Marsel Grosso
«Scultore in parole». Francesco Sansovino e la nascita della critica d’arte a Venezia
Con il dialogo intitolato Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia (1556)
Roma, Officina
Libraria, 2022
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Una storia della
critica d’arte
Confesso la mia
personale difficoltà nel cercare di incasellare un libro come lo «Scultore in parole». Francesco Sansovino e
la nascita della critica d’arte a Venezia di Marsel Grosso. Non si tratta di una biografia del poligrafo
tosco-veneziano (1521-1586), che pure ne è protagonista; né si tratta di
un’edizione commentata di Tutte le cose notabili e belle che sono in Venetia,
libretto laudativo della città lagunare che costituisce il primo stadio di un
processo che portò Sansovino a scrivere poi Delle cose notabili che sono in Venetia (1561) e Venetia città nobilissima e
singolare (1581). Entrambe le cose – sia chiaro – ci sono e costituiscono
rispettivamente la prima e la seconda parte del volume, che si chiude con la
trascrizione dell’operetta sansoviniana e un apparato iconografico
particolarmente ricco.
Tuttavia credo di
poter dire che la vera protagonista del libro sia Venezia, e le cerchie di
artisti, letterati, poligrafi (e anche musicisti) che vi vissero grosso modo in
un periodo compreso fra il 1535 e il 1560. Un periodo particolare perché segna il
mutamento dell’aspetto urbano della città lagunare, sulla scia della famosa Renovatio
urbis voluta dal doge Andrea Gritti, e segna anche la ‘nascita’ della
critica d’arte a Venezia. Molto opportunamente l’autore richiama in proposito alcune
parole spese in merito da Rodolfo Pallucchini nel 1943: «Lo studio della critica
d’arte permette (…) di isolare e di conoscere le reazioni dei contemporanei di
fronte alle opere d’arte del loro tempo […] essa in ultima analisi, controlla
la prospettiva storica attraverso la quale va vista un’opera, ed un ciclo di
opere» (p.
14). Ecco, quello di Marsel Grosso è, senza dubbio, un libro sulla storia della
critica d’arte, giocato in maniera non inedita, ma originale, rispetto ad altri
già pubblicati in proposito, per prima cosa perché il filo del discorso non si
esaurisce col Dialogo di pittura di Paolo Pino (1548) o col Dialogo della pittura
intitolato l’Aretino di Lodovico Dolce (1557) (i due testi più ampiamente
studiati in quest’ambito), ma parte, appunto, dalla Cose notabili di
Sansovino. E poi perché l’indagine di Grosso è trasversale. «Muovendo (…) dalla
sollecitazioni della pittura [n.d.r. quindi delle opere d’arte realizzate in
questo lasso di tempo] e dal confronto con la letteratura» (p. 232) l’autore
compone un’opera polifonica in cui protagonisti sono artisti, committenti,
letterati, poligrafi la cui formazione, le cui azioni e scelte sono indagate in
maniera capillare (e – me lo si lasci dire – esemplare).
Un libro non facile
– è bene chiarirlo subito -, certo non un libro per chi sia del tutto digiuno
della materia, ma da cui emergono alcuni fatti importanti. Innanzi tutto che il
Tutte le cose notabili e belle non può essere considerato una ‘prova’ dell’edizione
del 1561 e, a maggior ragione, della Venetia città nobilissima del 1581,
ma già un testo in cui emerge la comprensione (e verrebbe da dire quasi la precoce storicizzazione) delle avanguardie artistiche veneziane, da Tintoretto a
Veronese, come già scrisse Pallucchini nel 1943: «Il Sansovino, informato e certo addentro alle
cose artistiche per via dell’educazione paterna, ci dà alcuni cenni delle arti
figurative contemporanee di grande interesse, proprio per la freschezza con cui
sono caratterizzate certe figure di quel momento artistico. Anche per il
Sansovino Michelangelo aveva a Venezia il suo rivale, cioè Tiziano: non solo,
ma lo scrittore, più giovane del Dolce, accenna alla nuova generazione di
artisti, cioè Tintoretto ed al Veronese» (p. 13).
Il milieu
culturale
Francesco era figlio di Jacopo (1486-1570), famosissimo architetto e scultore, figura di primissimo piano nel rinnovamento artistico della città lagunare, e certamente tramite il padre era entrato in contatto precocemente con gli ambienti culturali veneziani.
Jacopo Sansovino, Loggetta, Venezia, Piazza San Marco Fonte: Wolfgang Moroder tramite Wikimedia Commons |
I rapporti fra padre e figlio non furono facili. Jacopo voleva che il figlio
divenisse un giurista, mentre Francesco, che pure studiò a Padova e a Bologna,
laureandosi nella città felsinea, si sentiva portato per il mondo delle
lettere. Grosso indaga le frequentazioni di Francesco a partire dalla primissima
adolescenza, per proseguire col periodo padovano (1536-1541) e bolognese
(1541-1543). Si compone così un mosaico in cui la maggior parte delle tessere è
costituita da eruditi di estrazione fiorentina (esattamente come Sansovino),
fuoriusciti dalla patria per motivi politici (o da Roma in seguito al Sacco del 1527) e che nelle città sopra citate
trovarono accoglienza. Una cosa è certa: poco inclinato allo studio del
diritto, Francesco si mostrò invece assai più interessato agli scambi culturali
che, all’epoca, trovavano espressione all’interno di Accademie come quelle degli
Infiammati (a Padova) e quella degli Umidi (a Firenze). «L’Accademia (…) rappresentava per Francesco non
solo l’opportunità di proseguire la formazione letteraria iniziata a Venezia,
ma anche la possibilità di confrontarsi alla pari con uomini che per età e
dottrina erano molto più importanti di lui, e di conoscere altri giovani
accomunati dalla sua stessa passione per gli studi umanistici; con alcuni di
loro stringerà rapporti professionali e di amicizia fraterna che lo
accompagneranno per tutta la vita» (p. 79). È anche
facile capire come il fiorentino Sansovino, figlio di una gloria della patria,
sia stato rapidamente accolto nella neonata fiorentina Accademia degli Umidi
(poi Accademia Fiorentina) molto probabilmente tramite le conoscenze, sempre
fiorentine, frequentate a Padova e a Bologna.
È a questo periodo, in cui Francesco non
ha ancora deciso se essere giurista o umanista, che risale una delle primissime
prove letterarie del giovane Sansovino, ossia Le lettere sopra le dieci giornate
del Decamerone (1542). Senza complicare troppo le cose, si tratta di opera
che Grosso cita spesso perché vi si scorgono interessi artistici molto precoci,
probabilmente fino a oggi sottovalutati. È il caso, ad esempio, della lettera
indirizzata al miniatore fiorentino Jacopo del Giallo, in cui Francesco
affronta il tema del paragone tra pittura e scultura. A quest’epoca la
questione non aveva ancora trovato a Venezia un suo inquadramento teorico, ma
era riscontrabile nelle opere (ad esempio di Giorgione), mentre era argomento
che già appassionava da tempo la cultura artistica centroitaliana. Poco importa
se, curiosamente, Sansovino, figlio di scultore, si schieri in maniera risoluta
a favore della pittura, «difendendone la supremazia con argomenti che derivano
dal dibattito sul paragone delle arti impostato tra Quattro e Cinquecento da
Leon Battista Alberti e Leonardo, prelevandoli, quasi ad verbum, dal
primo libro (cap. LI.LII) del Cortegiano di Baldassarre Castiglione» (p. 108). Ciò
che conta non è l’originalità, ma l’essere tramite nel mondo veneziano di
istanze teoriche maturate in ambito fiorentino. Francesco è, per la critica
d’arte a Venezia, ciò che il padre era per l’architettura e la scultura: un
uomo che assorbiva concetti ‘esterni’ e li metabolizzava adattandoli al
contesto.
Aretino e
dintorni
Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino, 1545, Firenze, Palazzo Pitti Fonte: https://www.uffizi.it/opere/ritratto-di-pietro-aretino |
Sia chiaro: il giovane Sansovino non fu
l’unico esponente del mondo toscano traghettato in laguna. Uno in particolare
ebbe grande importanza e fu Pietro Aretino (1492-1556). La riscoperta del
valore di Aretino come critico d’arte (e quindi non solo come ‘agente’ e amico
di Tiziano), attingendo soprattutto dall’epistolario, è un punto qualificante
del libro di Grosso. Così, proprio con riferimento al Giallo, è citata una
lettera del 1537 in cui emerge «emerge la passione smisurata che Aretino ebbe
verso le cosiddette arti minori o congeneri, oggetti destinati a una élite
ristretta di raffinati intenditori e collezionisti, ma anche preziosa merce di
scambio» (p. 102); fenomeni che «segnano il passo verso il superamento di una
concezione dell’arte legata esclusivamente alla preziosità della materia, in
favore di una concezione dell’arte come puro effetto; una nozione che, oltre a
testimoniare un allargamento della visione critica nei confronti delle arti
congeneri e della «maniera», si avvicina di molto al gusto per l’artificio e lo
stupore che sarà tipico del Seicento» (p. 104). Nel caso dell’Aretino, poi, non
bisogna sottovalutare che, sostanzialmente coetaneo di Sansovino sr., svolse
concretamente un ruolo di ‘mediazione’ (testimoniato da diverse lettere) nei
difficili rapporti fra padre e figlio, specie nel periodo in cui quest’ultimo
si trovava a Padova e Bologna. Possiamo senza dubbio classificarlo come una
voce particolarmente carismatica nei confronti di Francesco, proprio per la sua
capacità di proporsi come intimo consigliere di entrambi.
Proprio a Pietro Aretino, oltre che a
Jacopo Sansovino e a Michelangelo sono dedicate le pagine finali (anonime, e da
taluni ascritte a Francesco, circostanza improbabile, perché all’epoca aveva 19
anni e viveva a Padova) che furono aggiunte al Supplemento delle Croniche
del Reverendo Padre Iacopo Philippo da Bergamo, stampate dall’editore Bernardino
Bindoni a Venezia nel 1540. Vale la pena ricordare questa fonte per almeno due
motivi: da un lato perché presenta il primo ‘catalogo’ delle opere di
Michelangelo (attento soprattutto alla scultura) e in secondo luogo perché la
biografia di Jacopo Sansovino rende bene l’idea del work in progress,
con l’indicazione di una serie di edifici la cui costruzione non era ancora
stata completata o che, addirittura, mai fu intrapresa, come il ‘nuovo’ Palazzo
Ducale. Grosso fa giustamente presente che il testo deve provenire da una fonte
ben informata, vicina a Sansovino e
all’Aretino; comunque sia da un erudito ben addentro alle cose veneziane e
fiorentine; l’autore avanza l’ipotesi che possa esserne stato esteso da Ludovico
Domenichi o da Lodovico Dolce (p. 37).
Naturalmente, fra i poligrafi fiorentini trapiantati a Venezia e in frequentazione con Francesco Sansovino non può mancare Anton Francesco Doni (1513-1574), di cui Grosso parla soprattutto in coincidenza dell’Accademia Pellegrina, che non sappiamo bene se essere esistita veramente o se ‘invenzione’ del Doni stesso. «Dal punto di vista storico-artistico queste accademie, reali o fittizie, rappresentano un osservatorio privilegiato non solo per lo studio delle origini della critica d’arte in ambito veneto, ma anche per capire quali furono le ragioni che permisero a una generazione di artisti emergenti quali Tintoretto, Veronese, Schiavone, Vittoria e Palladio di raggiungere in breve tempo una notorietà letteraria che i più anziani maestri conobbero solo nella piena maturità» (p. 149). L’autore esamina nel dettaglio la casistica, a cominciare proprio dalle citazioni di Tintoretto operate dal Doni (mentre Veronese sembra essergli ‘trasparente’). A me, tuttavia, in questo contesto, preme spiegare come l’espressione ‘Scultore in parole’ con cui Grosso apre il titolo del suo volume è proprio doniana e, curiosamente, è conseguenza di un errore. Nel suo Disegno Anton Francesco, nell’indice degli scultori citati all’interno dell’opera, aveva inserito ‘Francesco Sansovino’, confondendosi col padre Jacopo. In una lettera di scuse del settembre 1549 l’autore scrive a Francesco dicendo che, pur non essendo ‘scultore in opere’, lo è senz’altro ‘in parole’ (p. 145). Si tratta di uno di quegli artifici retorici che Doni molto probabilmente deriva liberamente da espressioni molto più classiche e diffuse, come la pittura che è muta poesia, e la poesia che è pittura senz’immagini. Nel caso specifico è indubbio che Anton Francesco riesca a uscire da una situazione imbarazzante con maestria ed eleganza.
Tutte le cose
notabili
Tutte le cose
notabili e belle che sono in Venetia venne pubblicato nel 1556, senza indicazioni di chi ne fosse l’editore e
a firma Anselmo Guisconi. Guisconi è veramente esistito o si tratta di uno
pseudonimo? Non lo sappiamo con certezza, anche se, sin dal 1834, si fece
l’ipotesi che l’autore fosse Sansovino, tenuto conto che ‘Anselmo Guisconi’ ne
celava l’anagramma [1]. L’opuscolo era redatto in forma di dialogo fra un
‘veneziano’ (non è difficile riconoscervi lo stesso Sansovino) e un
‘forestiere’, che s’informa su alcuni aspetti legati alla città. Non si tratta,
come del resto si è già detto in sede di commento alle Cose notabili del 1561, di una guida della città, con la
proposizione di itinerari, ‘turistici’ o di devozione religiosa. Lo scopo laudativo
della città, in ottica umanistica, è evidente. Da ricordare che, oltre alle
edizioni del 1561 e del 1581, Grosso segnala anche l’esistenza di una rarissima
ristampa dello scritto datata 1560, «ancora privo del nome dell’autore» (p. 11: do per scontato
che un nome ci sia e sia quello del Guisconi), ma con l’indicazione che la
stampa è stata effettuata da Francesco Rampazzetto. Il titolo, lievemente
modificato, diventa Dialogo di tutte le cose notabili che sono in Venetia
(…).»
Grosso propone il
testo del libretto alle pagine 278-288 del volume, e lo commenta nella seconda
parte del suo lavoro. Il commento, tuttavia, non è costituito da una ‘semplice’
serie di annotazioni relative a nomi e luoghi citati, ma ha un respiro molto
più ampio, ancora una volta teso a collocare lo scritto in un contesto (e, in
sostanza, a confutare l’idea che l’edizione del 1556 sia semplicemente una
‘bozza’ di quella del 1561). Sono colte le fonti storiografiche, sono ricercate
le ragioni dello scritto, sono indagate, in particolare, le notazioni
artistiche, che evidenziano, ad esempio, la precoce fortuna letteraria di
Veronese e Tintoretto. Non tutte le ipotesi svolte sono, a mio avviso, sempre
del tutto convincenti. Viene ad esempio proposto un legame con la Veduta di
Venezia di Matteo Pagan del 1559, nel cui cartiglio si legge (fra le altre
cose): «Degli habitanti, costumi loro, sito et altre cose particolari dicemmo nel
nostro Libretto intitolato Le bellezze di vinegia». Riprendendo un’idea già proposta da altri
nel 1970, Grosso propone che quel libretto sia Tutte le cose notabili e
belle che sono in Venetia: «Con la definizione «nostro libretto» il cartografo sembra
voler rivendicare un ruolo nella sua pubblicazione, se non proprio di editore
almeno di stampatore. Si profila, in tal senso, l’attraente ipotesi che Pagan
si stesse riferendo a un progetto unitario, che doveva tenere conto della
complementarietà tra la nuova mappa da lui pubblicata e il testo di Francesco.
Questa ipotesi – sebbene non supportata da altri indizi – potrebbe spiegare
l’assenza di qualsiasi riferimento geografico e toponomastico di Venezia nel
dialogo sansoviniano.» (p. 192). In merito però vorrei far notare
che il titolo dell’opuscolo a firma Guisconi non è Le bellezze di vinegia;
che c’è uno scarto temporale di tre anni fra Tutte le cose notabili e la
mappa di Pagan; che, se si fosse trattato di un progetto complementare,
Sansovino vi avrebbe rinviato almeno nel 1561. Tutto ciò, a mio avviso, rende
l’ipotesi di studio molto aleatoria; la spiegazione più semplice è che
effettivamente Pagan abbia prodotto a sua volta un libretto laudativo della
città di cui non ci è giunta alcuna copia.
Al netto di questa
circostanza, resta inteso che il commento di Grosso dimostra la sua preparazione
sugli aspetti sopra accennati. Il suo libro è
destinato senza dubbio alcuno a rimanere un punto di riferimento per tutti
coloro che vorranno confrontarsi con la ‘questione’ della critica artistica
veneziana nella prima metà del Cinquecento e a lui spetta senz’altro il merito
di avere indagato, con particolare acribia, l’intreccio quasi inestricabile fra
arte, artisti, umanisti, poligrafi, committenza nella Venezia ‘rinnovata’ dopo
il dogato di Andrea Gritti.
NOTE
[1] Sono un
appassionato, ma non un esperto di storia dell’enigmistica. In particolare non
conosco come, storicamente, sia evoluto il concetto di ‘anagramma’. Cert’è che,
secondo le definizioni odierne, ‘Anselmo Guisconi’ non è tecnicamente l’anagramma di
‘Sansovino’ (o ‘Sansouino’). Un anagramma comporta infatti che tutte le lettere
di una o più parole siano permutate in tutte le lettere della soluzione dando
luogo ad altre parole di senso compiuto. Con questo non voglio mettere in
dubbio che, dietro la facciata di ‘Guisconi’ ci fosse Sansovino, se non altro
perché, nelle edizioni successive la firma dell’autore è esplicita e perché di
Anselmo Guisconi non esiste traccia alcuna nella vita reale.
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