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lunedì 6 febbraio 2023

Marsel Grosso. «Scultore in parole». Francesco Sansovino e la nascita della critica d’arte a Venezia

 

Marsel Grosso
«Scultore in parole». Francesco Sansovino e la nascita della critica d’arte a Venezia
Con il dialogo intitolato Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia (1556)

Roma, Officina Libraria, 2022

Recensione di Giovanni Mazzaferro

 




Una storia della critica d’arte

Confesso la mia personale difficoltà nel cercare di incasellare un libro come lo «Scultore in parole». Francesco Sansovino e la nascita della critica d’arte a Venezia di Marsel Grosso. Non si tratta di una biografia del poligrafo tosco-veneziano (1521-1586), che pure ne è protagonista; né si tratta di un’edizione commentata di Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia, libretto laudativo della città lagunare che costituisce il primo stadio di un processo che portò Sansovino a scrivere poi Delle cose notabili che sono in Venetia (1561) e Venetia città nobilissima e singolare (1581). Entrambe le cose – sia chiaro – ci sono e costituiscono rispettivamente la prima e la seconda parte del volume, che si chiude con la trascrizione dell’operetta sansoviniana e un apparato iconografico particolarmente ricco.

Tuttavia credo di poter dire che la vera protagonista del libro sia Venezia, e le cerchie di artisti, letterati, poligrafi (e anche musicisti) che vi vissero grosso modo in un periodo compreso fra il 1535 e il 1560. Un periodo particolare perché segna il mutamento dell’aspetto urbano della città lagunare, sulla scia della famosa Renovatio urbis voluta dal doge Andrea Gritti, e segna anche la ‘nascita’ della critica d’arte a Venezia. Molto opportunamente l’autore richiama in proposito alcune parole spese in merito da Rodolfo Pallucchini nel 1943: «Lo studio della critica d’arte permette (…) di isolare e di conoscere le reazioni dei contemporanei di fronte alle opere d’arte del loro tempo […] essa in ultima analisi, controlla la prospettiva storica attraverso la quale va vista un’opera, ed un ciclo di opere» (p. 14). Ecco, quello di Marsel Grosso è, senza dubbio, un libro sulla storia della critica d’arte, giocato in maniera non inedita, ma originale, rispetto ad altri già pubblicati in proposito, per prima cosa perché il filo del discorso non si esaurisce col Dialogo di pittura di Paolo Pino (1548) o col Dialogo della pittura intitolato l’Aretino di Lodovico Dolce (1557) (i due testi più ampiamente studiati in quest’ambito), ma parte, appunto, dalla Cose notabili di Sansovino. E poi perché l’indagine di Grosso è trasversale. «Muovendo (…) dalla sollecitazioni della pittura [n.d.r. quindi delle opere d’arte realizzate in questo lasso di tempo] e dal confronto con la letteratura» (p. 232) l’autore compone un’opera polifonica in cui protagonisti sono artisti, committenti, letterati, poligrafi la cui formazione, le cui azioni e scelte sono indagate in maniera capillare (e – me lo si lasci dire – esemplare).

Un libro non facile – è bene chiarirlo subito -, certo non un libro per chi sia del tutto digiuno della materia, ma da cui emergono alcuni fatti importanti. Innanzi tutto che il Tutte le cose notabili e belle non può essere considerato una ‘prova’ dell’edizione del 1561 e, a maggior ragione, della Venetia città nobilissima del 1581, ma già un testo in cui emerge la comprensione (e verrebbe da dire quasi la precoce storicizzazione) delle avanguardie artistiche veneziane, da Tintoretto a Veronese, come già scrisse Pallucchini nel 1943: «Il Sansovino, informato e certo addentro alle cose artistiche per via dell’educazione paterna, ci dà alcuni cenni delle arti figurative contemporanee di grande interesse, proprio per la freschezza con cui sono caratterizzate certe figure di quel momento artistico. Anche per il Sansovino Michelangelo aveva a Venezia il suo rivale, cioè Tiziano: non solo, ma lo scrittore, più giovane del Dolce, accenna alla nuova generazione di artisti, cioè Tintoretto ed al Veronese» (p. 13).

 

Il milieu culturale

Francesco era figlio di Jacopo (1486-1570), famosissimo architetto e scultore, figura di primissimo piano nel rinnovamento artistico della città lagunare, e certamente tramite il padre era entrato in contatto precocemente con gli ambienti culturali veneziani. 

Jacopo Sansovino, Loggetta, Venezia, Piazza San Marco
Fonte: Wolfgang Moroder tramite Wikimedia Commons


I rapporti fra padre e figlio non furono facili. Jacopo voleva che il figlio divenisse un giurista, mentre Francesco, che pure studiò a Padova e a Bologna, laureandosi nella città felsinea, si sentiva portato per il mondo delle lettere. Grosso indaga le frequentazioni di Francesco a partire dalla primissima adolescenza, per proseguire col periodo padovano (1536-1541) e bolognese (1541-1543). Si compone così un mosaico in cui la maggior parte delle tessere è costituita da eruditi di estrazione fiorentina (esattamente come Sansovino), fuoriusciti dalla patria per motivi politici (o da Roma in seguito al Sacco del 1527) e che nelle città sopra citate trovarono accoglienza. Una cosa è certa: poco inclinato allo studio del diritto, Francesco si mostrò invece assai più interessato agli scambi culturali che, all’epoca, trovavano espressione all’interno di Accademie come quelle degli Infiammati (a Padova) e quella degli Umidi (a Firenze). «L’Accademia (…) rappresentava per Francesco non solo l’opportunità di proseguire la formazione letteraria iniziata a Venezia, ma anche la possibilità di confrontarsi alla pari con uomini che per età e dottrina erano molto più importanti di lui, e di conoscere altri giovani accomunati dalla sua stessa passione per gli studi umanistici; con alcuni di loro stringerà rapporti professionali e di amicizia fraterna che lo accompagneranno per tutta la vita» (p. 79). È anche facile capire come il fiorentino Sansovino, figlio di una gloria della patria, sia stato rapidamente accolto nella neonata fiorentina Accademia degli Umidi (poi Accademia Fiorentina) molto probabilmente tramite le conoscenze, sempre fiorentine, frequentate a Padova e a Bologna.

È a questo periodo, in cui Francesco non ha ancora deciso se essere giurista o umanista, che risale una delle primissime prove letterarie del giovane Sansovino, ossia Le lettere sopra le dieci giornate del Decamerone (1542). Senza complicare troppo le cose, si tratta di opera che Grosso cita spesso perché vi si scorgono interessi artistici molto precoci, probabilmente fino a oggi sottovalutati. È il caso, ad esempio, della lettera indirizzata al miniatore fiorentino Jacopo del Giallo, in cui Francesco affronta il tema del paragone tra pittura e scultura. A quest’epoca la questione non aveva ancora trovato a Venezia un suo inquadramento teorico, ma era riscontrabile nelle opere (ad esempio di Giorgione), mentre era argomento che già appassionava da tempo la cultura artistica centroitaliana. Poco importa se, curiosamente, Sansovino, figlio di scultore, si schieri in maniera risoluta a favore della pittura, «difendendone la supremazia con argomenti che derivano dal dibattito sul paragone delle arti impostato tra Quattro e Cinquecento da Leon Battista Alberti e Leonardo, prelevandoli, quasi ad verbum, dal primo libro (cap. LI.LII) del Cortegiano di Baldassarre Castiglione» (p. 108). Ciò che conta non è l’originalità, ma l’essere tramite nel mondo veneziano di istanze teoriche maturate in ambito fiorentino. Francesco è, per la critica d’arte a Venezia, ciò che il padre era per l’architettura e la scultura: un uomo che assorbiva concetti ‘esterni’ e li metabolizzava adattandoli al contesto.

 

Aretino e dintorni

Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino, 1545, Firenze, Palazzo Pitti
Fonte: https://www.uffizi.it/opere/ritratto-di-pietro-aretino


Sia chiaro: il giovane Sansovino non fu l’unico esponente del mondo toscano traghettato in laguna. Uno in particolare ebbe grande importanza e fu Pietro Aretino (1492-1556). La riscoperta del valore di Aretino come critico d’arte (e quindi non solo come ‘agente’ e amico di Tiziano), attingendo soprattutto dall’epistolario, è un punto qualificante del libro di Grosso. Così, proprio con riferimento al Giallo, è citata una lettera del 1537 in cui emerge «emerge la passione smisurata che Aretino ebbe verso le cosiddette arti minori o congeneri, oggetti destinati a una élite ristretta di raffinati intenditori e collezionisti, ma anche preziosa merce di scambio» (p. 102); fenomeni che «segnano il passo verso il superamento di una concezione dell’arte legata esclusivamente alla preziosità della materia, in favore di una concezione dell’arte come puro effetto; una nozione che, oltre a testimoniare un allargamento della visione critica nei confronti delle arti congeneri e della «maniera», si avvicina di molto al gusto per l’artificio e lo stupore che sarà tipico del Seicento» (p. 104). Nel caso dell’Aretino, poi, non bisogna sottovalutare che, sostanzialmente coetaneo di Sansovino sr., svolse concretamente un ruolo di ‘mediazione’ (testimoniato da diverse lettere) nei difficili rapporti fra padre e figlio, specie nel periodo in cui quest’ultimo si trovava a Padova e Bologna. Possiamo senza dubbio classificarlo come una voce particolarmente carismatica nei confronti di Francesco, proprio per la sua capacità di proporsi come intimo consigliere di entrambi.

Proprio a Pietro Aretino, oltre che a Jacopo Sansovino e a Michelangelo sono dedicate le pagine finali (anonime, e da taluni ascritte a Francesco, circostanza improbabile, perché all’epoca aveva 19 anni e viveva a Padova) che furono aggiunte al Supplemento delle Croniche del Reverendo Padre Iacopo Philippo da Bergamo, stampate dall’editore Bernardino Bindoni a Venezia nel 1540. Vale la pena ricordare questa fonte per almeno due motivi: da un lato perché presenta il primo ‘catalogo’ delle opere di Michelangelo (attento soprattutto alla scultura) e in secondo luogo perché la biografia di Jacopo Sansovino rende bene l’idea del work in progress, con l’indicazione di una serie di edifici la cui costruzione non era ancora stata completata o che, addirittura, mai fu intrapresa, come il ‘nuovo’ Palazzo Ducale. Grosso fa giustamente presente che il testo deve provenire da una fonte ben informata,  vicina a Sansovino e all’Aretino; comunque sia da un erudito ben addentro alle cose veneziane e fiorentine; l’autore avanza l’ipotesi che possa esserne stato esteso da Ludovico Domenichi o da Lodovico Dolce (p. 37).

Naturalmente, fra i poligrafi fiorentini trapiantati a Venezia e in frequentazione con Francesco Sansovino non può mancare Anton Francesco Doni (1513-1574), di cui Grosso parla soprattutto in coincidenza dell’Accademia Pellegrina, che non sappiamo bene se essere esistita veramente o se ‘invenzione’ del Doni stesso. «Dal punto di vista storico-artistico queste accademie, reali o fittizie, rappresentano un osservatorio privilegiato non solo per lo studio delle origini della critica d’arte in ambito veneto, ma anche per capire quali furono le ragioni che permisero a una generazione di artisti emergenti quali Tintoretto, Veronese, Schiavone, Vittoria e Palladio di raggiungere in breve tempo una notorietà letteraria che i più anziani maestri conobbero solo nella piena maturità» (p. 149). L’autore esamina nel dettaglio la casistica, a cominciare proprio dalle citazioni di Tintoretto operate dal Doni (mentre Veronese sembra essergli ‘trasparente’). A me, tuttavia, in questo contesto, preme spiegare come l’espressione ‘Scultore in parole’ con cui Grosso apre il titolo del suo volume è proprio doniana e, curiosamente, è conseguenza di un errore. Nel suo Disegno Anton Francesco, nell’indice degli scultori citati all’interno dell’opera, aveva inserito ‘Francesco Sansovino’, confondendosi col padre Jacopo. In una lettera di scuse del settembre 1549 l’autore scrive a Francesco dicendo che, pur non essendo ‘scultore in opere’, lo è senz’altro ‘in parole’ (p. 145). Si tratta di uno di quegli artifici retorici che Doni molto probabilmente deriva liberamente da espressioni molto più classiche e diffuse, come la pittura che è muta poesia, e la poesia che è pittura senz’immagini. Nel caso specifico è indubbio che Anton Francesco riesca a uscire da una situazione imbarazzante con maestria ed eleganza.


Tutte le cose notabili

Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia venne pubblicato nel 1556, senza indicazioni di chi ne fosse l’editore e a firma Anselmo Guisconi. Guisconi è veramente esistito o si tratta di uno pseudonimo? Non lo sappiamo con certezza, anche se, sin dal 1834, si fece l’ipotesi che l’autore fosse Sansovino, tenuto conto che ‘Anselmo Guisconi’ ne celava l’anagramma [1]. L’opuscolo era redatto in forma di dialogo fra un ‘veneziano’ (non è difficile riconoscervi lo stesso Sansovino) e un ‘forestiere’, che s’informa su alcuni aspetti legati alla città. Non si tratta, come del resto si è già detto in sede di commento alle Cose notabili del 1561, di una guida della città, con la proposizione di itinerari, ‘turistici’ o di devozione religiosa. Lo scopo laudativo della città, in ottica umanistica, è evidente. Da ricordare che, oltre alle edizioni del 1561 e del 1581, Grosso segnala anche l’esistenza di una rarissima ristampa dello scritto datata 1560, «ancora privo del nome dell’autore» (p. 11: do per scontato che un nome ci sia e sia quello del Guisconi), ma con l’indicazione che la stampa è stata effettuata da Francesco Rampazzetto. Il titolo, lievemente modificato, diventa Dialogo di tutte le cose notabili che sono in Venetia (…).»

Grosso propone il testo del libretto alle pagine 278-288 del volume, e lo commenta nella seconda parte del suo lavoro. Il commento, tuttavia, non è costituito da una ‘semplice’ serie di annotazioni relative a nomi e luoghi citati, ma ha un respiro molto più ampio, ancora una volta teso a collocare lo scritto in un contesto (e, in sostanza, a confutare l’idea che l’edizione del 1556 sia semplicemente una ‘bozza’ di quella del 1561). Sono colte le fonti storiografiche, sono ricercate le ragioni dello scritto, sono indagate, in particolare, le notazioni artistiche, che evidenziano, ad esempio, la precoce fortuna letteraria di Veronese e Tintoretto. Non tutte le ipotesi svolte sono, a mio avviso, sempre del tutto convincenti. Viene ad esempio proposto un legame con la Veduta di Venezia di Matteo Pagan del 1559, nel cui cartiglio si legge (fra le altre cose): «Degli habitanti, costumi loro, sito et altre cose particolari dicemmo nel nostro Libretto intitolato Le bellezze di vinegia». Riprendendo un’idea già proposta da altri nel 1970, Grosso propone che quel libretto sia Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia: «Con la definizione «nostro libretto» il cartografo sembra voler rivendicare un ruolo nella sua pubblicazione, se non proprio di editore almeno di stampatore. Si profila, in tal senso, l’attraente ipotesi che Pagan si stesse riferendo a un progetto unitario, che doveva tenere conto della complementarietà tra la nuova mappa da lui pubblicata e il testo di Francesco. Questa ipotesi – sebbene non supportata da altri indizi – potrebbe spiegare l’assenza di qualsiasi riferimento geografico e toponomastico di Venezia nel dialogo sansoviniano.» (p. 192). In merito però vorrei far notare che il titolo dell’opuscolo a firma Guisconi non è Le bellezze di vinegia; che c’è uno scarto temporale di tre anni fra Tutte le cose notabili e la mappa di Pagan; che, se si fosse trattato di un progetto complementare, Sansovino vi avrebbe rinviato almeno nel 1561. Tutto ciò, a mio avviso, rende l’ipotesi di studio molto aleatoria; la spiegazione più semplice è che effettivamente Pagan abbia prodotto a sua volta un libretto laudativo della città di cui non ci è giunta alcuna copia.

Al netto di questa circostanza, resta inteso che il commento di Grosso dimostra la sua preparazione sugli aspetti sopra accennati. Il suo libro è destinato senza dubbio alcuno a rimanere un punto di riferimento per tutti coloro che vorranno confrontarsi con la ‘questione’ della critica artistica veneziana nella prima metà del Cinquecento e a lui spetta senz’altro il merito di avere indagato, con particolare acribia, l’intreccio quasi inestricabile fra arte, artisti, umanisti, poligrafi, committenza nella Venezia ‘rinnovata’ dopo il dogato di Andrea Gritti.
 

NOTE

[1] Sono un appassionato, ma non un esperto di storia dell’enigmistica. In particolare non conosco come, storicamente, sia evoluto il concetto di ‘anagramma’. Cert’è che, secondo le definizioni odierne, ‘Anselmo Guisconi’ non è tecnicamente l’anagramma di ‘Sansovino’ (o ‘Sansouino’). Un anagramma comporta infatti che tutte le lettere di una o più parole siano permutate in tutte le lettere della soluzione dando luogo ad altre parole di senso compiuto. Con questo non voglio mettere in dubbio che, dietro la facciata di ‘Guisconi’ ci fosse Sansovino, se non altro perché, nelle edizioni successive la firma dell’autore è esplicita e perché di Anselmo Guisconi non esiste traccia alcuna nella vita reale.

 

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