Carlo Cesare Malvasia
Le pitture di Bologna 1686
Ristampa anastatica corredata da indici di ricerca, da un commentario di orientamento bibliografico e informativo e da un repertorio illustrato
A cura di Andrea Emiliani
Bologna, Edizioni Alfa, 1969
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda
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Fig. 8) Ludovico Carracci, Annunciazione, 1584, Bologna, Pinacoteca Nazionale Fonte: Paul Hermans tramite Wikimedia Commons |
La Francia come obiettivo
Dobbiamo fare un passo indietro e
tornare alla Felsina pittrice, che
Carlo Cesare dedica niente meno che al Re Sole. Sappiamo benissimo che Malvasia
aveva come obiettivo (essendo consapevole che la sua opera sarebbe stata fortemente
contestata dal partito tosco-romano) quello di far diffondere la sua ‘storia
alternativa’ in Francia. La sua dedica a Luigi XIV non è, insomma, solo
piaggeria. Carlo Cesare sapeva benissimo che la nuova frontiera della
storiografia artistica, quella in cui si dettava il gusto in tutta Europa, era
la Francia. Il progetto non ebbe successo. Troppo forte era il legame che univa
il classicismo romano con quello francese (o, se si vuole dirlo in altre parole,
troppo suggestiva era la tesi di far risultare la Francia del Re Sole e Parigi
in particolare come eredi dei fasti dell’antica Roma). Tuttavia il Re Sole non
mancò di mostrare la sua riconoscenza a Carlo Cesare inviandogli un dono (un
gioiello col suo ritratto). Quest’ultimo, purtroppo, andò perso nel corso del
viaggio, tanto che, in sostituzione, (attorno alla fine del 1682) Malvasia si vide recapitare
dapprima una serie di incisioni di parte di Charles Le Brun e poi un secondo
gioiello che oggi si trova presso le Collezioni Comunali d’arte.
Nella dedica delle Pitture di Bologna Malvasia ringrazia
Charles Le Brun (che definisce ‘impareggiabile Amico’) per avergli fatto
spedire una seconda volta le stampe (che quindi dovevano essere presenti anche
nel primo invio) e per essersi adoperato per l’invio di un secondo gioiello.
Naturalmente, tutto questo può essere solo un peccato di vanità. Tuttavia mi
pare strano che Malvasia non abbia cercato di far recapitare una copia della
sua guida a Le Brun, un po’ perché si sarebbe trattato di un nuovo tentativo
per riproporre l’eccellenza della scuola bolognese e un po’ perché
oggettivamente Carlo Cesare poteva avere legittimamente l’ambizione che la sua
opera fosse tradotta in francese a beneficio dei viaggiatori d’Oltralpe. Di
tutto questo, in termini oggettivi, non vi è alcuna traccia; sarebbe però interessante
cercare di capire se un invio vi fu. Ad ogni modo, è assai probabile che se non
la princeps del 1686 una o più delle
edizioni del Settecento potesse essere reperibile in ambienti accademici in
Francia (e quind’anche da Descamps).
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Fig. 9) Ludovico Carracci, Pala Bargellini, 1588, Bologna, Pinacoteca Nazionale Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Carracci_Ludovico_Madonna_Bargellini.jpg |
L’indice dei nomi: verso una nuova opera?
Nel tentativo di allargare le
possibilità offerte al visitatore, Malvasia redige anche un indice per artista,
dando così la possibilità al lettore di costruirsi un itinerario personalizzato
dedicato solo ad alcuni artefici. L’indice si trova nelle pagine iniziali e
l’aspetto che più lo caratterizza è che è composto ‘solo’ da trentanove nomi
(fra cui alcuni di artisti ‘stranieri’ come Leonardo, Michelangelo e Raffaello).
È
di estremo interesse leggere quanto Carlo Cesare scrive sotto alla dicitura
“INDICE De’ Pittori”: “Quelli però
solamente, l’opere de’ quali oggidì sembrano le più ricercate e gradite dal
curioso Passeggiere. Tutti gli altri, col tempo in che fiorirono, e co’ Maestri
da’ quali ordinatamente derivarono, si avranno nel copioso Catalogo, che uscirà
ben presto alla luce de’ Pittori Bolognesi” (p. 10). Mi pare che ci non sia
dubbio che fosse intenzione di Malvasia completare la sua produzione appunto
con un catalogo dei pittori bolognesi. In realtà nulla di tutto ciò accadde, e,
per quanto mi risulta, non vi è alcun riscontro al progetto nelle carte residue
di Malvasia. Gli ultimi anni della vita di Carlo Cesare furono dedicati piuttosto
all’antiquaria. Tuttavia bisogna prendere atto che, in quegli anni, Malvasia
pensava a una terza tappa del suo percorso di storiografia artistica, dopo la Felsina e le Pitture di Bologna. Come doveva essere, questo catalogo? Non si sa.
È
possibile (ma estremamente improbabile, a mio avviso) che Carlo Cesare pensasse
a un abecedario sul genere di quello che per primo realizzò il bolognese Padre
Pellegrino Orlandi nel 1704. In un paio di occorrenze nel testo, però, l’autore lascia degli indizi, ad esempio quando nell’introduzione si augura “che possano i Bolognesi, a simiglianza di
que’ tanto strepitosi Decennali, pubblicar ben presto anch’essi un altrettanto
ben provato Catalogo di antichissimi non meno che insignissimi Artefici”
(p. 20). I ‘decennali’ in questione sono, chiaramente, quelli che scandiscono
le Notizie dei professori del disegno
di Filippo Baldinucci, pubblicate a partire dal 1681.
È forte, a questo punto, la
suggestione che Malvasia volesse dotare Bologna di uno strumentario
storico-critico parallelo, ma alternativo a quello su cui poteva contare
Firenze: e così, la Felsina in
risposta alle Vite di Vasari, le Pitture di Bologna a fronte delle Bellezze della città di Firenze di Francesco Bocchi, la cui prima edizione è del 1591, ma che nel 1677 viene stampata in forma fortemente ampliata a cura di
Giovanni Cinelli, e il mai realizzato Catalogo
dei pittori bolognesi da preparare in risposta alle Notizie dei professori del disegno del Baldinucci. Uno strumentario
alternativo, si diceva, e non vi è dubbio che vi siano ragioni campanilistiche
alla base dell’agire di Carlo Cesare, anche se è pur sempre importante
sottolineare che si tratta (per quanto pubblicato) dell’espressione di un modo
diverso di concepire la storia, basata su continuità e sviluppo rispetto a
quella fiorentina, che concepisce gli avvenimenti storici come fratture
improvvise. Fermo restando che si tratta di un paragone improponibile, ho
l’impressione che ai giorni nostri Malvasia sarebbe un’evoluzionista e Vasari
(ma soprattutto Baldinucci) un creazionista.
I primitivi
Non vi è il minimo dubbio che uno
degli elementi caratterizzanti della guida di Malvasia sia la forte presenza dei
primitivi. Grosso modo – scrive Emiliani (p. XII) - le opere realizzate entro il
XV secolo citate ne Le pitture di Bologna
sono 350, ovvero circa il 15% del totale. Un numero che può apparire basso,
ma che in realtà va confrontato con molti casi di guide seicentesche in cui i
primitivi si contano sì e no sulle dita di una mano. Sotto questo punto di
vista vorrei ricordare almeno due aspetti. Per primo, le parole spese per
Mezzaratta (i cui affreschi, o, meglio, quanto ne rimane, sono oggi in
Pinacoteca Nazionale). Gli affreschi della chiesa non sono descritti negli
itinerari (l’edificio si trovava ben al di fuori delle mura cittadine) [7], ma
comunque ricordati, e con parole lusinghiere, nell’introduzione dell’autore: “ma più d’ogni altra nella capacissima [n.d.r.
chiesa] di Mezzaratta fuore di porta S.
Mamolo, nella nascita cioè, vita, morte e glorificazione del nostro
amorosissimo Redentore, (…) con non
per prima pensati ghiribizzi, e con nove e peregrine invenzioni a
rappresentarsi a concorrenza altresì di due forestieri, ma però condiscepoli
sotto lo stesso Maestro, Christoforo detto da alcuni da Modona, e Galasso da
Ferrara. Non istarò qui a rammemorarvi quanto ella fosse lodata questa
manifattura, per quel che comporta un tanto inventare, in un sì rozzo secolo,
dagli stessi Carracci” (p. 17). L’altro complesso a meritare una citazione
in questa righe è, senza dubbio, la basilica di Santo Stefano o, se si
preferisce chiamarle così le Sette Chiese. Nelle guide del Lamo (incompleta) e
di Cavazzoni Santo Stefano non è mai citato. Naturalmente è possibilissimo che
ciò sia dovuto al fatto che i lavori furono lasciati incompiuti (anche se nel
caso del Cavazzoni non ne siamo sicuri). Certamente Santo Stefano è, con occhi
contemporanei a Malvasia (ma non con i suoi), una chiesa di interesse minore
perché testimonia proprio i secoli ‘rozzi’ (la basilica sorge su un’area
dedicata in età romana al culto di Iside e vede una vera e propria
stratificazione di luoghi di culto). Ancora una volta Carlo Cesare dimostra la
sua attenzione verso la continuità della pratica artistica. Malvasia, insomma,
vede e registra, al contrario di molti testimoni da fine Cinquecento in poi che
vedono (i quadri dei primitivi), ma fanno finta di non vedere. Malvasia si
dimostra ‘storico’ come Vasari, ma uno storico diverso (nel senso che propone
una lettura diversa, come già detto) e al contrario di scrittori d’arte come
Armenini etc, per i quali la storia dell’arte comincia solo con Leonardo, e
tutto ciò che è precedente è considerato ridicolo. Laddove Armenini parla di
‘fantocci’, ad esempio, Carlo Cesare descrive polittici (che non sono ancora
chiamati tali, ma opere ‘ a caselle’, con cuspidi piramidali) registrando i
soggetti se possibile.
La narrazione complessiva della
guida, peraltro, testimonia il continuo mutare del patrimonio esposto al
pubblico, con la sostituzione delle opere in base al gusto: e quindi gli
antichi affreschi sono sostituiti da tempere su tavola a fondo oro, e poi dagli
olii, in un panorama che vede la Bologna di Malvasia completamente rimodernata
nei secoli; tanto che i quadri dei primitivi vanno cercati (e Carlo Cesare lo
fa) nelle sacrestie, o nei locali di servizio delle chiese.
Un caso particolare è quello
delle ‘Madonne miracolose’. Malvasia conosce Corona di gratie, manoscritto a sfondo devozionale scritto da Francesco Cavazzoni che, di fatto, è una raccolta
di immagini sacre oggi conservata in Archiginnasio. La devozione è,
senza dubbio alcuno, il motivo per cui le immagini dei primitivi che meglio sono
sopravvissute sono quelle, appunto, delle Madonne miracolose. In sede di
abbattimento di vecchi edifici, o di rifacimento complessivo delle chiese, le
immagini della devozione popolare sono state letteralmente segate assieme al
muro su cui sono dipinte e incorporate nei nuovi edifici: “nella cotidiana rimodernatura, anzi totale reedificazione de’ troppo
antichi nostri edifici, sonosi perciò elleno andate per lo più conservando,
segatisi i muri, et in grossissimi telai incastrate novamente mutatesi entro le
più prossime Chiese, e nelle moderne fabbriche; onde potrete per tutto a vostro
talento vederne, considerarle, e sapermi poi dire, in qualsiasi altra Città ne
habbiate mai osservato in maggior copia, e più ben fatte di questo tempo”
(p. 18). Per Cavazzoni le immagini antiche hanno importanza solo in quanto
espressione della devozione; per Malvasia sono invece la prova empirica che la
pittura a Bologna non è mai venuta meno e servono dunque al ‘disinganno’ del
visitatore.
Le fonti di Malvasia
Si è detto di Cavazzoni. Appare
lecito chiedersi quali siano le altre fonti di Malvasia. Un peso preponderante
è, senza dubbio, rappresentato dalla Bologna
perlustrata di Antonio di Paolo Masini (1602-1692), pubblicata nel 1666.
Malvasia conosceva personalmente Masini, e già aveva avuto modo di servirsi
ampiamente della sua opera nella Felsina
pittrice. La Bologna perlustrata,
tuttavia, non era una guida artistica, ma era nata come raccolta di materiale
liturgico a cui erano state aggiunte notizie di ordine storico e artistico.
Appare chiaro, insomma, che, per Carlo Cesare, quello di Masini è un repertorio
utilizzato a riscontro dell’oculare ispezione e che fa da prova documentale a
quanto scritto nella sua guida. Scrive Malvasia nel paratesto: “chi (ricusando di prestare la dovuta intera
fede a queste notizie, che come istoriche, hanno per anima un’illibata et
inalterabile verità) richiedesse più tosto le prove materiali di quanto esse
contengono […] potrà pienamente soddisfarsi nella Bologna Perlustrata dell’esattissimo Masini, ove, con non minor
fatica, e maggior profitto (veduto anch’egli un mar di scritture) le pubbliche
et autentiche registrò ei pure d’ogni particolarità” (p. 12). Se Malvasia è
storico, insomma, Masini è il ‘notaio’ della situazione. Ma non bisogna
tuttavia cadere nel tranello che tutto ciò che è citato dal primo sia stato
segnalato dal secondo nel 1666: a ben guardare – scrive Emiliani – sono solo
200 (su 2400) le opere inserite nella Bologna
Perlustrata citate da Malvasia ne Le
pitture di Bologna. E se si tiene conto che i manufatti presenti sia nella Felsina sia nelle Pitture sono solo 230, si capisce come la guida di Malvasia abbia
un suo inestimabile valore non solo come completamento di un progetto
storico-critico, ma, in termini positivi, per la mappatura del patrimonio
artistico a Bologna alla fine del Seicento.
NOTE
[7] Sono comunque stati descritti
in precedenza nella Felsina (1678).
Si veda il primo volume dell’edizione critica Cropper-Pericolo pp. 222 e 224.
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