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lunedì 12 novembre 2018

I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento. A cura di Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Alessandro Nova. Parte Quarta


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I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento
A cura di Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Alessandro Nova


Milano, Officina Libraria, 2018

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Quarta


Una fotografia di Wilhelm Reinhold Valentiner
Fonte: https://ilmanifesto.it/valentiner-lespressionismo-a-scopo-museale/
Marco M. Mascolo
Wilhelm Reinhold Valentiner (1880-1958):
connoisseurship, collezionismo e museografia

(pp. 273-286)

Nel caso di Wilhelm Reinhold Valentiner ci troviamo di fronte a un conoscitore che funge da precoce collegamento fra il mondo scientifico tedesco e quello americano. L’uomo, sicuramente, fu personaggio di grandissime conoscenze, abbinate a interessi altrettanto vasti, ricordando, sotto questo punto di vista, uno degli interlocutori principali della sua giovinezza, ovvero Wilhelm von Bode, di cui fu assistente personale presso il neonato Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino. Bode aveva notato Valentiner perché quest’ultimo si era laureato a Heidelberg con una tesi su Rembrandt, avvalendosi anche, ai fini della sua interpretazione stilistica delle opere dell’artista, del catalogo ragionato, sontuosamente illustrato, che Bode e Cornelis Hofstede de Groot stavano pubblicando proprio in quegli anni (furono editi otto volumi fra 1897 e 1906). Il biennio accanto a Bode è, in generale, fondamentale per la formazione di Valentiner, ma, molto più nello specifico, lo è anche per le vicende biografiche dello studioso. Nel 1908, infatti, giunge a Bode dagli Stati Uniti la richiesta di dare un consiglio sul nuovo direttore del Dipartimento di Arti Decorative del Metropolitan Museum di New York e il nome suggerito è quello di Valentiner, che comincia così una lunga permanenza negli Stati Uniti (il periodo più rappresentativo fu, senz’altro, il ventennio in cui fu direttore del Detroit Institute of Arts). Lunga, ma non ininterrotta: basti dire che quando scoppia la Prima guerra mondiale, lo studioso torna in Germania e si arruola volontario. Vale la pena parlare di quegli anni, perché è proprio sotto la guerra che Valentiner conosce Franz Marc (che muore a Verdun nel 1916). Con Marc ha modo di discutere – proprio al fronte – delle prospettive dell’arte contemporanea tedesca e delle caotiche vicende legate alla nascita di movimenti artistici subito primo la guerra (fra cui, naturalmente, il movimento del Cavaliere azzurro, o Blaue Reiter). Marco Mascolo ha pubblicato proprio lo scorso anno un’interessantissima monografia dedicata a Valentiner [9] e non è qui il caso di dilungarsi, ma c’è un aspetto da tener presente, ovvero come, sin dai tempi degli studi su Rembrandt, lo storico tedesco riveli di proiettare la sua analisi stilistica sui ‘problemi’ dell’arte contemporanea. Rembrandt, del resto, sin da fine Ottocento diventa incarnazione di pittura moderna e germanicità dell’arte. Già Bode “insisteva sulla necessità per gli artisti moderni di cercare ispirazione in Rembrandt per giungere a dar vita a una rigenerazione dei mezzi espressivi in chiave tutta ‘germanica’ “ (p. 281). La figura di Valentiner non può essere compresa, a maggior ragione, se non tenendo conto della sua ‘militanza’ in termini di arte contemporanea, che si risolve, in sostanza, con il sostegno all’espressionismo tedesco. La presenza americana del critico è dunque fondamentale da un lato per la riscoperta della pittura olandese del Secolo d’oro, dall’altro come ponte (fino alla morte) fra collezionismo statunitense da un lato ed espressionismo tedesco dall’altro. Da non trascurare, infine, il fatto che “grazie alla sua alleanza con i vari Morgan, Altman, Widener, Johnson prima, e con le famiglie Ford e Rockefeller dopo, Valentiner seppe traghettare le loro collezioni verso le istituzioni museali in cui lavorava, secondo quel particolare e paradigmatico ‘uso pubblico dei beni privati’ tipico del contesto statunitense” (p. 286).


Giovanna Ragionieri
Il «problema di Assisi» nella storiografia tedesca, fino a Richard Offner

(pp. 287-296)

Veduta esterna della Basilica Inferiore e Superiore di Assisi
Fonte: Florian Decker, Messdiener Winterbach tramite Wikimedia Commons

Giovanna Ragionieri (allieva di Luciano Bellosi, con cui ha collaborato alla stesura delle note del fondamentale La pecora di Giotto [10] e all’edizione italiana del Francesco di Assisi di Henry Thode, Roma, Donzelli 1993) si occupa di rileggere e reinterpretare i contributi dei conoscitori tedeschi su uno dei grandi problemi dell’attribuzionismo, ovvero la questione della paternità degli affreschi della Basilica inferiore e superiore di San Francesco in Assisi. Si tratta, ovviamente, di un percorso accidentato e che non riguarda, come logico, tutti i visitatori tedeschi di Assisi. Si può dire che l’inizio del dibattito si materializzi sulle pagine della famosissima rivista tedesca «Kunst-Blatt», su cui, nel 1821 e nel 1827, compaiono due contributi, rispettivamente di Johann Heinrich Friedrich Karl Witte (1800-1883) e di un non meglio noto Fr. Köhler. Witte assegna a Giotto gli affreschi delle Allegorie francescane nella Basilica inferiore (e la loro collocazione cronologica è tarda), mentre rigetta la paternità giottesca nella Basilica superiore (dove individua le mani di tre distinti artisti); Köhler anticipa la datazione delle Allegorie e non esclude la presenza di Giotto nella parete sinistra della Basilica superiore. Ben più note le posizioni di von Rumohr (di cui peraltro non sappiamo con certezza quando visitò Assisi per la prima volta) nel secondo volume delle Italienische Forschungen. Pur giungendo ad attribuzioni che oggi sarebbero giudicate di fantasia (partendo da opere giudicate certe all’epoca, ma poi rivelatesi non tali), von Rumohr ha il merito di ‘sventare’ una lettura di Giotto unicamente legata alla spiritualità religiosa e lo colloca su un sentiero più ‘laico’, legato all’imitazione della natura, che molto piacque, ad esempio, a Giovanni Previtali nel Novecento.

Ecco, mi pare questo il trait-d’union del saggio di Ragionieri. Indipendentemente dall’esito delle attribuzioni (e da inizio Novecento, con la riscoperta dei lavori di Pietro Cavallini in Santa Cecilia a Trastevere, davvero si assiste a un alternarsi di posizioni volte a un maggiore o minore coinvolgimento della cosiddetta ‘scuola romana’ nella Basilica superiore), tutte le figure prese in considerazione dall’autrice rivelano una conoscenza delle fonti (visive e non) che va sottolineata da un punto di vista metodologico: si va da Thode (di cui semmai è discutibile l’interpretazione di Giotto come padre del Rinascimento) a Friedrich Rintelen (1881-1926), che espunge le Storie di san Francesco dal catalogo giottesco; da Suida e Schmarsow (1853-1936) fino a Richard Offner (1889-1965) che, nella questione giottesca, afferma la sostanziale estraneità delle Storie rispetto alla produzione artistica dell’artista fiorentino. Si tratta di posizioni che oggi, alla luce del ‘recupero’ giottesco di cui Bellosi è stato autorevole interprete (collocando il cantiere assisiate nella Basilica superiore in anni particolarmente precoci), tendono a essere considerate superate, ma che rivelano comunque la solidità di un metodo che è quello del conoscitore.


Sonia Chiodo
Richard Offner (1889-1965), appunti per una biografia: studi, pensieri e maestri prima del Corpus 
(pp. 297-336)

Uno dei volumi del Corpus of Florentine Painting curato da Richard Offner

I dodici volumi di A Critical and Historical Corpus of Florentine Painting, pubblicati fra 1930 e 1965, rappresentano senza ombra di dubbio l’eredità culturale più nota dello studioso anglo-austriaco Richard Offner (si veda anche sopra il saggio di Giovanna Ragionieri). Mi sembra interessante il tentativo di Sonia Chiodo di cercare di individuare gli agenti che più ne influenzarono il pensiero negli anni della formazione portandolo poi a un’idea di connoisseurship sostanzialmente ‘intuitiva’, come esplicitata nel saggio An Outline of a Theory of Method (1927).

L’emigrazione in America di Offner è atipica, nel senso che fu precoce e non legata ad eventi bellici. Richard si trasferisce a New York con la famiglia a due anni, nel 1891, e lì resta fino al ritorno in Europa in due occasioni, fra 1912 e 1914 prima e fra 1920 e 1923. Il periodo fra 1912 e 1923 si può considerare grosso modo quello in cui Offner matura i suoi interessi, rivolti soprattutto al Medioevo e al Rinascimento italiano. Subito dopo riuscirà ad entrare all’Università di New York, dove rimarrà sino alla pensione. Se si guarda agli anni indicati con attenzione, emerge che tre sono le figure o gli ambienti di riferimento: George Santayana, filosofo del naturalismo idealistico, Bernard Berenson e la Scuola viennese di storia dell’arte. I rapporti con Berenson, dalla prima conoscenza, probabilmente in Italia, saranno pluridecennali, e sempre contraddistinti da un tono di sostanziale rispetto e deferenza, anche quando Offner maturerà, oltre a opinioni diverse in ambito di attribuzioni, un metodo che pare differente. Ne sono testimonianza i diari dello studioso e le lettere inedite che Sonia Chiodo propone in appendice. È sicuramente Berenson, ad esempio, a consigliare a Offner di andare a Vienna per frequentare i corsi di Max Dvořák, nonostante (cfr. p. 304) lo stesso Berenson nutra un sostanziale disinteresse per la ‘volontà artistica’ e lo ‘sviluppo delle forme’, sostenendo invece che il principale interesse di uno studioso deve essere il manufatto artistico in quanto tale. Per Offner, invece, “il vero filo conduttore è l’analisi del rapporto tra la volontà espressiva dell’artista e i mezzi tecnici e formali di volta in volta adoperati” (p. 304). Il tutto si traduce in una diversa interpretazione di ‘scientificità’ della disciplina: per Berenson essa è morelliana ed è riferita, senza dubbio alcuno, alle ‘vette’ dell’arte, ovvero alle espressioni artistiche di livello qualitativo manifestamente superiore. Offner, invece, difende “il carattere scientifico, di ascendenza positivista, del proprio metodo, quindi prendendo le distanze dalla tendenza a riunire corpora molto vasti intorno a singole personalità che emergono come vette e sostenendo, al contrario, la necessità di consentire a ogni oggetto artistico «to take its place solely by stylistic elements», così che anche «the intermediate ground is covered, and the panorama becomes completer»" (p. 312).


Giuliana Tomasella
Il conoscitore d’arte secondo Max Jacob Friedländer (1867-1958)

(pp. 337-348)

Una foto di Max Jacob Friedlander nel 1934, scattata dalla nipote Eva Neumann.
Fonte: http://art-now-and-then.blogspot.com/2013/04/max-j-friedlander.html

Si è detto sin dall’inizio di questa lunga rassegna che il mondo dei conoscitori si può dividere, a spanne, fra sostenitori di una connoisseurship ‘scientifica’ (o positivista) da un lato e ‘intuitiva’ (o idealistica) dall’altro. In realtà si tratta ovviamente di una semplificazione eccessiva e mi sembra che le figure incontrate sino a ora lo abbiamo ampiamente dimostrato. Una cosa è fuori di dubbio: se si accetta per un momento tale suddivisione, Max Jacob Friedländer è il vero campione della connoisseurship intuitiva. Naturalmente di Friedländer non si può non ricordare quanto meno i quattordici volumi da lui dedicati alla pittura fiamminga, che lo consacrarono ad autentica autorità in materia, e il fatto che dal 1904 in poi lavorò nei musei berlinesi, a fianco (ma non all’ombra) di von Bode, di cui fu successore al vertice della struttura amministrativa della capitale tedesca a partire dal 1924. Di famiglia ebraica, Friedländer fu licenziato nel 1933 in seguito alla salita al potere di Hitler. Rimase comunque in Germania fino al 1939, trasferendosi infine in Olanda e venendo arrestato solo qualche mese dopo, con l’arrivo dei nazisti. Friedländer fu comunque liberato, pare su interessamento dello stesso Göring, che lo studioso avrebbe aiutato nelle sue (orribili) pratiche collezionistiche. I servizi segreti americani, del resto, lo indicano come collaborazionista del regime. Ognuno si salva come può, e Friedländer deve la sua personale incolumità alla sua fama di conoscitore, che aiuta a far chiudere un occhio sulla ‘questione della razza’.

La copertina di Von Kunst und Kennerschaft nell'edizione tedesca del 1946 pubblicata a Zurigo da Bruno Cassirer ed Emil Oprecht
Fonte: https://www.booklooker.de/B%C3%BCcher/Max-J-Friedl%C3%A4nder+Von-Kunst-und-Kennerschaft/id/A02kJi7S01ZZT

Nel corso della sua vita, lo studioso ha diverse occasioni per esplicitare la sua idea di connoisseurship, sin dalla fine del secondo decennio del Novecento, fino alla pubblicazione, in inglese, nel 1942 di On Art and Connoisseurship, poi seguita dalla versione tedesca Von Kunst und Kennerschaft (1946). L’opera conosce grandissimo successo ed è tradotta in italiano nel 1955 col titolo Il conoscitore d’arte. Sono più di vent’anni in cui Friedländer sostiene che il riconoscimento dell’autore di un’opera è un fatto spontaneo, molto simile a quello di un amico che non vediamo da tempo e che incontriamo per strada. E, aggiungerei, la connoisseurship presuppone sempre da un lato la provvisorietà di un’attribuzione, dall’altro un’idea dinamica dello sviluppo stilistico di un autore che è contrapposta a uno statico schematismo di derivazione morelliana. In sostanza – scrive Friedländer – nessuno è mai eguale a se stesso, e ciò vale, a maggior ragione, per un artista nel corso della sua carriera professionale; presumere di riconoscerne la mano sulla base del ripetersi di elementi immutabili nelle sue opere significa rinchiudere la creatività dell’artista (ma anche gli influssi che gli derivano dalla visione di altri manufatti) dentro a una gabbia coercitiva. Il metodo di Friedländer, a voler essere paradossali, è un non-metodo. C’è semmai un sistema valoriale a cui richiarmarsi. Uno di questi valori riguarda proprio l’approccio del conoscitore nei confronti del manufatto ed è l’imprescindibilità del piacere dell’atto visivo. “Chiave di volta dell’approccio all’opera d’arte erano […] le due azioni inscindibili di «esaminare» e «gustare». L’esame autoptico doveva essere sempre associato al piacere che suscitava la fruizione dell’opera d’arte; l’esclusione della dimensione edonistica finiva per inficiare gravemente i risultati dello studio. Si voleva così salvaguardare la natura umanistica del mestiere di storico dell’arte: si riconosce un artista come amico, di cui si sono interiorizzati i tratti, ci si avvicina all’opera innanzitutto portati dal piacere che essa suscita” (p. 340).

È appena evidente che un approccio di questo tipo finisce col collidere col mondo universitario, in cui l’insegnamento della storia dell’arte è assai giovane e tende ad essere portatore di una lettura ‘preconfezionata’ ( e “scientifica”) degli sviluppi artistici: “L’attenzione del conoscitore va in primo luogo al particolare; egli non parte con dei preconcetti, non usa una rete dalle maglie larghe, non sa a priori dove vuole arrivare. Come Friedländer ebbe modo di osservare efficacemente nei suoi ricordi: «Gli accademici entrano nel museo con idee, i conoscitori lo lasciano con idee. Gli accademici cercano quanto si aspettano di trovare, i conoscitori trovano qualcosa di cui non sanno nulla» (p. 345). Il fossato fra connoisseurship e università si allarga a dismisura. Nella prefazione a questo libro, Mina Gregori lamentava la scarsa fortuna della connoisseurship nelle odierne università e l’addebitava (in parte) anche al clamoroso successo delle tesi dello stesso Friedländer; in effetti, a prenderlo alla lettera, è Friedländer che nega l’insegnabilità universitaria dell’arte del conoscitore. 

Un aspetto da non sottovalutare – e a cui Friedländer dedica particolare attenzione – è quello linguistico. Se l’attribuzione è intuito, se è riconoscere un vecchio amico, come ‘comunicarla’ agli altri? Lo studioso è perfettamente consapevole che il linguaggio “al massimo può approssimarsi all’opera, e contenere i danni del suo inevitabile tradimento” (p. 347), rivelandosi per sua natura insufficiente. In questo senso preferisce di gran lunga a un’ecfrasi particolarmente prolissa l’efficacia di una prosa apparentemente ‘banale’, ma frutto di un estenuante lavoro di sottrazione del superfluo e in grado di individuare gli elementi fondamentali di uno stile in poche parole. “La lingua è povera e insufficiente, tuttavia è l’unico mezzo a nostra disposizione, uno strumento ottuso, che dobbiamo cercare di affinare instancabilmente. Noi pensiamo, è vero, che è facile intaccare i coltelli troppo affilati. I sentimenti son come farfalle che perdono la vita trafitte dallo spillo della parola” (p. 347).


Max Seidel
Adolph Goldschmidt (1863-1944)
(pp. 349-366)

Una foto di Adolph Goldschmidt
Fonte: https://www.pinterest.it/pin/462604192945511610/?lp=true

Fra i tanti conoscitori tedeschi che si videro costretti a fare i conti col nazismo, quella di Adolph Goldschmidt è, probabilmente, una delle storie più tristi. A ben guardare i dati anagrafici, Goldschmidt (di religione ebraica) aveva chiuso, almeno ufficialmente, la sua carriera professionale nel 1932, andando in pensione in quell’anno e dunque lasciando la cattedra di Storia dell’arte all’Università di Berlino prima che Hitler giungesse al potere. Non fu, quindi, licenziato, semplicemente perché non era più titolare della cattedra (anche se era stato nominato professore emerito). La sua era stata una vita consacrata allo studio e all’insegnamento. Più di duecento pubblicazioni ne documentano lo spessore culturale, indirizzato soprattutto all’esame dell’arte medievale. In questo senso la nomina di Goldschmidt a  professore ordinario a Berlino (siamo nel 1912) segna un netto cambiamento rispetto ai metodi del predecessore Heinrich Wölfflin (1864-1945), di impostazione più filosofica e teorica. Goldschmidt, invece, era convinto conoscitore, pur essendo assolutamente consapevole che quello della lettura stilistica delle opere era solo uno degli approcci con cui ci si poteva avvicinare allo studio dell’arte. Eppure, uno degli aspetti caratteristici del personaggio, è che fu sostanzialmente amato e rispettato da tutti. Fu lo stesso Wölfflin a insistere perché il suo successore fosse Goldschmidt, e non si può certo dimenticare la stima reciproca con Wilhelm von Bode; e, rispetto alla comunità degli artisti, le amicizie con Liebermann e Munch.  

In maniera ovviamente inconsapevole (nel senso che all’epoca era difficile immaginare come sarebbero andate a finire le cose) Goldschmidt fu figura cardine della diaspora di professori e storici dell’arte tedeschi (ed ebrei) in America una volta salito al potere il nazismo. Il primo viaggio del medievalista tedesco negli Stati Uniti fu nel 1927, quando l’uomo era già famosissimo negli ambienti universitari. Si trattò di un anno sabbatico che fu presto replicato nel 1930-31 e seguito da un ulteriore viaggio nel 1936-37. Il successo di Goldschmidt in America fu enorme e, mi verrebbe da dire, andò ben oltre la ristretta cerchia degli storici dell’arte. Oltre alla competenza, insomma, giocarono un ruolo determinante giovialità, cortesia, disponibilità. Nei suoi diari lo storico tedesco ci consegna, ad esempio, un lucido resoconto della sua visita alle fabbriche di auto di Henry Ford a Detroit; ma non mancano nemmeno i viaggi a Hollywood e le foto scattate accanto ai grandi divi del cinema dell’epoca, che già ne conoscono il nome e hanno piacere di incontrarlo personalmente. In ogni caso, Goldschmidt contribuisce a vincere i pregiudizi nei confronti dei professori tedeschi e spinge a richiederli quando hanno bisogno di lasciare la Germania. Erwin Panofsky, ad esempio, trovò posto in America su sua raccomandazione.

Semmai, la vera domanda è: perché, con tale successo e con richieste che gli giungevano in continuazione, Goldschmidt non si trasferì mai definitivamente in America? Abbiamo visto che il suo ultimo viaggio negli USA è del 1936-37. L’uomo sapeva benissimo di essere spiato dai nazisti e tenne sicuramente comportamenti spettacolari per far capire quale potesse essere il successo che lui, ebreo, era stato in grado di ottenere oltre Oceano. Ma poi tornò. E tornò perché, prima che ebreo, si sentiva autenticamente tedesco; perché tutti i suoi interessi di studio riguardavano oggetti e archivi che si trovavano in Germania. Fece finta di nulla, insomma, cercando di mantenere una parvenza di normalità in una situazione che normale non era. Nell’aprile del 1939, dopo infinite pressioni e l’interessamento diretto della comunità scientifica tedesco-americana, Golschmidt si decise, finalmente, a espatriare in Svizzera. Con sé, i nazisti lasciarono che portasse unicamente dieci marchi. Aveva un visto per gli Stati Uniti, e condizione dell’espatrio era che lo usasse. Goldschmidt, scapolo, senza moglie e figli, lo fece scadere: “Che farei io in realtà, con i miei 76 anni, in America? Come attività scientifica là non potrei fare più nulla di paragonabile al passato, e che sfrutterei davvero le loro ricche biblioteche è altrettanto dubbio” (p. 365). Amici non gli mancarono nemmeno a Basilea, ma era chiaro che qualcosa si era spezzato. Adolph Goldschmidt si suicidò nella cucina di casa sua, il 5 gennaio del 1944.


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NOTE

[9] Si veda Marco M. Mascolo, «Un occhio finissimo». Wilhelm R. Valentiner (1880-1958) storico dell’arte tra Germania e Stati Uniti, Roma, Viella, 2017.

[10] Si veda Luciano Bellosi, La pecora di Giotto, Torino, Einaudi, 1985.

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