’ottobre del 1777, egli aveva inveito contro i deturpatori di “un quadro di Leandro Bassano tutto ridipinto da capo a fondo con inesprimibile impudenza” [13] e mise in guardia contro le “insidie degli artisti briganti” [14]. Alessandro Conti ricorda, riferendone le parole, come l’Edwards usasse suddividere le pitture in quattro categorie: quelle “che non hanno verun bisogno di riparo”; quelle “nell’estremo opposto, ridotte ad uno stato di tal consunzione che più non ammettono restauro alcuno”; quindi le “pitture suscettibili di sufficiente riparo, ma che nel fondo loro non possono valere la spesa di quest'operazione attesa la trivialità del loro merito”; infine una “quarta serie di opere” che si caratterizzano sia per il loro “grado di valor e di merito” sia per la “probabilità di una riuscita” degli interventi di restauro [15]. E solo per questo quarto e ultimo raggruppamento di opere raccomandava di intervenire. Il Conti cita un altro scritto dell’Edwards che, nella sua qualità di “Ispettore al restauro delle pitture di pubblica ragione”, impone agli operatori di evitare qualsiasi arbitrio e di astenersi da rifacimenti e modifiche compiute con l’intento di porre riparo ad errori, anche palesi, dell’artista la cui opera si poneva in restauro: “questo spirito di censura” – vien detto con acutezza – “…facilmente degenererebbe in licenza pericolosissima” [16].

L’appassionato discorso sull’attività di restauro si colora con argomenti di sicuro interesse, come quando l’Edwards mostra una particolare attenzione per “the useful practical treatise of Watin” (p. 888) – ossia per L’art du peintre, doreur, vernisseur la cui seconda edizione era comparsa a Parigi nel 1773 [17] – o come quando accorda un ampio credito ad Antoine-François Fourcroy [18] e ad altri ricercatori del settore chimico. Edwards appartiene al secolo dei lumi, è fiero di viverci e di raccoglierne i frutti, ama i ritrovati moderni e, anche se si guarda bene dal disfarsi delle esperienze maturate nelle scuole precedenti, avverte nondimeno l’esigenza di rivederle alla luce delle recenti acquisizioni scientifiche. Sarebbe stato sicuramente utile seguirlo su questi punti cercando di stabilire, sulla base di testimonianze attendibili, quanto di nuovo e quanto di vecchio vi fosse nelle sue posizioni teoriche e negli orientamenti che impartiva ai “professori” impegnati nell’attività di restauro. Ma una cosa è certa: la Merrifield non se ne cura affatto, guarda con disappunto e sconforto il poco materiale che è riuscita a raccogliere e, per la prima volta dopo tanti successi, si sente insicura ed instabile, quasi che la terra le cedesse sotto i piedi: “…the extracts I was able to procure” – avverte a p. 845 – “are extremely meagre”. Si è impegnata a cercare e ad imparare, ma alla fine si è ritrovata con ben poco tra le mani.

Ma che cosa voleva trovare la Merrifield? Che cosa le interessava a tal punto da non dare alcun rilievo ai suggerimenti che il breve scritto di Edwards pur le offriva? Qual era il suo pensiero dominante e a quale obiettivo mirava? A questi interrogativi si può dare una risposta pertinente solo considerando che la Merrifield ha sempre aspirato a conoscere – trascurando il resto – le formule, i dosaggi e gli accorgimenti pratici seguiti nelle varie epoche, dai tempi del più remoto Medio Evo sino all’età posta a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento. E questo interesse non è venuto mai meno sia che si passasse ad esaminare il lavoro svolto nelle botteghe artigiane o negli studi di artisti di sicura rinomanza, sia che cercasse di comprendere il lavoro eseguito all’interno di laboratori di restauro. Anzi, di fronte ai restauratori i suoi convincimenti, già fermi, si rafforzavano e le pretese anziché affievolirsi, aumentavano considerevolmente. In pratica, si raddoppiavano. Si prenda il caso dell’Edwards. La Merrifield voleva in primo luogo conoscere quali fossero i sistemi seguiti dalla scuola veneziana di restauro, le formule usate e gli espedienti praticati, insomma i “segreti” dei tecnici che l’Edwards era tenuto a sorvegliare. Ma non basta. La Merrifield era convinta che gli addetti al restauro conoscessero, per una serie di circostanze, anche le peculiarità tecniche proprie dei maestri di cui erano chiamati a seguire le opere. Ecco quel che scrive sui restauratori: “I have scarcely a doubt but that many [n.d.r. addetti al restauro] … either from tradition, or from the accidental discovery of MS. recipes, or from both, and from some of the having analysed the material used in these old paintings, possess the knowledge… of having ascertained the pigments and vehicles used by the great Italian masters, and the mode of their use and application” (p. 846). In sostanza i restauratori potevano comunicare due tipi o gruppi di “segreti”, ossia quelli che utilizzavano per compiere il proprio lavoro e quelli ai quali si erano attenuti i grandi maestri del passato. Il campo della ricerca veniva, così, ad ampliarsi in misura considerevole; né si può dire che dall’ambiente londinese, al quale la Merrifield apparteneva, giungessero inviti alla cautela e segnali significativi per una sostanziale riduzione dei piani di lavoro. Accadeva anzi il contrario: le notizie si univano alle dicerie creando nuovi problemi e provocando inevitabili depistaggi. Ce lo conferma la stessa Merrifield: “In consequence of a report from England, which reached me when I was in Venice, that Sig. Pietro Edwards had discovered the old method of painting in oil, and had sold his secret to the Government, I endeavoured to ascertain whether this was the fact.” (p. 848). E’ chiaro? A Londra si sosteneva che l’Edwards avesse scoperto la vecchia tecnica della pittura ad olio e che avesse venduto questo “segreto” alla Repubblica veneta. Si resta sorpresi, quasi attoniti, nel notare come voci così fantasiose potessero circolare tra persone di alta cultura, abitualmente impegnate in un esame scrupolosissimo di fonti documentarie.

La Merrifield si pose al lavoro e, dopo alcune ricerche infruttuose, finì con il comprendere che l’indicazione arrivata da Londra era priva di qualsiasi fondamento. Lo scrisse, visibilmente indispettita per il tempo perduto: “By the kindness of the Count and Countess Spiridion Papadopoli I obtained permission from the President of the Academy to inspect the papers left by Sig. P. Edwards, which are preserved in the Academy, and, from what I saw there, I am enabled to state my firm belief that no secret was either bought or sold…” (p. 848) [19]. Nulla, in definitiva, era stato comprato o venduto e l’immagine di una Venezia levantina, avvezza al traffico d’ogni cosa e modellata su stantii schemi letterari, venne accantonata. Ma su altri punti la scrittrice inglese non cambiò idea: evidentemente le doveva sembrare illogico che qualcuno – in particolare l’Edwards che tante relazioni e dissertazioni aveva sfornato – non avesse mai accennato ai “segreti” dei vecchi maestri e neppure alle ricette e ai ritrovati tecnici dei restauratori veneziani. E, siccome non tutte le porte le furono aperte e più di una restò chiusa o, per lo meno, socchiusa, le sembrò logico parlare di interferenze, di condizionamenti e di decisioni guardinghe.

Che fenomeni di incomprensione e di rigetto siano avvenuti è fuor di dubbio. La Merrifield avvicinò diverse persone di cultura residenti a Venezia (le ritroviamo nell’elenco dei ringraziamenti posto nelle pp. X-XI della prefazione) e appare davvero incomprensibile che nessuna di esse le abbia saputo indicare la Biblioteca del Seminario Patriarcale, in funzione da una trentina d’anni, presso la quale si trovava – e si trova tuttora – la maggior parte della documentazione prodotta dall’Edwards. L’Accademia non si comportò in modo del tutto retrivo e accordò, come vedremo al punto successivo, un’autorizzazione di non poco conto che si poneva in aperto contrasto con le sue precedenti risoluzioni; eppure anche quest’istituto, presso il quale la Merrifield pensava di trovare assai più di quanto realmente vi fosse, ne uscì fuori con qualche atteggiamento censorio che sembrava coniato su misura per provocare le reazioni risentite della scrittrice. “Venetian jealousy”: gridò nelle note introduttive. Eppure, pur dando a questi atteggiamenti censori e limitativi tutto il peso che loro spetta e senza avere alcuna intenzione di volerli in alcun modo giustificare, va egualmente aggiunto che la Merrifield avrebbe potuto, con una più ampia collaborazione e con un po’ di fortuna, far luce su taluni aspetti di sicura rilevanza, ma non sarebbe mai riuscita a reperire quei “segreti” ai quali teneva molto. E non avrebbe mai potuto reperire uno scritto (poco importa se breve o lungo, se circostanziato o appena allusivo) su simili delicatissime questioni, per il semplice motivo che scritti del genere non erano stati redatti. Dopo gli attenti accertamenti archivistici compiuti dalla Olivato [20] e dal Conti [21], vi sono argomenti bastevoli per escludere che l’Edwards abbia mai preparato note e relazioni sui metodi seguiti dai maestri del Rinascimento veneziano: è possibile che qualcosa di quei “segreti” egli sia riuscito ad intuire, ma è pressoché certo (solo insperate scoperte di nuovo materiale documentario potrebbero indurre a pensare il contrario) che non pose mai su carta quanto fosse arrivato a supporre o ad immaginare. Per quanto poi riguarda l’altro tipo o gruppo di “segreti”, ossia le formule sperimentate nella pluridecennale opera di restauro, il discorso si fa ancora più semplice. E’ senza dubbio vero che si utilizzarono dei “segreti”; ma, anche in tal caso, va subito precisato che mai l’Edwards si soffermò a scrivere, compilando ricettari e prontuari di taglio originale o ricalcati su schemi espositivi uguali o simili a quelli che la Merrifield ci ha presentati nel corso del suo lavoro pregevolissimo. Assai utili ci sembrano le conclusioni alle quali è pervenuto il Conti nell’opera sua maggiore: l’Edwards ci ha fornito informazioni preziosissime su vari aspetti dell’attività di restauro, ma è sin troppo chiaro che nelle sue relazioni di vario tipo non vennero esaminati mai i metodi da seguire nel restauro, al punto da non ricordare neppure che i ritocchi e le integrazioni venivano eseguite a vernice. Del resto – prosegue lo storico del restauro, quasi con l’aria di non voler essere preso per uno sprovveduto – anche “oggi la maggior parte dei restauri avvengono in più o meno riconosciuto segreto…” [22]. Alla Repubblica Veneta nulla venne mai riferito su argomenti del genere come, del resto, nulla venne mai richiesto dai responsabili del governo. Se qualche tecnico di sicuro peso scientifico o con vaste aperture politiche poneva dei problemi circostanziati – il Conti ricorda il caso dell’architetto G. Selva – l’Edwards rispondeva fornendo indicazioni di vario genere “senza [n.d.r. però] precisare segreti o procedimenti più complessi” [23].

Alle indicazioni descritte dal testo di Conti ritengo che valga la pena di aggiungerne un’altra. Quei metodi che la Merrifield avrebbe avuto piacere di scoprire erano dei “segreti” e, proprio perché “segreti”, non andavano diffusi. L’Edwards non solo ritenne che fosse suo dovere astenersi da qualsiasi confidenza che di fatto si sarebbe dimostrata dannosa, ma si comportò con fermezza quando qualcuno, ricorrendo a vari sotterfugi, cercò di mettere le mani (o, più semplicemente gli occhi) su cose che facevano parte del corredo tecnico del laboratorio veneziano per il restauro delle pitture di pubblica proprietà. Ce lo attesta un episodio descritto in una ricerca sull’Accademia Clementina di Bologna [24] (vedi n. p. 272-273). Il 4 agosto 1781 l’Edwards scrisse all’istituto bolognese per lamentare (secondo i costumi dell’epoca, egli si attiene a formule ovattate, ma la sostanza è quella che qui si espone) che un accademico clementino, recatosi nel laboratorio dei restauratori veneziani, vi fosse rimasto “per un paio di ore” esaminando “diversi procedimenti” e chiedendo “particolari ai lavoranti”. La conclusione da trarre è, in definitiva, la seguente: l’Edwards, che si mostrava aperto e disponibile a recepire le varie indicazioni provenienti da taluni settori di ricerca, in particolare dal comparto chimico, si richiudeva prontamente su se stesso e assumeva le sembianze d’un riccio in posizione di difesa, allorché si profilava il rischio che degli estranei venissero a porre il naso su faccende che non li riguardavano. A proposito: Vincenzo Martinelli, segretario della Clementina, si destreggiò e rispose come poté, ma quel che era accaduto bastò all’Edwards per interrompere ogni rapporto con l’istituto bolognese.

Queste vicende e questi atteggiamenti, posti in luce solo da studi recenti, non potevano ovviamente esser noti alla Merrifield che rimase con la sua amarezza e con il suo rancore, senza neppure darsi troppa cura di mascherare il suo stato d’animo. Gli accenti di tristezza e di rimpianto non le impedirono però di reagire e di ricercare una via alternativa di lavoro. E ancora una volta tornò a muoversi con notevole acume indicando un percorso così inedito da lasciare persino in lei, tanto sicura delle proprie idee, qualche timore di essere uscita fuor di tema. Comprese che il modo migliore per descrivere l’attività di restauro consisteva nel ricostruirne le vicende e nel descriverne la storia. Superò le divergenze, che sicuramente v’erano state, con il figlio di Pietro Edwards e ne accolse un ampio scritto storico (o, meglio, i tratti ritenuti più salienti di tale ricerca). La scrittrice di Brighton, così facendo, non solo colmò una lacuna che doveva apparire assai fastidiosa, ma riuscì ad indicare un metodo di ricerca che verrà ripreso con fermo convincimento nei nostri giorni.


GIOVANNI O’KELLY EDWARDS, Storia della organizzazione civile delle belle arti in Venezia per servire al piano di sistema stabile di questa Imperiale e Reale veneta Accademia

Paolo Veronese, Apoteosi di Venezia, Sala del Maggior Consiglio, Palazzo Ducale, Venezia


Va da p. 849 a p. 889 [25]. Versione inglese di copia di un manoscritto redatto in italiano dal figlio di Pietro Edwards che si avvalse di informazioni o, addirittura, di brani desunti da relazioni e da rapporti stesi dal padre. La data di compilazione (1833) si colloca a metà via tra la morte di Pietro, avvenuta nel 1821, e la visita della Merrifield a Venezia (1846). Di Giovanni Edwards, l’unico scrittore contemporaneo alla Merrifield che figuri in questa raccolta, ho poco da dire. La Merrifield ci assicura che era stato anche (“also”) utilizzato in opere di restauro sotto la guida del padre, ma quell’ “also” inserito in modo tutt’altro che casuale, fa pensare che la maggior parte del suo tempo Giovanni Edwards non l’impegnasse in questo tipo di attività o che comunque non la svolgesse in forma professionale. La Merrifield lo conobbe nel corso del suo soggiorno veneziano e dai colloqui che ebbe con lui ricavò qualche altra notizia oltre quelle che figurano nel manoscritto. Significativa mi sembra l’ammissione contenuta in una nota di p. 863 (“the author of the MS told me…): quel ‘told me’ sembra riferirsi ad una conversazione confidenziale, senza rigidi formalismi, direi persino amichevole. La Merrifield, al momento di lasciare Venezia, l’incaricò di trascrivere e di spedirle le carte di Pietro Edwards conservate presso l’Accademia: la trascrizione non venne eseguita, ma la Merrifield tende ad attribuire la responsabilità del fatto non già a Giovanni Edwards, ma all’atteggiamento, che oggi noi diremmo permeato di spirito burocratico, di qualche amministratore dell’Accademia [26]. Sono, come si vede, informazioni tutte desunte dall’opera della Merrifield. Da una diversa fonte (CLIO, III, p. 1701) mi è stato possibile ricavare una sola notizia: nel 1836 l’autore del manoscritto fece stampare, presso il tipografo Orlandelli di Venezia, un fascicolo di 24 pagine dal titolo Confutazione di recente sentenza con cui sembra interdetto ai letterati non artisti il dare ragione delle belle arti. Non conosco questo scritto, che manca nelle maggiori biblioteche di Bologna e nulla quindi posso dire sui motivi, anche occasionali, che potrebbero averlo suggerito. Il nome di Giovanni Edwards non compare nel D.B.I., né nel Dictionary of Art dell’editore Grove, né nell’IBN (Index bio-bibliographicum notorum hominum), né in altri repertori comunemente utilizzati per reperire informazioni su persone operanti nel mondo artistico.

Composto per essere stampato, il manoscritto non era venuto alla luce per l’intervento censorio dell’amministrazione pubblica. Scrive la Merrifield: “The MS from which the following extracts were made was written… with a view to publication; but in the Venetian territories works on the fine arts are not permissed to be published without expecial permission from the Academy of Venice. This permission was refused; but the authorities at Vienna, to whom the MS. had been submitted, directed that a copy of it should be made and preserved in the Academy at Venice. I saw this copy among the Edwards’ papers in the office of the secretary of the Academy” (p. 846 sg.). L’autore reagì a questa interferenza? E se reagì, in che modo si comportò? L’opuscolo poca fa citato, uscito poco tempo dopo, vi fa per caso cenno? Sono domande che mi sono fatto e alle quali mi manca il tempo per dare risposta [27]. Il Conti non trova per nulla “sorprendente” che l’Accademia di Venezia abbia negato il beneplacito alla pubblicazione dello scritto e ricorda i dissensi, soprattutto sull’impiego dell’olio di lino, con “alcuni restauratori impiegati dello stato” [28]. E’ un’ipotesi ammissibile e non si sente affatto di negare che, nel motivare il proprio parere contrario alla stampa del lavoro, l’Accademia sia ricorsa a questi o a consimili argomenti di carattere tecnico, ma pur sapendo di muovermi anch’io sul piano delle semplici congetture, sono indotto a ritenere che, al posto o magari sotto valutazioni tecniche apparentemente asettiche, vi fossero ben altri e più stridenti motivi di attrito: penso in particolare all’attacco frontale e all’aperta e provocatoria disistima dimostrata nei confronti di Leopoldo Cicognara. Costui, noto ed acclamato studioso della scultura italiana, amico del Canova, bibliografo di sicura grandezza e trattatista assai rispettato ai tempi suoi, era stato presidente dell’Accademia dal 1808 al 1826 e, quando il manoscritto venne compilato (cioè nel 1833) viveva ancora a Venezia, ove era diventato, per i cultori d’arte, un santone veneratissimo e, un po’ per tutti, un vecchio già abbastanza colpito dalla sfortuna per meritare ulteriori sgraffianti accanimenti. Era (ed è tuttora) difficile pensare che l’Accademia non usasse i suoi compiti di censura in un caso del genere e per un’opera che conteneva un attacco durissimo al suo ex presidente, di certo ancora circondato dall’affetto o, quanto meno dal rispetto di vari suoi componenti. Lo dovette capire lo stesso autore del manoscritto che, per allentare le strettoie della censura e per ottenere la benevolenza dei governanti austriaci, imbastì un panegirico che ci appare subito stantio e di cattivo gusto, sull’attività – di solito dimenticata o bistrattata – dell’amministrazione asburgica nei pochi anni che dividono la pace di Campoformio (1797) da quella di Presburgo (1805), ossia tra la fine delle Repubblica veneta e l’unione al napoleonico Regno d’Italia. “This remembrance” – così inizia l’atto di omaggio alla casata imperiale – “is always a proof of the gratitude  of the Venetian nation, who experienced the effects of the royal and paternal solicitude of his Majesty” (p. 866). Non conosco il testo originale italiano, che la Merrifield omette di riprodurre, ma è assai difficile immaginare che la versione inglese abbia cambiato il senso di queste parole, tutte impregnate – come quelle dei due periodi successivi – di deferente omaggio nei confronti della dinastia viennese e, di riflesso, dei funzionari distaccati a Venezia e chiamati a rappresentarla. Eppure, nonostante le cautele, lo scritto non passò; la devozione e i riguardi per la casata imperiale vennero neutralizzati dalle aspre riserve nei confronti del vecchio Presidente dell’Accademia.

Simili decisioni, però, non sono per loro natura irrevocabili. Gli addetti alla censura di rado sono degli ideologi e le loro valutazioni nettamente pragmatiche risentono, assai più di quanto si pensi, del variare delle circostanze.  Quando la Merrifield giunse a Venezia, il Cicognara era morto ormai da anni, non molti per la verità, ma egualmente bastevoli a rimuovere quelle riserve e quegli scrupoli che si erano fatti sentire, pesanti come macigni, nel momento in cui venne esaminato e censurato il manoscritto di Giovanni Edwards. Si cambiò idea e si consentì alla Merrifield di trascrivere e forse di ottenere in prestito la copia che il governo di Vienna aveva restituito all’Accademia dopo l’omologazione della censura. La Merrifield si era messa in contatto con vari esponenti della cultura presenti a Venezia (con il suo connazionale Rawdon Brown, da anni in questa città per studiarvi i diari del Sanudo; con Giuseppe Cadorin, il paziente raccoglitore di documenti sul Tiziano; con lo Schiavone, restauratore di opere tizianesche; con Giuseppe Valentinelli, della Biblioteca Marciana, già noto per le sue prime ricerche bibliografiche; con Vincenzo Lazari e con altre figure ricordate nella prefazione) e negarle una cortesia che non creava più gli imbarazzi di un tempo sarebbe forse apparso non solo un affronto alla studiosa inglese e al circolo che gravitava intorno a Peel ed Eastlake, ma anche un gesto di poca considerazione verso troppe persone residenti nel capoluogo veneto. E così si diede il permesso dapprima negato, magari stabilendo – come di consueto gradiscono tutti i censori in circostanze del genere – che l’opera non apparisse nella sua interezza. Vi sia o non vi sia stato un accordo del genere, è comunque certo che il manoscritto di Giovanni Edwards non fu integralmente incluso nell’opera curata dalla Merrifield: vennero omessi sia la prima parte che “contains the history of several academies of paintings, & c., in Venice” (p. 847), sia la terza parte, giudicata dalla curatrice come un “uninteresting to the English reader” (p. 848). Si trascurarono anche le ultime pagine della parte di mezzo e si procedette invece alla traduzione di quelle restanti, tra le quali – manco a dirlo – si ritrovano le pepate argomentazioni contro l’ormai trascurato conte Cicognara.

Scritta con largo uso di documenti e, in più tratti, con viva partecipazione ai fatti via via narrati, la storia disegnata da Giovanni Edwards si allontana dai consueti, stantii schemi accademici e riesce a farsi presto perdonare certe espressioni (troppo interessate per essere convincenti) di eccessiva deferenza verso il potere politico costituito. Piacevole e spedita, la lettura dell’opera offre vari elementi di riflessione. Mi piace sperare che l’intero manoscritto, nella sua versione originale e senza i tagli che vi dovette apportare la Merrifield per ovvie ragioni di equilibrio con gli altri testi, venga ristampato in una veste non frettolosa e corredata da un convincente apparato critico


NOTE

[1] La fuga di Giacomo II Stuart (sovrano dichiaratamente cattolico) e lo sbarco in Inghilterra di Guglielmo III d’Orange, che l’anno dopo diventerà re.

[2] Per una serie di scritti di Pietro Edwards si veda Loredana Olivato, Provvedimenti della Repubblica veneta per la salvaguardia del patrimonio pittorico nei secoli XVII e XVIII, Venezia, Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, 1974.

[3] Giovanni Previtali, La fortuna dei primitivi. Torino, Einaudi, 1964, p. 242.

[4] Index Bio-Bibliographicus Notorum Hominum, Corpus Alphabeticum. I Sectio generalis, Vol. 62, ad vocem. Biblio-Verlag, 1993.

[5] Ci pare qui il caso di anticipare alcune considerazioni sul nome esatto di Pietro Edwards, anche alla luce di un fatto che sino ad oggi sembra essere stato trascurato. La Merrifield, nel 1846, incontra il figlio Giovanni, e lo chiama sempre “Giovanni O’Kelly Edwards”. Giovanni, insomma, ha un doppio cognome. In realtà, come mostreremo successivamente, in tutte le fonti che citano il figlio, e soprattutto nei suoi scritti, Giovanni si firma Giovanni Edwards O’Kelles (e non O’Kelly). Probabile che la Merrifield abbia uniformato alla dizione inglese un cognome storpiato dalla lunga permanenza veneta. Ho trovato una sola fonte che cita Pietro (nel 1847, ovvero quando è morto da oltre 25 anni e sulla scena c’è il figlio) come P. Edwards O’Kelles. Si tratta dell’opera Venezia e le sue lagune Vol. I, Venezia, Antonelli, 1847, p. 100. Non è da escludere, quindi, in linea di principio che il figlio (Giovanni) abbia voluto aggiungere un secondo cognome al primo. Personalmente, nell’assoluta assenza di informazioni, preferisco pensare che sia stato Pietro a non volere usare il secondo per motivi di brevità. Sia O’Kelly o sia O’Kelles, il cognome è peraltro di evidente origine irlandese e spiega (in via dubitativa) anche il cattolicesimo della famiglia (evidentemente trapiantata dall’Irlanda all’Inghilterra e poi, dopo il 1688, in Italia). Come vedremo da un documento successivo, Giovanni mantiene in qualche modo una relazione col mondo irlandese. Quello che è certo (lo scrive lui stesso) è che scrive in un cattivo inglese e sente il bisogno di scusarsi per la circostanza. Cfr. nota 25. [G.M.]
[6] A partire da giugno 1841 l’Art Union ospitò una serie di articoli ‘On vehicles for painting’ a firma di J.E. Sul numero di settembre p. 149 colonna 2 sta scritto: “The Venetian Government established and liberally paid, a society of persons solely to preserve the pictures of their great masters which were suffering from the climate of Venice. Their studio was opened in 1778, and an Englishman, Peter Edwards, was the president.”

[7] Luigi Lanzi, The history of painting in Italy, from the revival of the fine arts to the end of the 18 century, translated from the original Italian by Thomas Roscoe. Londra, W. Simpkin & R. Marshall, 1828.

[8] Luigi Lanzi, Storia pittorica della Italia, Vol. II, a cura di Martino Capucci. Firenze, Sansoni, 1970, p. 181.

[9] Giannantonio Moschini, Della letteratura veneziana del secolo XVIII fino a’ nostri giorni, Vol. III, Venezia, Stamperia Palese, 1806, p. 54.

[10] Giannantonio Moschini, Guida per la città di Padova all’amico delle Belle Arti, Venezia, Tipografia Alvisopoli, 1817.

[11] Giannantonio Moschini, Guida per la città di Venezia all’amico delle Belle Arti, 2 voll. Venezia, Tipografia Alvisopoli, 1815.

[12] Anton Maria Zanetti, Della pittura veneziana, Venezia, Stamperia Albrizzi, 1771, Prefazione pp. X-XI.

[13] Loredana Olivato, Provvedimenti della Repubblica… cit., p. 155.

[14] Loredana Olivato, Provvedimenti della Repubblica… cit., p. 160.

[15] Alessandro Conti, Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, Milano, Electa, 1988, p. 167.

[16] Alessandro Conti, Storia del restauro… cit., p. 169.

[17] Jean-Félix Watin, L’art du peindre, doreur, vernisseur. 2° ed. Parigi, 1773.

[18] Antoine-François Fourcroy, chimico francese:

[19] Non siamo assolutamente in grado di stabilire da chi provenisse la segnalazione.

[20] Loredana Olivato, I provvedimenti della Repubblica… cit.

[21] Alessandro Conti, Storia del restauro… cit.

[22] Alessandro Conti, Storia del restauro… cit., p. 162.

[23] Alessandro Conti, Storia del restauro… cit, p. 163.

[24] Stefano Benassi, L’Accademia Clementina. La funzione pubblica, l’ideologia estetica. Bologna, Nuova Alfa editoriale, 1988, pp. 272-273.

[25] Di Giovanni O’Kelly Edwards, come lo chiama la Merrifield, o Giovanni Edwards O’Kelles o ancora G.E.O., come si firma in alcuni scritti apparsi sulla Gazzetta Privilegiata di Venezia non sappiamo praticamente nulla. Andando a puro buon senso si può pensare che, quando la Merrifield lo incontra, nel 1846, avesse circa settant’anni (il padre era del 1744; supponendo che fosse nato nel 1774, ne avrebbe avuti 72). La Merrifield ci dice che fu (“was”) anch’egli un restauratore, lasciando intendere che non lo era più. Ho trovato indicazioni sulle sue opere attingendo dal Saggio di bibliografia veneziana di Emmanuele Antonio Cicogna, edito nel 1847. Qui viene citato come autore dei seguenti opuscoli:
  • Esame critico intorno a tre pitture recentissime esposte nello scorso anno al pubblico giudizio in Venezia, Picotti, 1832;
  • Confutazione di recente sentenza con cui sembra interdetto ai letterati non artisti il dare ragione delle Belle Arti, Venezia, Tip. Molinari, 1836;
  • Supremo officio di debita e cristiana amicizia che a la onorata anima di Odorico Politi udinese, professore di pittura nel Veneto Istituto di Arti Belle già passata di qua a vita migliore nel dì XVIII ottobre 1846, e propiziata da esequie solenni ne la chiesa di San Silvestro in questo giorno XXI gennaio de l’anno 1847, i veraci suoi conoscitori ed estimatori piamente tributano, Venezia, 1847;
  • Intorno alla lapide Rodia posta nel Seminario Patriarcale di Venezia, opuscoli vari, a. 1834-1835, 1836. “Così s’intitola una Raccolta esistente presso varii, di tutto ciò che uscì allora ad illustrazione di una Lapide Rodiana interessantissima. Gli autori sono: Giovanni Veludo, Giambattista dottor Koen, Giovanni Edwards O’kelles, Alvise Giorgio Jacopo Corner, il dottor Franz ec..”
Davvero poco. A dire il vero, a giudicare dal tipo di titoli di cui stiamo parlando e in particolare da quella Confutazione di sentenza, di cui parleremo dopo, a noi Giovanni sembra autorappresentarsi come letterato erudito che si diletta di cose d’arte.

Ad ogni modo, non c’è alcun cenno al manoscritto sulla Storia dell’Organizzazione civile delle Belle Arti di cui la Merrifield pubblica estratti negli Original Treatises. A nostra risultanza, il manoscritto non è mai stato pubblicato, non sappiamo se perché smarrito o perché non giudicato di interesse. Quello che è chiaro è che la Merrifield dice di averlo consultato ‘in the office of the secretary of the Academy’ e non fra le carte di Pietro Edwards. Il segretario dell’Accademia all’epoca (e ancora per pochi mesi, posto che morì il 1° gennaio 1847) era Antonio Diedo.

Che gli interessi di Giovanni fossero eruditi, ma non limitati al campo dell’arte è provato da una lettera che si trova presso l’Archivio dell’Irish College di Roma. La lettera è datata 27 aprile 1847: ne riportiamo la descrizione archivistica:

“CUL/NC/4/1847/24 Holograph letter from John Edwards O'Kelles, Casa Tagliapietra, Venice to 'My Right Reverend Father.'
 27 April 1847, Eng. 1p.: O'Kelles encloses an article detailing the lineage of the Stewards Family in Italy which he wishes to have translated into English or Irish and published in the 'Catholick [sic] Magazine of London'. O'Kelles apologises for his lack of English as he has spent all his life in Venice.”

La lettera mostra che Edwards era molto probabilmente di origini irlandesi e mirava appunto alla pubblicazione di un saggio sulla storia della dinastia degli Stuart, cacciati dall’Inghilterra nel 1688. [G.M]

[26] Naturalmente non è possibile stabilire cosa successe. Va ricordato comunque che il 1° gennaio del 1847 il segretario dell’Accademia, Antonio Diedo, morì e che al suo posto, dopo qualche mese, fu eletto Pietro Selvatico. Peraltro Selvatico quasi non riuscì a insediarsi, posto che l’anno successivo scoppiarono i moti del 1848. Il cambio di conduzione potrebbe aver inibito Giovanni dall’effettuare la trascrizione; ma può darsi benissimo che Giovanni non abbia voluto mantenere la promessa, o, per quel che ne sappiamo, che sia morto di lì a poco. 

[27] Oggi la Confutazione di recente sentenza è liberamente disponibile su Internet ed ho quindi avuto modo di consultarla. L’indirizzo è:


Posso quindi dire che la Confutazione (di una verbosità insopportabile) non c’entra nulla (almeno direttamente) con la censura operata dall’Accademia nei confronti del manoscritto del 1833. Si tratta della confutazione di un articolo (‘sentenza’) apparso sulla Gazzetta Veneta (ma pare più corretto dire sulla Gazzetta Privilegiata di Venezia) il 16 luglio 1836 in cui ci sosteneva che i letterati non erano in grado di produrre commenti meritevoli di attenzione in merito agli oggetti artistici.

Giovanni era già rimasto invischiato in una polemica consumatasi sulla Gazzetta Privilegiata fra 1834 e 1835 in merito ad una lapide proveniente da Rodi e conservata nel seminario di Santa Maria. Ne dà notizia Giannantonio Moschini ne La Chiesa e il seminario di Santa Maria della salute in Venezia (p. 135), edita nel 1842. Al di là degli aspetti contenutistici ci preme sottolineare che, sulla Gazzetta, Edwards si firmava genericamente G.E.O. Non è escluso quindi che un’analisi più approfondita dei saggi pubblicati su periodici veneti in quegli anni (aspetto che esula totalmente dallo scopo di questo scritto) possa permettere di rinvenire altri scritti di Giovanni Edwards O’Kelles. [G.M.]

[28] Alessandro Conti, Storia del restauro… cit., p. 172.

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