English Version
Giovanni Andrea Gilio
Dialogue on the Errors and Abuses of Painters
[Dialogo degli errori e degli abusi dei pittori]
A cura di Michael Bury, Lucinda Byatt e Carol M. Richardson
Traduzione di Michael Bury e Lucinda Byatt
Los Angeles, The Getty Research Institute, 2018
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda
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Contro il manierismo?
Il Dialogo degli errori e degli abusi
dei pittori è stato quasi sempre considerato dalla critica d’arte
del Novecento come espressione di un moto di rivolta nei confronti degli
eccessi del manierismo e a favore di un’estetica più semplice, più
comprensibile al pubblico, più efficace nell’indirizzare la potenza delle
immagini verso il nutrimento dell’autentico sentimento religioso. Rivelatori,
in questo senso, sarebbero i passaggi che stigmatizzano l’ ‘eccesso di sforzo’
nella rappresentazione delle figure rispetto alla loro leggibilità: “e par loro [n.d.r. ai pittori ignoranti]
aver pagato il debito, quando hanno fatto
un santo, et aver messo tutto l’ingegno e la diligenza in torcerli le gambe, o
le braccia, o ‘l collo torto, e farlo sforzato, di sforzo sconvenevole e
brutto; e senz’altra considerazione mettono in opera il pennello” [13].
Sono costoro (quelli che con espressione particolarmente felice Gilio definisce
‘notomisti del furioso’) che “ne le loro
figure, figurette, figuraccie e figuroni fanno fare agli uomini, a l’arme, ai
cavalli sforzi, pieghe et altr’atti tanto sgarbati, che la natura piange e
l’arte ride, vedendo tanti ciarpelloni, tanti barbarismi e tanti latini falzi,
che tutto’l giorno si fanno” [14]. Massima espressione di questo tipo di
pittori sarebbe stato Michelangelo. Gli errori e gli abusi di Michelangelo
sono, peraltro, di particolare gravità, perché egli è unanimemente riconosciuto
il ‘principe’ dei pittori, colui che ha riportato la pittura alla bellezza
degli antichi e il cui esempio è quindi seguito da tutti gli artisti moderni.
Parlare di un ‘attacco a Michelangelo’, tuttavia, non è del tutto corretto. Un
attacco c’è, ma non sul piano stilistico, quanto piuttosto su quello
dell’appropriatezza delle immagini. Scrive Gilio: “[Michelangelo] è tale che merita eterna lode per aver
restituita l’arte al suo decoro, e per averla rilevata et illustrata di
maniera, c’ha pareggiato gli antichi e superato i moderni” [15]. Ma
contemporaneamente, parlando della resurrezione dei morti nel Giudizio
universale, mette in bocca a Ruggiero Corradini, unico religioso del gruppo dei
dialoganti: “Credo certo che
Michelagnolo, come da prima fu detto et è fama pubblica, che per ignoranza non
ha errato, ma più tosto ha voluto abbellire il pennello e compiacere a l’arte
che al vero. Io penso certo che più sarebbe piaciuto et ammirato, se questo
mistero fatto avesse come l’istoria richiedeva, che come l’ha fatto” [16].
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Michelangelo. Il Giudizio Universale (particolare: Cristo giudice e Maria), Città del Vaticano, Cappella Sistina Fonte: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Michelangelo_-_Cristo_Juiz2.jpg |
Nel suo saggio introduttivo,
Michael Bury passa in rassegna i critici d’arte del Novecento che hanno
interpretato Gilio parlando della nascita di un gusto estetico che stigmatizza
l’eccessivo formalismo del manierismo. La cosa strana, semmai, è che inserisca
anche Paola Barocchi nel novero di questo gruppo di interpreti (“e Barocchi, che
chiaramente non ama il «formalismo», coopta Gilio alla sua causa”, p.
10). Confesso che quest’ultima affermazione mi pare infelice; non mi sembra che,
né nel suo commento né nelle note al testo, Barocchi dimostri particolare
simpatia per Gilio. Anzi, ha ben chiaro, e ribadisce in più occasioni, che
quelle del sacerdote fabrianese sono critiche mosse senza alcun fondamento
stilistico. Le critiche a Michelangelo, e in particolare quelle al Giudizio Universale furono – come ben
noto – quasi immediate e coinvolsero il mondo religioso, quello letterario e
quello artistico, ma giunsero anche a essere oggetto di episodi ‘popolari’,
come testimoniato nel testo della celebre ‘pasquinata’ risalente,
probabilmente, al 1544 [17]. Eppure Barocchi ha presente che, mentre le
critiche di Aretino si fondano su un moralismo che si nutre in realtà del
rancore perché Michelangelo non seguì il programma iconografico propostogli
proprio dal letterato in questione, mentre quelle del Dolce trovano la loro
intima ragion d’essere nella promozione di un classicismo che – questo sì – si
contrappone in termini stilistici alla maniera moderna praticata a Firenze, nel
caso di Gilio siamo di fronte a un ‘non-artista’ (o se vogliamo usare il
lessico dell’epoca, a un non-artefice) che, in un dialogo popolato da
religiosi, letterati e uomini di legge, ma da nessun pittore, svolge un
ragionamento legato al puro ‘contenuto’ delle immagini.
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Michelangelo, Il Giudizio Universale (particolare: San Biagio e Santa Caterina), Città del Vaticano, Cappella Sistina Fonte: Wikimedia Commons |
L’arte di non vedere
Gilio è del tutto privo di una
visione evolutiva storica della pittura italiana e della consapevolezza di
differenza stilistiche fra artefici moderni. Raffaello è citato in pochissime
occasioni e in tutte, sostanzialmente, come sodale di Michelangelo. Nell’ambito
di un quadro che appena accenna alla rinascita delle arti (adeguandosi al noto schema vasariano), tutti i predecessori del Buonarroti sono semplicemente
citati come ‘i pittori che furono avanti Michelangelo’, senza distinzione
alcuna. Li si definisce genericamente come goffi (ma non sappiamo, ad esempio,
se si parla di Giotto o dei quattrocentisti), ma portatori di una spiritualità
più sincera perché non cedono al ‘capriccio’. Così, quando si lodano gli
antichi perché mettevano le ali agli angeli e le aureole ai santi, il pensiero
va al Polittico di Villa Romita di Gentile da Fabriano che Gilio loda nel suo
sonetto sulla Madonna che vi compare dipinta (si veda, nella parte Prima, il paragrafo ‘Gli scritti di Gilio’), ma
è un dato di fatto che l’autore fabrianese non cita un primitivo che sia uno,
anche se compatriota. E nessun riferimento è fatto alla questione del ‘toscanocentrismo’
di Vasari o all’arte di matrice veneta, che pure nelle Marche era ben nota e
molto diffusa.
La verità è che Gilio è un
non-pittore che non vede i quadri se non da un punto di vista del contenuto. E
anche quando Barocchi (e lo fa spesso nelle sue note) parla di contestazione
della Controriforma al Manierismo appare evidente che parla di ‘Manierismo’
avendone in mente una connotazione cronologica, non stilistica. Le figure
‘sforzate’ dei pittori che cedono al ‘capriccio’ (si pensi all’Adorazione dei pastori di Battista
Franco nella Cappella Gabrielli di Santa Maria sopra Minerva) sono ridicole non
in termini stilistici, ma perché un angelo che sembra precipitare dal cielo
come un colombo a cui si siano attorcigliate le ali o come se fosse un essere
umano in caduta libera non si addice, in termini di decoro, a una
rappresentazione di storia [18].
L’arte degli antichi
La dimensione astorica del
pensiero di Gilio trova un suo corollario nella definizione dell’arte perfetta.
L’arte perfetta – la pittura perfetta, in particolare – è stata quella degli
antichi greci e romani, quella che ci racconta Plinio con i suoi aneddoti. È
l’arte praticata dai nobili e vietata ai servi, ma soprattutto è l’arte che non
si vede, perché totalmente scomparsa. Tutt’altro che infrequente in un mondo in
cui Plinio continua a essere un punto di riferimento imprescindibile per darle
una giustificazione di nobiltà, che condivide ovviamente con la poesia, la
pittura di Gilio non esiste, ma è perfetta per antonomasia. Si può forse
supporre – come detto - che Michelangelo abbia eguagliato gli antichi, ma
il suo mancato rispetto del decoro ne inficia l’opera. Recensendo le Vite di Vasari mi è capitato di
domandarmi come si sarebbe collocato lo scrittore aretino nell’ambito della
settecentesca querelle sugli antichi
e i moderni e ho risposto, senza dubbio alcuno, che si sarebbe schierato coi
moderni. Gilio è, invece, un partigiano dell’antico, di un antico che non
conosce nelle sue forme artistiche, ma che ha insito in sé il vero quid in più della chiesa cattolica
romana contro il luteranesimo: la forza della tradizione.
La forza della tradizione
È in nome della tradizione che,
quando nel dialogo ci si interroga sul momento in cui fu introdotto l’uso della
pittura nelle chiese, si risponde in questi termini: “Penso che dal principio ciò fusse, e mi movo da questa ragione, che
essendo i nuovi cristiani ancora poco fondati ne la fede, per far scordare loro
la gentilità e piantarvi la nova religione fu dato principio a questo santo
uso, acciò, vedendo l’imagine del nostro Signore e de’ santi, si scordassero
degli dii loro; e che ciò sia vero, nel secondo Concilio Niceno e nel sesto
Costantinopolitano si dà certi cenni che dal tempo degli santissimi Apostoli
cominciassero le pitture ne le chiese” [19]. Nel saggio di Carol M.
Richardson contenuto nel presente volume si insiste non a caso sul valore della
tradizione nella politica controriformata delle immagini: “In un contesto drammatico, la memoria era, per i cattolici, la
manifestazione di un’esperienza collettiva e condivisa di una comunità, la sua
storia e la sua identità: era, dal punto di vista di Roma, l’essenza vera
dell’autorità ecclesiastica” [20]. E, ancora: “Nel Dialogo di Gilio è
esattamente a questo sottinteso sistema di tradizione e autorità a cui fa
riferimento Ruggero, il chierico, quando gli viene chiesto di spiegare come
dovrebbero essere dipinte le immagini: “Difficil cosa è a volerne rendere vera
et indubitata ragione che così sia e che altramente esser non possa, perché di
questo non abbiamo legge alcuna né regola, se non quanto che la consuetudine
de’ pittori, innanzi che Michelagnolo fusse, n’ha dimostrato (la quale però,
come voi signori leggisti sapete, è legge), e quanto che Guiglielmo Durante nel
Razionale de’ divini offizii ne scrive [21]. […] Io penso che qualche regola o modo fusse dato a’ pittori, il quale poi,
sì come molti e molti libri sono andati male, così questo anco sia perduto. Ma
fa assai a noi avere la consuetudine, che io v’ho detta c’ha forza di legge
essendo per tant’anni continuata, che poi è stata mutata e guasta dai capricci
de’ moderni pittori” [22].
Il discorso, come si vede, ha una
valenza soprattutto teologica. Richardson sostiene che Gilio scelga la forma
letteraria del Dialogo per dar modo,
su ogni singolo aspetto, di valutare gli argomenti che spingono a favore di
questa o quella tesi e rimandando, in ultima analisi, la decisione su cosa sia
ammissibile in arte ‘all’autorità competente’, ovvero ai vertici ecclesiastici,
la cui supremazia è gerarchicamente riconosciuta dal Concilio. In ultima
analisi, quella di Gilio non sarebbe la ricaduta ‘locale’ di una dottrina già
decisa altrove, quanto piuttosto un contributo al dibattito per la nuova chiesa
tridentina che avrebbe poi avuto una sua razionalizzazione anni dopo con gli
scritti di Carlo Borromeo e Paleotti [23].
Che lo abbia voluto
intenzionalmente o che, semplicemente, non fosse in grado di andare oltre –
scrive già Paola Barocchi nel 1961 – i risultati a cui approda il religioso di
Fabriano sono magri: “ci saremmo
aspettati una precettistica minuta e sistematica, quale un Bruno [24] aveva già abbozzata oltralpe e quale un
Molano [25] e un Paleotti
imprenderanno poco dopo; tanto più minuta e sistematica, in Italia, quanto più
ricca era la casistica che offriva all’esperienza il gremito rigoglio dell’arte
nostra. Sembra invece che proprio questo, con la pressione culturale che
esercitava e con i buoni uffici della mediazione rettorica, intralciasse o
spuntasse nel Gilio l’implacabilità categoriale propria dei teologi; come
dimostra il suo stesso metodo dell’esemplificazione negativa, condotto sia su
paradigmi astratti, sia – ed è la parte più importante e significante del
dialogo – sul corpo concreto e vivo del Giudizio michelangiolesco” [26].
Una lettura faticosa
Mi sono soffermato su questi
aspetti perché, senza tenerli bene a mente, la lettura del dialogo può apparire
ancora più ostica e disturbante di quanto non sia. Non ci si può nascondere
dietro a un dito. Un qualsiasi storico dell’arte (o chi, come me, segue con
attenzione la letteratura artistica) non può non leggere lo scritto di Gilio
senza covare un senso di fastidio, non tanto per ‘lesa maestà’ nei confronti di
Michelangelo quanto per l’assenza di un qualsiasi guizzo di apprezzamento
artistico nei confronti dello stile di questo o quell’altro pittore. Si aspetta
Godot, e naturalmente Godot non arriva. Al massimo ci si può consolare con una
qualche espressione colorita che spezza la monotonia e la mediocrità dello
scritto: è il caso, ad esempio, del passo in cui Gilio bolla come ‘smerdacarte’
coloro che mandano a stampa una versione assai discutibile del Giudizio Universale a cui ha attinto un
non meglio precisato pittor Piersimone per una rappresentazione sacra in un
oratorio fabrianese [27]. Per il resto bisogna armarsi di santa pazienza e
leggere perché il Giudizio dovrebbe
raffigurare tutti con sembianze di uomini e donne trentatreenni, perché i
defunti resusciteranno in uno stesso istante e quindi non si debba fingere che
ve ne siano alcuni già giudicati in cielo e altri che stanno uscendo dalle
tombe, perché Cristo non può essere imberbe, Maria non deve avere l’aria
compassionevole, gli angeli devono avere le ali e non avere l’aria di compiere
sforzi fisici, i demoni non devono lottare con gli angeli e così via.
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Michelangelo, Il Giudizio Universale (Particolare: Caronte), Città del Vaticano, Cappella Sistina Fonte: Wikimedia Commons |
Il decoro
Le preoccupazioni, insomma, sono
puramente di ordine iconografico. Sotto questo punto di vista mi sembra che
l’iniziale suddivisione fra pittura di poesia, di storia e mista e la
successiva fra le categorie di 'vero', 'finto' e 'favoloso' rappresentino quei
‘paradigmi astratti’ di cui parlava la Barocchi nel 1961 e che ho citato poco
fa. Il vero punto centrale è il fatto che l’artefice deve creare immagini che
rispettino i principi del decoro. Michael Bury si sofferma a lungo sul decoro,
che secondo Gilio, corrisponde alla ‘verità delle figure’, ovvero alla
trasposizione fedele dai testi di storia alle immagini. Bisogna innanzi tutto
chiarire cosa si intenda per testi di storia: per Gilio si tratta, in sostanza,
delle Sacre Scritture. La pittura di storia non è altro che pittura sacra. E il
pittore non deve essere altro che un soggetto che traduce dalla forma scritta a
quella figurata. Un compito particolarmente gravoso, come ovvio, perché mentre
un libro che contiene ‘errori e abusi’ può essere facilmente emendato, le
immagini sui muri delle chiese sono accessibili a un pubblico assai più vasto,
hanno un effetto assai più profondo e, se sbagliate, devono essere
completamente distrutte. Nel suo compito di traduttore, naturalmente, il
pittore deve affidarsi a chi interpreta la Scrittura (ovvero ai teologi): “Né vorrei che nell’istorie che egli
[n.d.r. l’artista] ha da pingere
sequitasse l’opinione del vulgo, ma de’ dotti e savi uomini e di scrittori
autentici et approvati, se errar non vuole; perché leggendo i buoni libri,
potrà, informandosi de la verità del soggetto, sapere quai sieno gli abusi e
quai no” [28].
A essere sinceri, appare
chiaramente nel dialogo che, secondo Gilio, esistono due tipi di decoro: il
decoro dell’arte e il decoro delle storie. Il decoro dell’arte consiste
nell’insieme di soluzioni tecniche che gli artisti hanno sviluppato nel corso
dei secoli per rendere massimo l’effetto mimetico della natura. Ha, dunque, una
valenza tecnica. Michelangelo è il non plus ultra del decoro dell’arte. Ma la
nobiltà della pittura non è una questione di tecnica. È sotto questo punto di vista
che gli artisti commettono abusi ed errori: per far vedere quanto bravi sono
nel realizzare le loro rappresentazioni: “penso
che ciò faccino [n.d.r gli artisti] per
mostrare la forza dell’arte, il che è sempre stato l’intento dell’artefice; per
poter bene isprimere tutti i muscoli e tutte le membra di quel ben composto
corpo, del quale penso che non fusse mai trovato il più bello. Per questo è
stato tanto lodato il Battuto di frate Bastiano in San Pietro Montorio” [29].
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Sebastiano del Piombo, La flagellazione di Cristo, 1516-1524, Roma, Chiesa di San Pietro in Montorio Fonte: Peter1936F tramite Wikimedia Commons |
Il decoro delle storie consiste
invece nella totale fedeltà della rappresentazione rispetto a quanto rivelato
nelle Scritture (o, come abbiamo visto sopra, in assenza di una chiara
indicazione, di quanto trasmesso tramite la tradizione). Bury vede in Gilio un
chiaro riflesso di quanto sostenuto in merito al decoro nel pensiero espresso
da Leon Battista Alberti nel suo De Pictura e ritiene quindi che il fabrianese lo abbia letto. Su questo
aspetto mi permetto di non essere completamente d’accordo. L’idea di decoro
proposta da Alberti e fatta propria, in qualche modo, anche da Leonardo, è
legata alla rappresentazione della figura, alla corretta resa delle proporzioni
del corpo umano; è, insomma, dal punto di vista di Gilio, un aspetto che
attiene al ‘decoro dell’arte’. Su queste cose – possiamo dirlo con una certa
tranquillità – l’autore non sa nulla, e nulla ci tiene a sapere. Dal dialogo
risulta che ben difficilmente lesse in materia artistica qualcosa che andasse
oltre alle Vite di Vasari e (forse)
al Dolce. Ritenere che conoscesse il testo di Alberti significa pensarlo
interessato a una problematica estetica che davvero non gli appartiene.
Il nudo
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Michelangelo. Il Giudizio Universale (Particolare: Ascesa dei Beati), Città del Vaticano, Cappella Sistina Fontr: Wikimedia Commons |
In realtà, all’interno della
grande legge che prevede l’adesione della pittura di storia al dettato dei
‘buoni libri’ esiste una sola, grande eccezione, e riguarda il nudo. Stando
alle Scritture è vero – scrive Gilio – che risorgeremo tutti nudi, e quando
verrà il momento non ci sarà alcuna vergogna, perché saremmo puri e perfetti
come prima del Peccato originale, ma è altrettanto vero che tutti noi, oggi, ne
siamo afflitti e quindi risentiamo dei nostri istinti corporei e materiali. Ne
deriva che l’esposizione del nudo è deplorevole e va assolutamente evitata,
specie all’interno dei luoghi sacri e in particolar modo per quanto riguarda i
santi e le sante. Del resto, che Michelangelo abbia dipinto santi nudi
all’interno del Giudizio universale non è fatto legato a un attenta lettura
dei ‘buoni libri’ (che, lo si ripete ancora una volta, non può essere una
lettura diretta, ma mediata tramite il clero, pena l’eresia protestante) ma è
dovuto al ‘capriccio’ e al ‘decoro dell’arte’: “Penso che Michelagnolo abbia voluto imitare gli antichi, i quali per il
più facevano le loro figure nude per meglio mostrare l’eccellenza de l’arte ne
lo isprimere i muscoli, le vene e l’altre parti del corpo” [30].
Il brutto e l’anticlassico
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Raffaello, Trasfigurazione (particolare), Città del Vaticano, Pinacoteca Vaticana Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/r/raphael/5roma/5/10trans5.html tramite Wikimedia Commons |
L’analisi di Gilio – lo si è
detto – non è quella di un intendente d’arte e, come tale, non è rivolta contro
il manierismo considerato come stile. Chi ritenesse che stia a indicare una
preferenza ‘classicista’ dell’autore non potrebbe che ricredersi una volta che
si passa a parlare del moto degli affetti; argomento naturalmente fondamentale
per un autore di stampo controriformato perché è tramite la resa dei sentimenti
dei personaggi dei quadri che il pittore riesce a comunicare allo spettatore il
messaggio di fede in essi contenuto. Mi sembra indicativo, innanzi tutto, che,
come esempio in positivo, siano citate due opere, una di Raffaello e l’altra di
Michelangelo, a dimostrazione che le critiche mosse in altre circostanze sono
sulla ‘verità del soggetto’, e non sulle capacità pittoriche dei due artisti: “Ma che vo io mendicando gli esempi degli
antichi, avendone in Roma tanti di Michelagnolo e di Raffaello da Urbino? Il
quale ne la Trasfigurazione ch’ora si vede in San Pietro Montorio dipinse un
vecchio che mena il figliuolo indemoniato agli Apostoli, che par proprio che
condurre noi possa e dimostra ne la faccia e negli atti la pena grande che ha
del male del suo figliuolo; et il fanciullo con atto sforzato [n.d.r. qui sì
che lo ‘sforzo’è assolutamente congruente], con
la gola gonfia, con le mani storte, come sogliono fare i vessati da simil male,
par che refiuti gire agli Apostoli. Che diremo del San Paolo abbarbagliato di
Michelagnolo? Non par egli che dimostri l’estasi, il terrore, lo stupore e
l’essere fuor di sé, per il gran accidente che occorso gli era?” [31]
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Michelangelo, Conversione di Saulo (particolare), Città del Vaticano, Palazzo apostolico Fonte: https://www.wga.hu/frames-e.html?/html/m/michelan/2paintin/4paul5.html tramite Wikimedia Commons |
Il
discorso prosegue poche pagine più in là, giungendo a sostenere la necessità
del brutto, dello spaventoso, del truculento, quando richiesto dalle Sacre
scritture. E quindi basta con santi che vengono martirizzati senza che sembrino
sofferenti, basta col ‘bello ideale’ legato alla scelta di parti del corpo da
diversi modelli: “Un altro abuso anco io
trovo circa la persona del nostro Salvatore, il quale non par che ammendare si
sappia: et è questo, che non sanno o non vogliono sapere isprimere le
defformità che in lui erano al tempo de la passione, quando fu flagellato,
quando fu da Pilato mostrato al popolo, dicendo ‘Ecco l’uomo’, quando con tanta
angustia stava fitto in croce, dicendo Isaia che in lui non era più forma
d’uomo. Molto più a compunzione moverebbe il vederlo sanguinolento e
difformato, che non fa il vederlo bello e delicato” [32]. Gilio fa dire a
Troilo che di queste cose gli è capitato di ragionare parecchie volte coi
pittori e di sentirsi rispondere che la cosa non si addice al decoro dell’arte.
Ancora una volta, dunque, la vera dicotomia è fra decoro dell’arte (che deve
soccombere) e decoro delle immagini.
La fortuna del Dialogo
Resta da parlare brevemente della
fortuna del Dialogo di Gilio. Su quella recente non vi è dubbio alcuno: da
quando Schlosser dedicò all’opera alcune pagine della sua Letteratura artistica, Gilio è citato in ogni occasione possibile.
Naturalmente non si tratta di una ‘fortuna’, ma in termini critici, della
‘sfortuna’ di un’opera considerata di per sé insignificante, ma sintomo di una
controffensiva moralista che mirava a soffocare la libertà del fare artistico.
Barocchi propone, nella sua nota filologica [33] una lista bibliografica delle
opere coeve che citano Gilio: in sostanza, stiamo parlando del Riposo di Raffaello Borghini (1584) e
della Bibliotheca selecta del Possevino (che vuole essere semplicemente la versione ‘in positivo’ dell’Indice dei libri proibiti). Bury, invece,
ritiene che la reazione allo scritto di Gilio sia stata più ampia e profonda
(anche se carsica, ovvero non manifesta) di quanto si ritenga; e in proposito
cita Lomazzo, Armenini e, in anni successivi, Federico Borromeo (p. 9).
Difficile a dirsi. L’opera enuncia idee che – come noto – non erano certo
isolate negli anni ’60 del Cinquecento (e non solo con riferimento ai severi
appunti rivolti al Giudizio Universale).
Faticoso distinguere fra influenza diretta e indiretta.
Sotto questo punto di vista,
però, un dato di fatto va riconosciuto: pur facendo proprie (nel senso che
erano patrimonio comune del mondo religioso) molte delle idee di Gilio, il
cardinal Paleotti, nel suo Discorso intorno alle immagini sacre e profane del 1582, il testo senza dubbio più
importante della Controriforma (e di spessore di gran lunga superiore a Gilio),
non cita mai il suo predecessore fabrianese e abbandona la forma dialogica per
giungere alla composizione di un trattato enciclopedico, rimasto
sfortunatamente incompiuto. Ma anche qui, non bisogna dare giudizi affrettati:
stando a quanto scrive Carol M. Richardson – vedi supra – era proprio ciò che Giovanni Andrea, in fondo, si augurava.
NOTE
[14] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit. p. 49
[15] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit. p. 54
[16] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit. p. 68
[17] Ecco il testo: “O voi che riprendete ‘l fiorentino, / considerate un poco la pittura: / vedrete che sta ben ogni figura / nella capella di Gesu divino. / Sta santa Caterina a capo chino, / nuda si come fecce la natura, / ed altri santi stanno con misura / a mostrar i lor culi a don Paulino" [n.d.r. Papa Paolo III], p. 39 n. 114.
[18] L’edizione inglese identifica il quadro appunto con l’Adorazione dei Pastori di Battista Franco (pp. 144-145). L’interpretazione mi pare preferibile a quella di Barocchi, che lo ritiene un’Annunciazione di Filippino Lippi (cfr. Baorcchi (a cura di etc, p. 589 n. 2).
[19] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit. p. 107.
[20] Carol M. Richardson, Gilio’s point of view in G.A. Gilio, Dialogue on the Errors… pp. 45-63, in particolare p. 52.
[21] Il Rationale Divinorum Officiorum del Durante risale alla fine del XIII secolo.
[20] Carol M. Richardson, Gilio’s point of view in G.A. Gilio, Dialogue on the Errors… pp. 45-63, in particolare p. 52.
[23] La tesi è affascinante. Faccio tuttavia presente che il dialogo si conclude con l’affermazione che i problemi legati alla rappresentazione delle immagini sacre saranno risolti se e quando ‘il nostro Francesco Agostini’ stamperà l’opera che ha scritto sopra la pittura. Francesco Agostini era pittore e scultore nato a Fabriano e attivo soprattutto in patria e a Roma. La remissione della soluzione del problema all’autorità dell’Agostini sembra poco in linea con il discorso di Richardson e semmai depone a favore dell’esaltazione delle capacità culturali del ‘piccolo mondo fabrianese’.
[24] Konrad Braun (Conradus Brunus), De imaginibus in Opera Tria, Magonza, 1548.
[25] Jan van der Meulen (Johannes Molanus), De Picturis et Imaginibus Sacris, pro verum earum usu contra abusus, 1570, Lovanio, 1570.
[26] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit., p. 532.
[27] L’espressione è, ovviamente, intraducibile in inglese e viene resa con la locuzione “these people, who defile the paper they use”.
[28] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit., p. 43.
[29] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit., p. 39.
[30] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit., p. 78.
[31] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit., p. 28
[32] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit., p. 39
[33] Giovanni Andrea Gilio, Degli errori de’ pittori… in Trattati d’arte, vol II cit., p. 544
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