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giovedì 8 novembre 2018

Il Tesoro di Antichità: Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento. Parte Seconda


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Pubblicazioni in onore di Johan Joachim Winckelmann


Il Tesoro di Antichità
Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento

A cura di Eloisa Dodero e Claudio Parisi Presicce

Roma, Gangemi Editore, 2017, 384 pagine

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda

Fig. 11) Giovanni Battista Piranesi, Veduta di Villa Albani, da Vedute di Roma, 1769 @ Wikimedia Commons.

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Questa seconda parte del post è dedicata ai contributi più significativi – tra quelli contenuti nel recente catalogo della mostra Tesoro di Antichità, tenutasi a Roma tra il 7 dicembre 2017 e il 20 maggio 2018  – sul rapporto tra Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) e Roma (tutti inseriti nella terza sezione). 

Brigitte Kuhn-Forte
«Ho percorso tutti i Palazzi, tutte le Ville e i Giardini»: Winckelmann, le collezioni romane di antichità e Villa Albani
[41]

La storica dell’arte e archeologa Brigitte Kuhn-Forte, che lavora alla Bibliotheca Hertziana di Roma, passa in rassegna le collezioni d’arte che Johann Joachim può ammirare al di fuori del Museo Capitolino, e, in particolare, – come vedremo – a Villa Albani. È forse necessario, per prima cosa, ricordare quanto detto nella prima parte di questo post: la collezione Albani – costituita dal Cardinale Alessandro Albani (1692-1779), nipote di Clemente XI (Papa fino al 1721), nel suo palazzo alle Quattro Fontane – è venduta in parte (trentaquattro pezzi) alla casa di Sassonia nel 1728 e in parte (400 oggetti circa) a Papa Clemente XII nel 1733, in quest’ultimo caso per costituire il nucleo fondante del Museo Capitolino, aperto nel 1734. Si tratta del primo museo concepito nella storia per essere aperto al pubblico e Winckelmann, che giunge a Roma venti anni dopo, ne è un accanito visitatore. Tuttavia - e qui torniamo al saggio della Kuhn-Forte -  il museo certo non è l’unica raccolta attraverso la quale Winckelmann fa conoscenza con l’arte antica a Roma. La città offre, infatti, un patrimonio eccezionalmente ampio di statuaria nelle collezioni private dei nobili romani. In particolare il Cardinale Albani – al cui servizio Winckelmann lavora – continua ad alimentare una notevole collezione di statue provenienti da acquisti e ritrovamenti anche dopo l’alienazione della raccolta nel 1733. La conserva non più in città, ma nella sua nuova villa fuori Roma, e proprio qui Winckelmann avrà modo di studiarla con estrema attenzione. In termini quantitativi il Cardinale Albani riesce addirittura a mettere insieme una raccolta di dimensioni addirittura maggiori di quella che aveva venduto a Clemente XII. Nel 1798, infatti, quando la Francia impone il trasferimento di più della metà della collezione Albani a Parigi, a partire saranno ben 518 fra sculture e colonne antiche [42]. L’altro grande collezionista attivo a Roma all’epoca di Winckelmann, e addirittura suo amico, è il giovane marchese Giuseppe Rondinini (1725-1801), che eredita dalla famiglia nel 1741 una collezione di quarantuno sculture, ma le moltiplica negli anni: diverranno più di duecento alla sua morte [43].

Fig. 12) Apollo del Belvedere, Copia romana di un bronzo greco del 330–320 avanti Cristo attribuito a Leocares, 120–140 d.C., Musei Vaticani, Roma @ Wikimedia Commons.

Il collezionismo di sculture antiche - scrive la studiosa - è “il vanto di Roma” [44] ed è documentato sin dal Rinascimento in repertori di incisioni che sono diffuse attraverso tutt’Europa. Lo stesso Vaticano (si pensi all’Apollo del Belvedere) ospita i pezzi migliori.  All’origine delle collezioni sono i continui ritrovamenti nei terreni di proprietà dei nobili attorno a Roma, la ricostruzione di alcune aree della città dopo il sacco del 1527 e le prime campagne di scavi, stimolate anche dalla volontà di farne commercio [45]. “Occorre immaginare che all’epoca di Winckelmann le collezioni di antichità romane erano ancora abbastanza integre” [46], con l’eccezione della già citata vendita alla Casa di Sassonia del 1728 e di quella della collezione di Cristina di Svezia nel 1724 “acquisita attraverso gli Odelscalchi da Filippo V di Spagna” [47]. Winckelmann è uno degli ultimi testimoni di tanta concentrazione d’arte. “Le grandi dispersioni, una disgrazia per il patrimonio artistico romano, cominciarono quasi subito dopo la morte di Winckelmann” [48]: le ottanta statue e i settanta busti della collezione Mattei vengono disperse sul mercato antiquario nel 1770 (la maggior parte dei compratori è inglese); le quindici statue conservate a Villa Medici vengono trasportate a Firenze lo stesso anno per ordine del granduca di Toscana; l’intera collezione Farnese viene spostata a Napoli per effetto di diritti ereditari a vantaggio della casa dei Borboni; infine, l’occupazione francese di fine secolo (come documentato dal post pubblicato su questo blog a recensione degli scritti di Quatrèmere de Quincy) porta alla spoliazione di parte importantissima del patrimonio; a farne le spese non è solamente la collezione Albani, ma anche quella Borghese [49]. La Kuhn-Forte non tace comunque che parte delle alienazioni dei beni di Roma – in seguito a transazioni commerciali con acquirenti stranieri  – avviene proprio nell’epoca in cui Winckelmann svolge il compito di Commissario delle Antichità e con il suo diretto coinvolgimento: se nel 1762 l’erudito tedesco ostacola invano il passaggio del “Museo cartaceo” di Cassano del Pozzo dal Cardinale Albani a re Giorgio III d’Inghilterra (quella transazione lo priva, fra l’altro, di una preziosa fonte d’informazione per i propri studi [50]), nel 1764 egli autorizza invece la vendita in Inghilterra della cosiddetta Venere Jenkins (detta anche Venere Barberini; è stata acquisita dallo sceicco del Qatar nel 2002 per un prezzo che si reputa il più alto finora mai pagato per una statua a un’asta d’arte), perché considera la Venere capitolina (ancora oggi nella collezione dei musei) superiore.

Fig. 13) A sinistra: Venere Jenkins, anche chiamata Venere Barberini, copia adrianea con integrazioni settecentesche. Fonte: Pinterest. A destra: Venere Capitolina, tarda età ellenistica, Musei Capitolini, Roma. @Wikimedia Commons..

L’esame diretto delle collezioni pubbliche e private romane offre immediatamente a Winckelmann, già nel 1756, a un anno dall’arrivo a Roma, l’idea di compilare una storia dell’arte antica [51]. Johann Joachim scrive, il primo giugno di quell’anno: “Sono venuto a Roma solo per guardare; trovo però talmente tanti tesori ancora sconosciuti, talmente tante inesattezze in tutti i libri che hanno inteso trattare soprattutto del bello nelle opere degli antichi, che devo sfruttare l’occasione che mi si è offerta. Ho in progetto parecchi scritti, e in particolare un’opera sul gusto degli artisti greci” [52]. Insieme al giovane scultore danese Johannes Wiedewelt (1731-1802), uno dei primi artisti neoclassici, lo studioso tedesco visita “le raccolte antiquarie delle vicine ville Medici e Borghese, oltre che nelle ville Mattei sul Celio, Montalto-Negroni sull’Esquilino e Pamphilj sul Gianicolo”, come documentato nel già citato taccuino conservato alla Biblioteca Nazionale di Francia.

Fig. 14) Johannes Wiedewelt, Disegni di statue da Palazzo Medici, senza data. © 2018 Danmarks Kunstbibliotek Arkitekturtegninger.

Brigitte Kuhn-Forte spiega però che, quando progetta la pubblicazione, Winckelmann si rende conto che l’ampiezza del materiale a sua disposizione richiede studi più approfonditi. Così, se all’inizio Johann Joachim pensa di scrivere subito con Mengs un’opera sul gusto degli antichi greci e poi di pubblicare un testo dedicato alle sole statue del Belvedere, in realtà finisce per avviare unicamente la redazione del Manoscritto fiorentino. Quest’ultimo è un “taccuino di 193 pagine… [che] includono lo stato di conservazione delle singole opere, osservazioni iconografiche, stilistiche e di datazione: sono le prime formulazioni dell’idea winckelmaniana di sviluppo dell’arte in epoche e stili” [53].

Fig. 15) Il Manoscritto fiorentino, esposto alla mostra di Firenze su “Winckelmann, Firenze e gli Etruschi. Il padre dell'archeologia in Toscana”, tenutasi dal 26 maggio 2016 al 30 gennaio 2017. Fonte: https://museoarcheologiconazionaledifirenze.files.wordpress.com/2016/05/2016-05-30-16-20-12.jpg?w=584&h=327.

Nel 1758 Johann Joachim entra a servizio del Cardinale Alessandro Albani in un appartamento a lui riservato nel palazzo alle Quattro Fontane, il palazzo al centro di Roma già menzionato come sede della prima collezione d’arte antica della famiglia Albani. Per ospitare la seconda, Albani “fece costruire fuori Porta Salaria la grandiosa villa, oggetto di entusiastiche descrizioni dei viaggiatori in visita a Roma e dello stesso Winckelmann” [54]. La villa è costruita tra 1747 e 1765 dall’architetto Carlo Marchionni (1702–1786), con l’evidente intento di riprodurre temi e strutture dell’antica architettura romana. L’autrice parla esplicitamente di una “restitutio della Roma aeterna. (…) Nella strategia della restitutio rientrano gli acquisti di antichità da raccolte di chiara fama in via di dissoluzione (Cesi, Giustiniani, Farnese, Este, Aldobrandini, Barberini, Verosi), oppure il riacquisto/riscatto di opere da collezionisti inglesi con l’obiettivo di farle rientrare a Roma (due erme Massimo dall’asta Mead; l’obelisco ancora a Villa Albani)” [55].

Fig. 16) Giuseppe Vasi (1710–1782), Casino della Villa Albani fuori di Porta Salaria, 1761 @ Wikimedia Commons.

Il mondo che si muove attorno ad Albani è in realtà diviso, da un punto di vista di gusto estetico, tra i fautori dell’arte greca e quelli dell’arte romana. Tra i primi vi è sicuramente Winckelmann, tra i secondi, invece, Giovanni Battista Piranesi (1720–1778). Tra i due – nota l’autrice – i rapporti sono freddi. Al di là dell’evidente differenza nell’apprezzamento dell’arte antica, vi sono anche rivalità professionali: Piranesi spera che Winckelmann torni in Germania, in modo da “potergli succedere nella carica di Commissario delle Antichità” [56]. 

Fig. 17) Statua di Alessandro il Grande, restaurata dall’atelier di Bartolomeo Cavaceppi e appartenuta alla collezione Albani, prima della requisizione francese. È oggi collocata al Louvre. @ Wikimedia Commons.


Le lettere di Winckelmann testimoniano (forse con qualche esagerazione, secondo l’autrice) come Johann Joachim collabori con Albani nell’acquisto e restauro delle sculture [57]. In realtà Winckelmann non è l’unico interlocutore di Albani. All’interno del perimetro della Villa ha, ad esempio, il suo studio anche Bartolomeo Cavaceppi (ca 1716–1799) che ha un ruolo importante nel restauro e nell’ ‘integrazione’ delle statue. Quel che è sicuro è che le opere della collezione Albani conservate nella Villa fuori Porta Salaria rappresentano il nucleo più importante del volume di Monumenti antichi inediti pubblicato da Winckelmann nel 1767.


Federica Papi
La tutela dei beni artistici a Roma al tempo di Winckelmann
[58]

La storica del restauro Federica Papi spiega che – all’arrivo di Winckelmann a Roma nel 1755 – lo  Stato Pontificio dispone sì di una serie di strumenti giuridici per difendere il proprio patrimonio attraverso una serie di editti, bandi e proibizioni, ma che essi sono tutti concepiti all’inizio del secolo (al più tardi nel 1733) e non sono perciò sufficienti, da un punto di vista normativo, a fronteggiare una situazione in cui le grandi casate nobiliari romane reagiscono alle crescenti difficoltà patrimoniali dovute alla crisi economica precipitandosi ad alienare il loro patrimonio di statue ai ricchi collezionisti pubblici e privati fuori dall’Italia. L’ultimo editto, quello del 1733, è voluto da Clemente XII come parte integrante della politica di protezione del patrimonio che porterà alla contemporanea acquisizione della prima collezione di statue del Cardinale Albani e alla costituzione del Museo Capitolino. Nella seconda parte del secolo lo Stato Pontificio, un tempo protagonista di una politica illuminata di difesa del patrimonio, svela invece le proprie arretratezze burocratiche e culturali.


Fig. 18) The title page of the edition of the History of Drawing Arts of the Ancients by Johann Joachim Winckelmann, edited by Carlo Fea in 1783. Source: https://archive.org/details/storiadelleartid01winc/page/n9

Solamente nel 1802 – quando però molte collezioni sono già state disperse  – lo Stato pontificio si dota di uno strumento giuridico più moderno per opera di Carlo Fea (fra l’altro, curatore della seconda traduzione in italiano della Storia delle arti del disegno presso gli antichi di Winckelmann nel 1783). Nel corso del Settecento il vuoto legislativo è solo in parte colmato dall’azione e dal pensiero di singole personalità; oltre a Winckelmann, l’autrice fa riferimento a Giovanni Gaetano Bottari, al conte di Caylus, a Johann Gottfried Herder, a Quatremère de Quincy, Ennio Quirino Visconti e Luigi Lanzi. Winckelmann ha un ruolo primario nella difesa del patrimonio romano in quanto Commissario delle Antichità dal 1763 al 1768 (anno della morte). 


Fig. 19) A sinistra: Il cosiddetto Fauno del Winckelmann, secondo secolo dopo Cristo. Fonte: https://schriftkultur.uni-halle.de/en/winckelmann-moderne-antike-3/. A destra: immagine del Fauno nei Monumenti antichi inediti di Johann Joachim Winckelmann, Tavola 59, 1767 Fonte: https://archive.org/details/monumentiantichi01winc/page/n185

Nell’assumere l’incarico, Winckelmann non dà per la verità l’impressione di considerare il compito di controllare il flusso di esportazioni di beni artistici (che non comprende solamente le statue greco-romane e gli altri reperti d’arte antica, ma anche quadri e opere d’arte in generale, comprese quelle di artisti viventi) come particolarmente gravoso. Assegna peraltro tutti i compiti di ispezione più fastidiosi ai suoi collaboratori. Durante i cinque anni in carica, Johann Joachim autorizza cinquantasette richieste; a esse si aggiungono una trentina di autorizzazioni a firma dei collaboratori. Secondo la Papi, non vi è alcuna prova che Winckelmann abbia mai negato una richiesta. In un solo caso (il coseddetto Fauno del Winckelmann), l’erudito tedesco evita l’esportazione comprando lui stesso da Cavaceppi [59]. Dalle ricerche di Roland Kanz sappiamo che Winckelmann considera il Fauno il prototipo della bellezza (tanto da scrivere di volerlo abbracciare e baciare) e non si accorgere dei pesanti ritocchi che ha subito nella bottega di Cavaceppi. Escono invece da Roma con la sua autorizzazione tele attribuite a Paolo Veronese, Tiziano, Guido Reni, Guercino, Poussin, Luca Giordano e Mattia Preti [60]. Come si è già detto, Johann Joachim autorizza anche l’esportazione della Venere Jenkins, restaurata dal Cavaceppi, con le seguenti parole: “Quantunque il Torso di essa sia bellissimo, non può ella compararsi alla Venere del Museo Capitolino, la quale è di perfettissima conservazione” [61].  Oggi l’operato di Winckelmann presso l’amministrazione romana attirerebbe molte critiche.


Max Kunze
«Sein Studium ist unendlich». La lezione di Winckelmann in Campidoglio
[62]

L’archeologo tedesco Max Kunze, autore d’innumerevoli studi sull’eredità culturale di Winckelmann in paesi anche molto diversi (dalla Spagna alla Russia), si dedica qui all’insegnamento che Winckelmann impartisce ai numerosi giovani nobili che giungono da ogni parte d’Europa a Roma per il Grand Tour. In particolare, si concentra su un testo del 1763, la Abhandlung von der Fähigkeit der Empfindung des Schönen in der Kunst, und dem Unterrichte in derselben ovvero la Lezione sulla capacità del sentimento del bello nell'arte e sull’insegnamento dello stesso.

Fig. 20) A sinistra: Ferdinand Hartmann (1774-1842), Ritratto postumo di Johann Joachim Winckelmann, 1794. Il ritratto è ispirato a quello di Angelika Kauffmann del 1764. @Wikimedia Commons. A destra: Johann Winckelmanns, Präsidentens der Alterthümer in Rom, und Scrittore der Vaticanischen Bibliothek ... Abhandlung von der Fähigkeit der Empfindung des Schönen in der Kunst, und dem Unterrichte in derselben. An den Edelgebohrnen Freyherrn, Friedrich Rudolph von Berg, aus Liefland, 1763 Fonte: https://archive.org/details/bub_gb_GlYtsMUnIK0C/page/n0.

Kunze è subito esplicito nel dire che, in certi casi, l’educazione è, per lo studioso tedesco, questione emotiva, a cui si dedica anima e corpo, e per nulla riconducibile alla semplice attività di cicerone e accompagnatore svolta per le strade di Roma. Winckelmann allontana subito i giovani che si dimostrano svogliati (come il conte sassone Georg von Callenberg, 1744-1795), mentre accoglie con grande affetto gli studenti più affezionati alla materia, come gli zurighesi Leonard (1741–1789) e Paul Usteri (1746–1814) e Hans Heinrich Füssli (1745-1832). Il primo diverrà teologo e pedagogo, l’ultimo storico (è un omonimo del pittore, ma non sono la stessa persona). Con alcuni dei suoi studenti Johann intratterrà rapporti per tutta la vita. Leonhard pubblicherà nel 1778 le lettere inviate da Winckelmann agli amici svizzeri; e proprio a Leonhard lo studioso tedesco si azzarderà a confessare, nel 1762, di essersi perdutamente innamorato di uno dei suoi studenti, il ventiseienne barone Friedrich Reinhold von Berg (1736-1809), per il quale scrive una memoria descrittiva (le Annotazioni sopra le Statue di Roma) e a cui dedica l’appena citata Abhandlung. L’amore non è corrisposto e il giovane – che è giunto a Roma dalla lontana Riga – abbandona precipitosamente Roma senza alcun avvertimento [63].

La Lezione è una dissertazione sul metodo d’insegnamento. Winckelmann arriva a teorizzare che l’insegnamento delle opere d’arte (e qui in particolare delle sculture) si debba indirizzare a giovani che siano liberi da ogni necessità fisica e materiale (“dispongono di mezzi, occasioni e tempo libero” [64]) e possano dedicare tutte le loro energie allo studio. Va tuttavia detto che in questa categoria sono compresi anche i giovani borghesi (come quelli zurighesi) che nobili non sono, ma hanno ricevuto la necessaria educazione. 

Fig. 21) A sinistra: Autore e data sconosciuti, Ritratto del conte Georg Alexander Heinrich Hermann von Callenberg, signore di Muskau. Fonte: https://www.geni.com. A destra: L’edizione delle Lettere di Winckelmann agli amici nella Svizzera, pubblicata a cura di Leonhard Usteri nel 1778.

Johann Joachim raccomanda di non iniziare immediatamente le lezioni partendo dall’esame dei reperti antichi, ma “di iniziare … con lo studio della letteratura artistica, antica e moderna, così da acquisire le nozioni necessarie sull’arte stessa” [65]. Il passaggio successivo è lo studio “delle monete e dei calchi di gemme” [66]. `Quanto all’obiettivo finale, ovvero “la vera e completa conoscenza del Bello” [67], non può che essere raggiunta a Roma. Già in un testo manoscritto precedente, del 1759, intitolato Lezione per i tedeschi di Roma (“Unterricht für die Deutschen von Rom”), Johann Joachim aveva raccomandato di preparare il viaggio facendolo precedere da uno studio di molti anni, e di dedicare tempo sufficiente all’apprendimento a Roma, che era altrimenti un mare nel quale era assai facile perdersi [68].

Dalle lettere del già citato Leonhard Usteri veniamo a sapere che l’insegnamento di Winckelmann era intensissimo: “Io sono suo allievo interamente, egli scandisce le mie ore di lezione e mi lascia appena tempo di scrivere” [69]. Un altro degli zurighesi citati, Hans Heinrich Füssli, è totalmente ammirato dal maestro: “La sua mente è grande, ma il suo cuore è ancora più grande” [70]. Füssli è forse il più dotato dei suoi studenti a Roma, e quello a  cui Winckelmann si dedica maggiormente. Scrive Max Kunze: “Füssli descrive in questi termini il metodo d’insegnamento di Winckelmann: «Egli procede sempre dalle opere d’arte agli uomini, e da questi ultimi a quelle. Così ricostruisce il carattere di diverse nazioni, di Roma e della Grecia in particolare, attraverso le loro diverse epoche; così emergono i loro fondamenti politici e morali» [71].


Thomas Fröhlich
Attraverso gli occhi di Winckelmann: le sculture capitoline nella Geschichte der Kunst
[72]

L’archeologo Thomas Fröhlich, attivo all’Istituto Archeologico Germanico di Roma, ci illustra il ruolo cruciale che i reperti allora custoditi in Campidoglio oppure in altre raccolte romane hanno avuto per la redazione della maggiore delle opere di Winckelmann, la Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell’arte degli antichi), pubblicata nel 1764, quasi dieci anni dopo l’arrivo dello studioso a Roma. Nella Storia l’esame dei singoli reperti e la discussione della loro collocazione stilistica nello sviluppo dell’arte degli egizi, etruschi, greci e antico-romani è fondamentale.

Fig. 22) A sinistra: Calco dell’Antinoo Egizio, esposto alla mostra romana su Winckelmann (l’originale si trova ai Musei Vaticani). Fonte: http://www.artslife.com/2018/01/17/winckelmann-e-il-museo-capitolino-nella-roma-del-settecento/. A destra: Base con Fatiche di Eracle, bottega neoattica di prima età imperiale. Fonte: http://www.museicapitolini.org/it/percorsi/percorsi_per_sale/palazzo_nuovo/stanzette_terrene/base_con_fatiche_di_eracle..

Parlando degli egizi, Winckelmann documenta come alcuni temi dell’arte di quella civiltà di fossero presenti anche nel tardo periodo romano (è il caso dell’Antinoo Egizio). Quanto all’arte etrusca, il riferimento obbligato è alla Lupa Capitolina. In altri casi (ad esempio l’Apollo del tipo Kassel al museo capitolino, oggi ritenuto copia romana dell’epoca della dinastia dei Severi), Johann Joachim rivela molte incertezze [73]. Quanto ad a una Base con la rappresentazione delle fatiche di Ercole, oggi sicuramente considerata opera greca attica di età imperiale romana, Winckelmann la attribuisce erroneamente all’arte etrusca.

Fig. 23) A sinistra: La Leucotea, in Johann Joachim Winckelmann, Monumenti antichi inediti, 1767. Fonte: https://archive.org/details/monumentiantichi01winc/page/n177. A destra: L’originale, un marmo greco di tarda età adrianea, che può essere ammirato ai Musei Capitolini e rappresenta il giovane Dioniso (Inv. Scu 734). Fonte: http://capitolini.info/scu00734/

Il cuore della trattazione è però su nascita, sviluppo e declino dell’arte greca. È qui che Winckelmann distingue – sulla base dell’estetica neoplatonica – tra bellezza naturale e bellezza ideale. La bellezza ideale è rappresentata soprattutto dai nudi apollinei, in cui la rappresentazione semplice e calma della naturale bellezza del corpo virile di un giovane è elevata da perfezione e morbidezza, evitando l’eccessivo disegno di muscoli e vene [74]. Scrive Fröhlich: “A questo contesto appartiene la bella testa di Dioniso nella Sala del Galata, del quale Winckelmann descrive le «palpebre un po’ ondeggianti», e che per il diadema nei capelli e le sembianze femminili identifica con la ninfa Ino-Leucotea” [75].

Fig. 24) A sinistra: Flora Capitolina, Età adrianea con restauri di Carlo Monaldi, Musei Capitolini, Roma @ Wikimedia Commons. A destra: Statua di Pothos, Prima età imperiale, Musei Capitolini, Roma @ Wikimedia Commons

La bellezza naturale è invece inferiore, perché si traduce nell’imitazione di una situazione reale, sia pur piacevole, ma come tale imperfetta. Un esempio – nella raccolta creata da Clemente XII nel 1733 – di bellezza ‘solamente’ naturale è secondo Johann Joachim la cosiddetta Flora Capitolina. La statua di epoca adrianea era stata rinvenuta a Villa Adriana solamente nel 1740 e non apparteneva dunque alla collezione originaria del Cardinale Albani trasferita al Museo Capitolino nel 1733. Vi arrivò solamente nel 1744, dopo un restauro effettuato dallo scultore Carlo Monaldi (1683 circa –1760 circa), che ne interpretò il soggetto appunto con Flora (in linea con l’interpretazione del Bottari) e aggiunse la mano sinistra con un mazzetto di fiori [76]. Winckelmann non condivide l’attribuzione, ha dubbi sul restauro, ma soprattutto vede nella statua un’immagine che non riesce a trascendere la realtà (e considera anzi la recente aggiunta dei fiori come un particolare stonato) [77]. Anche la statua del Pothos (che ammira alla Galleria di Villa Medici – prima del trasferimento agli Uffizi di Firenze – ed interpreta come un Apollo [78]) tradisce accenti naturalistici (come l’incrocio delle gambe).

Certamente meno importante è il ruolo dell’arte romana, ovviamente molto presente ai Musei Capitolini, ma a cui Winckelmann non riconosce alcuna originalità.

Fröhlich conclude il suo breve saggio con una considerazione sull’imitazione dell’arte. Studiando in modo intenso tutte le opere disponibili, Winckelmann si rende presto conto che copie di opere presenti al Museo Capitolino sono reperibili fuori di esso. Se alcuni dei suoi contemporanei (tra i quali Mengs) iniziano a porsi il problema dell’originalità delle opere, per Winckelmann la questione se si tratti di originali o copie è tema minore, rispetto alla capacità dell’immagine di rappresentare in modo oggettivo la bellezza ideale [79]. Lo studioso conclude: “sembra che il concetto dell’originalità non avesse avuto un ruolo fondamentale nel suo pensiero. Egli era convinto che la storia dell’arte seguisse un percorso naturale di crescita, fioritura e decadenza, e che lo specifico percorso artistico fosse determinato dal contesto storico-sociale e geografico. In questo concetto la figura del maestro geniale non è di primaria importanza” [80].


Federica Giacomini 
Winckelmann e il restauro delle sculture capitoline [81]

Federica Giacomini, restauratrice e storica dell'arte, si dedica al tema di come Winckelmann si ponga di fronte alle pratiche di restauro delle sculture antiche nel suo tempo. È un tema che si sposa bene con i Musei Capitolini, in quanto la collezione attuale è tra le poche al mondo a non essere stata sottoposta “nel corso del Novecento a discutibili campagne di derestauro, ovvero di asportazione delle integrazioni antiche” [82].

Fig. 25) Statua di Amazzone ferita, tipo Mattei, prima età imperiale, Musei Capitolini, Roma. La testa, anch’essa antica, non è però pertinente, e fu aggiunta nel corso del 1500-1600. Fonte: Wikimedia Commons

Appena arrivato a Roma, Winckelmann può verificare con mano che molti autori e commentatori si contraddistinguono per “l’incapacità, o meglio [il] disinteresse, di distinguere quanto di antico e di originale vi era in una scultura da quanto invece si doveva a moderni interventi di restauro. Restauri che spesso riguardavano parti essenziali dell’opera, quali teste e braccia, portatrici, in genere, degli attributi necessari alla identificazione del soggetto di ciascuna opera. Gli autori criticati da Winckelmann interpretavano dunque le opere senza porsi il problema dei restauri moderni, cadendo in errori a volte grotteschi e traendo in inganno i lettori. L’esigenza di confutare questi errori così superficiali, di cominciare a liberare le opere «dalle scorie dei commenti tradizionali» è tale, che un trattatello sui restauri è tra le primissime opere a cui Winckelmann si dedica subito dopo il suo arrivo a Roma. Da lui stesso considerato un lavoro preliminare e di supporto, sarà ben presto scavalcato da impegni di ben altro respiro critico-teorico e infatti non vedrà mai la luce” [83].

La studiosa spiega come la disciplina del restauro della statuaria antica nasca nel 1500 di pari passo al diffondersi del collezionismo. In quel tempo non vi è l'attitudine culturale (di tipo filologico) ad accettare che l’originale possa rivelare le vicissitudini del tempo ed essere preservato nelle condizioni di ritrovamento, attuando solamente misure conservative. A volte gli interventi sono disinvolti e a volte addirittura completamente inappropriati. Si assiste a combinazioni tra parti di reperti antichi che non sono tra loro pertinenti, integrati da completamente moderni del tutto fantasiosi (come si è già visto in questo blog a proposito di scritti di Bartolomeo Cavaceppi e Giovanni Battista Casanova) [84]. Manipolazioni della superficie permettono di dare una nuova veste alle statue, ma ne distruggono a volte anche l’immagine originale [85].  Mentre Winckelmann è decisamente contrario al secondo tipo di intervento, nei confronti dei completamenti il suo atteggiamento è ambiguo, e sarebbe eccessivo attribuire allo studioso preoccupazioni conservative di tipo moderno.

Fig. 26) Statua femminile seduta, cosiddetta "Roma Cesi", probabile copia di età adrianea da un originale del V secolo a.C. Di restauro la testa, il braccio destro e parte del petto. Musei Capitolini, Roma. Wikimedia Commons e © José Luiz Bernardes Ribeiro

Il gusto per il completamento delle statue mutile persiste per tutto il Settecento ed è di fatto condiviso dallo stesso Winckelmann. Per una lettura filologica dei pezzi, necessaria allo studioso e all’archeologo, la conservazione dell’originalità intatta del frammento sarebbe la miglior strada da perseguire, ma l’armonia formale della scultura integra è un’abitudine estetica e culturale troppo radicata per rinunciarvi. Tuttavia Winckelmann detta una via più stretta attraverso la quale integrazioni e ricostruzioni dovranno passare innanzi tutto la consulenza di studiosi dotati di competenza antiquaria e di capacità artistica e stilistica – ovvero in grado di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione, della filologia e dell’arte – al fine di garantire una corretta interpretazione del frammento” [86]. Insomma Federica Giacomini ci spiega che la pratica del restauro continua, ma deve essere ispirata a criteri di qualità, che nel caso di Winckelmann significa che debbono seguire la stessa logica del bello ideale a cui – a suo parere – si è orientata la civiltà greca. Sono gli ideali della cosiddetta “agitata passione” e dell’ “anima grande e posta”, i due temi al centro dell’estetica winckelmaniana. “Egli elogia gli interventi del passato non tanto per la correttezza interpretativa o per il loro adeguarsi allo stile dell’originale, bensì per l’alta qualità intrinseca delle integrazioni” [87].

Fig. 27) La cosiddetta Dacia Capta, primo secolo dopo Cristo, Musei Capitolini, Roma. Fonte: http://capitolini.net/object.xql?urn=urn:collectio:0001:scu:00776

È questa la ragione per la quale alcuni restauri piacciono allo studioso tedesco, mentre altri molto meno. Fra i restauri che piacciono, vi è un bassorilievo che è acquistato da Papa Clemente XI dalla collezione Cesi nel 1719. Rappresenta una provincia romana sconfitta, ed è stata tradizionalmente interpretata come “Dacia capta”, la Dacia tratta in prigionia. Il restauro, secondo il catalogo dei Musei capitolini, è molto ampio, perché coinvolge “la testa, il braccio sinistro dal gomito, il gomito destro, ambedue le volute eccetto l'estremità delle palmette e delle rosette e parte della modanatura superiore dei lati.” Non si sa oggi se l’intervento sia stato effettuato a metà del 1500, quando la statua entra nella collezione del Cardinale Federico Cesi, oppure in anni successivi. Sta di fatto che Winckelmann lo considera “il più bello del mondo” [88]  e lo attribuisce addirittura a maestri come Sansovino o Dusquenoy o Algardi. Molto meno positivo invece il giudizio sul resto del gruppo che appartiene al gruppo della Roma Cesi (ovvero la Dea Roma e i due Prigionieri Daci). Qual è la ragione della differente valutazione, nonostante molto probabilmente il restauro sia stato eseguito dalla stessa persona? Scrive l’autrice: “La Dacia, pur nell’espressione afflitta, conserva i caratteri classici della bellezza ideale, mentre i volti dei Prigionieri hanno una espressività marcata, quasi grottesca, ottenuta per di più con una insistita minuzia di intaglio in luogo della tornita levigatezza delle superfici della Dacia. Qualcosa di simile si può dire per la testa di restauro della Dea Roma, ma con uno stile in questo caso più caratterizzato e particolare, dunque meno rispondente a quel canone della bellezza assoluta del quale proprio Winckelmann in quegli anni stava costruendo i fondamenti critici e filosofici” [89]. 


NOTE

[41] Il Tesoro di Antichità. Winckelmann e il Museo Capitolino nella Roma del Settecento. A cura di Claudio Parisi Presicce ed Eloisa Dodero, 2017, 384 pagine. Citazione a pagina 195-210

[42] Il Tesoro di Antichità (citato), p.196.

[43] Il Tesoro di Antichità (citato), p.197.

[44] Il Tesoro di Antichità (citato), p.195.

[45] Il Tesoro di Antichità (citato), p.195.

[46] Il Tesoro di Antichità (citato), p.195.

[47] Il Tesoro di Antichità (citato), p.195.

[48] Il Tesoro di Antichità (citato), p.195.

[49] Il Tesoro di Antichità (citato), p.196.

[50] Il Tesoro di Antichità (citato), p.206.

[51] Il Tesoro di Antichità (citato), p.197.

[52] Il Tesoro di Antichità (citato), p.199.

[53] Il Tesoro di Antichità (citato), p.199.

[54] Il Tesoro di Antichità (citato), p.202.

[55] Il Tesoro di Antichità (citato), p.202.

[56] Il Tesoro di Antichità (citato), p.204.

[57] Il Tesoro di Antichità (citato), p.205.

[58] Il Tesoro di Antichità (citato), pp.211-218.

[59] Il Tesoro di Antichità (citato), p.216.

[60] Il Tesoro di Antichità (citato), p.216.

[61] Il Tesoro di Antichità (citato), p.217.

[62] Il Tesoro di Antichità (citato), pp.219-226.

[63] Il Tesoro di Antichità (citato), p.219.

[64] Il Tesoro di Antichità (citato), p.219.

[65] Il Tesoro di Antichità (citato), pp.219-220.

[66] Il Tesoro di Antichità (citato), p.220.

[67] Il Tesoro di Antichità (citato), p.220.

[68] Il Tesoro di Antichità (citato), p.220.

[69] Il Tesoro di Antichità (citato), p.221.

[70] Il Tesoro di Antichità (citato), p.221.

[71] Il Tesoro di Antichità (citato), p.222.

[72] Il Tesoro di Antichità (citato), pp.227-241.

[73] Il Tesoro di Antichità (citato), pp.229-230.

[74] Il Tesoro di Antichità (citato), p.232.

[75] Il Tesoro di Antichità (citato), p.235.

[76] Il Tesoro di Antichità (citato), p.341.

[77] Il Tesoro di Antichità (citato), p.232.

[78] Il Tesoro di Antichità (citato), p.346.

[79] Il Tesoro di Antichità (citato), p.238.

[80] Il Tesoro di Antichità (citato), pp.238-239.

[81] Il Tesoro di Antichità (citato), pp.259-264.

[82] Il Tesoro di Antichità (citato), p.262.

[83] Il Tesoro di Antichità (citato), p.259.

[84] Il Tesoro di Antichità (citato), p.260.

[85] Il Tesoro di Antichità (citato), p.260.

[86] Il Tesoro di Antichità (citato), p.260.

[87] Il Tesoro di Antichità (citato), p.260.

[88] Il Tesoro di Antichità (citato), p.261.

[89] Il Tesoro di Antichità (citato), p.261.


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