Lorenzo Lotto
Lettere
Corrispondenze per il coro intarsiato
A cura di Corrado Benigni e Mauro Zanchi
Roma, Officina Libraria, 2023
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Le lettere alla Congregazione
Le lettere che Lorenzo Lotto (1480-1556 o 1557) scrisse alla
Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo (oggi semplicemente MIA)
sono note dal 1962, quando Luigi Chiodi le stampò per la prima volta nella
collana dei ‘Monumenta Bergomensia’. Si trovano riunite (assieme ad altri
materiali) nel volume segnato MIA 1740 presso la Biblioteca Civica Angelo Mai
del capoluogo orobico. Sei anni dopo, nel 1968, Chiodi ne pubblicò una nuova
versione che presentava anche la riproduzione fotografica delle missive. Nel
1969, poi, fu la volta di Pietro Zampetti che, curando l’edizione del Libro
di spese diverse del pittore veneziano pubblicata dall’ ‘Istituto per la
collaborazione culturale Venezia Roma’, inserì, in fondo al volume, la terza
trascrizione delle missive. In tutte queste occasioni le lettere presentate
erano trentacinque. Nel 1977 ne furono scoperte altre quattro e fu Francesca
Cortesi Bosco a proporre per la prima volta l’intero corpus nel suo Il Coro
intarsiato di Lotto e Capoferri per Santa Maria Maggiore in Bergamo, opera tuttora
di riferimento. Gli scritti di Lotto vanno dal settembre 1524 al 6 marzo 1532 e
coprono l’arco di tempo in cui l’artista si dedicò alla realizzazione dei
disegni colorati destinati a essere intarsiati da Giovan Francesco Capoferri (1497?-1534)
e bottega per il coro di Santa Maria Maggiore. Si trattò di un’operazione
eseguita quasi integralmente a distanza (ed è questo il motivo per cui furono
scritte le lettere), visto che Lorenzo si trasferì a Venezia a partire dal
1525. A essere precisi, ventisette delle trentanove missive sono indirizzate ai
reggenti del Consorzio, otto al notaio Girolamo San Pellegrino, una
rispettivamente al presidente Girolamo Passi, al Moretto, all’organista e
chirurgo Battista Cucchi e all’ingegnere e architetto Pietro Isabello (p. 208).
Finalmente, a quasi quarant’anni di distanza, una nuova
edizione, completa di note a commento, riproduzione delle missive e immagini
delle tarsie dopo il recentissimo restauro promosso dalla MIA. La trascrizione
delle lettere è opera di Corrado Benigni e Marco Carobbio, mentre l’apparato
delle note è di Mauro Zanchi. Il volume è inoltre arricchito da alcuni saggi
che elenco qui di seguito e che contestualizzano le lettere e l’esperienza
bergamasca di Lotto:
- Corrado Benigni, Lorenzo Lotto, il segno della scrittura;
- Antonella Anedda, «No brolo per me fiolo»;
- Franco Cardini, Lorenzo Lotto e il suo tempo;
- Marco Carobbio, In lignaria commisura. Intorno a Giovan Francesco Capoferri;
- Enrico Maria Dal Pozzolo, Lotto a Bergamo;
- Telmo Pievani, Lotto, Copernico e la lanterna del mondo;
- Mauro Zanchi, Lotto tra immagini e lettere.
Lotto e i luoghi comuni
Si scrive ‘Lotto’ e si legge ‘inquietudine’. Si tratta di
un’equivalenza che pervade tutti gli studi dedicati al grande pittore veneto
che, per via di questa inquietudine, ci appare oggi estremamente ‘moderno’ e
conosce una fortuna ininterrotta a partire dagli studi di Bernard Berenson.
Sono assolutamente d’accordo. Tuttavia mi pare il caso di mettere in guardia
dagli eccessi. Per questo motivo questa recensione sarà giocata su aspetti che
definirei prettamente legati al ‘mestiere’ dell’artista e meno alla sua
disposizione psicologica. Sarà per questo poco interessante? Può darsi, ma ci
sono situazioni da cui credo sia ormai necessario rifuggire. In questo senso
non penso di poter essere d’accordo con Corrado Benigni quando, nel suo saggio,
peraltro pregevole, scrive che «nessun pittore prima di lui, e nessuno forse
dopo, ha accettato di misurarsi e di farsi conoscere in modo così diretto e
disarmato, come dimostrano anche i tanti documenti scritti lasciati di sé dal
maestro, preziosissimi per ricostruire la sua attività e imprescindibili punti
di riferimento per la sua biografia e la sua arte». Questi documenti sono - va
ricordato - le lettere di cui discutiamo ora, il Libro di spese diverse
e il testamento (1546). Faccio notare che nessuno di questi documenti è
destinato a essere letto da altri se non i diretti interessati (e quindi non
c’è nessuna ‘accettazione’). Non contengono nessuna forma di
autorappresentazione ed è proprio questo, in un mondo che punta ad affermare la
‘nobiltà della pittura’ attraverso la parola scritta, a renderli straordinari.
«Lorenzo Lotto mi parla con un’immediatezza assai maggiore di quanto accada con
qualsiasi altro artista», scrisse Berenson riferendosi alle sue opere (p. 183);
il discorso riguarda anche i documenti scritti che ci ha lasciati. Benigni sostiene:
«Il Libro di spese diverse non può (…) considerarsi un mero diario della
contabilità legata alla partita del dare e dell’avere del pittore. Anche se
indubbiamente si tratta soprattutto di un registro di conti, condotto con
quella meticolosa precisione che gli è propria, queste pagine, se messe in
relazione con il testamento e con le lettere alla Misericordia Maggiore,
possono essere lette come l’autobiografia, indiretta, di Lorenzo Lotto. Un
documento da interpretare, dunque, che approfondisce e determina l’identità
storica del personaggio: la memoria quotidiana di un artista in declino di
fortuna, di un uomo anziano che registra il mutare del mondo con cui aveva
sempre dialogato» (p. 184). A questo proposito Benigni richiama l’interpretazione
(‘romantica’) data al Libro di
spese diverse da Pietro Zampetti nella sua edizione del 1969. Io, in
tutta onestà, la penso come Francesco
De Carolis che nel 2017 ha avuto il coraggio di considerare il Libro
per ciò che oggettivamente è: un libro contabile che dimostra il pieno
inserimento di Lotto nelle pratiche di un circuito mercantile tipico del mondo
veneziano; che, cioè, lo inserisce in un contesto e non la chiamo fuori dal
‘sistema dell’arte’ come pittore ‘nato sotto Saturno’ o, addirittura, ‘maledetto’.
Benigni va oltre e sostiene che «per Lotto la scrittura è stata molto più di un
semplice strumento di comunicazione funzionale, rivelando piuttosto
un’attenzione particolare nella scelta dei vocaboli, nei registri, nella
costruzione della frase; in una sola parola: nello stile della lingua, che di
riflesso mette in luce i tratti della sua personalità, quel sentimento
d’inquietudine (…) che percorre l’intera sua opera e la sua personalità» (pp.
184-185). È pur vero che «Lotto non può certo definirsi, rispetto ad altri
artisti del Rinascimento, uno scrittore a tutto tondo» (p. 184) [1], ma poi si
legge che nel Libro di spese diverse «il testo, pur nella forma
frammentaria delle annotazioni, si caratterizza per la varietà dei temi, ma
anche per la lingua: il fraseggio è essenziale e molto spesso stringato, ma mai
banale o sciatto; tutto è indicato in maniera millimetrica, al limite della
maniacalità (anche qui rivelatrice della sua personalità), attraverso l’uso di
termini scelti in modo preciso e secondo un ordine ritmico che appare
tutt’altro che casuale («rubon, zupon, cappe, calzon» o, ancora, «berete,
scarpete, strenghe, calzete e zocolj»)» (p. 184). E ancora: «nelle lettere il
suo periodare è più ampio e ricercato; inoltre, a differenza delle annotazioni
del Libro, nella corrispondenza non vi è traccia di ripensamenti,
cancellature e aggiunte [n.d.r. a mio avviso si tratta di ‘messe in bella’ da
minute precedenti], si avverte l’impegno di chiarezza di un testo che, dopo le preliminari
formalità d’uso, assume un carattere dialogico. In questi documenti i modi di
dire ricorrenti sono sempre densi di significato profondo, con l’evidente
intenzione di provocare la riflessione dei destinatari» (p. 190). A puro titolo
di esempio, riporto un brano di una lettera di Lotto (quella del 3 febbraio
1527, a p. 50): «Io de tute queste cose ve ne ho scrito più fiate et
particularmente non mi è risposto a partita per partita e tenuto in lungo et
poi mi è rescrito che mandi disegni perché li maestri non ha da lavorar. Questo
mi par una cosa da transtular balordi, perdonami V.re S.». Se un valore
vogliamo dare a queste missive è proprio quello di essere completamente prive
di qualsiasi forma di ‘retorica letteraria’, e il motivo mi pare banale: Lotto
non ne è capace. Si trova molto più a suo agio coi pennelli che con la penna,
come del resto scrive Antonella Anedda nel suo saggio: «Lotto scrive a fatica e
con fatica. Se le relazioni con il mondo e con la MIA in particolare fossero
più semplici, se non ci fosse continuamente il bisogno di difendersi e
sollecitare basterebbe mandare le opere chieste, ricevere il compenso.» (pp.
194-195).
Lotto e l’inventiva
L’incarico che Lotto assunse con il Consorzio della Misericordia è noto e vi ho già accennato. Si trattava di disegnare i cartoni colorati per gli intarsi da realizzare per il coro di Santa Maria Maggiore. L’opera, però, prevedeva due diversi tipi di realizzazione: da un lato un ciclo dedicato a episodi veterotestamentari, per il cui programma iconografico fu chiamato in causa un teologo, il francescano Girolamo Terzi, e una serie di ‘coperti’, tavole protettive anch’esse intarsiate, che dovevano essere apposte davanti alle storie bibliche per presevrarle. I ‘coperti’ dovevano avere contenuto simbolico e la definizione di tali contenuti era demandata direttamente a Lotto, fermo restando che doveva sussistere un legame fra ogni singolo ‘coperto’ e la relativa tarsia che proteggeva. Potremmo chiederci perché l’ ‘invenzione’ dei coperti fu lasciata all’artista. Una possibile risposta è che essi fossero inizialmente percepiti come poco importanti e quindi che non fosse necessario scomodare un teologo per definirne gli aspetti simbolici. Va pur detto, tuttavia, - e qui richiamo il saggio di Enrico Maria Dal Pozzolo - che Lotto si trovava a Bergamo dal 1513, che vi era tenuto in altissima considerazione e che aveva dimostrato di essere capace di proporre soluzioni nuove non solo nella ritrattistica, ma anche in opere di argomento religioso, come nella Trinità oggi al Museo Bernareggi di Bergamo, dove «lo [n.d.r. Dio] rappresentò come inconoscibile: una sagoma di nuvola densa e misteriosa […] Simili esiti sottendono una tensione interpretativa personale ed estrema, una sorta di ruminatio inesausta sulle infinite possibilità figurative offerte dalla lettura dei testi sacri» (p. 227).
Lorenzo Lotto, Trinità, Bergamo, Museo Bernareggi Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Lotto,_trinit%C3%A0.jpg |
Mi
sembra probabile, insomma, che Lotto avesse fama di ‘inventore’ e che anche per
questo gli sia stata affidata la commissione (a dire il vero, non fu la prima
scelta), anche sapendo che presto si sarebbe trasferito a Venezia.
Giovan Francesco Capoferri (su disegno di Lorenzo Lotto), Giuditta e Oloferne, Bergamo, Coro di Santa Maria Maggiore Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:58.0_giuditta.jpg |
Dobbiamo a questo punto distinguere fra i due cicli di disegni.
Nel caso delle storie bibliche l’artista si attiene quasi sempre al programma
iconografico di Terzi. Semmai si lamenta che tale programma giunga sempre in
ritardo, costringendolo a realizzare i disegni in gran fretta e non mettendolo
in condizione di lavorare serenamente. Ci sono due eccezioni. Una è la storia
di Lot, che è lui a proporre alla Misericordia, «per piacermi el sugeto di le
cinque cità de Sodoma e per esserci inserto el mio cognome [n.d.r Lot / Lotto]
(lettera del 18 ottobre 1526, p. 46); l’altra è quella di Giosué che ferma il
sole (lettera del 9 maggio 1527), «che in questa quadragesima lo senti’
ricordar dal nostro predicatore et se ‘l vi piaccia mandatemelo a dire et in
scritis la storia». C’è pericolo di eresia, in tutto ciò? A me non pare; certo
che Lotto (anche per accelerare i tempi) tende a sostituirsi al teologo, e lo
fa – a scanso di equivoci – richiamandosi all’autorità di un predicatore. Il 10
febbraio 1528 si propone una situazione differente: Lotto ha ricevuto indietro
due dei disegni che ha realizzato perché non si attengono strettamente al
dettato del teologo Terzi. Gli sono chieste modifiche che opera, non senza
manifesta insofferenza: «Se ‘l par errore l mio, non è per rispeto de
l’acomodarmi etiam per la libertà datami. Ma chi vedesse el texto della Biblia
con le inventione date da M.o Hier.o [n.d.r. il teologo Terzi] trovaria magior
lo soi [n.d.r. errori], perché io l’ho veduti con farli vedere de qui ad homini
da ben valenti theologi et predicatori. […] Purché sia iudicata et conosciuta
per quella istoria, el basta sanza tute le particolarità del texto dela
Scriptura o sensi de essa» (p. 104). Molto opportunamente, su questo aspetto,
Benigni cita Adriano Prosperi: «riconosciamo in questa frase una sensibilità
capace di cogliere d’istinto qualcosa che ci è peraltro ben noto: il processo
di semplificazione che avveniva allora nel lavoro esegetico e che si rifletteva
nelle edizioni a stampa della Bibbia, con la liberazione del puro testo (la
“istoria”) da quella selva di postille che era stata prodotta dall’esegesi
medievale del “quadruplice senso” della Scrittura» (p. 188) E prosegue: «È
utile evidenziare, anche con riferimento alla scrittura stessa di Lotto, che
l’esperienza religiosa degli uomini che vissero, come il maestro veneziano, tra
la fine del Quattrocento e la prima metà del Cinquecento fu segnata dal
passaggio dall’oralità alla scrittura, dalla parola dei predicatori alla
lettura della Bibbia in volgare» (p. 188). Inutile dire che è una fase molto
delicata, in cui l’eresia è dietro l’angolo, ma mi pare chiaro che Lotto si
rifaccia sempre, per rinforzare le sue tesi, alle parole dei predicatori
‘autorizzati’. Tutto sommato, quindi, a me sembra di poter dire che, con
riferimento alle storie bibliche, l’artista si attenne alle istruzioni del
teologo (a cui era demandata l’ ‘inventiva’) salvo malumori dettati dai ritardi
o da richieste di modifiche.
Le cose cambiano completamente per i ‘coperti’ simbolici, che Lotto chiama ‘imprese’, con chiaro rimando alla letteratura sulle medesime (anche se non tutti i soggetti realizzati, tecnicamente, sono ‘imprese’, essendo a volte privi di motto).
Qui, senza formalizzazioni, Lotto definisce la creazione artistica in termini assolutamente chiari: «Circha li disegni delli coperti, sapiate che son cose che, non essendo scritte, bisogna che la imaginatione le porti alla luce» (lettera del 10 febbraio 1528). L’invenzione è, dunque, un processo creativo di natura intellettuale in cui, in maniera spontanea, l’artista ‘cava’ da sé il progetto. Non esiste una gran differenza fra la frase di Lotto e gli apparati teorici di stampo neoplatonico che si reggono sull’Idea interna destinata a trovare estrinsecazione con la mano dell’artista. Solo che anche qui, per dirla con Prosperi, Lotto è un istintivo; rifiuta l’elaborazione teorica e ricostruisce un’esperienza personale nella maniera più schietta possibile.
Probabilmente, un qualsiasi artista dei suoi
tempi si sarebbe espresso, oralmente, negli stessi termini, non dovendo scrivere un
trattato sulla materia. Naturalmente, per ‘inventare’ bene, bisogna essere
tranquilli e non avere preoccupazioni; bisogna anche avere dimostrazione da
parte del committente di essere stimati e apprezzati, o, per dirla con Lotto,
accarezzati (e fra le ‘carezze’ si può pensare che il ricevimento di denaro in ‘dono’ fosse particolarmente gradito): «Perciò mai me sono venute di vena per
una [n.d.r. le invenzioni per i ‘coperti’], et non mi meraveglio de niente
perché male sono careciato da voi, anci svilito et vituperato et menaciato in
le vostre lettere» (p. 104). Si tratta di un genere di lamentela che si ripete
insistentemente: «Se mi venirano in pensier alcuna fantasia io le farò, ma
penso mi serà duro per haver la mente molto travagliata da varie et strane
perturbatione» (p. 132). Quali fossero queste perturbazioni non sappiamo;
certamente qui c’è tutta l’ ‘inquietudine’ di Lotto, ma mi si lasci dire che
c’è anche l’esperienza di un artista che sa come si conduce una trattativa e
chiede per dare. Il 25 gennaio 1531, scrivendo al notaio e amico Girolamo San
Pellegrino, dopo aver finalmente ottenuto la promessa di riavere indietro i
suoi cartoni, una volta usati, Lorenzo dice: «Ho per la vostra lettera sentito
gran consolation, de maniera che tute le inventione delle tavolete [n.d.r. i
coperti’] ho trovato in doi zorni che in un anno mai ho possuto cavar dal mio
cervellazo una minima cosa a tal bisogno. Et certissimamente li par nostri
voleno essere contenti e careciati, il che dala Misericordia mai ho avuto un
minimo segno dele fatiche tante che feci a Bergamo in beneficio de l’opera
vostra, senza che fussi rechiesto, nonché obligato e tenuto» (p. 152). Il
carattere è quello che è, ma in quel “li par nostri” mi pare di poter scorgere
un’alta coscienza di sé e del proprio lavoro che non è quella di un uomo in
disarmo, ma che anzi rivendica l’importanza del ruolo dell’artista nella
società del Cinquecento, non ricorrendo alle solite teorizzazioni sul tema, ma
mostrandosi ancora un istintivo.
Lotto e la luce. Seconda puntata
Recensendo il Libro di
spese diverse nell’edizione De Carolis mi domandai se ravvisare nei lavori
di ristrutturazione delle botteghe veneziana e trevigiana dell’artista un
chiaro segno dell’interesse di Lotto per la resa luministica delle opere non
fosse eccessivo. Sbagliavo, e ora mi correggo. Quell’attenzione, come emerge
dalle lettere alla Misericordia, è estrema. Così scrive l’artista, sempre a San
Pellegrino, il 6 marzo 1532, a proposito di una controversia sul numero dei
cartoni inviati complessivamente alla MIA: “…da voi perché certissimamente in
qualche modo c’è errore. Perché de man in mano ho tenuto notato al libro mio
[n.d.r. un altro registro precedente a quello di Loreto?] et in una carta
desegnato el coro con le quantità dele sedie da torno et ali lochi soi rispetto
li lumi da dritto et rovescio” (p. 176). Del resto, cinque anni prima, vergando
alcune istruzioni per Capoferri accluse alla missiva del 18 febbraio 1527,
l’artista lo invitò a fare attenzione: «el desegno de Davit e Goliat è facto a
lume diverso de quel dela istoria, cioè questo inadvertentemente fato a lume
dreto et vole esser como la istoria a lume roverso che cossì vol esser tute […]
Et perché da poi che hebbi facto el primo quadro de l’archa de Noè a lume dreto,
visti in la chiesia che el lume più gaiardo sempre era dal canto sinistro, per
questo già che la cosa era facta havia preso partito metesti dito quadro de l’archa
in el canton presso l’altar de S. Piero et veniva a star bene perché el lume per
riflexo haveva più forza dala parte drita» (p. 57). È evidente, qui e altrove,
che lo studio delle condizioni di luce dell’ambiente in cui gli stalli andavano
montati è fondamentale per la resa luministica dell’opera. Lotto è
‘scientificamente’ pittore di luce. Mi si dirà che non fu l’unico, in quei
tempi. Esatto, il che dimostra che era perfettamente calato, pur con un
carattere inquieto, nel mondo artistico a lui coevo e soprattutto ci permette
di ammirare le lettere per quello che sono: non la ‘premonizione’ di un triste
destino, ma una viva testimonianza del metodo di lavoro di un maestro del
Cinquecento veneziano.
NOTE
[1] Stupisce, francamente, che fra questi sia citato «Raffaello autore
dei Sonetti che riprendono con intelligenza le fluttuazioni della lingua
rinascimentale» (p. 184)
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