Carlo Cesare Malvasia
Felsina pittrice. Lives of the Bolognese Painters
A Critical Edition and Annotated Translation
Volume Two, Part One
Lives of Francesco Francia and Lorenzo Costa
Critical Edition by Lorenzo Pericolo, Introductory Essay by Alessandra Galizzi Kroegel, Translation and Historical Notes by Alessandra Galizzi Kroegel and Tiffany Racco, with Elizabeth Cropper and Lorenzo Pericolo, Corpus of Illustrations Established by Tiffany Racco and Elise Ferone
The Board of Trustees, National Gallery of Art, Washington, and Brepols Publisher, Turnhout, Belgium, 2021
Recensione di Giovanni Mazzaferro
In copertina, Francesco Francia, Ritratto di Bartolomeo Bianchini, 1493-1945 circa, Londra, The National Gallery |
Lo stato dell’arte
Quinto titolo (per complessivi sette tomi) dei sedici
progettati nell’ambito dell’edizione critica con traduzione in inglese della Felsina
pittrice di Carlo Cesare Malvasia. Qui di seguito riporto la lista dei tomi
finora disponibili, tutti recensiti in questo blog:
- Volume I: Early Bolognese Painting (2012);
- Volume 2 Part One: Lives of Francesco Francia and Lorenzo Costa (2021);
- Volume 2 Part Two: Life of Marcantonio Raimondi and Critical Catalogue of Prints by or after Bolognese Masters [due tomi] (2017);
- Volume 9: Life of Guido Reni [due tomi] (2019);
- Volume 13: Lives of Domenichino and Francesco Gessi (2013).
Probabilmente c’è chi dirà che il mio apprezzamento è legato
al fatto di essere bolognese, ma a mio avviso l’edizione critica della Felsina
pittrice edita da Cropper e Pericolo con il patrocinio del CASVA (Center
for Advanced Study in the Visual Arts) e della National Gallery of Art di
Washington è l’operazione editoriale più significativa nell’ambito delle fonti
della storia dell’arte degli ultimi anni. Non si tratta solo della ricchezza
dei materiali offerti, dalle note a commento all’apparato iconografico, ma
della vera e propria riscoperta di una fonte, quella malvasiana, di cui in
Italia non esiste un’edizione critica (un fatto vergognoso) e ci si riduce a
consultare la versione a stampa del 1841-44, particolarmente scorretta. Ciò che
più che conta è che, con argomenti solidi, e la collaborazione di volta in
volta di studiosi che si dedicano alla redazione di singoli volumi, Cropper e
Pericolo demoliscono l’immagine – una sorta di damnatio memoriae – di
Malvasia come falsario e storico poco affidabile e ce la restituiscono come autore
di ben altro spessore. Altri, prima di loro – e non annoierò con i nomi – si
sono dedicati all’analisi di singoli aspetti della Felsina, giungendo in
sostanza agli stessi risultati, ma qui l’operazione è sistematica ed è resa di
particolare credibilità grazie all’approccio filologico che indaga le varie
versioni del testo malvasiano a noi note e i suoi Scritti originali,
ossia la congerie di carte appartenute all’erudito bolognese giunte sino a noi e
che costituiscono i materiali preparatori dell’edizione a stampa.
In tutta onestà – lo dico con un pizzico di amarezza – ho
idea che l’importanza di quest’operazione non sia stata del tutto colta proprio
nel mondo della letteratura artistica, dove l’edizione Cropper – Pericolo non è
citata spesso. Basti un dato: nel catalogo nazionale delle biblioteche italiane
ne risultano in tutto diciotto (sic) copie. Tenuto conto che il costo dei
singoli volumi è proibitivo per i privati, non so, in tutta onestà, quanti
abbiano avuto modo di apprezzare questa autentica impresa editoriale. Probabilmente,
resi titubanti anche dal lessico certo non amichevole di Malvasia, continuano
ad affidarsi pigramente a una tradizione storiografica che considera l’autore
con sdegno per la celeberrima vicenda del ‘boccalaio urbinate’ con cui fu
definito Raffaello e per i presunti falsi del giurista e storico dell’arte
bolognese.
Il presente volume, dedicato a Francesco Francia e a Lorenzo
Costa, ossia al ‘protoclassicismo’ emiliano si apre con una prefazione di
Elizabeth Cropper che, in tutta onestà, mi preoccupa: qui la curatrice stila un
excursus storico del progetto, partito nei primissimi anni Duemila, quando
Cropper divenne Dean del CASVA. Ora che la studiosa è andata in pensione pare
chiaro che il supporto del CASVA verrà meno: è perfettamente legittimo, sia
chiaro, che ogni direttore decida come impiegare i fondi per la ricerca, ma certo
è che, sul sito dell’organizzazione, l’edizione critica della Felsina
pittrice figura già fra i ‘Past projects’ (https://www.nga.gov/research/casva/research-projects.html)
, circostanza di cui non è il caso di rallegrarsi. Cropper assicura che le
pubblicazioni proseguiranno, questa volta sotto i soli auspici della National
Gallery of Art, «se necessario a un ritmo differente» (p. XXIV), ossia – immagino
– più diradato. Speriamo bene.
Francesco Francia e la maniera moderna
Per la redazione di queste note mi rifarò essenzialmente al saggio introduttivo di Alessandra Galizzi Kroegel, a cui si deve la maggior parte del lavoro in questo volume, nell’ambito di un gruppo di studio composto da vari protagonisti, per i quali rimando al lungo titolo proposto all’inizio. Concludendo la prima parte della sua Felsina, Malvasia scriveva che fra gli allievi di Marco Zoppo compariva anche «Francesco Francia, per sé solo bastante a rendere immortale il nome di Marco, perché se gloria del maestro è il bravo discepolo, di qual più valente discepolo erasi per l’addietro potuto vantare alcun altro maestro? Chi prima di lui dié credito alla professione e, levando l’arte dalla passata bassezza, si pose ad innalzarla e nobilitarla, sapendosi far riverire da gli uguali, apprezzar da’ grandi, seguir da gli artefici, adorar da tutti? Chi fu che meglio a que’ giorni mostrasse giudicio più fino, invenzione più scelta, disegno più corretto, colorito più bravo? E quel ch’è più di maraviglia, in tempi tanto semplici e puri, in congionture così esauste e ristrette? Non visse egli già (come dipoi Rafaelle) in una Roma, ch’anzi mai vidde. Non ebbe per maestro un Pietro Perugino, ch’anzi gli fu coetaneo e concorrente. Non potette praticare i Giovi, non i Cari, non i Tolomei che l’instruissero, non vedere le perfettissime statue di Belvedere che gl’insegnassero, non la Cappella di Sisto, non il Profeta di Sant’Agostino che lo risvegliassero e l’inanimissero a lasciare le antiche modestie e i rispetti, ad arrischiarsi ne’ scorti, a dar in un terribile e grande. Non praticò egli il frate di San Marco. Non ebbe dinanzi i dipinti del Vinci che l’impastosissero. Da questo grande capo dunque della nostra scuola darò ben degno principio a questa seconda parte, figurandoci averci sin ora serviti que’ della prima (e de’ quali perciò ci siam ragionevolmente ben presto spicciati) per introduzione all’opra più tosto che per considerabile parte integrante della stessa, più per dare un qualche esordio che proporne alcun esempio, più in venerazione dell’antichità che per esemplare di una perfetta eccellenza» (Volume 1, pp. 264 e 266).
La Parte seconda della Felsina copre un arco temporale che va dagli ultimi decenni del Quattrocento fino alla fine Cinquecento, dal protoclassicismo al manierismo (la terza sarà poi dedicata ai Carracci). In un’ottica molto simile a quella vasariana, l’opera è infatti scandita in epoche; nel caso dell’aretino sono tre, e la terza corrisponde alla ‘maniera moderna’, mentre in quello del bolognese sono quattro e a occuparsi della ‘maniera moderna’ è la seconda, che comincia proprio da Francesco Francia, immediatamente abbinato al Perugino: «Sì come allo spuntar del sole, che co’ dorati raggi il rinascente giorno dipinge, s’ascondono mortificate le stelle, così all’apparire de’ nuovi colori, che per l’industre mani del Francia in Bologna e di Pietro in Perugia l’italico cielo cotanto abbellirono, tacquero vergognosi i più rinomati pennelli» (p. 62). Da notare immediatamente che Francia e Perugino sono accostati fra loro anche nelle Vite di Vasari, per via di una «dolcezza ne’ colori unita che la cominciò ad usare nelle cose sue il Francia bolognese e Pietro Perugino, e che i popoli nel vederla corsero come matti a questa bellezza nuova e più viva, parendo loro assolutamente che e’ non si potesse giamai far meglio» (p. 63). Mentre Vasari, tuttavia, colloca Francia e Perugino al termine della seconda parte delle sue Vite, in cui perlustra la maniera ‘secca’, Malvasia pone Francia come iniziatore della maniera moderna.
La dipendenza e il confronto di
Malvasia nei confronti di Vasari è, in questa parte della Felsina, come
già si è visto per i
primitivi e per la
biografia di Marcantonio Raimondi una costante ineludibile. Il
bolognese riconosce all’aretino di essere il punto di riferimento della
storiografia artistica, ma al contempo contesta l’impostazione dell’opera. Trascrive
integralmente il testo della biografia di Francia (come risultante dalla
bolognese edizione Manolessi), ma poi lo sottopone a una serie di osservazioni
e a un crescendo di controdeduzioni che demoliscono la credibilità del celebre
episodio della morte del Francia in seguito alla visione della Santa Cecilia
di Raffaello appena giunta a Bologna. Quella morte, così grottesca nella sua
narrazione, ha, in Vasari, un chiaro valore simbolico e rappresenta l’arte
‘non-fiorentina’ che si arrende e cede il passo ai conseguimenti di quella
tosco-romana, fra l’altro senza nemmeno lasciare allievi, o lasciandone di
troppo intenti a competere su mero livello locale. Per Francia, tutto ciò non è
accettabile, tant’è che, sbagliando, ma basandosi su fonti letterarie che sono
certe, ne sposta la morte a dopo il 1526, ovvero ben dopo il decesso di
Raffaello (1520). Ma torniamo all’inizio e al binomio Francia e Perugino.
Francia e Perugino
Sia Vasari sia Malvasia propongono l’abbinamento fra i due artisti.
Galizzi Kroegel insiste molto su questo aspetto e ne indaga i motivi.
Certamente «abbiamo a che fare con un punto di svolta nell’estetica
rinascimentale, vale a dire lo sviluppo di una nuova forma di bellezza la cui
eleganza delle forme può ricordarci l’arte classica, mentre la dolce umanità
dei personaggi, perfettamente espressa nei loro atteggiamenti e nelle
espressioni dei visi anticipano in qualche modo la devozione priva di tempo
dell’arte controriformata» (p. 13). Le modalità tramite le quali Perugino e
Francia approdarono a questo modo di dipingere sono storicamente fonte di dibattito
che l’autrice ricorda ampiamente. In particolare è interessante cercare di
capire fino a quanto il loro fu un percorso indipendente o interdipendente.
Cert’è che in entrambi si percepiscono influssi fiamminghi nella resa dei
paesaggi, schemi compositivi fra loro simili e quella che Vasari chiama la
«dolcezza ne’ colori unita», ossia un modo di dipingere che propone un’intima
armonia fra i colori. Non è chiaro fino a che punto Vasari e Malvasia (che
sostanzialmente la pensano allo stesso modo) attribuiscano questo nuovo
cromatismo all’adozione e alla pratica da parte dei due artisti della tecnica
della pittura a olio; sicuramente fu proprio questa tecnica a permettere a
entrambi di approdare a nuovi schemi coloristici e a un nuovo naturalismo.
Se Vasari parla di «dolcezza ne’ colori unita», Malvasia usa gli aggettivi
«pastoso e moderno» per definire il dipingere del Francia (p. 24) e, ancora, di
«pastosità del colorito» (ivi). I due storici leggono dunque in maniera comune lo
stile del Francia; del resto una della caratteristiche della biografia
vasariana sono gli elogi che lo scrittore profonde nei riguardi dell’artista
bolognese. L’esperienza e la fortuna dell’orafo e pittore, tuttavia, sono
percepite come del tutto effimere e transitorie. È vero sì che ai committenti
di Francia (e del Perugino) pareva di essere di fronte a una bellezza mai vista
e impareggiabile, ma è altrettanto vero che, ben presto, sarebbe sopraggiunto Raffaello a ristabilire una gerarchia ben precisa e a determinare la sfortuna
dei suoi più anziani colleghi. In questo senso, come detto, la morte del
Francia è piena di una carica simbolica a cui Vasari abilmente conferisce
pathos in una sorta di crescendo rossiniano che culmina col decesso del Francia
(anzi, a essere precisi, col ‘doppio decesso’, nel senso che l’artista prima
muore vedendo il quadro nel suo studio e poi ri-muore dopo essersi assicurato
che fosse collocato in San Giovanni in Monte). Tutto questo per Malvasia non è
accettabile, non solo su un piano campanilistico, ma proprio in termini di
metodo. [1]
Francesco Francia, Pala Bentivoglio, 1498-1499, Bologna, Pinacoteca Nazionale Fonte: https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Francesco_Francia_-_Adoration_of_the_Child_-_WGA08169.jpg |
Un diverso modo di concepire la storia
Si torna a quanto Elizabeth Cropper aveva avuto modo di sostenere nel suo
saggio introduttivo al primo volume della Felsina, quello
sui primitivi (o ‘primi lumi’). Vasari e Malvasia concepiscono la storia in
maniera diversa. Per l’aretino essa procede per fratture, prima e dopo dei quali
tutto cambia e tutto è diverso; l’arte muore e arriva Cimabue a farla
resuscitare; Francia e Perugino sono reputati (e si reputano) i nuovi
‘portacolori’ di un canone di bellezza che viene dimenticato dopo pochi decenni
con l’arrivo di Raffaello. Per Malvasia la storia è tradizione; tutto ciò che
succede oggi è il portato di tutto quello che è capitato prima a cui si
aggiunge qualcosa di nuovo. Non ci sono fratture; c’è sviluppo. Galizzi
Kroegel segnala almeno due aspetti che calzano a pennello in proposito nella
narrazione di Mavasia relativa all’artista bolognese. Il primo è la bellezza
delle sue Madonne, unanimemente riconosciuta tale per la devozione che riescono
a suscitare nel pubblico, «non reputandosi contento quel signore, né compito quel
prelato, che a possedere la Madonna di mano del Francia da Bologna non
giongesse»
(p. 84). Sono, di fatto, le stesse parole che Francia aveva usato per le
Madonne di Lippo di Dalmasio («non riputandosi uom di garbo e compito
chi la Madonna del Dalmasio a possedere non fosse gionto» (p. 25)), aggiungendo le lodi
di Guido Reni proprio sulle sue immagini sacre. La tradizione mariana nella
letteratura artistica bolognese è ben nota, e coinvolse ad esempio anche Francesco
Cavazzoni e il suo Corona
di Grazie (1608), noto a Malvasia. Ma quello che conta qui è la
staffetta Lippo, Francia, Reni; la storia che evolve, ma mantiene inalterata la
capacità degli artisti di esprimere aspetti devozionali conoscendo intimamente
le opere di chi è venuto prima di loro.
Altro esempio paradigmatico è riferito alla capacità di
Francesco Francia di dipingere il corpo umano secondo proporzioni perfette.
Alla fine della Parte prima, Malvasia aveva evidenziato come Francia non avesse
avuto modo di ‘studiare dall’antico’, ovvero non avesse avuto la possibilità di
(o non avesse voluto) andare a Roma e studiare quelle statue che proprio in
quegli anni venivano riscoperte con eccezionale clamore (il ritrovamento del
Laocoonte è del 1506). Eppure il bolognese fu in grado di dipingere un San
Sebastiano (andato perduto) che divenne esempio di studio per tutti gli
artisti bolognesi seguenti per la perfezione delle proporzioni del corpo umano:
«Fece
del 1522 [n.d.r. il che dimostra che l’opera non era di Francesco] un San
Sebastiano legato con le mani sopra il capo ad un tronco, di così fine e giuste
proporzioni, bravo disegno, vivace colorito e graziosa movenza che il più
meraviglioso in alcun altro tempo mai fu veduto. Egli, a guisa di quell’antica
figura del Policleto dal quale gli artefici, come da sola e necessaria legge,
solean prendere le misure delle membra e delle fattezze umane, ed in luogo
della quale a’ giorni nostri vediam succeduta la perfetta statua dell’Antinoo
in Roma, servì sempre di norma e d’esemplare a’ più degni maestri, non in altro
che su quel torso studiando l’abbate Primaticcio, il suo Nicolò, il Tibaldi, il
Sabbatino, i Procaccini, i Passerotti e simili altri non solo, ma gli stessi
Caracci che più volte il disegnarono, e ad osservarlo e studiarvi sopra
mandarono sempre i suoi scolari» (pp. 80-82). Ancora una volta, sviluppo
contro frattura. L’assunto è comunque chiaro: Francia fu in grado di stabilire
un canone di bellezza che fu di esempio ai suoi successori indipendentemente
dallo studio delle statue greche e romane. Molto interessante quanto scrive Galizzi Kroegel in proposito, sulla base di altri 'San Sebastiano' sicuramente di mano di Francesco: «il San Sebastiano di Francia,
che era un’immagine dipinta originata unicamente dall’osservazioni delle carni
del corpo umano [n.d.r. e non della muscolatura] non veicolava quel carattere
duro, intrinseco alle sculture antiche, qualcosa che Malvasia riteneva fosse pericolosamente
contagioso tra coloro che studiavano troppo intensamente le antichità, compresi
Raffaello e Michelangelo. Malvasia chiamò questo carattere duro fare
statuino, un magnifico neologismo che coniò per descrivere come Ludovico
Carracci non fosse rimasto per nulla impressionato dall’arte che aveva visto
durante il suo solo viaggio a Roma» (pp. 26-27).
Errori e manipolazioni
Malvasia, insomma, non può sopportare le affermazioni di Vasari sulla morte del Francia e subito dopo la trascrizione della biografia dell’aretino comincia una lunga arringa che non posso riportare qui, per motivi di brevità, ma che – credetemi – è stupenda nell’incalzare di una serie di domande retoriche che evidenziano tutte le contraddizioni dell’aretino. Cropper ha messo giustamente in evidenza che qui Carlo Cesare fa uso della sua formazione forense; sembra quasi di assistere a un interrogatorio in tribunale in cui, inevitabilmente, Perry Mason finisce per smascherare il colpevole (e anche Vasari, se vivo, avrebbe confessato). Completano l’ ‘istruttoria’ una lettera inviata da Raffaello all’artista bolognese il 5 settembre 1508 e il sonetto composto dal Francia in onore del Sanzio sull’autenticità dei quali molto si è dubitato da inizio Ottocento in poi. John Shearman, ad esempio, nel suo monumentale regesto sui documenti che citano Raffaello entro il 1602, ritiene che la lettera sia un falso. Ne parlerò più avanti. Mi pare piuttosto interessante chiedersi se, nel sostenere le sue tesi, Francia non commetta errori o non manipoli i documenti. La risposta è, senza dubbio, positiva. L’errore principale è quello di prolungare la vita di Francesco Francia almeno sino al 1526; eppure si tratta di un errore scusabile. Malvasia vi fu indotto (oltre che dal desiderio di dimostrare le sue tesi) dal leggere nella cronaca dell’«esatto» Antonio Masini [2] che la pala nella cappella Felicini in san Francesco (da non confondere con la cosiddetta Pala Felicini, di Francesco) fosse stata completata nel 1526. Era vero, ma l’opera era di mano dei figli Giacomo e Giulio, e non di Francesco, come si riteneva allora.
Non sappiamo invece come lo
storico bolognese datò il crocefisso nella chiesa di Santo Stefano al 1520, ma
probabilmente doveva esservi un cartellino riportante una data sbagliata. Allo
stesso modo è evidente che Malvasia citò il San Sebastiano di cui s’è
detto poc’anzi come eseguito nel 1522 in perfetta buona fede, non si sa se
sbagliando data o autore. Più grave mi pare, semmai, che Malvasia sostenga che «campò
molti anni dopo, e così vecchio e cadente mutò maniera, e s’avanzò tanto nell’arte
che, se fosse stato così coetaneo di Rafaelle come gli fu di tanto avanti […]
ardirò di dire che l’uguagliava». Aldilà dell’iperbole, a me pare che lo
storico bolognese non sia convincente nel delineare il nuovo stile di cui parla,
rifugiandosi ancora «nella pastosità del colorito e nella tenerezza dell’opre»,
ossia in elementi già evidenziati in precedenza.
Oltre agli errori ci sono le manipolazioni. Una si trova proprio
all’inizio della biografia. Malvasia comincia a citare Vasari (dal proemio alla
parte terza delle Vite) dicendo che non seppe negare che «per essi
levossi via quella certa maniera secca, cruda e tagliente». Qui sembra che si
stia parlando del Francia e di Perugino; invece no. In realtà Vasari aveva
fatto riferimento alle statue antiche che «furono cagione di levar via una
certa maniera secca, cruda e tagliente» (p. 80). Un dettaglio non da poco, come
si vede, che si giustifica con il voler inserire i due artisti nella maniera
‘moderna’ e non far loro concludere quella ‘secca’, come fece Vasari. Negli Scritti
originali, ossia nei materiali preparatori, troviamo poi una frase che lo
storico bolognese prima scrisse e poi decise evidentemente di cassare perché
si rese conto che avrebbe minato alcune sue tesi. Malvasia testimoniava,
infatti, di essere in possesso di alcune lettere scambiate tra il Francia e il
Raffaello e, in particolare di una in cui il bolognese «invidiavagli lo studio
de’ rilievi e delle statue, delle quali la sua patria andare scarsa si doleva»
(p. 177). Un’affermazione che avrebbe fortemente indebolito le lodi attribuite
al Francia per aver stabilito un canone di bellezza suo, indipendente dalle
antichità romane e, soprattutto, lontano dal ‘fare statuino’, come abbiamo
visto. Esiste, insomma, una serie di omissioni o di manipolazioni con le quali
Carlo Cesare cerca di rendere più convincenti le sue tesi e, me lo si lasci
dire, per i tempi è del tutto normale. Lo era sicuramente anche per Vasari più
di un secolo prima, e Galizzi Kroegel non manca di sottolineare la circostanza; ad esempio quando il toscano riporta una salace battuta di Michelangelo sui figli
di Francia, Malvasia annota che l’aveva copiata da Condivi, il quale a sua
volta aveva avuto un precedente nei Saturnalia di Macrobio. Si tratta di
un’osservazione estremamente importante, da un punto di vista metodologico, che
mostra l’acutezza del lavoro malvasiano: rivela «lo stesso approccio illuminato
a un dato testo, vale a dire la comprensione, o almeno l’intuizione, che scrivere
di storia dell’arte porta a seguire proprie strategie narrative, impiegando
canoni e topoi che spesso risalgono all’antichità. In un certo modo,
l’approccio disincantato di Malvasia ai testi di Vasari e Condivi, il suo
sospetto che alcuni episodi di morte di artisti nelle Vite possano aver
seguito determinati modelli e la sua capacità di comprendere che lo scherzo
attribuito a Michelangelo apparteneva a una tradizione consolidata secondo la
quale l’arguzia di un artista ne testimonia la sua acutezza di spirito e
sicurezza sociale, lo rendono, in nuce, un precursore della moderna
storiografia» (p. 29).
Le accuse di falsificazione
Le tesi di Malvasia sulla falsità delle circostanze della morte di
Francesco Francia furono, in sostanza, accolte da tutti (anzi, addirittura Lomazzo
le aveva anticipate, scrivendo già, ai suoi tempi, che non erano veritiere). Nessuno
mise in discussione il fatto che l’artista morisse nel 1526; nessuno obiettò
sulla lettera indirizzata da Raffaello a Francia, da cui risultava che i due si
conoscevano già nel 1508 e si erano scambiati disegni e ritratti, né
sull’autenticità del sonetto composto da Francia ad elogio dell’urbinate. Del
resto, l’attenzione sull’opera malvasiana fu subito concentrata sul famoso
epiteto di ‘boccalaio urbinate’ con cui Malvasia definiva Raffaello. Più in
generale si scontravano due impostazioni diverse: da un lato la narrativa del
classicismo tosco-romano (che vide all’epoca i suoi portavoce in Baldinucci e Bellori) e
dall’altra quella bolognese. Chi vinse è ben noto e rimando alle
note scritte in proposito a commento del primo volume dell’edizione critica
Cropper – Pericolo. Fu solo nel primo Ottocento, che il culto
del ‘divin Raffaello’ portò a considerare con scetticismo tutti i documenti
potenzialmente ‘disturbanti’. Malvasia divenne ‘l’anti-Raffaello’ per
eccellenza, e tutti i documenti che aveva prodotto nella Felsina furono ritenuti
di dubbia provenienza. Lorenzo Pericolo, nelle sue note all’edizione critica di
questo volume non manca di commentare la situazione con amarezza. Malvasia non
fu un falsario. Il fatto che documenti da lui citati non siano più rinvenibili
testimonia soltanto che sono andati persi. Sappiamo benissimo, peraltro, che
ebbe una sua raccolta di lettere e che svolse un enorme lavoro di raccolta del
materiale in preparazione della Felsina. Questo lavoro risulta negli Scritti
originali, dove il bolognese scrisse di possedere varie missive scambiate fra
Raffaello e Francia. Perché avrebbe dovuto mentire, trattandosi di carte
private?. In una, come detto, Francia si doleva di non aver visto Roma; fu
cassata nel testo a stampa perché poco funzionale alle tesi malvasiane: ancora
una volta, perché avrebbe dovuto scrivere tutto ciò nei suoi appunti se fosse
stato un falsario? I documenti relativi a Francia e contenuti negli Scritti
originali fanno riferimento a ventinove differenti provenienze d’archivio.
Perché proprio la lettera di Raffaello, trascritta – come dice Malvasia –
dall’originale in mano a Guidantonio Lambertini dovrebbe essere falsa? Perché
non siamo riusciti a definire con chiarezza chi fosse Guidantonio Lambertini?
Perché è andata persa? Negli Scritti originali è conservata anche la
trascrizione del sonetto di Francia: da un punto di vista filologico è
lapalissiano che si tratta di una trascrizione e non di un componimento poetico
inventato da Malvasia. Perché dovrebbe essere falso, quando è, in termini
linguistici e contenutistici, perfettamente partecipe di un clima letterario
tipico degli ambienti bolognesi di quell’epoca? Pericolo conclude, appunto, con
amarezza, sostenendo che potrebbe portare qualsiasi argomento a favore
dell’autenticità dei testi e non essere ascoltato da chi non vuole ascoltare;
da chi, cioè, si ostina a valutare i testi da un’ottica storiografica
prettamente raffaellesca senza avere la pazienza di leggersi Malvasia e di
approfondirne il metodo di lavoro. Un altro dei grandi sostenitori dell’erudito
bolognese, ossia Charles Dempsey. ha scritto che la questione dell’autenticità
della lettera è «la pietra miliare dell’intera impalcatura, fatta di pure ipotesi,
su Malvasia come falsario» (p. 34). È proprio così, e davvero non si capisce
perché parte della critica continui a reputarlo tale negandogli meriti che
furono grandi.
Gli allievi di Francia.
Con la morte improvvisa di Francia davanti alla Santa Cecilia, Vasari chiude la stagione del protoclassicismo emiliano (o 'lombardo', secondo i parametri dell’epoca). Ancora una volta Malvasia, il Malvasia che non può accettare la visione della storia come frattura, si inalbera e lo accusa di aver volontariamente trascurato tutti i suoi discepoli, contemporaneamente addebitando alla storiografia bolognese la grande colpa di non averne lasciato traccia. Ecco perché indugia con particolare attenzione sulla storia della scuola del Francia, avvalendosi, fra le altre cose, dei registri di lavoro dell’artista bolognese, in cui erano registrati i nomi dei discepoli che frequentavano la sua bottega, con date di arrivo e di partenza. Le ‘vacchette’ (questo il nome tecnico di tali documenti) appartenevano, a tale data, a un certo Raimondi e anch’esse sono andate perse, ma nessuno si è mai sognato di metterne in dubbio affidabilità e autenticità. Risulta dalle ‘vacchette’, ad esempio, che Timoteo Viti fu discepolo del Francia dal 2 settembre 1491 al 4 aprile 1495. Intendiamoci: anche qui Malvasia commette errori, il più evidente dei quali è considerare Giacomo e Giulio Francia cugini e non fratelli. Ma, a ben vedere, ancora una volta, si tratta di errori perfettamente logici, tenuto conto dei documenti a disposizione e della letteratura artistica precedente. Giacomo e Giulio, nonché Giovan Battista Francia, ma anche Timoteo Viti, Giovan Maria Chiodarolo e Lorenzo Costa: sono questi i nomi che Malvasia estrapola come principali allievi di Francesco, con la chiara consapevolezza che fu Lorenzo Costa a prevalere sugli altri, ma idee ben confuse sul suo catalogo, come del resto era nelle stesse Vite del Vasari.
I limiti di Malvasia,
con occhi odierni, sono dunque evidenti, ma diventano comprensibili se ci si
cala nel contesto dell’epoca. Da sottolineare, piuttosto, che di Giovanni
Battista Francia (anche in questo caso la parentela con Francesco è sbagliata),
Carlo Cesare evidenziò la partecipazione alla vita associativa artistica con la
sua richiesta (attorno al 1575) di separare la categoria dei pittori da «selari, guainari e
spatari» (p. 96), all’epoca riuniti nella ‘Compagnia delle Quattro Arti’ e
l’adesione alla Compagnia dei Bombasari, assai più antica e prestigiosa. A fine
secolo sarebbe poi stato Ludovico Carracci a ottenere la separazione dai
Bombasari e la creazione della Compagnia dei pittori (1602). Tramite Giovan
Battista, insomma, Malvasia costruisce, un altro ponte, l’ennesimo, fra Francia
e l’età dei Carracci, nel segno di quello sviluppo nella continuità che resta
la cifra metodologica più alta del suo metodo storiografico.
NOTE
[1] Non penso di poter condividere le affermazioni di Galizzi Kroegel quando, pur sempre in via dubitativa, è portata ad accogliere l'ipotesi di Charles Hope secondo il quale le Vite (torrentiniane) sarebbero state scritte da autori diversi e non dal solo Vasari; a supporto di tale ipotesi starebbe la discrasia fra gli elogi e il livello di dettaglio della biografia del Francia da un lato e la sua morte 'incoerente' rispetto al resto della narrazione dall'altro (p. 8).
[2] Antonio Masini, Bologna perlustrata, 1650.
Nessun commento:
Posta un commento