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I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento
A cura di Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Alessandro Nova
Milano, Officina Libraria, 2018
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Una fotografia di Wilhelm Reinhold Valentiner Fonte: https://ilmanifesto.it/valentiner-lespressionismo-a-scopo-museale/ |
Marco M. Mascolo
Wilhelm Reinhold Valentiner (1880-1958):
connoisseurship, collezionismo e museografia
(pp. 273-286)
Wilhelm Reinhold Valentiner (1880-1958):
connoisseurship, collezionismo e museografia
(pp. 273-286)
Nel caso di Wilhelm Reinhold
Valentiner ci troviamo di fronte a un conoscitore che funge da precoce
collegamento fra il mondo scientifico tedesco e quello americano. L’uomo,
sicuramente, fu personaggio di grandissime conoscenze, abbinate a interessi
altrettanto vasti, ricordando, sotto questo punto di vista, uno degli
interlocutori principali della sua giovinezza, ovvero Wilhelm von Bode, di cui
fu assistente personale presso il neonato Kaiser-Friedrich-Museum di Berlino.
Bode aveva notato Valentiner perché quest’ultimo si era laureato a Heidelberg
con una tesi su Rembrandt, avvalendosi anche, ai fini della sua interpretazione
stilistica delle opere dell’artista, del catalogo ragionato, sontuosamente
illustrato, che Bode e Cornelis Hofstede de Groot stavano pubblicando proprio
in quegli anni (furono editi otto volumi fra 1897 e 1906). Il biennio accanto a
Bode è, in generale, fondamentale per la formazione di Valentiner, ma, molto
più nello specifico, lo è anche per le vicende biografiche dello studioso. Nel
1908, infatti, giunge a Bode dagli Stati Uniti la richiesta di dare un
consiglio sul nuovo direttore del Dipartimento di Arti Decorative del
Metropolitan Museum di New York e il nome suggerito è quello di Valentiner, che
comincia così una lunga permanenza negli Stati Uniti (il periodo più
rappresentativo fu, senz’altro, il ventennio in cui fu direttore del Detroit
Institute of Arts). Lunga, ma non ininterrotta: basti dire che quando scoppia
la Prima guerra mondiale, lo studioso torna in Germania e si arruola volontario.
Vale la pena parlare di quegli anni, perché è proprio sotto la guerra che
Valentiner conosce Franz Marc (che muore a Verdun nel 1916). Con Marc ha modo
di discutere – proprio al fronte – delle prospettive dell’arte contemporanea
tedesca e delle caotiche vicende legate alla nascita di movimenti artistici
subito primo la guerra (fra cui, naturalmente, il movimento del Cavaliere
azzurro, o Blaue Reiter). Marco
Mascolo ha pubblicato proprio lo scorso anno un’interessantissima monografia
dedicata a Valentiner [9] e non è qui il caso di dilungarsi, ma c’è un aspetto
da tener presente, ovvero come, sin dai tempi degli studi su Rembrandt, lo
storico tedesco riveli di proiettare la sua analisi stilistica sui ‘problemi’
dell’arte contemporanea. Rembrandt, del resto, sin da fine Ottocento diventa
incarnazione di pittura moderna e germanicità dell’arte. Già Bode “insisteva sulla necessità per gli artisti
moderni di cercare ispirazione in Rembrandt per giungere a dar vita a una rigenerazione
dei mezzi espressivi in chiave tutta ‘germanica’ “ (p. 281). La figura di
Valentiner non può essere compresa, a maggior ragione, se non tenendo conto
della sua ‘militanza’ in termini di arte contemporanea, che si risolve, in
sostanza, con il sostegno all’espressionismo tedesco. La presenza americana del
critico è dunque fondamentale da un lato per la riscoperta della pittura
olandese del Secolo d’oro, dall’altro come ponte (fino alla morte) fra
collezionismo statunitense da un lato ed espressionismo tedesco dall’altro. Da
non trascurare, infine, il fatto che “grazie
alla sua alleanza con i vari Morgan, Altman, Widener, Johnson prima, e con le
famiglie Ford e Rockefeller dopo, Valentiner seppe traghettare le loro
collezioni verso le istituzioni museali in cui lavorava, secondo quel
particolare e paradigmatico ‘uso pubblico dei beni privati’ tipico del contesto
statunitense” (p. 286).
Giovanna Ragionieri
Il «problema di Assisi» nella storiografia tedesca, fino a Richard Offner
(pp. 287-296)
Il «problema di Assisi» nella storiografia tedesca, fino a Richard Offner
(pp. 287-296)
Veduta esterna della Basilica Inferiore e Superiore di Assisi Fonte: Florian Decker, Messdiener Winterbach tramite Wikimedia Commons |
Giovanna Ragionieri (allieva di Luciano Bellosi, con cui ha collaborato alla stesura delle note del fondamentale La pecora di Giotto [10] e all’edizione italiana del Francesco di Assisi di Henry Thode, Roma, Donzelli 1993) si occupa di rileggere e reinterpretare i contributi dei conoscitori tedeschi su uno dei grandi problemi dell’attribuzionismo, ovvero la questione della paternità degli affreschi della Basilica inferiore e superiore di San Francesco in Assisi. Si tratta, ovviamente, di un percorso accidentato e che non riguarda, come logico, tutti i visitatori tedeschi di Assisi. Si può dire che l’inizio del dibattito si materializzi sulle pagine della famosissima rivista tedesca «Kunst-Blatt», su cui, nel 1821 e nel 1827, compaiono due contributi, rispettivamente di Johann Heinrich Friedrich Karl Witte (1800-1883) e di un non meglio noto Fr. Köhler. Witte assegna a Giotto gli affreschi delle Allegorie francescane nella Basilica inferiore (e la loro collocazione cronologica è tarda), mentre rigetta la paternità giottesca nella Basilica superiore (dove individua le mani di tre distinti artisti); Köhler anticipa la datazione delle Allegorie e non esclude la presenza di Giotto nella parete sinistra della Basilica superiore. Ben più note le posizioni di von Rumohr (di cui peraltro non sappiamo con certezza quando visitò Assisi per la prima volta) nel secondo volume delle Italienische Forschungen. Pur giungendo ad attribuzioni che oggi sarebbero giudicate di fantasia (partendo da opere giudicate certe all’epoca, ma poi rivelatesi non tali), von Rumohr ha il merito di ‘sventare’ una lettura di Giotto unicamente legata alla spiritualità religiosa e lo colloca su un sentiero più ‘laico’, legato all’imitazione della natura, che molto piacque, ad esempio, a Giovanni Previtali nel Novecento.
Ecco, mi pare questo il trait-d’union del saggio di Ragionieri. Indipendentemente dall’esito delle attribuzioni (e da inizio Novecento, con la riscoperta dei lavori di Pietro Cavallini in Santa Cecilia a Trastevere, davvero si assiste a un alternarsi di posizioni volte a un maggiore o minore coinvolgimento della cosiddetta ‘scuola romana’ nella Basilica superiore), tutte le figure prese in considerazione dall’autrice rivelano una conoscenza delle fonti (visive e non) che va sottolineata da un punto di vista metodologico: si va da Thode (di cui semmai è discutibile l’interpretazione di Giotto come padre del Rinascimento) a Friedrich Rintelen (1881-1926), che espunge le Storie di san Francesco dal catalogo giottesco; da Suida e Schmarsow (1853-1936) fino a Richard Offner (1889-1965) che, nella questione giottesca, afferma la sostanziale estraneità delle Storie rispetto alla produzione artistica dell’artista fiorentino. Si tratta di posizioni che oggi, alla luce del ‘recupero’ giottesco di cui Bellosi è stato autorevole interprete (collocando il cantiere assisiate nella Basilica superiore in anni particolarmente precoci), tendono a essere considerate superate, ma che rivelano comunque la solidità di un metodo che è quello del conoscitore.
Sonia Chiodo
Richard Offner (1889-1965), appunti per una biografia: studi, pensieri e maestri prima del Corpus
(pp. 297-336)
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Uno dei volumi del Corpus of Florentine Painting curato da Richard Offner |
I dodici volumi di A Critical and Historical Corpus of
Florentine Painting, pubblicati fra 1930 e 1965, rappresentano senza ombra
di dubbio l’eredità culturale più nota dello studioso anglo-austriaco Richard
Offner (si veda anche sopra il saggio di Giovanna Ragionieri). Mi sembra
interessante il tentativo di Sonia Chiodo di cercare di individuare gli agenti
che più ne influenzarono il pensiero negli anni della formazione portandolo poi
a un’idea di connoisseurship
sostanzialmente ‘intuitiva’, come esplicitata nel saggio An Outline of a Theory of Method (1927).
L’emigrazione in America di
Offner è atipica, nel senso che fu precoce e non legata ad eventi bellici.
Richard si trasferisce a New York con la famiglia a due anni, nel 1891, e lì
resta fino al ritorno in Europa in due occasioni, fra 1912 e 1914 prima e fra
1920 e 1923. Il periodo fra 1912 e 1923 si può considerare grosso modo quello
in cui Offner matura i suoi interessi, rivolti soprattutto al Medioevo e al
Rinascimento italiano. Subito dopo riuscirà ad entrare all’Università di New
York, dove rimarrà sino alla pensione. Se si guarda agli anni indicati con
attenzione, emerge che tre sono le figure o gli ambienti di riferimento: George
Santayana, filosofo del naturalismo idealistico, Bernard Berenson e la Scuola
viennese di storia dell’arte. I rapporti con Berenson, dalla prima conoscenza,
probabilmente in Italia, saranno pluridecennali, e sempre contraddistinti da un
tono di sostanziale rispetto e deferenza, anche quando Offner maturerà, oltre
a opinioni diverse in ambito di attribuzioni, un metodo che pare differente. Ne
sono testimonianza i diari dello studioso e le lettere inedite che Sonia Chiodo
propone in appendice. È sicuramente Berenson, ad esempio, a consigliare a Offner
di andare a Vienna per frequentare i corsi di Max Dvořák, nonostante (cfr. p. 304)
lo stesso Berenson nutra un sostanziale disinteresse per la ‘volontà artistica’
e lo ‘sviluppo delle forme’, sostenendo invece che il principale interesse di
uno studioso deve essere il manufatto artistico in quanto tale. Per Offner,
invece, “il vero filo conduttore è
l’analisi del rapporto tra la volontà espressiva dell’artista e i mezzi tecnici
e formali di volta in volta adoperati” (p. 304). Il tutto si traduce in una
diversa interpretazione di ‘scientificità’ della disciplina: per Berenson essa
è morelliana ed è riferita, senza dubbio alcuno, alle ‘vette’ dell’arte, ovvero
alle espressioni artistiche di livello qualitativo manifestamente superiore.
Offner, invece, difende “il carattere
scientifico, di ascendenza positivista, del proprio metodo, quindi prendendo le
distanze dalla tendenza a riunire corpora molto vasti intorno a singole personalità che emergono come vette e
sostenendo, al contrario, la necessità di consentire a ogni oggetto artistico «to take its place solely by stylistic
elements», così che anche «the intermediate ground is covered, and the panorama
becomes completer»" (p. 312).
Giuliana Tomasella
Il conoscitore d’arte secondo Max Jacob Friedländer (1867-1958)
(pp. 337-348)
Il conoscitore d’arte secondo Max Jacob Friedländer (1867-1958)
(pp. 337-348)
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Una foto di Max Jacob Friedlander nel 1934, scattata dalla nipote Eva Neumann. Fonte: http://art-now-and-then.blogspot.com/2013/04/max-j-friedlander.html |
Si è detto sin dall’inizio di
questa lunga rassegna che il mondo dei conoscitori si può dividere, a spanne,
fra sostenitori di una connoisseurship ‘scientifica’ (o positivista) da un lato
e ‘intuitiva’ (o idealistica) dall’altro. In realtà si tratta ovviamente di una
semplificazione eccessiva e mi sembra che le figure incontrate sino a ora lo
abbiamo ampiamente dimostrato. Una cosa è fuori di dubbio: se si accetta per un
momento tale suddivisione, Max Jacob Friedländer è il vero campione della connoisseurship intuitiva. Naturalmente di
Friedländer
non si può non ricordare quanto meno i quattordici volumi da lui dedicati alla
pittura fiamminga, che lo consacrarono ad autentica autorità in materia, e il
fatto che dal 1904 in poi lavorò nei musei berlinesi, a fianco (ma non
all’ombra) di von Bode, di cui fu successore al vertice della struttura
amministrativa della capitale tedesca a partire dal 1924. Di famiglia ebraica, Friedländer
fu licenziato nel 1933 in seguito alla salita al potere di Hitler. Rimase comunque in Germania fino al 1939, trasferendosi infine in Olanda e
venendo arrestato solo qualche mese dopo, con l’arrivo dei nazisti. Friedländer
fu comunque liberato, pare su interessamento dello stesso Göring,
che lo studioso avrebbe aiutato nelle sue (orribili) pratiche collezionistiche.
I servizi segreti americani, del resto, lo indicano come collaborazionista del
regime. Ognuno si salva come può, e Friedländer deve la sua personale
incolumità alla sua fama di conoscitore, che aiuta a far chiudere un occhio
sulla ‘questione della razza’.
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La copertina di Von Kunst und Kennerschaft nell'edizione tedesca del 1946 pubblicata a Zurigo da Bruno Cassirer ed Emil Oprecht Fonte: https://www.booklooker.de/B%C3%BCcher/Max-J-Friedl%C3%A4nder+Von-Kunst-und-Kennerschaft/id/A02kJi7S01ZZT |
Nel corso della sua vita, lo
studioso ha diverse occasioni per esplicitare la sua idea di connoisseurship, sin dalla fine del
secondo decennio del Novecento, fino alla pubblicazione, in inglese, nel 1942
di On Art and Connoisseurship, poi
seguita dalla versione tedesca Von Kunst
und Kennerschaft (1946). L’opera conosce grandissimo successo ed è tradotta
in italiano nel 1955 col titolo Il
conoscitore d’arte. Sono più di vent’anni in cui Friedländer
sostiene che il riconoscimento dell’autore di un’opera è un fatto spontaneo,
molto simile a quello di un amico che non vediamo da tempo e che incontriamo
per strada. E, aggiungerei, la connoisseurship
presuppone sempre da un lato la provvisorietà di un’attribuzione, dall’altro
un’idea dinamica dello sviluppo stilistico di un autore che è contrapposta a uno statico schematismo di derivazione morelliana. In sostanza –
scrive Friedländer – nessuno è mai eguale a se stesso, e ciò vale, a
maggior ragione, per un artista nel corso della sua carriera professionale;
presumere di riconoscerne la mano sulla base del ripetersi di elementi
immutabili nelle sue opere significa rinchiudere la creatività dell’artista (ma
anche gli influssi che gli derivano dalla visione di altri manufatti) dentro a
una gabbia coercitiva. Il metodo di Friedländer, a voler essere
paradossali, è un non-metodo. C’è semmai un sistema valoriale a cui richiarmarsi.
Uno di questi valori riguarda proprio l’approccio del conoscitore nei confronti
del manufatto ed è l’imprescindibilità del piacere dell’atto visivo. “Chiave di volta dell’approccio all’opera
d’arte erano […] le due azioni inscindibili di «esaminare»
e «gustare». L’esame autoptico doveva essere sempre associato al piacere che
suscitava la fruizione dell’opera d’arte; l’esclusione della dimensione
edonistica finiva per inficiare gravemente i risultati dello studio. Si voleva
così salvaguardare la natura umanistica del mestiere di storico dell’arte: si
riconosce un artista come amico, di cui si sono interiorizzati i tratti, ci si
avvicina all’opera innanzitutto portati dal piacere che essa suscita” (p.
340).
È appena evidente che un approccio di
questo tipo finisce col collidere col mondo universitario, in cui
l’insegnamento della storia dell’arte è assai giovane e tende ad essere
portatore di una lettura ‘preconfezionata’ ( e “scientifica”) degli sviluppi
artistici: “L’attenzione del conoscitore
va in primo luogo al particolare; egli non parte con dei preconcetti, non usa
una rete dalle maglie larghe, non sa a priori dove vuole arrivare. Come Friedländer
ebbe modo di osservare efficacemente nei suoi ricordi: «Gli
accademici entrano nel museo con idee, i conoscitori lo lasciano con idee. Gli
accademici cercano quanto si aspettano di trovare, i conoscitori trovano
qualcosa di cui non sanno nulla»”
(p. 345). Il fossato fra connoisseurship
e università si allarga a dismisura. Nella prefazione a questo libro, Mina Gregori lamentava la scarsa fortuna della connoisseurship nelle odierne università e l’addebitava (in parte) anche al clamoroso successo
delle tesi dello stesso Friedländer; in effetti, a prenderlo alla
lettera, è Friedländer che nega l’insegnabilità universitaria dell’arte del
conoscitore.
Un aspetto da non sottovalutare – e a
cui Friedländer dedica particolare attenzione – è quello linguistico.
Se l’attribuzione è intuito, se è riconoscere un vecchio amico, come
‘comunicarla’ agli altri? Lo studioso è perfettamente consapevole che il
linguaggio “al massimo può approssimarsi
all’opera, e contenere i danni del suo inevitabile tradimento” (p. 347),
rivelandosi per sua natura insufficiente. In questo senso preferisce di gran
lunga a un’ecfrasi particolarmente prolissa l’efficacia di una prosa apparentemente ‘banale’, ma frutto di un estenuante lavoro di sottrazione del superfluo e in
grado di individuare gli elementi fondamentali di uno stile in poche parole. “La lingua è povera e insufficiente, tuttavia
è l’unico mezzo a nostra disposizione, uno strumento ottuso, che dobbiamo
cercare di affinare instancabilmente. Noi pensiamo, è vero, che è facile
intaccare i coltelli troppo affilati. I sentimenti son come farfalle che
perdono la vita trafitte dallo spillo della parola” (p. 347).
Max Seidel
Adolph Goldschmidt (1863-1944)
Adolph Goldschmidt (1863-1944)
(pp. 349-366)
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Una foto di Adolph Goldschmidt Fonte: https://www.pinterest.it/pin/462604192945511610/?lp=true |
Fra i tanti conoscitori tedeschi
che si videro costretti a fare i conti col nazismo, quella di Adolph Goldschmidt
è, probabilmente, una delle storie più tristi. A ben guardare i dati
anagrafici, Goldschmidt (di religione ebraica) aveva chiuso, almeno ufficialmente, la sua carriera
professionale nel 1932, andando in pensione in quell’anno e dunque lasciando la
cattedra di Storia dell’arte all’Università di Berlino prima che Hitler
giungesse al potere. Non fu, quindi, licenziato, semplicemente perché non era
più titolare della cattedra (anche se era stato nominato professore emerito).
La sua era stata una vita consacrata allo studio e all’insegnamento. Più di
duecento pubblicazioni ne documentano lo spessore culturale, indirizzato
soprattutto all’esame dell’arte medievale. In questo senso la nomina di
Goldschmidt a professore ordinario a
Berlino (siamo nel 1912) segna un netto cambiamento rispetto ai metodi del
predecessore Heinrich Wölfflin (1864-1945), di impostazione più filosofica e
teorica. Goldschmidt, invece, era convinto conoscitore, pur essendo
assolutamente consapevole che quello della lettura stilistica delle opere era
solo uno degli approcci con cui ci si poteva avvicinare allo studio dell’arte.
Eppure, uno degli aspetti caratteristici del personaggio, è che fu sostanzialmente
amato e rispettato da tutti. Fu lo stesso Wölfflin a insistere perché il
suo successore fosse Goldschmidt, e non si può certo dimenticare la stima
reciproca con Wilhelm von Bode; e, rispetto alla comunità degli artisti, le
amicizie con Liebermann e Munch.
In maniera ovviamente inconsapevole (nel senso che all’epoca era difficile immaginare come sarebbero andate a finire le cose) Goldschmidt fu figura cardine della diaspora di professori e storici dell’arte tedeschi (ed ebrei) in America una volta salito al potere il nazismo. Il primo viaggio del medievalista tedesco negli Stati Uniti fu nel 1927, quando l’uomo era già famosissimo negli ambienti universitari. Si trattò di un anno sabbatico che fu presto replicato nel 1930-31 e seguito da un ulteriore viaggio nel 1936-37. Il successo di Goldschmidt in America fu enorme e, mi verrebbe da dire, andò ben oltre la ristretta cerchia degli storici dell’arte. Oltre alla competenza, insomma, giocarono un ruolo determinante giovialità, cortesia, disponibilità. Nei suoi diari lo storico tedesco ci consegna, ad esempio, un lucido resoconto della sua visita alle fabbriche di auto di Henry Ford a Detroit; ma non mancano nemmeno i viaggi a Hollywood e le foto scattate accanto ai grandi divi del cinema dell’epoca, che già ne conoscono il nome e hanno piacere di incontrarlo personalmente. In ogni caso, Goldschmidt contribuisce a vincere i pregiudizi nei confronti dei professori tedeschi e spinge a richiederli quando hanno bisogno di lasciare la Germania. Erwin Panofsky, ad esempio, trovò posto in America su sua raccomandazione.
In maniera ovviamente inconsapevole (nel senso che all’epoca era difficile immaginare come sarebbero andate a finire le cose) Goldschmidt fu figura cardine della diaspora di professori e storici dell’arte tedeschi (ed ebrei) in America una volta salito al potere il nazismo. Il primo viaggio del medievalista tedesco negli Stati Uniti fu nel 1927, quando l’uomo era già famosissimo negli ambienti universitari. Si trattò di un anno sabbatico che fu presto replicato nel 1930-31 e seguito da un ulteriore viaggio nel 1936-37. Il successo di Goldschmidt in America fu enorme e, mi verrebbe da dire, andò ben oltre la ristretta cerchia degli storici dell’arte. Oltre alla competenza, insomma, giocarono un ruolo determinante giovialità, cortesia, disponibilità. Nei suoi diari lo storico tedesco ci consegna, ad esempio, un lucido resoconto della sua visita alle fabbriche di auto di Henry Ford a Detroit; ma non mancano nemmeno i viaggi a Hollywood e le foto scattate accanto ai grandi divi del cinema dell’epoca, che già ne conoscono il nome e hanno piacere di incontrarlo personalmente. In ogni caso, Goldschmidt contribuisce a vincere i pregiudizi nei confronti dei professori tedeschi e spinge a richiederli quando hanno bisogno di lasciare la Germania. Erwin Panofsky, ad esempio, trovò posto in America su sua raccomandazione.
Semmai, la vera domanda è:
perché, con tale successo e con richieste che gli giungevano in continuazione,
Goldschmidt non si trasferì mai definitivamente in America? Abbiamo visto che
il suo ultimo viaggio negli USA è del 1936-37. L’uomo sapeva benissimo di
essere spiato dai nazisti e tenne sicuramente comportamenti spettacolari per
far capire quale potesse essere il successo che lui, ebreo, era stato in grado
di ottenere oltre Oceano. Ma poi tornò. E tornò perché, prima che ebreo, si
sentiva autenticamente tedesco; perché tutti i suoi interessi di studio
riguardavano oggetti e archivi che si trovavano in Germania. Fece finta di
nulla, insomma, cercando di mantenere una parvenza di normalità in una situazione
che normale non era. Nell’aprile del 1939, dopo infinite pressioni e
l’interessamento diretto della comunità scientifica tedesco-americana,
Golschmidt si decise, finalmente, a espatriare in Svizzera. Con sé, i nazisti
lasciarono che portasse unicamente dieci marchi. Aveva un visto per gli Stati
Uniti, e condizione dell’espatrio era che lo usasse. Goldschmidt, scapolo,
senza moglie e figli, lo fece scadere: “Che
farei io in realtà, con i miei 76 anni, in America? Come attività scientifica
là non potrei fare più nulla di paragonabile al passato, e che sfrutterei
davvero le loro ricche biblioteche è altrettanto dubbio” (p. 365). Amici
non gli mancarono nemmeno a Basilea, ma era chiaro che qualcosa si era
spezzato. Adolph Goldschmidt si suicidò nella cucina di casa sua, il 5 gennaio
del 1944.
NOTE
[9] Si veda Marco M. Mascolo, «Un occhio finissimo». Wilhelm R. Valentiner (1880-1958) storico dell’arte tra Germania e Stati Uniti, Roma, Viella, 2017.[10] Si veda Luciano Bellosi, La pecora di Giotto, Torino, Einaudi, 1985.
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