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lunedì 22 maggio 2023

Carlo Cesare Malvasia. Felsina pittrice. Volume 2 Parte prima: Vite di Francesco Francia e Lorenzo Costa

 

English Version

Carlo Cesare Malvasia
Felsina pittrice. Lives of the Bolognese Painters
A Critical Edition and Annotated Translation


Volume Two, Part One
Lives of Francesco Francia and Lorenzo Costa


Critical Edition by Lorenzo Pericolo, Introductory Essay by Alessandra Galizzi Kroegel, Translation and Historical Notes by Alessandra Galizzi Kroegel and Tiffany Racco, with Elizabeth Cropper and Lorenzo Pericolo, Corpus of Illustrations Established by Tiffany Racco and Elise Ferone

The Board of Trustees, National Gallery of Art, Washington, and Brepols Publisher, Turnhout, Belgium, 2021

Recensione di Giovanni Mazzaferro

In copertina, Francesco Francia, Ritratto di Bartolomeo Bianchini, 1493-1945 circa, Londra, The National Gallery

Lo stato dell’arte

Quinto titolo (per complessivi sette tomi) dei sedici progettati nell’ambito dell’edizione critica con traduzione in inglese della Felsina pittrice di Carlo Cesare Malvasia. Qui di seguito riporto la lista dei tomi finora disponibili, tutti recensiti in questo blog:

Probabilmente c’è chi dirà che il mio apprezzamento è legato al fatto di essere bolognese, ma a mio avviso l’edizione critica della Felsina pittrice edita da Cropper e Pericolo con il patrocinio del CASVA (Center for Advanced Study in the Visual Arts) e della National Gallery of Art di Washington è l’operazione editoriale più significativa nell’ambito delle fonti della storia dell’arte degli ultimi anni. Non si tratta solo della ricchezza dei materiali offerti, dalle note a commento all’apparato iconografico, ma della vera e propria riscoperta di una fonte, quella malvasiana, di cui in Italia non esiste un’edizione critica (un fatto vergognoso) e ci si riduce a consultare la versione a stampa del 1841-44, particolarmente scorretta. Ciò che più che conta è che, con argomenti solidi, e la collaborazione di volta in volta di studiosi che si dedicano alla redazione di singoli volumi, Cropper e Pericolo demoliscono l’immagine – una sorta di damnatio memoriae – di Malvasia come falsario e storico poco affidabile e ce la restituiscono come autore di ben altro spessore. Altri, prima di loro – e non annoierò con i nomi – si sono dedicati all’analisi di singoli aspetti della Felsina, giungendo in sostanza agli stessi risultati, ma qui l’operazione è sistematica ed è resa di particolare credibilità grazie all’approccio filologico che indaga le varie versioni del testo malvasiano a noi note e i suoi Scritti originali, ossia la congerie di carte appartenute all’erudito bolognese giunte sino a noi e che costituiscono i materiali preparatori dell’edizione a stampa.

In tutta onestà – lo dico con un pizzico di amarezza – ho idea che l’importanza di quest’operazione non sia stata del tutto colta proprio nel mondo della letteratura artistica, dove l’edizione Cropper – Pericolo non è citata spesso. Basti un dato: nel catalogo nazionale delle biblioteche italiane ne risultano in tutto diciotto (sic) copie. Tenuto conto che il costo dei singoli volumi è proibitivo per i privati, non so, in tutta onestà, quanti abbiano avuto modo di apprezzare questa autentica impresa editoriale. Probabilmente, resi titubanti anche dal lessico certo non amichevole di Malvasia, continuano ad affidarsi pigramente a una tradizione storiografica che considera l’autore con sdegno per la celeberrima vicenda del ‘boccalaio urbinate’ con cui fu definito Raffaello e per i presunti falsi del giurista e storico dell’arte bolognese.

Il presente volume, dedicato a Francesco Francia e a Lorenzo Costa, ossia al ‘protoclassicismo’ emiliano si apre con una prefazione di Elizabeth Cropper che, in tutta onestà, mi preoccupa: qui la curatrice stila un excursus storico del progetto, partito nei primissimi anni Duemila, quando Cropper divenne Dean del CASVA. Ora che la studiosa è andata in pensione pare chiaro che il supporto del CASVA verrà meno: è perfettamente legittimo, sia chiaro, che ogni direttore decida come impiegare i fondi per la ricerca, ma certo è che, sul sito dell’organizzazione, l’edizione critica della Felsina pittrice figura già fra i ‘Past projects’ (https://www.nga.gov/research/casva/research-projects.html) , circostanza di cui non è il caso di rallegrarsi. Cropper assicura che le pubblicazioni proseguiranno, questa volta sotto i soli auspici della National Gallery of Art, «se necessario a un ritmo differente» (p. XXIV), ossia – immagino – più diradato. Speriamo bene.

 

Francesco Francia e la maniera moderna

Per la redazione di queste note mi rifarò essenzialmente al saggio introduttivo di Alessandra Galizzi Kroegel, a cui si deve la maggior parte del lavoro in questo volume, nell’ambito di un gruppo di studio composto da vari protagonisti, per i quali rimando al lungo titolo proposto all’inizio. Concludendo la prima parte della sua Felsina, Malvasia scriveva che fra gli allievi di Marco Zoppo compariva anche «Francesco Francia, per sé solo bastante a rendere immortale il nome di Marco, perché se gloria del maestro è il bravo discepolo, di qual più valente discepolo erasi per l’addietro potuto vantare alcun altro maestro? Chi prima di lui dié credito alla professione e, levando l’arte dalla passata bassezza, si pose ad innalzarla e nobilitarla, sapendosi far riverire da gli uguali, apprezzar da’ grandi, seguir da gli artefici, adorar da tutti? Chi fu che meglio a que’ giorni mostrasse giudicio più fino, invenzione più scelta, disegno più corretto, colorito più bravo? E quel ch’è più di maraviglia, in tempi tanto semplici e puri, in congionture così esauste e ristrette? Non visse egli già (come dipoi Rafaelle) in una Roma, ch’anzi mai vidde. Non ebbe per maestro un Pietro Perugino, ch’anzi gli fu coetaneo e concorrente. Non potette praticare i Giovi, non i Cari, non i Tolomei che l’instruissero, non vedere le perfettissime statue di Belvedere che gl’insegnassero, non la Cappella di Sisto, non il Profeta di Sant’Agostino che lo risvegliassero e l’inanimissero a lasciare le antiche modestie e i rispetti, ad arrischiarsi ne’ scorti, a dar in un terribile e grande. Non praticò egli il frate di San Marco. Non ebbe dinanzi i dipinti del Vinci che l’impastosissero. Da questo grande capo dunque della nostra scuola darò ben degno principio a questa seconda parte, figurandoci averci sin ora serviti que’ della prima (e de’ quali perciò ci siam ragionevolmente ben presto spicciati) per introduzione all’opra più tosto che per considerabile parte integrante della stessa, più per dare un qualche esordio che proporne alcun esempio, più in venerazione dell’antichità che per esemplare di una perfetta eccellenza» (Volume 1, pp. 264 e 266). 

La Parte seconda della Felsina copre un arco temporale che va dagli ultimi decenni del Quattrocento fino alla fine Cinquecento, dal protoclassicismo al manierismo (la terza sarà poi dedicata ai Carracci). In un’ottica molto simile a quella vasariana, l’opera è infatti scandita in epoche; nel caso dell’aretino sono tre, e la terza corrisponde alla ‘maniera moderna’, mentre in quello del bolognese sono quattro e a occuparsi della ‘maniera moderna’ è la seconda, che comincia proprio da Francesco Francia, immediatamente abbinato al Perugino: «Sì come allo spuntar del sole, che co’ dorati raggi il rinascente giorno dipinge, s’ascondono mortificate le stelle, così all’apparire de’ nuovi colori, che per l’industre mani del Francia in Bologna e di Pietro in Perugia l’italico cielo cotanto abbellirono, tacquero vergognosi i più rinomati pennelli» (p. 62). Da notare immediatamente che Francia e Perugino sono accostati fra loro anche nelle Vite di Vasari, per via di una «dolcezza ne’ colori unita che la cominciò ad usare nelle cose sue il Francia bolognese e Pietro Perugino, e che i popoli nel vederla corsero come matti a questa bellezza nuova e più viva, parendo loro assolutamente che e’ non si potesse giamai far meglio» (p. 63). Mentre Vasari, tuttavia, colloca Francia e Perugino al termine della seconda parte delle sue Vite, in cui perlustra la maniera ‘secca’, Malvasia pone Francia come iniziatore della maniera moderna. 

La dipendenza e il confronto di Malvasia nei confronti di Vasari è, in questa parte della Felsina, come già si è visto per i primitivi e per la biografia di Marcantonio Raimondi una costante ineludibile. Il bolognese riconosce all’aretino di essere il punto di riferimento della storiografia artistica, ma al contempo contesta l’impostazione dell’opera. Trascrive integralmente il testo della biografia di Francia (come risultante dalla bolognese edizione Manolessi), ma poi lo sottopone a una serie di osservazioni e a un crescendo di controdeduzioni che demoliscono la credibilità del celebre episodio della morte del Francia in seguito alla visione della Santa Cecilia di Raffaello appena giunta a Bologna. Quella morte, così grottesca nella sua narrazione, ha, in Vasari, un chiaro valore simbolico e rappresenta l’arte ‘non-fiorentina’ che si arrende e cede il passo ai conseguimenti di quella tosco-romana, fra l’altro senza nemmeno lasciare allievi, o lasciandone di troppo intenti a competere su mero livello locale. Per Francia, tutto ciò non è accettabile, tant’è che, sbagliando, ma basandosi su fonti letterarie che sono certe, ne sposta la morte a dopo il 1526, ovvero ben dopo il decesso di Raffaello (1520). Ma torniamo all’inizio e al binomio Francia e Perugino.

 

Francia e Perugino

Sia Vasari sia Malvasia propongono l’abbinamento fra i due artisti. Galizzi Kroegel insiste molto su questo aspetto e ne indaga i motivi. Certamente «abbiamo a che fare con un punto di svolta nell’estetica rinascimentale, vale a dire lo sviluppo di una nuova forma di bellezza la cui eleganza delle forme può ricordarci l’arte classica, mentre la dolce umanità dei personaggi, perfettamente espressa nei loro atteggiamenti e nelle espressioni dei visi anticipano in qualche modo la devozione priva di tempo dell’arte controriformata» (p. 13). Le modalità tramite le quali Perugino e Francia approdarono a questo modo di dipingere sono storicamente fonte di dibattito che l’autrice ricorda ampiamente. In particolare è interessante cercare di capire fino a quanto il loro fu un percorso indipendente o interdipendente. Cert’è che in entrambi si percepiscono influssi fiamminghi nella resa dei paesaggi, schemi compositivi fra loro simili e quella che Vasari chiama la «dolcezza ne’ colori unita», ossia un modo di dipingere che propone un’intima armonia fra i colori. Non è chiaro fino a che punto Vasari e Malvasia (che sostanzialmente la pensano allo stesso modo) attribuiscano questo nuovo cromatismo all’adozione e alla pratica da parte dei due artisti della tecnica della pittura a olio; sicuramente fu proprio questa tecnica a permettere a entrambi di approdare a nuovi schemi coloristici e a un nuovo naturalismo. Se Vasari parla di «dolcezza ne’ colori unita», Malvasia usa gli aggettivi «pastoso e moderno» per definire il dipingere del Francia (p. 24) e, ancora, di «pastosità del colorito» (ivi). I due storici leggono dunque in maniera comune lo stile del Francia; del resto una della caratteristiche della biografia vasariana sono gli elogi che lo scrittore profonde nei riguardi dell’artista bolognese. L’esperienza e la fortuna dell’orafo e pittore, tuttavia, sono percepite come del tutto effimere e transitorie. È vero sì che ai committenti di Francia (e del Perugino) pareva di essere di fronte a una bellezza mai vista e impareggiabile, ma è altrettanto vero che, ben presto, sarebbe sopraggiunto Raffaello a ristabilire una gerarchia ben precisa e a determinare la sfortuna dei suoi più anziani colleghi. In questo senso, come detto, la morte del Francia è piena di una carica simbolica a cui Vasari abilmente conferisce pathos in una sorta di crescendo rossiniano che culmina col decesso del Francia (anzi, a essere precisi, col ‘doppio decesso’, nel senso che l’artista prima muore vedendo il quadro nel suo studio e poi ri-muore dopo essersi assicurato che fosse collocato in San Giovanni in Monte). Tutto questo per Malvasia non è accettabile, non solo su un piano campanilistico, ma proprio in termini di metodo. [1]

Francesco Francia, Pala Bentivoglio, 1498-1499, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Francesco_Francia_-_Adoration_of_the_Child_-_WGA08169.jpg

Un diverso modo di concepire la storia

Si torna a quanto Elizabeth Cropper aveva avuto modo di sostenere nel suo saggio introduttivo al primo volume della Felsina, quello sui primitivi (o ‘primi lumi’). Vasari e Malvasia concepiscono la storia in maniera diversa. Per l’aretino essa procede per fratture, prima e dopo dei quali tutto cambia e tutto è diverso; l’arte muore e arriva Cimabue a farla resuscitare; Francia e Perugino sono reputati (e si reputano) i nuovi ‘portacolori’ di un canone di bellezza che viene dimenticato dopo pochi decenni con l’arrivo di Raffaello. Per Malvasia la storia è tradizione; tutto ciò che succede oggi è il portato di tutto quello che è capitato prima a cui si aggiunge qualcosa di nuovo. Non ci sono fratture; c’è sviluppo. Galizzi Kroegel segnala almeno due aspetti che calzano a pennello in proposito nella narrazione di Mavasia relativa all’artista bolognese. Il primo è la bellezza delle sue Madonne, unanimemente riconosciuta tale per la devozione che riescono a suscitare nel pubblico, «non reputandosi contento quel signore, né compito quel prelato, che a possedere la Madonna di mano del Francia da Bologna non giongesse» (p. 84). Sono, di fatto, le stesse parole che Francia aveva usato per le Madonne di Lippo di Dalmasio («non riputandosi uom di garbo e compito chi la Madonna del Dalmasio a possedere non fosse gionto» (p. 25)), aggiungendo le lodi di Guido Reni proprio sulle sue immagini sacre. La tradizione mariana nella letteratura artistica bolognese è ben nota, e coinvolse ad esempio anche Francesco Cavazzoni e il suo Corona di Grazie (1608), noto a Malvasia. Ma quello che conta qui è la staffetta Lippo, Francia, Reni; la storia che evolve, ma mantiene inalterata la capacità degli artisti di esprimere aspetti devozionali conoscendo intimamente le opere di chi è venuto prima di loro.

Altro esempio paradigmatico è riferito alla capacità di Francesco Francia di dipingere il corpo umano secondo proporzioni perfette. Alla fine della Parte prima, Malvasia aveva evidenziato come Francia non avesse avuto modo di ‘studiare dall’antico’, ovvero non avesse avuto la possibilità di (o non avesse voluto) andare a Roma e studiare quelle statue che proprio in quegli anni venivano riscoperte con eccezionale clamore (il ritrovamento del Laocoonte è del 1506). Eppure il bolognese fu in grado di dipingere un San Sebastiano (andato perduto) che divenne esempio di studio per tutti gli artisti bolognesi seguenti per la perfezione delle proporzioni del corpo umano: «Fece del 1522 [n.d.r. il che dimostra che l’opera non era di Francesco] un San Sebastiano legato con le mani sopra il capo ad un tronco, di così fine e giuste proporzioni, bravo disegno, vivace colorito e graziosa movenza che il più meraviglioso in alcun altro tempo mai fu veduto. Egli, a guisa di quell’antica figura del Policleto dal quale gli artefici, come da sola e necessaria legge, solean prendere le misure delle membra e delle fattezze umane, ed in luogo della quale a’ giorni nostri vediam succeduta la perfetta statua dell’Antinoo in Roma, servì sempre di norma e d’esemplare a’ più degni maestri, non in altro che su quel torso studiando l’abbate Primaticcio, il suo Nicolò, il Tibaldi, il Sabbatino, i Procaccini, i Passerotti e simili altri non solo, ma gli stessi Caracci che più volte il disegnarono, e ad osservarlo e studiarvi sopra mandarono sempre i suoi scolari» (pp. 80-82). Ancora una volta, sviluppo contro frattura. L’assunto è comunque chiaro: Francia fu in grado di stabilire un canone di bellezza che fu di esempio ai suoi successori indipendentemente dallo studio delle statue greche e romane. Molto interessante quanto scrive Galizzi Kroegel in proposito, sulla base di altri 'San Sebastiano' sicuramente di mano di Francesco: «il San Sebastiano di Francia, che era un’immagine dipinta originata unicamente dall’osservazioni delle carni del corpo umano [n.d.r. e non della muscolatura] non veicolava quel carattere duro, intrinseco alle sculture antiche, qualcosa che Malvasia riteneva fosse pericolosamente contagioso tra coloro che studiavano troppo intensamente le antichità, compresi Raffaello e Michelangelo. Malvasia chiamò questo carattere duro fare statuino, un magnifico neologismo che coniò per descrivere come Ludovico Carracci non fosse rimasto per nulla impressionato dall’arte che aveva visto durante il suo solo viaggio a Roma» (pp. 26-27).

 

Errori e manipolazioni

Malvasia, insomma, non può sopportare le affermazioni di Vasari sulla morte del Francia e subito dopo la trascrizione della biografia dell’aretino comincia una lunga arringa che non posso riportare qui, per motivi di brevità, ma che – credetemi – è stupenda nell’incalzare di una serie di domande retoriche che evidenziano tutte le contraddizioni dell’aretino. Cropper ha messo giustamente in evidenza che qui Carlo Cesare fa uso della sua formazione forense; sembra quasi di assistere a un interrogatorio in tribunale in cui, inevitabilmente, Perry Mason finisce per smascherare il colpevole (e anche Vasari, se vivo, avrebbe confessato). Completano l’ ‘istruttoria’ una lettera inviata da Raffaello all’artista bolognese il 5 settembre 1508 e il sonetto composto dal Francia in onore del Sanzio sull’autenticità dei quali molto si è dubitato da inizio Ottocento in poi. John Shearman, ad esempio, nel suo monumentale regesto sui documenti che citano Raffaello entro il 1602, ritiene che la lettera sia un falso. Ne parlerò più avanti. Mi pare piuttosto interessante chiedersi se, nel sostenere le sue tesi, Francia non commetta errori o non manipoli i documenti. La risposta è, senza dubbio, positiva. L’errore principale è quello di prolungare la vita di Francesco Francia almeno sino al 1526; eppure si tratta di un errore scusabile. Malvasia vi fu indotto (oltre che dal desiderio di dimostrare le sue tesi) dal leggere nella cronaca dell’«esatto» Antonio Masini [2] che la pala nella cappella Felicini in san Francesco (da non confondere con la cosiddetta Pala Felicini, di Francesco) fosse stata completata nel 1526. Era vero, ma l’opera era di mano dei figli Giacomo e Giulio, e non di Francesco, come si riteneva allora. 


Giacomo e Giulio Francia, Madonna con il Bambino e san Giovannino fra i santi Sebastiano, Bernardino, Francesco e Giorgio, 1526, Bologna, Pinacoteca Nazionale (già in Cappella Felicini a S. Francesco)
Fonte: https://www.pinacotecabologna.beniculturali.it/it/content_page/item/406-madonna-con-il-bambino-e-san-giovannino-fra-i-santi-sebastiano-bernardino-francesco-e-giorgio



Francesco Francia, Madonna col Bambino coi santi Giovanni Battista, Monica, Agostino, Francesco, Procolo e Sebastiano (Pala Felicini), 1490 circa, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: https://www.pinacotecabologna.beniculturali.it/it/content_page/item/296-madonna-col-bambino-in-trono-i-santi-agostino-francesco-procolo-monica-giovanni-battista-sebastiano-il-donatore-felicini-e-un-angelo-musicante-br-pala-felicini

Non sappiamo invece come lo storico bolognese datò il crocefisso nella chiesa di Santo Stefano al 1520, ma probabilmente doveva esservi un cartellino riportante una data sbagliata. Allo stesso modo è evidente che Malvasia citò il San Sebastiano di cui s’è detto poc’anzi come eseguito nel 1522 in perfetta buona fede, non si sa se sbagliando data o autore. Più grave mi pare, semmai, che Malvasia sostenga che «campò molti anni dopo, e così vecchio e cadente mutò maniera, e s’avanzò tanto nell’arte che, se fosse stato così coetaneo di Rafaelle come gli fu di tanto avanti […] ardirò di dire che l’uguagliava». Aldilà dell’iperbole, a me pare che lo storico bolognese non sia convincente nel delineare il nuovo stile di cui parla, rifugiandosi ancora «nella pastosità del colorito e nella tenerezza dell’opre», ossia in elementi già evidenziati in precedenza.

Oltre agli errori ci sono le manipolazioni. Una si trova proprio all’inizio della biografia. Malvasia comincia a citare Vasari (dal proemio alla parte terza delle Vite) dicendo che non seppe negare che «per essi levossi via quella certa maniera secca, cruda e tagliente». Qui sembra che si stia parlando del Francia e di Perugino; invece no. In realtà Vasari aveva fatto riferimento alle statue antiche che «furono cagione di levar via una certa maniera secca, cruda e tagliente» (p. 80). Un dettaglio non da poco, come si vede, che si giustifica con il voler inserire i due artisti nella maniera ‘moderna’ e non far loro concludere quella ‘secca’, come fece Vasari. Negli Scritti originali, ossia nei materiali preparatori, troviamo poi una frase che lo storico bolognese prima scrisse e poi decise evidentemente di cassare perché si rese conto che avrebbe minato alcune sue tesi. Malvasia testimoniava, infatti, di essere in possesso di alcune lettere scambiate tra il Francia e il Raffaello e, in particolare di una in cui il bolognese «invidiavagli lo studio de’ rilievi e delle statue, delle quali la sua patria andare scarsa si doleva» (p. 177). Un’affermazione che avrebbe fortemente indebolito le lodi attribuite al Francia per aver stabilito un canone di bellezza suo, indipendente dalle antichità romane e, soprattutto, lontano dal ‘fare statuino’, come abbiamo visto. Esiste, insomma, una serie di omissioni o di manipolazioni con le quali Carlo Cesare cerca di rendere più convincenti le sue tesi e, me lo si lasci dire, per i tempi è del tutto normale. Lo era sicuramente anche per Vasari più di un secolo prima, e Galizzi Kroegel non manca di sottolineare la circostanza; ad esempio quando il toscano riporta una salace battuta di Michelangelo sui figli di Francia, Malvasia annota che l’aveva copiata da Condivi, il quale a sua volta aveva avuto un precedente nei Saturnalia di Macrobio. Si tratta di un’osservazione estremamente importante, da un punto di vista metodologico, che mostra l’acutezza del lavoro malvasiano: rivela «lo stesso approccio illuminato a un dato testo, vale a dire la comprensione, o almeno l’intuizione, che scrivere di storia dell’arte porta a seguire proprie strategie narrative, impiegando canoni e topoi che spesso risalgono all’antichità. In un certo modo, l’approccio disincantato di Malvasia ai testi di Vasari e Condivi, il suo sospetto che alcuni episodi di morte di artisti nelle Vite possano aver seguito determinati modelli e la sua capacità di comprendere che lo scherzo attribuito a Michelangelo apparteneva a una tradizione consolidata secondo la quale l’arguzia di un artista ne testimonia la sua acutezza di spirito e sicurezza sociale, lo rendono, in nuce, un precursore della moderna storiografia» (p. 29).

 

Le accuse di falsificazione

Le tesi di Malvasia sulla falsità delle circostanze della morte di Francesco Francia furono, in sostanza, accolte da tutti (anzi, addirittura Lomazzo le aveva anticipate, scrivendo già, ai suoi tempi, che non erano veritiere). Nessuno mise in discussione il fatto che l’artista morisse nel 1526; nessuno obiettò sulla lettera indirizzata da Raffaello a Francia, da cui risultava che i due si conoscevano già nel 1508 e si erano scambiati disegni e ritratti, né sull’autenticità del sonetto composto da Francia ad elogio dell’urbinate. Del resto, l’attenzione sull’opera malvasiana fu subito concentrata sul famoso epiteto di ‘boccalaio urbinate’ con cui Malvasia definiva Raffaello. Più in generale si scontravano due impostazioni diverse: da un lato la narrativa del classicismo tosco-romano (che vide all’epoca i suoi portavoce in Baldinucci e Bellori) e dall’altra quella bolognese. Chi vinse è ben noto e rimando alle note scritte in proposito a commento del primo volume dell’edizione critica Cropper – Pericolo. Fu solo nel primo Ottocento, che il culto del ‘divin Raffaello’ portò a considerare con scetticismo tutti i documenti potenzialmente ‘disturbanti’. Malvasia divenne ‘l’anti-Raffaello’ per eccellenza, e tutti i documenti che aveva prodotto nella Felsina furono ritenuti di dubbia provenienza. Lorenzo Pericolo, nelle sue note all’edizione critica di questo volume non manca di commentare la situazione con amarezza. Malvasia non fu un falsario. Il fatto che documenti da lui citati non siano più rinvenibili testimonia soltanto che sono andati persi. Sappiamo benissimo, peraltro, che ebbe una sua raccolta di lettere e che svolse un enorme lavoro di raccolta del materiale in preparazione della Felsina. Questo lavoro risulta negli Scritti originali, dove il bolognese scrisse di possedere varie missive scambiate fra Raffaello e Francia. Perché avrebbe dovuto mentire, trattandosi di carte private?. In una, come detto, Francia si doleva di non aver visto Roma; fu cassata nel testo a stampa perché poco funzionale alle tesi malvasiane: ancora una volta, perché avrebbe dovuto scrivere tutto ciò nei suoi appunti se fosse stato un falsario? I documenti relativi a Francia e contenuti negli Scritti originali fanno riferimento a ventinove differenti provenienze d’archivio. Perché proprio la lettera di Raffaello, trascritta – come dice Malvasia – dall’originale in mano a Guidantonio Lambertini dovrebbe essere falsa? Perché non siamo riusciti a definire con chiarezza chi fosse Guidantonio Lambertini? Perché è andata persa? Negli Scritti originali è conservata anche la trascrizione del sonetto di Francia: da un punto di vista filologico è lapalissiano che si tratta di una trascrizione e non di un componimento poetico inventato da Malvasia. Perché dovrebbe essere falso, quando è, in termini linguistici e contenutistici, perfettamente partecipe di un clima letterario tipico degli ambienti bolognesi di quell’epoca? Pericolo conclude, appunto, con amarezza, sostenendo che potrebbe portare qualsiasi argomento a favore dell’autenticità dei testi e non essere ascoltato da chi non vuole ascoltare; da chi, cioè, si ostina a valutare i testi da un’ottica storiografica prettamente raffaellesca senza avere la pazienza di leggersi Malvasia e di approfondirne il metodo di lavoro. Un altro dei grandi sostenitori dell’erudito bolognese, ossia Charles Dempsey. ha scritto che la questione dell’autenticità della lettera è «la pietra miliare dell’intera impalcatura, fatta di pure ipotesi, su Malvasia come falsario» (p. 34). È proprio così, e davvero non si capisce perché parte della critica continui a reputarlo tale negandogli meriti che furono grandi.

 

Gli allievi di Francia.

Con la morte improvvisa di Francia davanti alla Santa Cecilia, Vasari chiude la stagione del protoclassicismo emiliano (o 'lombardo', secondo i parametri dell’epoca). Ancora una volta Malvasia, il Malvasia che non può accettare la visione della storia come frattura, si inalbera e lo accusa di aver volontariamente trascurato tutti i suoi discepoli, contemporaneamente addebitando alla storiografia bolognese la grande colpa di non averne lasciato traccia. Ecco perché indugia con particolare attenzione sulla storia della scuola del Francia, avvalendosi, fra le altre cose, dei registri di lavoro dell’artista bolognese, in cui erano registrati i nomi dei discepoli che frequentavano la sua bottega, con date di arrivo e di partenza. Le ‘vacchette’ (questo il nome tecnico di tali documenti) appartenevano, a tale data, a un certo Raimondi e anch’esse sono andate perse, ma nessuno si è mai sognato di metterne in dubbio affidabilità e autenticità. Risulta dalle ‘vacchette’, ad esempio, che Timoteo Viti fu discepolo del Francia dal 2 settembre 1491 al 4 aprile 1495. Intendiamoci: anche qui Malvasia commette errori, il più evidente dei quali è considerare Giacomo e Giulio Francia cugini e non fratelli. Ma, a ben vedere, ancora una volta, si tratta di errori perfettamente logici, tenuto conto dei documenti a disposizione e della letteratura artistica precedente. Giacomo e Giulio, nonché Giovan Battista Francia, ma anche Timoteo Viti, Giovan Maria Chiodarolo e Lorenzo Costa: sono questi i nomi che Malvasia estrapola come principali allievi di Francesco, con la chiara consapevolezza che fu Lorenzo Costa a prevalere sugli altri, ma idee ben confuse sul suo catalogo, come del resto era nelle stesse Vite del Vasari. 

Lorenzo Costa, Santa Cecilia distribuisce l'elemosina ai poveri, 1505-1506, Bologna, Oratorio di Santa Cecilia
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Lorenzo_Costa_-_Legend_of_Sts_Cecilia_and_Valerian,_Scene_9_-_WGA05426.jpg


I limiti di Malvasia, con occhi odierni, sono dunque evidenti, ma diventano comprensibili se ci si cala nel contesto dell’epoca. Da sottolineare, piuttosto, che di Giovanni Battista Francia (anche in questo caso la parentela con Francesco è sbagliata), Carlo Cesare evidenziò la partecipazione alla vita associativa artistica con la sua richiesta (attorno al 1575) di separare la categoria dei pittori da «selari, guainari e spatari» (p. 96), all’epoca riuniti nella ‘Compagnia delle Quattro Arti’ e l’adesione alla Compagnia dei Bombasari, assai più antica e prestigiosa. A fine secolo sarebbe poi stato Ludovico Carracci a ottenere la separazione dai Bombasari e la creazione della Compagnia dei pittori (1602). Tramite Giovan Battista, insomma, Malvasia costruisce, un altro ponte, l’ennesimo, fra Francia e l’età dei Carracci, nel segno di quello sviluppo nella continuità che resta la cifra metodologica più alta del suo metodo storiografico.

 

NOTE

[1] Non penso di poter condividere le affermazioni di Galizzi Kroegel quando, pur sempre in via dubitativa, è portata ad accogliere l'ipotesi di Charles Hope secondo il quale le Vite (torrentiniane) sarebbero state scritte da autori diversi e non dal solo Vasari; a supporto di tale ipotesi starebbe la discrasia fra gli elogi e il livello di dettaglio della biografia del Francia da un lato e la sua morte 'incoerente' rispetto al resto della narrazione dall'altro (p. 8).

[2] Antonio Masini, Bologna perlustrata, 1650.

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