English Version
Giovanni Andrea Gilio
Dialogue on the Errors and Abuses of Painters
[Dialogo degli errori e degli abusi dei pittori]
A cura di Michael Bury, Lucinda Byatt e Carol M. Richardson
Traduzione di Michael Bury e Lucinda Byatt
Los Angeles, The Getty Research Institute, 2018
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima
Sono perfettamente consapevole
che, recensendo il Dialogo degli errori e
degli abusi de’ pittori di Giovanni Andrea Gilio (?-1584) nella sua prima
traduzione inglese, curata da Michael Bury, Lucinda Byatt e Carol M.
Richardson, potrei essere accusato di esterofilia. Il Dialogo è stato infatti pubblicato integralmente per la prima volta
nel 1961 da Paola Barocchi in un’edizione eccellente all’interno dei Trattati d’arte del Cinquecento [1]. I
motivi che mi inducono a farlo sono almeno due: la versione Barocchi, annotata
in maniera esemplare, ha comunque quasi sessant’anni e nel frattempo nuove
acquisizioni sono state fatte (ad esempio sono stati identificati come
realmente esistiti cinque dei sei protagonisti del Dialogo); in secondo luogo – e si tratta di ragione assai più seria
– si conclude, di fatto, con l’opera di Gilio, la traduzione in inglese di
tutti i più importanti trattati artistici italiani della Controriforma cinquecentesca [2]. Il che vuol dire – la mia è un’affermazione volutamente
provocatoria – che per uno studioso della Controriforma o dell’arte del
Cinquecento non è più necessario conoscere (bene) l’italiano. Ai suoi tempi, Leonardo
da Vinci si definì “omo sanza lettere” per via del fatto che non
conosceva il latino e si scontrò per tutta la vita con le difficoltà
nell’interpretazione dei testi in tale lingua (per non parlare del greco),
salvandosi solo quando poteva disporre di traduzioni in volgare. Ecco, se oggi
nascesse un altro Leonardo, in giro per il mondo, gli basterebbe conoscere
l’inglese. Il che – sia chiaro – non è cosa negativa, sempre che si abbia
coscienza del fatto che tutte le traduzioni sono, a modo loro, ‘tradimenti’ del
testo originale e si abbia presente che a perdersi è la possibilità di fare
un’analisi approfondita del lessico (più o meno tecnico) primitivo. Tutte
questioni, peraltro, che a Micheal Bury e Lucinda Byatt (ovvero ai traduttori
del Dialogo) sono perfettamente
presenti, a giudicare dall’ottimo saggio di quest'ultima sull’argomento [3].
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Il frontespizio del secondo volume dei Trattati d'arte del Cinquecento, a cura di Paola Barocchi (Bari, Laterza, 1961) Fonte: https://archive.org/details/221Trattati2Si260 |
Gilio e i suoi scritti
Di Giovanni Andrea Gilio, fabrianese, sappiamo così poco che, in pratica, a testimoniare della sua presenza restano solo le sue opere [4]. Ci è noto che era sacerdote, evidentemente con una formazione letteraria. Dal 1567 fu priore del capitolo di San Venanzio, la chiesa principale di Fabriano (tecnicamente, Fabriano divenne sede vescovile solo nel 1728. Solo da quella data poté fregiarsi del titolo di ‘città’). La produzione a stampa di Gilio evidenzia interessi preminentemente agiografici e religiosi, con facilità riconducibili al clima controriformato degli anni in cui visse. Non mancano peraltro titoli che segnalano la sua appartenenza a un mondo colto, particolarmente attratto da sollecitazioni letterarie e poetiche. Si va dal Trattato de la emulatione che il demonio ha fatto a Dio (Venezia, 1550, ma in realtà molto probabilmente 1563) a La vita di S. Atanasio, patriarca di Alessandria (Venezia, Pietro Bosello, 1559), da Le persecuzioni della Chiesa (Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1573) ai Topica Poetica (Venezia, Oratio de’ Gobbi, 1580). Tutti questi scritti, come emerge chiaramente, hanno qualcosa in comune: sono pubblicati a Venezia. Perché proprio a Venezia? Non lo sappiamo, e non mi risulta nemmeno che qualcuno se lo sia mai chiesto. Ora, è chiara a tutti l’importanza della città lagunare come centro editoriale nel Cinquecento: a Venezia si stampava di tutto. Altrettanto noti sono i legami commerciali e culturali esistenti fra Venezia e le Marche nello stesso periodo. In particolare, già allora, Fabriano era località famosissima per la produzione della carta, materia prima indispensabile per il lavoro degli editori veneziani. Ciò detto, nulla sappiamo, nello specifico, di quali furono gli intermediari che permisero a Gilio di far pubblicare le sue opere in laguna (da editori tutti diversi) nel corso di almeno vent’anni.
Di Giovanni Andrea Gilio, fabrianese, sappiamo così poco che, in pratica, a testimoniare della sua presenza restano solo le sue opere [4]. Ci è noto che era sacerdote, evidentemente con una formazione letteraria. Dal 1567 fu priore del capitolo di San Venanzio, la chiesa principale di Fabriano (tecnicamente, Fabriano divenne sede vescovile solo nel 1728. Solo da quella data poté fregiarsi del titolo di ‘città’). La produzione a stampa di Gilio evidenzia interessi preminentemente agiografici e religiosi, con facilità riconducibili al clima controriformato degli anni in cui visse. Non mancano peraltro titoli che segnalano la sua appartenenza a un mondo colto, particolarmente attratto da sollecitazioni letterarie e poetiche. Si va dal Trattato de la emulatione che il demonio ha fatto a Dio (Venezia, 1550, ma in realtà molto probabilmente 1563) a La vita di S. Atanasio, patriarca di Alessandria (Venezia, Pietro Bosello, 1559), da Le persecuzioni della Chiesa (Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1573) ai Topica Poetica (Venezia, Oratio de’ Gobbi, 1580). Tutti questi scritti, come emerge chiaramente, hanno qualcosa in comune: sono pubblicati a Venezia. Perché proprio a Venezia? Non lo sappiamo, e non mi risulta nemmeno che qualcuno se lo sia mai chiesto. Ora, è chiara a tutti l’importanza della città lagunare come centro editoriale nel Cinquecento: a Venezia si stampava di tutto. Altrettanto noti sono i legami commerciali e culturali esistenti fra Venezia e le Marche nello stesso periodo. In particolare, già allora, Fabriano era località famosissima per la produzione della carta, materia prima indispensabile per il lavoro degli editori veneziani. Ciò detto, nulla sappiamo, nello specifico, di quali furono gli intermediari che permisero a Gilio di far pubblicare le sue opere in laguna (da editori tutti diversi) nel corso di almeno vent’anni.
Per completezza, va detto che,
oltre agli scritti a stampa (a cui mancano i Due Dialogi di cui parleremo immediatamente di seguito), conosciamo
un suo Sonetto sulla Madonna dipinta da
Gentile di Fabriano in una tavola dell’eremo di Val di Sasso presso Fabriano
(si tratta del Polittico di Valle Romita, oggi conservato a Brera). Il sonetto
è accompagnato da altri, opera di autori fabrianesi, e rimase inedito fino al
1850 [5].
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Gentile da Fabriano, Polittico di Valle Romita, 1400 circa, Milano, Pinacoteca di Brera Fonte: The Yorck Project tramite Wikimedia Commons |
I Due dialogi
A fare eccezione, rispetto a tutti i titoli sopra elencati, sono i Due dialogi. Nel primo de’ quali si ragiona de le parti morali e civili appertenenti [sic] a’ letterati cortigiani, et ad ogni gentil’huomo e l’utile che i prencipi cavano dai letterati. Nel secondo si ragiona degli errori de’ pittori circa l’istorie, editi a Camerino (e non a Venezia) da Antonio Gioioso nel 1564; un editore, peraltro, di cui risultano soltanto venticinque titoli in carriera. A essere precisi, i Due dialogi presentano anche, in fondo, un Discorso di M. Gio. Andrea Gilio da Fabriano sopre la Città, l’Urbe, Colonia, Municipio ecc. in cui l’autore rivendica per la sua patria il rango di ‘città’ pur non essendolo, non avendo una sede vescovile [6]. Quindi, un primo dato è da tenere presente: Il Dialogo degli errori e abusi dei pittori o, ad essere precisi, il Dialogo secondo di M. Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, nel quale si ragiona de gli errori, e de gli abusi de’ Pittori circa l’historie: con molte annotazioni fatte sopra il Giuditio di Michelagnolo, et altre figure, tanto de la nova, quanto de la vecchia Capella del Papa. Con la dechiaratione come vogliono essere dipinte le Sacre Imagini, quasi sempre considerato a sé stante, vede in realtà la luce all’interno di un’opera ‘antologica’, che comprende un dialogo iniziale sulle qualità che si addicono al letterato-cortigiano e il discorso finale sulla ‘nobiltà’ di Fabriano [7]. In nessuno dei tre scritti (sempre che io non sia stato cattivo lettore) compaiono rimandi agli altri. Ad accomunarli sono invece le tre dediche (una per scritto, anche se la prima precede l’Avviso dell’editore ai lettori e quindi sembra un’introduzione generale), tutte indirizzate al Cardinal Alessandro Farnese (1520-1589), che certo non ha bisogno di presentazioni.
A fare eccezione, rispetto a tutti i titoli sopra elencati, sono i Due dialogi. Nel primo de’ quali si ragiona de le parti morali e civili appertenenti [sic] a’ letterati cortigiani, et ad ogni gentil’huomo e l’utile che i prencipi cavano dai letterati. Nel secondo si ragiona degli errori de’ pittori circa l’istorie, editi a Camerino (e non a Venezia) da Antonio Gioioso nel 1564; un editore, peraltro, di cui risultano soltanto venticinque titoli in carriera. A essere precisi, i Due dialogi presentano anche, in fondo, un Discorso di M. Gio. Andrea Gilio da Fabriano sopre la Città, l’Urbe, Colonia, Municipio ecc. in cui l’autore rivendica per la sua patria il rango di ‘città’ pur non essendolo, non avendo una sede vescovile [6]. Quindi, un primo dato è da tenere presente: Il Dialogo degli errori e abusi dei pittori o, ad essere precisi, il Dialogo secondo di M. Giovanni Andrea Gilio da Fabriano, nel quale si ragiona de gli errori, e de gli abusi de’ Pittori circa l’historie: con molte annotazioni fatte sopra il Giuditio di Michelagnolo, et altre figure, tanto de la nova, quanto de la vecchia Capella del Papa. Con la dechiaratione come vogliono essere dipinte le Sacre Imagini, quasi sempre considerato a sé stante, vede in realtà la luce all’interno di un’opera ‘antologica’, che comprende un dialogo iniziale sulle qualità che si addicono al letterato-cortigiano e il discorso finale sulla ‘nobiltà’ di Fabriano [7]. In nessuno dei tre scritti (sempre che io non sia stato cattivo lettore) compaiono rimandi agli altri. Ad accomunarli sono invece le tre dediche (una per scritto, anche se la prima precede l’Avviso dell’editore ai lettori e quindi sembra un’introduzione generale), tutte indirizzate al Cardinal Alessandro Farnese (1520-1589), che certo non ha bisogno di presentazioni.
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La copertina dei Due Dialogi pubblicati in edizione anastatica a cura di Paola Barocchi nel 1986 (Firenze, S.P.E.S) |
Gilio e il Cardinal Farnese
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Tiziano, Ritratto del Cardinal Alessandro Farnese, 1545-1546, Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte Fonte: https://www.wga.hu/art/t/tiziano/10/22/04farnes.jpg tramite Wikimedia Commons |
Gilio e il Farnese si conobbero?
C’è chi dice di no; che, cioè, le dediche sarebbero state un tentativo di
ingraziarsi i favori di un famosissimo mecenate per ottenere un riconoscimento
economico e di prestigio personale, come spesso si usava in quei tempi. Faccio
presente tuttavia che nella prima delle tre dediche, nel presentare il suo
primo dialogo, l’autore scrive che lo dona al cardinale “perché più difficile e di più ingegno. Illustrissimo Monsignore, è di
sapersi mantenere l’amicitie e le servitù poi che acquistate sono che
d’acquistarele”: ‘mantenere’, non ‘acquistare’. O Gilio è un millantatore o
i rapporti fra i due erano precedenti. Tutto ciò presume che Gilio sia stato
per un periodo (più o meno breve) a Roma. Non vedo perché escluderlo. Michael
Bury, nel suo bel saggio introduttivo al presente volume [8] segnala che nel Trattato de la emulatione che il demonio ha
fatto a Dio, Gilio scrive proprio di esserci stato, assistendo alla scena
di uno spagnolo che faceva trucchi con le carte in pubblico. Bury, fra l’altro,
sostiene (ed è probabile che abbia ragione) che il trattato in questione non
sia stato pubblicato nel 1550 (si torni al paragrafo Gilio e i suoi scritti), ma nel 1563. Esiste una sola copia dello
scritto datata 1550 (conservata presso la Biblioteca Casanatense di Roma) ed è
priva di frontespizio, con l’indicazione di data (1550) e luogo di edizione
(Venezia) scritta a mano. Un po’ poco per pensare che sia vera. Tutti gli
esemplari successivi sono datati 1563 e sono stati editi da Francesco de
Franceschi a Venezia. Se si tiene conto di tutto ciò, del fatto che i
personaggi di entrambi i dialoghi (primo e secondo) dell’edizione stampata a
Camerino nel 1564 dimostrano di muoversi bene nell’Urbe e di avervi visto
almeno alcune opere d’arte, una permanenza romana di Gilio, negli ultimi anni
’50 o nei primissimi ’60 è altamente probabile e non si vede perché il
sacerdote-letterato Gilio non possa essere stato ammesso in qualche modo al
cospetto del cardinale.
Alcune ipotesi sui Due Dialogi
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La copertina dell'edizione commentata moderna del Dialogo del letterato cortigiano, a cura di Paolo Cherchi (Ravenna, Longo editore, 2002) |
Tutto questo – noioso – discorso per dire che quando ci interroghiamo sul significato dei Due dialogi, in realtà ci stiamo facendo non una, ma due domande: che cosa volevano essere i Due dialogi nel loro complesso e che cos’è il Dialogo degli errori e degli abusi dei pittori singolarmente preso? Concludendo l’introduzione al primo dialogo, che – lo si ripete – sembra un’introduzione generale, ma in realtà è riferita solo al lavoro sui letterati-cortigiani, Gilio scrive, rivolgendosi a Farnese: “Se questa mia fatica gli sarà agrado [n.d.r. gradita] mi darà animo mandarne fuora presto de le più belle et utili sotto l’honorato suo nome” [9]. Il Dialogo sugli errori è forse una delle ‘più belle e utili fatiche’ di cui parla l’autore? E i Due dialogi sono una silloge di scritti inviati separatamente al Farnese? La mia è un’ipotesi del tutto personale, peraltro non suffragata – mi pare di capire – dalla presenza di manoscritti o testi separati negli archivi del Cardinal Alessandro. Tuttavia, forse varrebbe la pena di esser esplorata. E perché riunire il tutto in un libro che – diciamolo- ha un titolo infelice, perché non fa capire che vi è contenuto anche un Discorso sul rango che si meriterebbe Fabriano? Se ne occupò Gilio? O fu un’iniziativa presa da alcuni suoi amici? Lucinda Byatt fa notare nel suo saggio che nell’Avviso ai lettori, l’editore (ovvero Antonio Gioioso) dice di aver stampato l’opera “a compiacenza di molti gentili spiriti (che accio [n.d.r. per questo] pregato m’hanno”. Se sì, chi furono questi amici? Gli stessi personaggi che animano i due dialoghi? Se nel 1961 Paola Barocchi scriveva di non essere stata in grado di trovare informazioni sui sei personaggi fabrianesi che, ad esempio, ravvivano il Dialogo secondo (Ruggero Corradini, canonico e dottore, Vincenzo Petrolino, giurista, Troilo Mattioli, anch’egli giurista, Polidoro Saraceni, medico, Silvio Gilio, giurista e Francesco Santi, letterato e commerciante), nel frattempo si sono acquisite prove certe (fatta eccezione per Santi) che si tratta di persone realmente esistite [11]. E almeno tre di essi (Silvio Gilio, Petrolino e Mattioli) sono autori di sonetti in elogio di Gentile da Fabriano stampati nel 1850 assieme a quello di Giovanni Andrea (si veda il paragrafo Gilio e i suoi scritti).
I Dialogi, insomma, sono un
omaggio a un amico comune? Spiegherebbe perché il libro non è edito a Venezia.
O una silloge riunita, per far brillare, in un’occasione specifica, magari in
tutta fretta, tale da giustificare il fatto di rivolgersi a Camerino [12], le
capacità dei circoli culturali e letterari fabrianesi? In fondo tutto il libro
costituisce una testimonianza del fatto che anche nella piccola Fabriano, nella
Fabriano che non è ‘città’, vivono persone che sono informate dei dibattiti
culturali più all’avanguardia in campo teologico, letterario e artistico.
Un ‘instant book’?
Un’ultima ipotesi, suggestiva
quanto fantasiosa, merita di essere presa in considerazione. Il 21 gennaio 1564
la Congregazione del Concilio di Trento decide che siano coperte le nudità del
Giudizio Universale della Cappella Sistina. Se ne occupa (in maniera discreta e
a cominciare dall’anno dopo) Daniele da Volterra (che verrà soprannominato il
Braghettone proprio per questo). Michelangelo muore il 18 febbraio 1564. I Due
Dialogi escono nel 1564 (non si sa in che mese). Il titolo del Dialogo secondo lascia (all’apparenza)
pochi dubbi: si parla degli errori e degli abusi dei pittori e, in particolare,
di quelli di Michelangelo nel Giudizio Universale. Gilio (o chi per lui) stampa
un instant-book (ancora una volta la circostanza spiegherebbe la pubblicazione
a Camerino, con la fretta che sarebbe stata necessaria in questo caso) usando
materiali che aveva già scritto negli anni precedenti? In realtà l’ipotesi
sembra improbabile. Se ‘instant book’ doveva essere, non si vede perché
inserire il Dialogo sul letterato-cortigiano e il Discorso su Fabriano. Inoltre,
in tutto il libro non compare alcun esplicito riferimento alla decisione della
Congregazione del Concilio e men che meno alla morte di Michelangelo.
Michelangelo, peraltro, è esplicitamente definito dall’autore come il più
grande pittore della modernità, l’unico in grado di avvicinarsi e addirittura
eguagliare gli antichi. Ma di quest’apparente contraddizione (Buonarroti il più
grande di tutti, ma anche quello che più di tutti sbaglia) parleremo
occupandoci del contenuto del Dialogo
degli errori e degli abusi dei pittori.
Fine della Parte Prima
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NOTE
[1] In particolare lo scritto di
Gilio si trova nel volume II: Paola Barocchi (a cura di), Trattati d’arte del Cinquecento fra manierismo e contoriforma,
Bari, Laterza, 1961. Il volume è liberamente consultabile online all'indirizzo:
https://archive.org/details/221Trattati2Si260/page/n689
https://archive.org/details/221Trattati2Si260/page/n689
[2] In ambito controriformato
mancano probabilmente le sole Instructiones di Carlo Borromeo (1577), che
però sono riferite alla sola architettura e gli Scritti d’arte di Lomazzo (ammesso che possano essere considerati
controrifomati, e comunque intraducibili). Per il resto si vedano (oltre alle
edizioni vasariane) Mark W. Roskill, Dolce’s
Aretino and Venetian Art Theory of
the Cinquecento, Toronto, University of Toronto Press, 2000; Raffaello Borghini’s “Il Riposo”, a cura
di Lloyd H. Ellis. Toronto, Toronto University Press, 2007; Gabriele Paleotti, Discourse on Sacred and Profane Images,
Introduzione di Paolo Prodi, traduzione di William McCuaig, 2012; Gregorio
Comanini, The Figino, or On the Purpose
of Painting, a cura di Ann Doyle-Anderson e Giancarlo Maiorino, Toronto,
University of Toronto Press, 2001; Giovanni Battista Armenini, On the True Precepts of the Art of Painting,
a cura di Edward J. Olszewski, New York, Burt Franklin, 1977. E, spingendosi
nel Seicento, si tenga conto anche di Federico Borromeo, Sacred Painting, Museum, a cura di Kenneth S. Rothwell Jr.,
Cambridge MA, Harvard University Press, 2010.
[3] Lucinda Byatt, Gilio’s Text and the English Translation
in G.A. Gilio, Dialogue on the Errors…,
pp. 65-78.
[4] Per alcune indicazioni
biografiche si veda la relativa voce curata da Michele Di Monte sul Dizionario
biografico degli italiani, vol. 54 (2000).
[5] La circostanza è indicata
nell’articolo di Di Monte di cui sopra a nota [4]. Il sonetto fu stampato in
occasione delle nozze Sabolucci-Fornari.
[6] Camerino era antica sede
universitaria. Non ci si deve dunque stupire della presenza di una tipografia.
[7] L’unica ristampa anastatica
dell’intera opera è stata pubblicata a cura di Paola Barocchi nel 1986 per i
tipi di S.P.E.S. (Studio per Edizioni Scelte). Il Dialogo del letterato cortigiano ha avuto una sua edizione moderna,
a cura di Paolo Cherchi e con una nota linguistica di Francesco Bruni (Ravenna,
Longo editore, 2002). Essendo, di fatto, sconosciuto, ripropongo qui di seguito
il testo della quarta di copertina del libro: “Il Dialogo del letterato cortigiano di Giovanni Andrea Gilio da
Fabriano rientra in quel genere di trattati sul cortigiano che fiorirono nel
Cinquecento, e si ricava tra questi un posto originale. Scritto attorno al
1564, non appartiene al filone dei trattati che idealizzano il cortigiano né a
quelli che lo disprezzano, ma si pone come primizia di un filone nuovo che vede
nel cortigiano un professionista, un letterato che “serve” a corte di principi
e cardinali. Per questo nuovo tipo di cortigiano Gilio scrive un vademecum,
illustrando quel sapere e quel comportamento che più gli si convengono: egli
sarà un esperto, senza pedanteria, delle arti liberali, e si comporterà
realizzando quelle virtù minori (discrezione, spirito, prudenza, e simili) che
diventeranno tipiche dei cortigiani secenteschi. Fra le qualità del cortigiano
c’è anche la sua competenza linguistica, e per questo il dialogo tratta con
ampiezza e competenza problemi linguistici, entrando nel pieno delle
discussioni del tempo. Il dialogo è un documento linguistico la cui importanza
è messa in luce da Francesco Bruni.”
[8] Michael Bury, Gilio on Painters of Sacred Images in
G.A. Gilio, Dialogue on the Errors…,
pp. 5-44, precisamente p. 6.
[9] Giovanni Andrea Gilio, Due dialogi, a cura di Paola Barocchi…
cit.
[10] Lucinda Byatt, Gilio’s Text and the English Translation
in G.A. Gilio, Dialogue on the Errors…,
pp. 67-68.
[11] Si veda G.A. Gilio, Dialogue on the Errors… cit., pp. 79-81.
[12] Nella sua Nota filologica al
trattato, Barocchi fa notare che “la
princeps è il frutto di un’arte tipografica modesta e non assistita, come a
Venezia e a Firenze, da correttori grammaticalmente periti; tanto è vero che le
altre opere del Gilio […], tutte stampate, come si vede, a Venezia, presentano
più correttezza e coerenza grafica”. Cfr. Paola Barocchi (a cura di). Trattati d’arte del Cinquecento… vol.
II. Cit. pp. 545-546.
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