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martedì 23 aprile 2019

Giovanna Perini Folesani. Luigi Crespi storiografo, mercante e artista attraverso l'epistolario. Parte Prima


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Giovanna Perini Folesani
Luigi Crespi storiografo, mercante e artista attraverso l’epistolario

Firenze, Leo S. Olschki, 2019

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima




SU GIOVANNA PERINI FOLESANI SI VEDA IN QUESTO BLOG: Giovanna Perini Folesani, Luigi Crespi storiografo, mercante e artista attraverso l’epistolario (Parte prima e seconda); Sandra Costa, Giovanna Perini Folesani. I savi e gli ignoranti. Dialogo del pubblico con l’arte (XVI-XVIII secolo); Giovanna Perini, Gli scritti dei Carracci. Ludovico, Annibale, Agostino, Antonio, Giovanni Antonio; Roger de Piles, Dialogo sul colorito, A cura di Giovanna Perini Folesani e Sandra Costa (Parte prima e seconda); Giovanna Perini Folesani, Sir Joshua Reynolds in Italia (1750-1752), Passaggio in Toscana. Il taccuino 201 a 10 del British Museum

Questo libro nasce nel 1983, quando Giovanna Perini (successivamente Giovanna Perini Folesani per l’aggiunta del cognome della madre) discuteva la sua tesi di dottorato alla Normale di Pisa. I primi due capitoli di Luigi Crespi storiografo, mercante e artista attraverso l’epistolario presentano infatti il testo (ancora inedito) della tesi, così come fu scritta all’epoca, con l’aggiornamento della bibliografia citata in nota. Segue un terzo corposo capitolo, che funge da aggiornamento e rivisitazione critica del lavoro giovanile dell’autrice. Gli apparati finali sono costituiti da un’Appendice documentaria (al cui interno spicca la pubblicazione del carteggio intrattenuto fra Crespi e Heinrich von Brühl (1700-1763), primo ministro del Principato di Sassonia e Regno di Polonia) e da una Checklist delle pitture di Luigi Crespi esistenti, a lui attribuite o ricordate dalle fonti, sul cui significato si tornerà più avanti.

L’opera di Perini Folesani è di uno spessore culturale assolutamente raro; eppure, una domanda sorge spontanea (almeno al lettore più sprovveduto): perché dedicare un libro di quasi 500 pagine (e, indiscutibilmente, una parte consistente della propria vita professionale) a un personaggio ‘negativo’? Infatti, se c’è una cosa che appare chiara (ed era manifesta già dai tanti contributi che l’autrice gli aveva dedicato) è che Luigi Crespi (1708-1779) fu un cialtrone. A questa domanda, Perini Folesani risponde in maniera netta: “scrivere di storia non è un divertissement ozioso: è un atto morale e politico fondamentale” (p. 276). Si indaga il passato per rapportarsi al contemporaneo, e scrivere di un cialtrone del Settecento significa anche scrivere dei luigicrespi (ossia dei cialtroni) che ci circondano (e – aggiungo io – di quanti di noi – compreso il sottoscritto – sono cialtroni), delle reti di conoscenze che li nutrono e spiegano il loro successo, di ciò che è etico e cosa no. Condivido parola per parola questo approccio. Troppo spesso la storia è fatta esclusivamente di personaggi ‘esemplari’, senza macchia e senza paura; si tratta spesso di un meccanismo naturale: chi studia li prende in simpatia e tende a sovrastimarne il ruolo. L’analisi politica che sottende il discorso, invece – lo dico col massimo del rispetto nei confronti dell’autrice –, non mi convince per nulla, ma per non tediare il lettore, ne parlerò soltanto in nota [1].

Luigi Crespi, Autoritratto, 1771, Bologna, Pinacoteca Nazionale
Fonte: https://corsi.unibo.it/magistrale/artivisive/luigi-crespi-ritrattista-nelleta-di-papa-lambertini



Questioni di metodo

Il libro della Perini Folesani (come molti dei suoi precedenti) è una raffica di vento che ti solleva e ti fa vedere la realtà dall’alto, e contemporaneamente è un turbine, che restituisce i fatti in un movimento vorticoso; dall’occhio del ciclone, il lettore rischia di smarrirsi e di scambiare tutto ciò per caos. Va letto, quindi, tenendo sempre a mente alcuni aspetti di metodo che mi permetto di richiamare qui (non a caso, del resto, l’opera esce nella collana della Biblioteca del CURAM, Centro Universitario per la Ricerca Avanzata nella Metodologia storico-artistica).

Il primo è, senza dubbio, che studiando le microstorie si individuano le macrostorie, ovvero le tendenze di fondo. Luigi Crespi, di per sé, non avrebbe alcuna importanza, se non fosse perché, attraverso il suo epistolario (533 lettere spedite da e indirizzate a vari autori, conservate oggi alla Biblioteca dell’Archiginnasio, più naturalmente quelle rintracciabili altrove – ad esempio, le lettere con Bottari alla Biblioteca Corsiniana di Roma), è possibile ricostruire una rete di eruditi, dilettanti, collezionisti che anima il dibattito artistico italiano nella seconda metà del Settecento. Questo social network (come diremmo oggi) è rimasto a lungo oscurato dalle grandi figure della teoria dell’arte neoclassica, da un Winckelmann a un Mengs, e, pure, mostra una sua vivacità di fondo che non va trascurata. Trent’anni fa, parlare di queste cose era pionieristico: oggi, per fortuna, molti (non tutti) i corrispondenti del Crespi sono stati oggetto di studi approfonditi [2]. L’erudizione, insomma, è come il colesterolo: c’è quello buono e quello cattivo. Nel caso di Perini Folesani non vi è dubbio che il lavoro d’archivio, la ricerca del documento, l’attività sedula (come la chiama vezzosamente l’autrice) non siano trofei da esibire ai lettori, ma abbiano natura funzionale all’individuazione delle macrostorie.

Il secondo aspetto da tenere sempre presente è più delicato, perché più che con la storia, ha a che fare direttamente con la storia dell’arte. Uno dei fenomeni più evidenti, nella fortuna recente di Luigi Crespi, è la crescita esponenziale delle opere che gli sono attribuite (cfr. p. 281). Di fronte a una situazione di questo tipo, l’autrice, che ovviamente ha le sue idee sulla validità o meno delle attribuzioni, ma che ci tiene a ripetere più volte di non essere una conoscitrice, e di essere solo marginalmente interessata alla questione della connoisseurship (vorrei essere io un non-conoscitore come lei!) ha deciso di “raccogliere sistematicamente ed obiettivamente tutte le attestazioni storiche di attribuzioni a Crespi (indipendentemente dal fatto che siano più o meno verosimili) quale “lavoro preliminare” per la realizzazione di un catalogo dell’artista “in maniera “scientifica” e non intuizionistica: un mero censimento delle attestazioni storiche, il più completo possibile” (ibidem). Questa è la checklist (di una settantina di pagine!) che citavo in precedenza. La “maniera scientifica” contrapposta “all’intuizionismo” dice tutto: per Perini Folesani i quadri, che sono i documenti specifici su cui si fonda la storia dell’arte, “vanno trattati con lo stesso rigore metodologico con cui si analizzano le fonti documentarie più comuni, testuali invece che iconografiche” (p. 250). Per usare un lessico ridicolmente tragico di questi tempi, in cui si parla sempre di Brexit, fra una hard connoisseurship (alla Friedlander, per capirsi) e una soft connoisseurship, la studiosa si schiera risolutamente a favore di quest’ultima, e quindi contro le letture delle opere che non tengono conto dei dati oggettivi. Non necessariamente tali dati si identificano sempre con gli anni di realizzazione o con le firme scritte sulle tele, che comunque possono essere disattese solo con valide argomentazioni (nello specifico si guardi al ragionamento relativo ai ritratti dei coniugi Cellesi), ma possono essere rintracciati, ad esempio, in un serio studio della moda che permetta di giungere a una individuazione degli anni di esecuzione dei ritratti facendo ricorso a una griglia scientifica basata sull’evolversi del vestiario e delle acconciature ‘à la page’. Ad ogni modo, Perini è contro i cataloghi che si ampliano per aggiunte basate sull’intuizione ed è contro le ‘catene’ attributive, che portano a risultati spesso imbarazzanti. In Italia, in particolare, è contro la prassi longhiana: “è proprio per le eccessive disinvolture di molti conoscitori nostrani che gli storici tout court, quelli, “veri” […] non tengono per solito in gran considerazione gli storici dell’arte, specie italiani, specie longhiani – e non solo all’estero, ma anche in Italia, giungendo talvolta a sostituirsi loro volentieri nella lettura dei quadri, con baldanza spesso ingiustificata ed evidente pressapochismo” (p. 253). E la sua antipatia verso la prassi longhiana si spinge sino a chiedersi “come sarebbe stata diversa la “Scuola bolognese” (e per conseguenza, buona parte della scuola italiana) di storia dell’arte se [Igino Benvenuto] Supino avesse avuto un successore diverso alla cattedra (come del resto era previsto, se la politica di allora lo avesse permesso)” (p. 254). Va a questo punto ricordato che Supino fu professore di Storia dell’Arte a Bologna dal 1906 al 1934, e a sostituirlo fu Roberto Longhi. Insomma, Perini Folesani non le manda a dire.

Luigi Crespi, Ritratto di Elisabetta Antinori in Cellesi, 1732, Berlino, Gemäldegalerie Alte Meister
Fonte: https://it.wahooart.com/@@/8Y384Z-Luigi-Crespi-Elisabetta-Cellesi


Un prima e un dopo

Non vorrei indulgere in interpretazioni di carattere psicologico (che – sia chiaro – sono esclusivamente mie), ma a me pare che ci sia una data ben precisa che segna una svolta nella vita di Luigi Crespi, ed è il 1747, anno della morte del padre (assai più famoso e dotato in termini artistici) Giuseppe Maria (1665-1747). Di quanto succede prima, in realtà, non sappiamo molto: Luigi, negli anni Trenta, dipinge soprattutto ritratti da cui emerge una sua cifra personale, autonoma rispetto a Giuseppe, di natura mitteleuropea. Il fatto più curioso, se si vuole, è che dimostra di riuscire a tenere un doppio registro, da un lato quello della ritrattistica ‘autonoma’, dall’altro quello della produzione ‘seriale’, soprattutto sacra, che si richiama a modelli del padre, li replica e, a volte, con la chiara acquiescenza di quest’ultimo, li falsifica per far fronte alla domanda dei collezionisti. Luigi lavora a Bologna, ma soggiorna anche a Firenze, e dà saggi della sua ritrattistica nella periferia del granducato, che si accinge a vivere il cambio dinastico fra Medici e Lorena (1737). Nel 1735 si assiste a un episodio chiave: a gennaio, Luigi (probabilmente su insistenza del padre, manifestamente “matto” secondo quanto scritto lo Zanotti (p. 12), comunque sia soggetto a crisi mistico-religiose) fa domanda di ingresso nel Monastero della Certosa di Bologna; a febbraio vi è accolto come novizio; a maggio lo abbandona perché la solitudine gli sembra eccessivamente onerosa. Si tratta di un caso pressoché unico, in quegli anni, che certo testimonia di una vocazione non particolarmente sentita, anche se Luigi entra comunque nei ranghi del clero secolare. Gli anni successivi sono fumosi: il nostro appare lavorare assieme al padre e al fratello Antonio; sicuramente si cura degli aspetti commerciali legati alle commissioni ricevute da Giuseppe Maria e accende censi a suo nome. Ma sul piano dei riconoscimenti personali, ottiene ben poco: Giuseppe Maria è, in fondo, l’artista che ha ritratto il cardinal Prospero Lambertini nel 1739, divenuto Papa nel 1740. Le richieste paterne di attribuirgli cariche all’interno del clero vengono puntualmente respinte (Benedetto XIV è una persona seria) e la nomina a ‘Segretario Generale della sacra visita della Città e Diocesi di Bologna’, avvenuta nel 1738, ovvero prima che Lambertini diventi Papa, non porta di fatto a vantaggi economici (ma dà facile accesso al patrimonio ecclesiastico bolognese – cfr. p. 69).

La morte del padre cambia le cose. Non voglio qui dire che Luigi si liberi di una presenza ingombrante, né che si lasci andare a pratiche poco corrette in precedenza non utilizzate (fra 1732 e 1737 firma alcuni suoi quadri definendosi ‘Eques’, carica che non risulta, e in altre situazioni si definisce dottore in utroque iure, mentre pare che non si sia mai laureato); certo è che Luigi si trova al centro di un rinnovato interesse dei collezionisti, nazionali e internazionali, per i quadri di Giuseppe Maria, secondo una comunissima pratica (valida anche oggi) in base alla quale i quadri dei pittori morti valgono più di quelli dei vivi. Pare evidente che sono questi gli anni in cui Luigi decide ‘di fare le cose in grande’ e di cercare di accreditarsi come intermediario di opere d’arte, monete, libri presso i più grandi collezionisti d’Europa. Nel frattempo, ai primi del 1749, diventa Canonico di Santa Maria Maggiore (ed è curioso che succeda poco dopo la morte del padre; o forse proprio perché era morto il padre?), un incarico che gli assicura una piccola rendita senza impegni eccessivi.

Luigi Crespi, Ritratto di Lanfredino Cellesi, 1732, Pistoia, Museo civico
Fonte: https://www.europeana.eu/portal/it/record/2048011/work_66609.html

1749-1752

Quattro anni che mi sembrano decisivi: Luigi (probabilmente sfruttando la memoria del padre e moltiplicando le opere a lui attribuite grazie a repliche realizzate soprattutto dal fratello Antonio, spacciate per vere) entra nel circuito del ‘mercato’ internazionale e della grande erudizione artistica. Dal primo sarà presto respinto, fondamentalmente per sua trascurataggine. Probabile che Crespi riesca a entrare in contatto con i principi di Sassonia e sovrani di Polonia tramite il veneziano Pietro Guarienti (1700-1765), che lì vi si trovava e che era stato allievo di Giuseppe Maria. Sappiamo benissimo che Dresda, appena prima della Guerra dei Sette Anni (1756-1763), è una succursale italiana che compra intere collezioni senza badare a spese (correndo infatti rapidamente verso il crack finanziario). Basti pensare all’acquisto della collezione degli Este modenesi (1745) e alla Madonna Sistina di Raffaello (ma solo nel 1754). Gli acquisti operati tramite Luigi sono almeno tre, tutti di provenienza bolognese: si tratta di una predella di Ercole de’ Roberti (da San Giovanni in Monte a Bologna), ed è qui importante rilevare il fatto che, probabilmente sull’onda della notorietà dell’opera in quanto citata da Vasari, Luigi propone un primitivo, della Madonna della Rosa del Parmigianino, proprietà di  Casa Zani e dell’allora famosissimo Nino e Semiramide di Casa Tanari, opera di Guido Reni. Ma sulla vicenda di quest’ultima opera torneremo fra poco. Quello che importa è sottolineare che non si tratta delle uniche opere di cui Crespi propone l’acquisto agli Augusti di Sassonia; nel 1749 – come risulta dal carteggio col Primo Ministro Von Brühl, che presto si sostituisce al Guarienti come referente a Dresda – Crespi è a Firenze per trattare un Giuseppe e la moglie di Putifarre di Carlo Cignani. Il mancato acquisto, che secondo un referente toscano appare da addebitarsi più che altro al comportamento poco ortodosso del neo-canonico (cfr. p. 268), viene comunque spiegato in maniera soddisfacente alla corte sassone, che lo incarica di andare a Roma in incognito a valutare niente meno che la Galleria Barberini e di selezionare le opere più appetibili. Nel 1750, anno giubilare, Luigi è dunque a Roma [3]. Purtroppo non ci è giunta la lista che Crespi invia a Dresda, ma pare che vi comparisse la Fornarina di Raffaello (p. 269 n. 121). Del resto l’assenza di un Raffaello è un fatto che Luigi torna a far presente anche nell’agosto del 1752, all’indomani della disastrosa vicenda del quadro di Guido Reni, naturalmente offrendosi di trovarne uno (l’acquisto della Madonna Sistina a Piacenza, come detto, è del 1754, e vede come intermediario Giovanni Battista Bianconi).

Nel 1750 Crespi è nominato ‘Cappellano segreto sopranumerario’ del Papa (un titolo meramente onorifico). Da allora (e in qualche modo aiutato dal Bottari, di cui parleremo fra un po’) Luigi cerca di ottenere il trasferimento a Roma e l’incarico di Cappellano segreto effettivo. Perini (che non è poi così cattiva) cerca di vedere in tutta questa serie di contatti col mondo extra-bolognese (e quind’anche nel tentativo prolungato almeno fino al 1758 di spostarsi a Roma) la consapevolezza di appartenere a un angusto mondo provinciale e l’esigenza personale di aggiornamento di un uomo che, però, si rivolge a un mondo sbagliato: “anche la vita intellettuale romana era in fondo poco brillante, perché il fervido e libero dibattito che tanto abbagliava Winckelmann era incentrato ovviamente su dogmi teologici, questioni di culto e, in alternativa, cocci antichi, senza nessun vero spazio per la discussione di temi attuali e illuministi di politica e di economia” (p. 34). Sicuramente, direi io, Luigi cerca di andare a Roma per tenere monitorate meglio le occasioni di mercato. È chiaro che non gli basta più essere colui che movimenta i quadri del padre; le sue ambizioni sono ben altre.

La vicenda sassone si conclude ingloriosamente nel 1752. Tempo fa, Perini Folesani aveva supposto, come molti altri, che la ‘sfortuna’ di Crespi a Dresda fosse determinata dalla corrispondente presenza in città di un altro bolognese, Giovanni Ludovico Bianconi [4]. Che Giovanni Ludovico e il fratello Carlo odiassero Luigi  (ampiamente ricambiati) è fatto noto e in generale ricondotto alle divergenze in Accademia Clementina, a Bologna, nel giudizio sull’opera di Donato Creti (1671-1749) e Giuseppe Maria, padre di Luigi. Il partito vincente, quello favorevole a Creti, ebbe il suo principale esponente in Ercole Lelli (1702-1766), allievo di quest’ultimo, che sempre si oppose all’ascrizione di Crespi tra i membri dell’Accademia. Fra le fila dei vincitori, militavano anche i Bianconi. In realtà oggi Perini Folesani ritiene che i dissapori fra Luigi e i Bianconi possano avere una radice non artistica, ma religioso-devozionale. Le due famiglie, a Bologna, frequentavano addirittura la stessa chiesa (quella di Santa Maria Maddalena nella Mascarella) e la stessa confraternita (pp. 263-265). Poi, che Giovanni Ludovico, anch’egli ampiamente introdotto nell’intermediazione di beni artistici per i governanti sassoni, potesse (logicamente) ritenere Crespi un pericolo, e agire di conseguenza, è logico: “ma va riconosciuto che, come dimostra il carteggio di Luigi, questi era bravissimo anche a rovinarsi da solo” (p. 265). E a questo punto occorre narrare la vicenda del Nino e Semiramide di Guido Reni, opera per cui Crespi si spende con particolare impegno, ottenendo ad esempio dal Papa l’eliminazione dei vincoli fidecommissari che ne impedivano inizialmente la vendita. Nel 1752 Luigi parte con la cassa contenente l’opera (e un’altra in cui è contenuto il Parmigianino) alla volta di Dresda. La traversata dell’Adriatico, con sbarco a Parenzo, è particolarmente difficoltosa e, durante una tempesta, l’acqua salmastra entra nell’imballaggio dell’opera del Reni. Arrivato a Parenzo, Crespi fa finta di niente, e lascia il quadro a macerare nell’acqua. Il risultato è che, quando la cassa viene aperta a Dresda, ciò che ne esce (a fronte di un’opera in perfetto stato di conservazione, come testimoniato con atto giurato da diversi accademici alla partenza) è un lenzuolo slavato. Poi, se si vuole, ci sono tutte le attenuanti del caso: la cassa era sigillata perché fosse impossibile, nel corso del viaggio, sostituire l’opera con una copia o un falso (nonostante Crespi avesse dichiarato ufficialmente che non ne esistessero). Aprire il bagaglio, dunque, voleva dire rompere dei sigilli. In Sassonia evidentemente non si fidavano troppo, e forse facevano bene, perché, quando ci si rende conto di quello che è successo, Luigi si offre di tornare a Bologna e di andare a prendere una copia del quadro. L’opera, oggi, è definitivamente perduta (distrutta sotto i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale), ma c’è da ritenere – se ne conserva una foto – che fosse il frutto della ridipintura totale dei tecnici di restauro sassoni dell’epoca.

Che poi tutto ciò sia fatto da un uomo che, in anni recenti, viene citato nei manuali di restauro per due suoi trattati-lettere sul restauro conservativo è un po’ ironia della sorte, ed è probabilmente uno dei motivi che ha spinto Perini Folesani a scrivere questo libro: i cialtroni restano cialtroni; un conto sono i comportamenti e un conto ciò di cui ci si riempie la bocca. Ancora più incredibile che, ad agosto 1752, ancora a Dresda, Crespi scriva a von Brühl come se nulla fosse accaduto, protestando il suo impegno nel voler proseguire l’attività di acquisto di opere d’arte per la Corona etc etc. Bianconi, in fondo, non dovette far molto. Alla fine del 1752, Luigi Crespi mercante internazionale d’arte si era bruciato da solo.

Parmigianino, Madonna della rosa, Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister
Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Parmigianino,_madonna_della_rosa_01.jpg
Anonimo, Copia da Guido Reni, Nino e Semiramide (distrutto a Dresda sotto i bombardamenti della II Guerra Mondiale)
Fonte: https://www.copia-di-arte.com/a/guido-reni/semiramisandninusaftergui.html

Bottari

Con ogni probabilità Crespi e Bottari si conoscono personalmente nel corso del viaggio ‘in incognito’ a Roma del primo nel 1750 e decidono di cominciare a carteggiare fra loro. A testimoniare la loro frequentazione erudita stanno 212 lettere, di cui 157 scritte dal bolognese e 55 dal monsignore di origini toscane, che peraltro (viste alcune gravi lacune) non rappresentano tutto quanto si scrissero reciprocamente. Si può ritenere con ragionevole sicurezza che i rapporti fra i due si estesero su un arco temporale che va dal 1750 circa al 1770. Perini Folesani fa presente, infatti, che tutte le lettere indirizzate da Crespi a Bottari fra il 1770 e il 1772 (non ve ne sono di inviate da Giovanni Gaetano a Luigi) sono pubblicate nel VII tomo della Raccolta di lettere, solo formalmente di Bottari, ma pubblicato da Crespi all’insaputa dell’ex- sodale e il nome del destinatario è manifestamente di comodo. L’inizio del carteggio ha natura meramente commerciale e ha ad oggetto lo scambio di informazioni su stampe e medaglie; in realtà però si capisce ben presto che Crespi mira ad altro, ovvero a entrare in contatto col cardinal Neri Corsini, al cui servizio si trovava all’epoca il Bottari. Anche a Corsini Luigi vuole proporsi come intermediario artistico, ma i primi acquisti operati tramite Crespi si rivelano deludenti e il canonico bolognese si vede chiudere un’altra porta in faccia (dal carteggio di Luigi risulta anche che, sempre nel 1751, il nostro si reca a Modena per proporsi come intermediario anche agli Este, che devono rimpinguare la loro raccolta, prosciugata dalla vendita della collezione a Dresda).

Certamente, a contribuire al sodalizio con Bottari non sono motivazioni religiose: Giovanni Gaetano, come noto, è il principale esponente romano del neo-giansenismo, ma Luigi, tendenzialmente, non sembra interessarsi troppo al conflitto fra giansenisti e gesuiti. La sua, del resto, è una fede molto tiepida; Crespi non ha difficoltà a parlare con gli uni e con gli altri, naturalmente scrivendo male della parte ‘avversa’ quando necessario. Del resto, nel 1755 viene ‘sospeso’ per essersi fatto riconoscere in atteggiamenti poco consoni con signorine di non grande reputazione; e le disposizioni che detta al momento di fare testamento, nel 1779, lasciano chiaramente intendere che ha un figlio e una figlia illegittimi. Insomma, la fede non c’entra nulla.

Una volta venuti meno gli interessi commerciali (non senza aver esplorato l’interesse in merito del Cardinal Andrea Corsini, nipote di Neri e Abate commendatario della Basilica di Santo Stefano a Bologna), Luigi collabora all’impresa che il monsignore sta progettando in quegli anni, ovvero la Raccolta di lettere sulla pittura, scultura ed architettura, il cui primo volume esce nel 1754. Ciò che realmente gli importa è che si parli di lui: “non c’è dubbio che la Raccolta costituiva […] la tribuna più importante e accreditata a questo fine, quella precisamente che lo segnalò all’attenzione di un Carrara, di un Ratti, di un Piacenza e di tutta la pletora degli eruditi provinciali italiani […]. Fu, la collaborazione crespiana alla Raccolta, anche lo strumento più adatto per creare un’attesa crescente per l’uscita del terzo tomo della Felsina pittrice del quale, a partire dal proprio III tomo, la Raccolta non fece che annunciare come imminente la pubblicazione, sia nelle lettere del Crespi che in quelle altrui” (p. 100).

Anzi, a essere precisi, - continua l’autrice – la Raccolta bottariana sembra avere un valore fondante nei confronti del terzo tomo della Felsina. È Crespi, nell’aprile 1753, a scrivere a Giovanni Gaetano prospettandogli la possibilità di preparare per il secondo volume dell’opera (la cui pubblicazione era praticamente certa prima che fosse stampato il primo) una serie di lettere che proseguissero non solo l’opera malvasiana, ma anche le Vite scritte dalla Zanotti nell’ambito della sua Storia dell’Accademia Clementina (1739). L’idea iniziale matura poi nel corso degli anni successivi e, anche su consiglio di Bottari, prende una sua autonomia e indipendenza rispetto alla Raccolta.

Luigi Crespi, Ritratto di dama con cagnolino, Bologna, Museo Davia Bargellini
Fonte: http://agenda.comune.bologna.it/cultura/luigi-crespi-ritrattista-nell-eta-di-papa-lambertini-1

Ancora sulla Raccolta

Naturalmente non è qui il caso di soffermarsi puntualmente sul contributo di Crespi alla Raccolta, impresa che, peraltro, si estende per sei tomi, dal 1754 al 1768 più un settimo (pirata) curato proprio da Luigi all’insaputa del monsignore romano ed edito nel 1773. Non è il caso anche perché, proprio su questo blog, è in corso di pubblicazione un resoconto particolareggiato dei contenuti dei volumi bottariani. Tuttavia alcuni aspetti vanno richiamati, tenendo sempre conto che riguardano un arco temporale di quasi vent’anni, nel corso del quale Crespi fa e scrive molte altre cose.

Innanzi tutto, è con la Raccolta che Crespi che esordisce come storiografo e pubblicista. Le prime lettere pubblicate in realtà sono allocuzioni scritte in forma di epistola apposta per rientrare nell’opera bottariana: è il caso delle tre lettere che, di fatto, recensiscono la ristampa romana della Descrizione delle immagini dipinte da Raffaello d’Urbino, opera di Bellori. Previste per il primo tomo della Raccolta, slittano, per motivi editoriali, al secondo (cfr. p. 25). Alla stessa maniera, sono ospitati nel terzo tomo del 1759 (ma originariamente previsti per il secondo) la lettera contenente la biografia del padre di Luigi, Giuseppe Maria Crespi e i due trattati sul restauro a cui si è accennato in precedenza.

Lo scambio di informazioni fra Crespi e Bottari è (ovviamente) bidirezionale. Luigi dimostra di impegnarsi molto per far fronte alle richieste del suo referente romano, non solo per il reperimento di testi artistici, ma anche di pubblicazioni a fondo religioso. Fra le altre cose, Perini Folesani ritiene che i due ‘libretti’ di cui il monsignore fa richiesta a Luigi nel 1765 (le ricerche di quest’ultimo si rivelano vane, nel caso specifico), siano gli scritti di Zuccari che Bottari annuncia di prossima pubblicazione nell’introduzione al Tomo V della Raccolta (cfr. pp. 90-91). È inoltre merito di Crespi (secondo Perini) il fatto che Bottari sia riuscito a entrare in contatto con Giampietro Zanotti (1674-1765) [5].

Nel 1764, saputo che Bottari sta preparando il IV Tomo della sua Raccolta, Crespi gli invia altre due lettere-trattato, questa volta contenenti critiche di fuoco nei confronti, rispettivamente, delle Lettere scritte da Giovan Ludovico Bianconi al Marchese Filippo Hercolani [6] e del Trattato di pittura di Jonathan Richardson in traduzione francese. Bottari, questa volta, decide di non pubblicarle, forse per rispetto della sua amicizia con Bianconi, forse perché consapevole che l’attacco a Richardson era velleitario e sconfinava nel ridicolo, certamente non condividendone la smodata presenza di invettive (cfr. p. 113). Al loro posto, il fiorentino inserisce invece trentadue lettere ‘vere’ di Crespi, tratte appunto dal carteggio reale e non scritte per l’occasione, che rendono con sufficiente chiarezza la natura degli scambi epistolari intervenuti.

L’episodio segna probabilmente l’inizio del raffreddamento dei rapporti fra i due. Intendiamoci: Bottari assicura comunque il suo supporto al terzo tomo della Felsina Pittrice di Crespi parlandone nella Raccolta, ma soprattutto fornendo l’editore (il romano Pagliarini). Certo è che Luigi non vede pubblicati i suoi due scritti nemmeno nel V e nel VI Tomo della collana bottariana. Giovanni Gaetano, da parte sua, resta profondamente deluso dal risultato finale della fatica di Crespi una volta che l’ha in mano; questa delusione non risulta in nessuno scritto, ma si manifesta proprio nell’assoluto silenzio e nell’assenza di ogni commento sull’opera. Nel 1770, infine,  il fiorentino, scrive al bolognese (forse in tutta sincerità, forse semplicemente per levarselo dai piedi) dicendogli che il VI tomo della Raccolta è da considerarsi l’ultimo e non ce ne saranno altri. Crespi risponde chiedendo di vedersi restituire le lettere inviate al monsignore (intendendo per ‘lettere’ più che altro le sue dissertazioni in forma epistolare), perché ha intenzione di stamparle autonomamente in una prossima occasione. Bottari adempie alla richiesta, ma solo parzialmente: le missive contro il Richardson e Bianconi si trovano ancora alla Corsiniana. L’occasione a cui fa riferimento Crespi è, naturalmente, l’edizione-pirata del VII Tomo della Raccolta. Ma di tutto questo parleremo più avanti, perché adesso è tempo di prendere in considerazione il Terzo tomo della Felsina Pittrice.


Fine della Parte Prima


NOTE

[1] Da appartenente a una tradizione di liberalismo laico, non condivido, ad esempio, la demonizzazione del ‘mercato’; posso capire la nostalgia per il Partito con la P maiuscola, ma vorrei far presente che “quella svolta infausta che si fregia, sfregiandolo, del nome di un degno quartiere popolare bolognese, la Bolognina” non fu il capriccio di una classe dirigente, ma va calata in un contesto storico internazionale e fu la diretta conseguenza del crollo dei regimi comunisti dell’Est (in cui i luigicrespi abbondavano), che “l’Europa variamente istituzionalizzata e denominata (prima CECA, poi MEC, poi CEE e ora UE, domani chissà” è, non solo per motivi demografici, ma anche come esempio di una comunità di diversi che convivono in pace, la nostra unica prospettiva politica.

Non mi convince nemmeno, a essere onesto, la visione di Luigi Crespi che viene isolato ed emarginato da un “corpo sociale sostanzialmente sano” (p. XV) (quello della Bologna di antico regime, ma più in generale, quello del Settecento). Mi sembra, in linea di massima, che nella sgradevolezza dei suoi comportamenti, il canonico Luigi Crespi, millantatore, plagiatore, sfrenatamente egocentrico e ambizioso, incidentalmente padre di due figli, sia vissuto felice; certo non morì in disgrazia. E sinceramente il paragone fra il Settecento fondamentalmente sano e il Duemila malato non suscita il mio entusiasmo.

[2] Rimandando alla bibliografia citata nell’opera, segnalo qui, quanto meno, oltre agli scritti di Perini sul Dolci in Guide e viaggiatori tra Marche e Liguria dal Sei all’Ottocento (a cura di Bonita Cleri e Giovanna Perini), Urbino, Istituto di Storia dell’arte e di Estetica dell’Università di Urbino “Carlo Bo”, 2006, il Descrivere Lucca. Viaggio tra note, inventari e guide dal XVII al XIX secolo a cura di Emanuele Pellegrini con affondi su Tommaso Francesco Bernardi sia di Pellegrini sia di Perini (Pisa, Edizioni ETS, 2009), e ancora La Guida di Urbino di Innocenzo Ansaldi e altri inediti di periegetica marchigiana (a cura di Perini e Giovanni Cucco), Urbino, Istituto di Storia dell’arte e di Estetica dell’Università di Urbino “Carlo Bo”, 2004; Emanuele Pellegrini, Settecento di carta. L’epistolario di Innocenzo Ansaldi (Pisa, Edizioni ETS, 2008); Innocenzo Ansaldi, Luigi Crespi, Descrizione delle sculture, pitture et architetture della città, e sobborghi di Pescia nella Toscana, a cura di Emanuele Pellegrini (Pisa, Edizioni ETS, 2001). Se qualcuno è rimasto fuori da questo lavoro erudito di analisi, mi sembra che possa essere Carlo Giuseppe Ratti.

[3] Mi verrebbe da dire che possa essere proprio la Galleria Barberini a cui Luigi allude scrivendo al cardinal Neri Corsini l’anno dopo e dicendo di aver visto “una serie di presunti svarioni attributivi riconosciuti da lui stesso in una celebre galleria romana (il cui nome è stato soppresso, presumibilmente dal Bottari)” (cfr. p. 70).

[4] Giovanni Ludovico Bianconi, Scritti tedeschi, a cura di Giovanna Perini, Bologna, Minerva edizioni, 1998, p. 95.

[5] Su questo fatto esistono diverse interpretazioni. Perini Folesani fa presente che nel 1984, indipendentemente dalla sua tesi su Crespi  Simonetta Prosperi Valenti Rodinò aveva pubblicato su «Paragone Arte» Le lettere di Luigi Crespi a Giovanni Gaetano Bottari nella Biblioteca Corsiniana (le due, in sostanza, non erano al corrente degli studi l’una dell’altra). Prosperi ritiene che sia invece stato Crespi a essere presentato al Bottari da Zanotti. Cfr. p. 96 n. 328.

[6] Si vedano in Giovanni Ludovico Bianconi, Scritti tedeschi, cit.



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