English Version
Francesca Salatin
Un’introduzione al Vitruvio di Fra Giocondo (1511)
![]() |
Figura 1 Frontespizio dell'edizione del De architectura di Fra Giocondo (1511). Fonte: http://architectura.cesr.univ-tours.fr/Traite/Images/CESR_2994Index.asp |
PREMESSA
Francesca Salatin, docente a contratto presso l’Università IUAV di Venezia, si occupa da tempo di studiare le edizioni rinascimentali del De architectura di Vitruvio. Le ho chiesto di introdurre brevemente in questo blog la versione dell’opera pubblicata nel 1511 a cura di fra Giocondo (su cui ha scritto la sua tesi di laurea nel 2009). Non posso che ringraziarla per aver gentilmente acconsentito.
Giovanni Mazzaferro
***
Nel 1511 l'editore veneziano Giovanni Tacuino pubblica il M. Vitruvius per Iocundum solito castigatior factus cum figuris et tabula ut iam legi et intelligi possit: la prima edizione illustrata del De architectura di Vitruvio. Curatore dell’opera è fra Giocondo, architetto e umanista veronese, animato da svariati interessi, che lo sollecitano a ricercare una piena comprensione del trattato vitruviano [1].
La figura di fra Giocondo va innanzi tutto esaminata all’interno della cultura, dell’architettura e della politica veneziana di inizio ‘500: panorami con i quali il frate si confronta dopo essere stato nominato Consilii X Maximus architectus al suo rientro dalla Francia. Sebbene l’arrivo di fra Giocondo sia dettato da ragioni di urgenza pratica, ovvero l’aggravarsi dell’interramento della laguna, la sua presenza diventa la chiave di volta per la traduzione in architettura del progetto di renovatio urbis proprio dell’élite culturale vicina al futuro Doge Andrea Gritti. Risultato architettonico dell’influenza di Giocondo a Venezia sono i progetti che a inizio secolo vengono intrapresi nell’area di Rialto, in particolare il ricostruito fondaco dei Tedeschi, la cui pianta ricorda da vicino un’incisione dell’edizione di Vitruvio [2].
Coltivando diversi campi di studio e maturando una molteplicità di competenze, il frate riesce a unificare nella sua opera i due filoni in cui si era fino ad allora distinta la ricerca: da un lato quello antiquario-filologico e dall’altro quello pratico-operativo. Fra Giocondo restituisce, infatti, un testo latino più corretto rispetto alle edizioni precedenti, corredato da un ricco apparato xilografico - 136 incisioni distribuite in tutti i dieci libri - e con l’aggiunta di un indice che ne facilita la comprensione, come dichiarato fin dal titolo. Un vero e proprio punto di svolta negli studi vitruviani: l’opera si rivolge, attraverso il testo risarcito nelle lacune, al mondo degli umanisti e attraverso la semplicità e l’immediatezza delle incisioni, ad un pubblico dalle esigenze più genuinamente operative.
Per Venezia, città chiusa all'architettura all'antica, si tratta dell’atto primo di una trasformazione che la porterà, in un breve volgere d'anni, ad essere un polo vitruviano internazionale, centro d'attrazione per dilettanti e architetti, competitivo rispetto a Roma.
Nella storia della fortuna del De architectura, il testo di fra Giocondo rappresenta un imprescindibile momento di svolta, rivoluzionario per il nuovo tipo di interesse conoscitivo e unitamente pratico con cui il frate si avvicina a Vitruvio: la necessità di fornire un testo largamente comprensibile e utilizzabile porta il frate ad interventi filologicamente poco ortodossi che, comunque, producono esegesi accettate dalla critica successiva.
Se il sofisticato metodo di emendazione filologica seguito da Giocondo è stato messo in luce e accuratamente analizzato dalla Ciapponi [3], rari e disorganici contribuiti hanno invece interessato le xilografie, vero e proprio commento grafico al testo. Optando per un’analisi bifronte dell’edizione di Tacuino, che riservi pari dignità e spazio alla parte filologica e all’apparato illustrativo e didascalico, emerge che l’apparato illustrativo costituisce la cifra determinante per la fortuna editoriale dell’opera di Giocondo, come ribadito dalle riedizioni del 1513, 1522 e 1523.
Il Vitruvio del 1511 va poi preso in considerazione come operazione editoriale, prendendo in esame l’attività tipografica dell’editore Giovanni Tacuino nell’ambito della cultura e dell’editoria veneziana a cavallo del Cinquecento. Quella del tipografo trinese è una produzione variegata che, accanto ai classici, principalmente latini, vede opere di carattere religioso e morale. Sembra che la produzione in volgare, diretta alla massa e priva di pretese di particolari cure di stampa, fornisse la garanzia economica necessaria a portare avanti elaborate produzioni di testi classici.
Concorre all’illustrazione dell’itinerario culturale intrapreso da Giocondo nella scelta dell’editore, un’analisi del clima politico che travolge l’editoria negli anni prossimi al 1511, facendo particolare riferimento all’attività del Manuzio.
Stretto è il rapporto di collaborazione tra Aldo e Giocondo: è Manuzio a pubblicare nel novembre del 1508 le Epistulae di Plinio il Giovane unitamente al De Prodigiorum liber di Giulio Ossequente – frutto di un ritrovamento negli anni parigini del frate e di una di collazione di testi alla quale partecipa certamente Giano Lascaris, ma che potrebbe aver coinvolto anche il letterato francese Guillaume Budé. Seguirono nell’aprile 1509 il De Conjuratione Catilinae, per il quale Aldo si avvale di due codici parigini trasmessi da Giocondo e Lascaris, e nel 1517 l’edizione postuma degli Epigrammata di Marziale, sempre editi «Venetijs in aedibus Aldi et Andreae Soceri». Manuzio si assicurò, inoltre, l’aiuto del frate anche dopo la partenza per Roma: a testimoniarlo è la lettera del 2 agosto 1514, indirizzata dal Giocondo ad Aldo, nella quale si discute del De re rustica e del Cornucopiae – con un Nonio Marcello sempre di origine francese – venute alle stampe nel 1513, anno in cui videro la luce anche i Commentaria di Cesare, dedicati a Giuliano de’ Medici e corredati da diverse xilografie. Una di queste, la Pictura totius Galliae è probabilmente esemplata su un manoscritto antico, forse lo stesso che Poggio Bracciolini vide a Parigi.
La florida società di Manuzio, con la quale Giocondo collaborò a più riprese anche dopo il trasferimento romano, si trovò negli anni immediatamente precedenti e successivi alle stampe del Vitruvio (1509-1512) in balia degli avvenimenti politici che misero in ginocchio la Serenissima. Con la battaglia di Agnadello, che decise le sorti della guerra e determinò lo sfacelo dello Stato veneziano di terraferma, e la disfatta di Bartolomeo d’Alviano, mecenate di Aldo, la stampa rimaneva imbrigliata in un convulso meccanismo di regressione: Aldo abbandonò Venezia, lasciando l’azienda nelle mani di Andrea Torresani, e le circa venti ditte ancora in attività producevano soltanto una cinquantina di edizioni all’anno. Appare dunque evidente perché Giocondo non si sia avvalso dei torchi dell’amico e collaboratore Aldo per la stampa del suo Vitruvio e che valore potesse avere un'impresa editoriale del genere, per il suo autore, per l’editore e per l’intera città. È dunque opportuno chiedersi se la stampa del primo Vitruvio illustrato ad opera di quello che possiamo definire l’architetto di Stato, non vada letta – fatte le debite proporzioni- come segno della ripresa post-cambraica, così come sono stati letti, in ambito architettonico, i coevi interventi alle Procuratie vecchie. La Repubblica, già riconosciutasi in Giocondo, che “potea chiamarsi secondo edificator di Venezia” (Scipione Maffei) dato il suo impegno nel contrastare l’interramento della laguna, in un periodo di evidenti difficoltà, può vantare il primato nell’edizione di un’opera, che bandendo pretese di raffinatezza tipografica, pretendeva di arrivare ad un pubblico vasto, ottenendo un consenso internazionale, come dimostrano le edizioni successive. Sullo scorcio di tali considerazioni può forse venir letta la dedica dell’opera a Giulio II, sebbene scevra di riferimenti politici: Giocondo, che dalla Francia aveva dato prova del suo orientamento politico informando la Serenissima delle cospirazioni del papato ai danni della Repubblica, nel 1511 dedicherà il suo Vitruvio al “beatissimo Iulio II pontefici maximo”. Sorge il dubbio se si tratti di un atto di ringraziamento dovuto, da parte di un religioso, al Papa o del segno della ripresa di cordiali rapporti tra Venezia e la pontificia sede, grazie all’istituzione, in quello stesso anno, della lega Santa.
Quando il Vitruvio del 1511 viene dato alle stampe, Giocondo ha quasi ottant'anni e l’opera diventa lo specchio di interessi e competenze maturati lungo una vita; vita di cui, nonostante l’ottimismo ostentato dal Brenzoni nel tracciare un profilo biografico del frate [4], non riusciamo a sapere nulla per i primi cinquant'anni. Questo vuoto documentario sulla sua formazione rappresenta una delle maggiori difficoltà di approccio ad un uomo che nel corso degli anni ebbe un'attività intensa sia nel campo filologico-epigrafico che in quello tecnico-artistico. Anche se a partire dal soggiorno napoletano i documenti si fanno abbastanza frequenti, i cinque anni che intercorrono tra il novembre 1493, quando il frate è a Napoli, e il 1498, anno in cui è documentata la sua presenza in Francia al servizio di Carlo VIII, sono un arco temporale che giace nell’ombra. Si tratta di anni cruciali perché l’idea di pubblicare Vitruvio deve aver qui preso corpo: il confronto con il codice V. 318 della Biblioteca Nazionale di Francia, postillato – probabilmente da Guillaume Budé - durante le lezioni vitruviane tenute a Parigi e l’omologo vaticano (Inc. II. 556) con note di mano di Jano Lascaris, testimoniano un lavoro già in buona parte delineato [5]. Gli incunaboli rappresentano un’eccezionale prova del lavoro di équipe da cui prenderà vita l’edizione del 1511.
È il prologo di una storia che troverà compimento a Venezia, dove Giocondo realizzerà –nuovamente- quel proposito di condivisione e trasmissione del sapere che lo caratterizza per tutta la vita e che verrà ribadito nella supplica al Consiglio dei X: «offrendomi ad insegnar tutto quel che io so a tri, quattro, o ad quanti piacerà ad quella Ill. Signoria».
NOTE
[1] Su Fra Giocondo è necessario rimandare quanto meno alla consultazione di P. N. Pagliara, Vitruvio da testo a canone, in Memoria dell’antico nell’arte italiana, iii, Dalla tradizione all’archeologia, a cura di S. Settis, Torino, Einaudi, 1984, pp. 32-38 e di Giovanni Giocondo umanista, architetto e antiquario, a cura di P. Gros, P. N. Pagliara, Venezia, Marsilio, 2014.
[2] M. Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino, Einaudi, 1985, pp. 24-78 ; D. Calabi, P. Morachiello, Rialto : le fabbriche e il ponte 1514-1591, Torino, Einaudi, 1987 ; E. Concina, Fondaci : architettura, arte e mercatura tra Levante, Venezia e Alemagna, Venezia, Marsilio, 1997, pp. 152-180 ; D. Calabi, Il Fondaco degli Alemanni, la chiesa di San Bartolomeo e il contesto mercantile, in La chiesa di San Bartolomeo, cit., pp. 113-127 ; La chiesa di San Salvador, storia arte teologia, a cura di G. Guidarelli, Saonara (pd), Il Prato, 2009, in part. pp. 5-27.
[3] L.A. Ciapponi, Fra Giocondo da Verona and His Edition of Vitruvius, «Journal of the Warburg and Courtald Institutes», XLVII, 1984, pp. 72-90.
[4] R. Brenzoni, Fra Giovanni Giocondo veronese, Firenze, Leo S. Olschki, 1960.
[5] F. Salatin, Tra Francia e Venezia. Fra’ Giocondo, Giano Lascaris e Il Vitruvio del 1511, in «Studi Veneziani», LXXII (2015), pp.247-511.
Nessun commento:
Posta un commento