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mercoledì 16 gennaio 2019

Keith Haring. Diari. Parte Seconda


English Version

Keith Haring
Diari
Traduzione di Giovanni Amadasi e Giuliana Picco
Premessa di David Hockney
Introduzione di Robert Farris Thompson


Milano, Mondadori, 2001, p.345

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda

[Versione originale: gennaio 2019 - Nuova versione: aprile 2019]


Fig. 5) L’ingresso dell’Albertina di Vienna decorato con il disegno “Senza titolo, 1982” di Keith Haring, in occasione della mostra “Keith Haring. The Alphabet”, tenutasi dal 16 marzo al 24 giugno 2018..


Esistono certamente molte interpretazioni critiche dell’opera di Keith Haring, a volte fra loro assai divergenti. Nel catalogo della recente mostra di Vienna ("Keith Haring. The Alphabet"), tenutasi in occasione del sessantesimo anniversario della nascita dell’artista, la sua opera è interpretata dal curatore Dieter Burchardt (1971-) in senso razionalista: si sarebbe trattato di un artista globale, capace di conquistare il grande pubblico con il trattamento semplice ed efficace di immagini e colore, e soprattutto avrebbe inventato un linguaggio figurato di immediata comprensione, sostanzialmente impermeabile ai transfert culturali, ideale predecessore degli odierni emoji. La mostra si pone l’obiettivo di rendere intellegibile il linguaggio ideogrammatico dell’artista, quasi che si trattasse di svelare l’intrinseca razionalità di una lingua affascinante, di cui si è appena trovata la chiave di traduzione (il catalogo contiene un vero e proprio dizionario ideogrammatico della pittura di Haring). Leggendo invece il catalogo della mostra tenutasi a Monaco nel 1990, a cura di Germano Celant (1940-), l’arte di Haring è interpretata come espressione di una vitalità originaria di tipo irrazionale, come un labirinto sospeso fra vita e morte, espressione di un viaggio caotico nella condizione umana [20]. Rispetto a questi due estremi – il Keith razionale e quello irrazionale – qual è l’indicazione che traiamo dai Diari? E in particolare, qual è l’immagine del giovane Haring che ci trasmette la prima parte di essi (1977-1980)? Cercherò di documentare come l’idea che si percepisce all’inizio delle memorie sia quella di un artista anti-intellettuale e naturalmente irrequieto, che tuttavia si pone una serie di quesiti fondamentali per lo sviluppo della sua estetica. Un’eccezione a questa spinta irrazionale deriva però, ben presto, dal suo interesse per gli scritti degli artisti: leggendoli ed assorbendoli, egli razionalizza il proprio pensiero sull’arte. E le sue riflessioni sul tema della forma e della struttura dell’opera d’arte rivelano una sua capacità autonoma di riflessione astratta di tipo estetico già negli anni della gioventù. Alla fine della prima parte dei Diari Haring si rivela addirittura interessato a questioni di filosofia e forse è questa una delle ragioni per le quali interrompe il diario, non ritenendosi in grado di tradurre in forma scritta le sue riflessioni.


Fig. 6) La copertina del catalogo della mostra tenutasi all’Albertina di Vienna nel 2018, con contributi di Dieter Buchhart, Marcel Danesi, Anna Karina Hofbauer, Elsy Lahner e Giorgio Verzotti (Editore Albertina).


I Diari tra 1977 e 1980

Si è già detto nella prima parte di questo post che i Diari di Haring coprono due fasi della sua vita: quella tra 1977 e 1980, quando è ancora studente, e il periodo tra 1986 e 1989, quando Keith è già un artista affermato. Su ciò che cronologicamente sta in mezzo, bisogna cercare di trarre informazioni da altre fonti oppure cercare di leggere tra le righe dei Diari, nelle occasioni in cui l’artista rievoca il passato. Fra 1977 e 1980 Haring è ancora un adolescente, e non ancora l’enfant prodige che vive gran parte della sua vita professionale frequentando artisti affermati, critici, commercianti d’arte, galleristi e altre personalità quasi tutte più anziane di lui, e viaggiando incessantemente in aereo da una destinazione e l’altra. Va aggiunto, ancora, che in questa fase Keith è soprattutto un disegnatore (in particolare, predilige lavori di piccole dimensioni su carta e non dipinge su tela, tecnica a lui particolarmente avversa in quegli anni) e non ha ancora commissioni per eseguire i murali monumentali che tanto hanno contraddistinto la sua arte negli anni finali della sua breve vita. Sono, infine, anni in cui molte delle sue realizzazioni sono ancora monocrome.

Cominciando a scrivere i Diari, Haring sottolinea la spontaneità, ma anche la provvisorietà, delle sue parole: “Questo libro contiene pensieri spontanei. Ogni giorno penso in modo diverso, rivaluto vecchie idee e le esprimo in termini differenti. Se tra un anno crederò ancora a qualcuna delle teorie o dei pensieri filosofici che ho scritto in queste pagine ne sarò sorpreso” [21].  Nel corso dei mesi seguenti, tuttavia, Keith rilegge quanto già scritto e scopre che, a fianco di gravi debolezze, vi sono anche elementi di riflessione che continuano a essere validi. Ecco una pagina del gennaio 1979: “Pochi giorni dopo aver registrato le ultime considerazioni in questo diario, ho riletto gran parte di quello che avevo scritto e ho capito che non era abbastanza accurato, neppure lontanamente. Mi è sembrato fiacco e incompleto. Avevo deciso di buttare via le parole precedenti. Invece ho semplicemente smesso di scrivere un diario perché ho avuto la certezza che i miei sforzi fossero infruttuosi, o nel migliore dei casi sarebbero stati solo un debole riflesso dei miei ‘veri’ pensieri e motivazioni. Stasera li ho riletti di nuovo e mi sono accorto che alcuni continuano a infastidirmi, mentre altri, con mia grande sorpresa, sembravano assumere un nuovo significato alla luce del mio pensiero attuale e delle conoscenze recentemente acquisite” [22]. 



I diari di un adolescente irrequieto e di un giovane artista anti-intellettuale


Nonostante i toni a volte adolescenziali della scrittura, la prima parte dei Diari non deve essere sottovalutata, perché è soprattutto in essa che Haring s’interroga sull’arte, sulle proprie radici estetiche, sui rapporti con generazioni precedenti e coeve dell’arte contemporanea negli Stati Uniti ed in Europa, e sulle proprie preferenze visuali.  Certo, l’apertura delle memorie è tipica di un diciannovenne alla ricerca della propria strada, tra momenti di entusiasmo e d’incertezza. “Questo è un momento triste… è triste perché sono di nuovo confuso, o forse dovrei dire ‘ancora”? Non so quello che voglio né come ottenerlo. Mi comporto come se sapessi quello che voglio e sembra che mi stia muovendo rapidamente in direzione della meta, ma quando arrivo al punto non so neppure cosa sia. Credo che dipenda dalla paura. Ho paura di sbagliare. E credo di avere paura di sbagliare perché mi confronto continuamente con gli altri, con altre esperienze, con altre idee. Invece, dovrei guardare a tutte queste cose in prospettiva, senza fare paragoni. Continuo a mettere la mia vita a confronto con un’idea o un modello di vita completamente diverso. Invece dovrei fare riferimento alla mia vita soltanto, perché ogni esistenza ha aspetti positivi e aspetti negativi. Ognuna è autonoma” [23]. Un anno dopo, le riflessioni esistenziali continuano a essere quelle di un giovane alla ricerca della propria strada: “Nulla è costante. Tutto cambia in continuazione. Ogni secondo, a partire dalla nascita, lo si trascorre a fare esperienza; diverse sensazioni, diverse interferenze, diversi vettori direzionali di forza/energia che si compongono e ricompongono continuamente intorno a noi. Il tempo (situazioni in una progressione logica visibile) non si ripete mai e mai potrà ripetersi. Nessuno degli elementi coinvolti nell’esperienza del tempo potrà mai essere uguale, perché tutto cambia in continuazione” [24].

Nonostante queste espressioni, tipiche delle inquietudini adolescenziali,  i Diari segnano già nel 1978 la direzione verso cui si muove l’arte di Haring: da un lato, l’interesse per l’elaborazione di una simbologia seriale, che vada al di là del semplice graffitismo e sia in grado di trasmettere direttamente messaggi universali; dall’altro, una forte impostazione individualista, contraria all’omogeneizzazione creata dalla società di massa, ma anche avversa all’organizzazione della vita artistica in movimenti estetici collettivi. Sul primo punto, Keith scrive, il 14 ottobre: “In pittura, le parole sono presenti in forma di immagini. I quadri possono essere poesie se vengono letti come parole anziché come immagini. ‘Immagini che rappresentano parole.’ Arte egizia/geroglifici/pittogrammi/simbolismo. Parole come figure/immagini. Possono le immagini esistere (comunicare) in forma di parole? Le lingue straniere, gli alfabeti indecifrabili possono essere belli, possono esprimere qualcosa senza che si conosca il significato delle parole” [25]. Va comunque detto che è convinto che l’impiego di una simbologia regolare non debba significa ripetizione: “Dipingo in modo diverso ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni istante. I miei dipinti sono la registrazione di un certo lasso di tempo. Sono schemi mentali registrati. La duplicazione è impossibile senza una macchina fotografica. La ripetizione, senza una macchina fotografica (o una macchina) non è ripetizione” [26].



Fig. 7) La copertina del catalogo del mostra su Kaith Haring, tenutasi a Monaco di Baviera nel 1990, con saggi di Barry Blinderman, Germano Celant, David Galloway and Bruce D. Kurtz (pubblicato da Prestel).


E sul secondo tema, quello del ruolo dell’individuo, Haring aggiunge, nella stessa occasione: “Sebbene gran parte della storia dell’arte sia composta da ‘movimenti’ e da stili propri di un certo gruppo di artisti, è sempre stata e sempre sarà il prodotto di un individuo. Persino se è esistita una ‘mentalità di gruppo’ o un’ ‘aggregazione culturale’ di artisti, l’atto dell’arte in sé è individuale o procede (nelle opere in collaborazione) da una concezione individuale o da un insieme di input individuali rivolti ad uno sforzo di gruppo. Comunque, dopo aver visto tutti questi ‘movimenti’ o ‘stili di gruppo’ e ‘periodi’ della storia dell’arte, credo che abbiamo raggiunto un punto in cui non possa più esistere una mentalità di gruppo, né movimenti, né ideali condivisi. È il momento dell’autorealizzazione” [27]. “L’individualità è contro la società di massa. “L’individualità parla per il singolo e lo rende un fattore significativo. L’arte è individualità” [28]. “Nessun artista fa parte di un movimento. A meno che non sia un seguace” [29]. Haring cita Matisse, come modello di artista che ha sviluppato la sua poetica senza appartenenze di gruppo. “Matisse aveva una visione pura e faceva dei magnifici dipinti. Nessuno aveva mai dipinto né dipingerà mai come lui. La sua era un’affermazione individuale” [30].

È interessante notare come quest’evidente antipatia nei confronti di ogni movimento di massa organizzato lo porterà a esprimere spesso, nelle pagine dei Diari, un’atavica diffidenza nei confronti dell’Unione Sovietica (che in quegli anni - non va dimenticato - è la superpotenza rivale degli Stati Uniti). Né, nella storia personale di Haring, risulta mai l’adesione a manifestazioni ‘di piazza’, anche per cause per le quali cui la critica ha sottolineato l’impegno civile del pittore: Keith, ad esempio, ha realizzato molte opere che sottolineavano i rischi di catastrofi nucleari, ma non ha mai partecipato a pubbliche proteste al riguardo. Più in generale, Keith non parla mai di fronte a vaste masse, non partecipa a iniziative collettive, non è il simbolo di riferimento di un movimento; in quegli anni, ad esempio, vi sono vastissimi movimenti pacifisti (si pensi alle grandi manifestazioni negli anni Ottanta contro gli euromissili in Europa) a cui Haring non fa alcun riferimento nei Diari. Personalmente, sono sorpreso come, nel periodo 1977-1980, non vi sia poi alcuna citazione di Jimmy Carter (Presidente degli Stati Uniti tra 1977 e 1981), nonostante quest’ultimo fosse paladino di molte battaglie civili e sociali vicine a quelle del pittore (un riferimento, a dire il vero, sarà fatto nella seconda parte dei Diari, in occasione della visita di Carter al Museo della Pace di Hiroshima il 28 luglio 1988 [31]). Ancora più sorprendente è che in tutti i Diari non si legga mai il nome di Ronald Reagan, Presidente tra 1981 e 1989 (certo su posizioni antitetiche rispetto a quelle dell’artista). L’impegno di Keith per le battaglie civili (contro l’apartheid, contro il razzismo, contro la minaccia nucleare, contro la diffusione dell’AIDS) parte sempre come testimonianza individuale e semmai diventa ‘di massa’ grazie all’immediatezza delle immagini che realizza e alla loro replica su magliette e gadgets. 

Fig. 8) La Biografia di Haring (il titolo originale è Authorized Biography) scritta da John Gruen e pubblicata in Italia da Baldini e Castoldi nel 2007

È evidente che in tutto ciò che è stato appena detto rischia di esserci una contraddizione interna: da un lato si tratta di fornire ‘arte per tutti’, dall’altra di evitare ogni forma di relazione personale con le masse. Come conciliare la cosa? Haring si pone il problema sempre in occasione del lungo scritto che elabora il 14 ottobre 1978 nei Diari. Da un lato il pittore vuole creare un linguaggio pittorico infinitamente riproducibile, in variazioni sempre diverse, e che possa essere compreso da tutti; dall’altro rigetta ogni forma d’arte che non sia espressione assoluta dell’individualità; il suo atteggiamento nei confronti delle masse è, insomma sospettoso. La quadratura del cerchio è perfettamente americana: l’arte esiste come diritto degli individui, sia pur considerati collettivamente come “pubblico”. “Il pubblico ha diritto all’arte” [32]. In termini artistici, l’affermazione di Haring è spesso accomunata al tema dell’“Arte per tutti”, che si diffonde in Europa – con evidente sapore anti-aristocratico – nella seconda metà dell’Ottocento (a Parigi è l’Art pour tous; a Vienna Kunst für alle) grazie allo sviluppo di forme di produzione di arte grafica a basso costo che permettono di abbattere i prezzi e dunque di diffondere l’arte sui muri delle abitazioni dei ceti intermedi. L’ ‘arte per tutti’ dell’Ottocento, in termini iconografici, ha peraltro come conseguenza il superamento della pittura a soggetto storico e la scoperta del simbolismo come forma che possa veicolare al pubblico sentimenti immediati. Vi sono certamente alcune attinenze con le intenzioni di Haring, e non è un caso che anni dopo, il 9 luglio 1987, Keith scriva di essere stato paragonato a Gustav Klimt [33]. Nel periodo coperto dalla seconda parte dei Diari Haring realizzerà quest’ideale creando un Pop Shop a New York (e poi a Tokio), per vendere a prezzo accessibile oggetti suoi e dei suoi compagni di percorso artistico, Basquiat e Scharf.

Solo la lettura intera del testo permette però di contestualizzare il significato dell’affermazione sul diritto all’arte del pubblico. In primo luogo, il pubblico ha diritto che non gli venga prescritto come interpretare l’opera d’arte: è dunque un diritto in primo luogo degli individui a non vedersi imposta alcuna definizione. In tal senso, l’artista non deve esprimere aspettative nei confronti del suo pubblico: “Lo spettatore non deve essere preso in considerazione durante la realizzazione dell’opera, ma non gli va detto, dopo, cosa pensare o come intenderla o quello che significa. Non c’è bisogno di definizione. La definizione può essere lo strumento più pericoloso e distruttivo che l’artista utilizza quando produce arte per una collettività di individui. La definizione non è necessaria. La definizione vanifica se stessa e i suoi scopi definendoli” [34]. Qualche mese dopo, nel dicembre 1978, Haring ribadisce: “Definire la mia arte equivale a distruggerne lo scopo. L’unica definizione legittima è la ‘definizione individuale’, l’interpretazione individuale, un’unica risposta personale che può solo essere considerata in quanto opinione. Nessuno sa qual è il significato definitivo della mia arte perché non c’è. Non c’è un’idea. Non c’è una definizione. Non significa nulla. Esiste per essere compresa solo come reazione individuale” [35]. Vorrei far notare – in proposito – l’enorme quantità di grafica che Haring realizza in questi anni senza attribuire ad essa titolo alcuno, come se proporre un nome ad un’opera potesse già essere di pregiudizio alla libertà dello spettatore, indirizzandolo in qualche modo preventivamente.

L’arte per tutti si deve innanzi tutto porre l’obiettivo di liberare gli individui dalle pressioni sociali. La cosa non è così banale, perché in realtà l’arte può essere utilizzata in due maniere diverse: “L’arte può avere un’influenza positiva su una società di individui. L’arte può essere un elemento distruttivo e un aiuto al controllo di una società basata sull’‘identità di massa’ ” [36]. Fra le due possibilità, Haring sceglie, evidentemente, quella dell’arte ‘democratica’, a disposizione di tutti, e non dei soliti noti. Bisogna aprirsi alle fasce più larghe della società e contemporaneamente essere in grado di attrarre la loro attenzione, ma secondo una logica che rimane sempre liberale: “Il pubblico viene ignorato dalla maggior parte degli artisti contemporanei. Il pubblico ha bisogno dell’arte, dunque è responsabilità di chi si ‘autoproclama artista’ rendersi conto che il pubblico ha bisogno d’arte; ma non il fare arte borghese per pochi e ignorare le masse. L’arte è per tutti. Pensare che loro – il pubblico – non apprezzano l’arte perché non la capiscono e continuare a fare arte che essi non capiscono e dalla quale perciò si estraniano, può significare che l’artista non capisce o non apprezza l’arte e prospera in questa ‘conoscenza dell’arte autoproclamata’, che alla fine è una grande stronzata” [37]. Implicitamente, la critica di Haring si rivolge a tutte le forme di arte concettuale, proprio perché presunte portatrici di un messaggio che non veicola l’idea di farsi capire dal pubblico.


Fig. 9) La versione inglese (1991 - Prentice Hall), olandese (1991 - Meulenhoff) e tedesca (1995 - Heyne) dell' autobiografia autorizzata di Keith Haring di John Gruen
In verità, il vero tratto distintivo che Haring vuole comunicare è la natura anti-intellettuale della sua arte, come aspetto necessario per renderla condivisibile al numero più alto di persone: “A me interessa fare dell’arte che venga sperimentata ed esplorata dal più ampio numero possibile di individui, con altrettante diverse idee individuali su un certo lavoro senza nessun significato definitivo. Lo spettatore crea la realtà, il significato, il concetto alla base del pezzo. Io sono solamente un intermediario che tenta di raccogliere delle idee. Non ho nulla di preciso da comunicare se non questo: ho creato una realtà che non è completa finché non si incontra con le idee di un altro essere umano (o, presumo, di un animale), compreso me stesso, e che la realtà non è completa finché viene vissuta. Ha infiniti significati perché verrà sperimentata in modo diverso da ogni individuo” [38]. Keith ribadisce l’idea dell’artista come intermediario (“L’artista come strumento, veicolo, vittima [39]) nel gennaio 1979. Vorrei ricordare come il medesimo tema (tipico della tradizione romantica) venga sviluppato in quegli anni dagli artisti di performance (si vedano le memorie di Marina Abramović e Jonas Mekas a proposito del Living Theatre a New York).


Alla ricerca delle radici nella storia dell’arte


La ricerca del giovane pittore non si basa solamente sulla discussione di alcuni concetti fondamentali. In realtà, egli si vede anche in linea di continuità con alcuni artisti con cui si confronta negli anni di studio. Ecco alcune considerazioni nei Diari del novembre 1978, quando sta studiando alla School of Visual Arts di New York. “Sento che in qualche modo potrei continuare una ricerca, un’esplorazione che altri pittori hanno iniziato e non sono stati in grado di portare a termine, perché hanno progredito verso altre idee, come anch’io farò, o forse per il crudele semplice fatto della morte. Sembra che gli artisti non siano mai pronti a morire. Le loro vite vengono spezzate prima che siano portate a termine le loro idee. Matisse fece nuove scoperte anche quando ci vedeva a malapena: usava le forbici, creava idee che generavano nuove idee; finché la morte non lo interruppe. Ogni vero artista lascia formulazioni irrisolte, ricerche interrotte. Possono esserci scoperte significative, possibilità apparentemente inesauribili, ma c’è sempre una nuova idea che è il risultato di queste scoperte. (…) Spero di non essere presuntuoso pensando che potrei esplorare possibilità che artisti come Stuart Davis, Jackson Pollock, Jean Dabuffet e Pierre Alechinsky hanno avviato ma non hanno portato a termine. Le loro idee sono idee vive. Non possono esaurirsi, ma solo essere esplorate sempre più a fondo. Mi conforta il pensiero che stavano perseguendo la stessa ricerca. In un certo senso non sono solo. Lo percepisco quando vedo la loro opera. Le loro idee continuano a vivere e aumentano di potenza ogni volta che vengono esplorate e riscoperte” [40].

Matisse si conferma dunque il padre nobile della poetica di Keith. Quanto a Stuart Davis, Jackson Pollock, Jean Dubuffet e Pierre Alechinsky, sono citati raramente nel resto dei Diari. Anni dopo, nel 1986, Haring scriverà di aver scoperto la pittura del belga Pierre Alechinsky (1927-) per puro caso [41] e di averlo incontrato di persona solamente nel 1985 [42]. Più spazio è dedicato allo svizzero Jean Dubuffet, teorico dell’Art Brut: ne cita un passaggio dal suo scritto “Anticultiral Positions” del 1951 [43], trascrizione di un discorso tenuto a Chicago sulle “concezioni errate del bello abbracciate dalla cultura occidentale” che Haring scopre quando ancora vive a Pittsburgh e considera uno dei suoi vangeli estetici [44]. Anni dopo – nel 1988 – legge un altro scritto di Dubuffet, ovvero “Asphyxiating Culture”, un testo di dura contestazione politico-culturale della società e delle istituzioni pubblicato originariamente nel 1968 [45]. A Pollock e Davis è dedicata solamente un’altra breve citazione.

In realtà, la fonte principale per comprendere il rapporto tra l‘arte di Keith e i quattro pittori di cui si è appena detto è costituita dalle conversazioni che l’artista ebbe con John Gruen. Frutto di tali incontri fu la pubblicazione della “Biografia” nel 1991 [46]. In uno degli incontri si apprende che il confronto con i quattro si avvia a Pittsburgh ed è legato, almeno in un primo tempo, al tema della tecnica, ed in particolare alla scelta della carta come mezzo su cui realizzare arte. Poi l’interesse si sposta al problema dell’astrazione e infine alle tecniche pittoriche (il testo di questo passo è anche disponibile nel sito della Keith Haring Foundation) [47]: “Al centro d’arte ed artigianato di Pittsburgh iniziai a realizzare stampe… In quei tempi, nel 1977, avevo una vera e propria ossessione per la carta. Quando iniziai a pensare più in grande, avevo una vera e propria avversione per la tela. Non volevo fare cose in tela. Volevo lavorare su carta, in parte perché la carta costa poco, ma in parte anche perché è interessante. E poi sentivo questa forte necessità di sapere quello che altri artisti avevano prodotto. Ho passato un sacco di tempo in biblioteca e mi sono imbattuto in Dubuffet. Trasalii quando mi accorsi di quanto le immagini di Dubuffet fossero simili alle mie, perché facevo queste piccole forme astratte che si intrecciavano tra loro. Così guardai al resto del suo lavoro. E fui molto attirato da Stuart Davis, perché uno dei miei insegnanti era Robert Henri, e  perché anch’egli intrecciava le sue forme astratte. Iniziai poi a rapportarmi a Jackson Pollock, in particolare alla sua arte astratta dei primi anni, ed anche a Paul Klee, Alfonso Ossorio e Mark Tobey. Ovviamente, in quel tempo non mi consideravo in nessun modo al livello di quegli artisti. Ma ognuno di loro aveva qualcosa in cui io ero convolto, e così li ho studiati, cercando di capire chi fossero; in tal modo mi rendevo conto chi fossi io e da dove io venissi.”

“Poi, ancora più importante fu il periodo di tempo passato al Carnegie International, il Museo d’arte del Carnegie Institute. In quell’anno, nel 1977, vi fu un’enorme retrospettiva di Pierre Alechinsky. Non avevo mai sentito parlare di lui. Ed improvvisamente mi trovai di fronte duecento tra sue pitture e disegni a tracciarne l’intera carriera. E vi erano anche immagini video che lo mostravano mentre lavorava. E io non sapevo chi fosse! Non potevo credere a quel lavoro! Era così simile a quel che facevo! Molto più simile di quello di Dubuffet. Era la cosa più simile a quel che io facevo con queste piccole figure che si auto-generavano. Bene, improvvisamente ebbi un’iniezione di fiducia. Qui c’era questo tipo che faceva quel che facevo io ma su scala immensa, e realizzato col tipo di calligrafia con cui lavoravo io. E vi erano immagini incorniciate che sembrava costituissero l’equivalente di cartoni animati – di una sequenza intera di  cartoni, ma realizzati in un modo totalmente libero ed espressivo, che era totalmente basato su cambiamento, intuizione, spontaneità,  lasciando cadere le gocce e mostrando il pennello, ma in grande! E quest’enorme ossessione per inchiostro e pennello! E quest’ossessione per la carta! Tutto ciò andava esattamente, esattamente nella direzione in cui stavo andando io. Non so quante volte sono andato a quella mostra. Ho comprato il catalogo. Ho letto gli scritti di Alechinsky. Ho visto i video in cui realizzava queste enorme tele sul pavimento. Per lui era come produrre qualcosa di orientale, dando grande importanza al senso di gravità.  Aveva sistemato delle tavole nel suo studio in modo da potersi sdraiare sopra di esse per arrivare al centro di questi grandi dipinti sul pavimento. Bene, Alechinsky mi ha completamente sconvolto. Da quel momento in poi, tutto, per me, è cambiato” [48].

Quel che vorrei sottolineare è che dal passaggio della Biografia appena citato emerge come l’incontro con l’arte dei pittori delle generazioni precedenti comprenda anche la lettura dei loro testi. L’analisi della letteratura artistica come metodo di approfondimento è peraltro confermata anche nei Diari: nel 1979, ad esempio, Keith, sotto l’influenza di Barbara Buckner (1950,-), una delle sue insegnanti specializzate in video art, si confronta con le lettere di Van Gogh, legge i diari di Paul Klee (di cui cita alcuni passaggi) [49], divora Lo Spirituale nell’Arte di Kandinskij e gli scritti di Fernand Léger [50]. In fondo, pur nella generale intonazione anti-intellettualista (come si è visto precedentemente, non vuole che gli artisti producano una ‘definizione’ delle intenzioni della loro arte), Haring fruisce dei benefici della produzione di testi scritti da parte dei colleghi che lo hanno preceduto. Si tratta senza dubbio di un elemento contraddittorio, che emergerà appieno in altre occasioni, quando, per fare un esempio, riempie decine di pagine dei suoi Diari con citazioni filosofiche, senza commentarle.


Forma e struttura

Nel 2001 – per un catalogo di una mostra tenutasi a Karlsruhe e Rotterdam [51] – Ulrike Gehring ha scritto un saggio su “Disegno e Colore: The Reconciliation of Two Rivals in the Art of Keith Haring”, collocando Keith al termine di una tradizione che si apre con il Vasari, continua nel Seicento con la polemica tra Poussin e Rubens, si rinnova nell’opposizione tra Ingres e Delacroix  e trova una nuova sintesi con Matisse [52]. Consiglio a tutti la lettura del saggio per una migliore comprensione degli aspetti formali dell’arte di Haring. Da questo punto di vista, i Diari evidenziano come – negli anni 1978-1979 – il tema prevalente dell’interesse dell’artista sia la relazione che esiste tra forma e struttura. Il colore verrà solamente negli anni seguenti. Del resto, come già detto, molta produzione di Haring in quegli anni è realizzata con inchiostro nero, e la maggior parte consiste di disegni e arte effimera (disegni in gesso nella metropolitana, graffiti).


Fig. 10) La copertina del catalogo della mostra “Keith Haring: Heaven and Hell”, tenutasi a Karlsruhe nel 2001 (a cura di Götz Adriani and Ralph Melcher, e pubblicato da Hatje Cantz).

È pur vero che un interesse per il legame che esiste tra forma e colore emerge già il 12 novembre 1978. Haring è reduce da una visita a una mostra di Mark Rothko (1903-1970) che documenta cinquant’anni dell’arte di quest’ultimo ed è colpito dall’unità della sua produzione (La sensazione prevalente che ho avuto durante la mostra è stata quella di unità [53]), sia pur nel passaggio dalla sua fase figurativa a quella astratta. “L’evoluzione dello stile di Rothko può essere facilmente ritrovata fin nei suoi primi lavori figurativi. Già nel 1938, nei suoi dipinti appaiono riflessioni sul rettangolo. Sebbene fossero soltanto sfondi per le sue immagini sempre più surreali, c’era una suddivisione ben precisa della tela in piani rettangolari. In un quadro del 1944, Horizontal Processions, l’influenza di Gorky è evidente. Sembra che stesse creando un ponte sempre più netto tra il linguaggio surreale e quello espressionista. Durante gli anni Quaranta il suo interesse pittorico tendeva sempre più verso la qualità delle pennellate, la sua sensibilità si rivolgeva alla composizione, con l’abbandono della linea per i campi di colore compatto maggiormente astratto. Nel 1946 i piani cominciarono a dominare i suoi dipinti. C’è una logica degli strati. Nel 1947 apparve il primo dipinto con i bordi della tela trattati come cornice. L’uso dei bordi crea la sensazione che i colori fluttuino sulla superficie. L’impiego della cornice e dei campi di colore si fa sempre più evoluto col passare degli anni. Egli lavora con un minimo di elementi per creare il massimo effetto. Le limitazioni che impone a se stesso riducendo le sue figure a puri campi di colore non fanno che aumentare la sua potenza creativa” [54].

Ma, al netto di tali considerazioni, Keith non si sente in quei giorni un vero ‘pittore’ (intendendo come tale un artista la cui poetica è comprensiva anche dell’uso del colore), preferendo concentrarsi sull’interazione tra forma e spazio: “Dopo aver rivisto le idee raccolte in questo taccuino ne ho notate alcune che mi sembrano rappresentative dei miei sentimenti di questi giorni. Un’idea cui ho appena accennato, ma su cui non ho mai scritto più approfonditamente, è che la mia pittura e le mie sculture recenti hanno più a che fare con lo spazio che con temi pittorici. Le immagini sono il risultato di movimenti, manipolazioni all’interno di un determinato spazio. Per esempio, come pensiero a posteriori, probabilmente la ragione per cui insisto, nei primi minuti in cui mi dedico a un lavoro, a disegnare un bordo intorno all’area che sto per dipingere è perché mi serve per familiarizzare con la scala del dipinto che mi accingo a fare. Sto sperimentando fisicamente il perimetro di un certo spazio. Dopo che ho segnato un certo spazio e creato un bordo, o dei confini, sono fisicamente consapevole dei miei limiti. Ho creato i miei confini e il mio spazio. Poi inizio a lavorare da una certa area e ci costruisco finché ho riempito o preso in considerazione tutto lo spazio precedentemente delineato” [55]. In quell’occasione Haring precisa inoltre la propria volontà di esprimere, con la propria arte, un sistema ordinato: “Nulla è caotico. Tutto ha al suo interno relazioni che riflettono le strutture sottostanti” [56]. Lo ripete il 21 gennaio 1979, quando fa riferimento ad alcuni suoi disegni che, pur concepiti come forma effimera di arte, sono parte di un processo logico strutturato: “Il dislocamento delle forme e la capacità di cambiare, risistemare, raggruppare, isolare e controllare la forma per ottenere un numero infinito di effetti – mai ‘definitivi’, mai ‘completi’. L’imposizione della struttura sulla forma. La struttura in termini umani, una griglia o una struttura lineare: questo concetto ha portato a idee riguardo alla musica, alla danza, ecc. Tutte le cose vengono misurate in base al loro aderire o deviare da una determinata struttura. La differenza si misura sulla somiglianza. Noi ‘vediamo’ in termini di strutture associate e in relazione. L’importanza di questi disegni è ormai, per quanto mi riguarda, la loro dipendenza da un processo logico in evoluzione” [57]. Haring, insomma, ci suggerisce che, dietro l’immagine del giovane che si fa arrestare più volte nella metropolitana di New York mentre esegue in pochi secondi disegni in gesso bianco sulle pareti nere non ancora occupate dalla pubblicità, vi è in realtà un’originale riflessione formale sull’arte. Non vi è dubbio che in quegli anni la forma sia cruciale per il pittore: “La mia ossessività nel creare immagini e oggetti mi ha portato a diversi cambiamenti nella creazione di immagini. La mia attività più recente consiste nel dissezionare i miei dipinti per ottenere forme essenziali che sono interessanti se prese individualmente. Lavorare con le forme, fisiche e dipinte, mi permette di esplorare le loro caratteristiche e simbolismi in modo approfondito. Tentare di capire le forme. Esplorare la struttura. Variazioni su ogni specifica idea” [58].



Il mondo dell’arte di New York e la conclusione della prima parte dei Diari


È del 17 novembre 1979 [59] il primo riferimento a Jean-Michel Basquiat (1960-1988), citato con l’acronimo SAMO. Tre giorni dopo compare, invece, il nome di Kenny Scharf (1958-), grande amico di Keith e altro animatore della giovane arte newyorchese. Un nuovo riferimento a Basquiat è del 30 novembre. È chiaro che i contatti tra i protagonisti della vita culturale nell’East Village si vanno infittendo. Ed è comunque certo che in quei mesi appare improvviso, potentissimo, il tema della (omo)sessualità, che si rivela onnipresente, da allora, nei testi di Keith, in una sorta di venerazione totemica del pene.

In parallelo, fin da settembre 1979, Haring segue le lezioni di semiotica di Bill Beckley [60] (1946-), un importante artista concettuale (forse, quanto di più lontano possibile dal suo anti-intellettualismo) al centro del mondo dell’arte contemporanea americana. Anche i Diari presentano sempre più passi relativi a questioni di semiotica ed epistemologia. Una lista di letture consigliate, il 30 novembre 1979, include Roland Barthes, Jean Piaget, Wittgenstein.

Che il pittore sia sempre più influenzato da un nuovo linguaggio emerge anche da una citazione del 25 aprile 1980: “La questione se ci debbano essere oppure no testi o grammatiche per sollevare temi morali o per farci definire i nostri valori è di per sé una questione morale” [61]. È l’ultima citazione – scritta in un linguaggio che diviene intenzionalmente ermetico – prima che la scrittura si diradi e si concluda nel luglio 1980, per poi riprendere nell’aprile 1986.

Perché i Diari si interrompono? Certamente Haring cambia vita: sospende gli studi alla School of Visual Arts e si impegna sempre più in attività di protesta, sia pur a titolo individuale (inizia, ad esempio, nel dicembre 1980 a produrre migliaia di disegni in gesso bianco nella metropolitana di New York, come forma di comunicazione al pubblico; per quest’attività – proibita a New York – sarà spesso arrestato). Dalla scrittura passa dunque all’azione. Inoltre – come detto - il successo stesso dell’arte di Haring ne limita la disponibilità di tempo: Keith è sommerso da richieste (anche lontanissime rispetto a quello che era il suo mondo solo qualche anno prima, come quando nel 1983 dipinge gli interni del negozio Fiorucci di Milano). Molti hanno accreditato l’idea che la vita di Haring diventi così disordinata e ingestibile da rendere la scrittura impossibile.

Ma forse il momento del distacco della penna, nel luglio 1980, avviene per ragioni differenti, e quasi opposte. Non posso infatti escludere che la stessa crescente intellettualizzazione del suo pensiero – sotto l’effetto di semiotica ed epistemologia – contribuisca a rendere per lui sempre più arduo testimoniare per iscritto pensieri e azioni con lo stesso stile schietto e immediato degli appunti dei primi anni. Forse era divenuto troppo filosofo per tenere un diario giovanile.    


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NOTE

[20] Keith Haring (Art and Design), a cura di Bruce D. Kurtz, David Galloway, Barry Blinderman e Germano Celant, Prestel, 1993, 208 pagine. Il testo è disponibile all’indirizzo
http://www.artchive.com/artchive/H/haring.html .

[21] Haring, Keith, Diari, Traduzione di Giovanni Amadasi e Giuliana Picco, Premessa di David Hockney, Introduzione di Robert Farris Thompson, Milano, Mondadori, 2001, p.345. Citazione a pagina 27.

[22] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 42.

[23] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 3.

[24] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 11.

[25] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 14-15.

[26] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 15.

[27] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 16.

[28] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 16.

[29] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 16.

[30] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 16. 

[31] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 273.

[32] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 18.

[33] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 206.

[34] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 18.

[35] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 36.

[36] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 19.

[37] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 18.

[38] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 19-20.

[39] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 51.

[40] Haring, Keith, Diari, (citato), pp. 28-29.

[41] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 127.

[42] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 292.

[43] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 94.

[44] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 118. Il testo di Jean Dubuffet è disponibile a 
http://www.austincc.edu/noel/writings/Anticultural%20Positions.pdf .

[45] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 265.

[46] Gruen John, Keith Haring. La biografia, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007, 266 pagine.

[47] Si veda: http://www.haring.com/!/selected_writing/conversation-with-keith-haring#.W5YADs4za6J .

[48] Si veda: http://www.haring.com/!/selected_writing/conversation-with-keith-haring#.W5YADs4za6J .

[49] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 56.

[50] Haring, Keith, Diari, (citato), p. 56.

[51] Keith Haring: heaven and hell. A cura di Götz Adriani e Ralph Melcher, Hatje Cantz, 2001, 200 pagine.

[52] Si veda: http://www.haring.com/!/selected_writing/disegno-e-colore-the-reconciliation-of-two-rivals-in-the-art-of-keith-haring#.W5c5384za6I .

[53] Haring, Keith, Diari, (citato), p.30.

[54] Haring, Keith, Diari, (citato), p.30.

[55] Haring, Keith, Diari, (citato), p.37.

[56] Haring, Keith, Diari, (citato), p.39.

[57] Haring, Keith, Diari, (citato), pp.51-52.

[58] Haring, Keith, Diari, (citato), p.46.

[59] Haring, Keith, Diari, (citato), p.82.

[60] Haring, Keith, Diari, (citato), p.58.

[61] Haring, Keith, Diari, (citato), p.89.





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