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I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento
A cura di Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Alessandro Nova
Milano, Officina Libraria, 2018
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Terza
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Hans Thoma, Ritratto di Henry Thode, 1890, Francoforte, Staedel Museum Fonte: https://www.staedelmuseum.de/en?StoryID=1819 tramite Wikimedia Commons |
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Rapida, precoce, ma breve
(soppiantata dalla connoisseurship
morelliana), la ricezione tedesca dei tre volumi della New History of Painting (1864-1866) e dei due della History of Painting in North Italy
(1871), a firma di Crowe e Cavalcaselle, ha – ad avviso di Donata Levi - una
duplice valenza: innanzi tutto costituisce una sorta di nuovo palinsesto (dopo le Vite vasariane) su cui gli
studiosi possono far progredire i loro studi. In qualche modo, questo fatto si
manifesta già nella pubblicazione della traduzione tedesca, curata da Max
Jordan (rispettivamente 1869-1872 e 1873-1876), che in realtà è “una rielaborazione, cui collaborano anche i
due autori e che in parte giustifica la definizione di «Original-Ausgabe [edizione
originale]»” (p. 94); in
secondo luogo sollecita una riflessione sul ruolo della connoisseurship, in anni in cui si fatica a delineare un metodo di
lavoro. Emerge che il testo di Crowe e Cavalcaselle è apprezzato per la sua
attenzione alla tecnica compositiva dell’opera come criterio distintivo per
l’attribuzione e l’originalità della medesima (p. 97); più in generale “l’aspirazione è a una lettura complessiva
che, partendo da una pluralità di piani tecnici e formali (procedimenti di
costruzione dell’immagine, tipo di stesura, influssi e fonti ecc.), cerca di
cogliere i percorsi e i loro incroci, mira appunto a utilizzare il
riconoscimento – solo apparentemente apodittico – in chiave di ricostruzione
storico-artistica” (p. 100).
Marco Mozzo
La raccolta fotografica di Henry Thode (1857-1920) al Vittoriale degli Italiani
(pp. 102-112)
La raccolta fotografica di Henry Thode (1857-1920) al Vittoriale degli Italiani
(pp. 102-112)
L’esame dei fondi fotografici è
di particolare importanza per lo studio della connoisseurship, in quanto la fotografia si impone rapidamente, nel
secondo Ottocento, come strumento di lavoro indispensabile per lo storico
dell’arte (anche se la ‘fiducia’ nei confronti della riproduzione fotografica è
diversa di conoscitore in conoscitore). In questo caso è oggetti di analisi la
raccolta fotografica appartenuta a Henry Thode prima, e a Gabriele d’Annunzio
poi, presso Villa Cargnacco, sul lago di Garda. La villa, come noto, apparteneva a Thode, già
(brevemente) direttore dello Städel e poi professore all’Università di
Heidelberg, che dovette abbandonarla precipitosamente quando l'Italia entrò in guerra contro la Germania nella Prima
guerra mondiale, lasciando lì le sue raccolte librarie, fotografiche,
collezionistiche. Prima affittata, poi quasi subito acquistata da D’Annunzio
(siamo nel 1921) la villa prese il nome di Vittoriale due anni dopo.
Ute Dercks, Almut Goldhahn
«Wer ist nun der so geschickt berechnende meister?»: Media e strumenti della connoisseurship dei primi del Novecento al Kunsthistorisches Institut in Florenz».
(pp. 113-126)
«Wer ist nun der so geschickt berechnende meister?»: Media e strumenti della connoisseurship dei primi del Novecento al Kunsthistorisches Institut in Florenz».
(pp. 113-126)
La celebre fototeca del
Kunsthistorisches Institut in Florenz rappresenta un’utile cartina di tornasole
per rileggere la storia dell’Istituto da un lato e l’approccio alla fotografia
dei conoscitori. Il «Kunst», come noto, fu fondato solo nel 1897, ma già trent’anni
prima “la ‘colonia tedesca’ di Firenze
aveva cominciato a manifestare a gran voce il desiderio di un’istituzione che «mettesse un armamentario scientifico a
disposizione di tutti coloro che desiderano approfondire e ampliare i propri
studi in Italia a contatto diretto con i monumenti, e che divenisse essa stesso
centro di fertile ricerca accademica»”
(p. 115). Le prime riunioni si tennero a casa del barone Karl Eduard von
Liphart. Un momento particolarmente significativo nel cammino verso la nascita
del «Kunst»
è individuato nel seminario che August Schmarsow tenne a Firenze, nel 1888,
portando con sé studenti come Aby Warburg, Hermann Ulmann e Max Jacob
Friedländer. Quando, nel 1897, si giunse alla nascita dell’Istituto fu il suo
direttore onorario, Heinrich Brockhaus, ad allestire parte della sua abitazione
come sede del «Kunst», con una biblioteca, una raccolta di immagini e una
gipsoteca. Come capita spesso in queste occasioni, gli arricchimenti degli
strumenti che erano a disposizione degli studiosi dipesero dalle donazioni dei
soci o di privati, sia in termini finanziari sia in termini di raccolte. Fra i
vari lasciti va segnalato proprio quello di Ulmann. E le parole di Ulmann
chiariscono quale fu l’atteggiamento di molti conoscitori nei confronti delle
riproduzioni fotografiche: si trattava di un approccio che – come logico –
sottolineava l’utilità del media da
un punto di vista documentario e memorativo, ne evidenziava anche l’utilità a
fini didattici, ma ovviamente non poteva ammettere la sostituzione della
visione diretta del manufatto con quella delle sue immagini. Le valutazioni di
Ulmann sono strettamente tecniche e meritano di essere riportate: “Dato che nelle fotografie scattate dall’impalcatura
[n.d.r. sta facendo riferimento a un volume dedicato al ciclo di Ercole a
Palazzo Venezia a Roma, pubblicato nel 1894] l’obiettivo si trovava necessariamente alla stessa altezza del quadro,
le figure concepite per essere viste dal basso risultano più schiacciate di
quanto non appaiano dal vero, cioè viste da terra. È un dato da tenere presente
nella valutazione delle illustrazioni. Lo stesso dicasi per i contorni, goffi e
marcati: trattandosi di aggiunte successive, non del tutto rimovibili poiché
effettuate a olio, non ne va incolpato il maestro. Nelle fototipie risultano
tuttavia di gran lunga più vistosi di quanto non siano nell’originale,
cromaticamante più intenso. Per la valutazione stilistica di quest’affresco,
realizzato a scopo puramente decorativo, è dunque imprescindibile lo studio
dell’originale in loco” (pp. 119-120). Parlando in termini metodologici,
Max Jakob Friedländer fa da controcanto a Ulmann nel suo Von Kunst und Kennerschaft del 1946: “Si fotografa e si pubblica con sempre maggiore alacrità; comodi archivi
rendono facilmente accessibili immense quantità di riproduzioni, laddove per
molti studiosi d’arte la possibilità di viaggiare è limitata. Ne deriva che la
critica stilistica viene esercitata in misura sempre maggiore sulla base di
fotografie, con conseguenze tristemente evidenti. […] Non vi è dubbio che la
fotografia sia uno strumento prezioso e ormai indispensabile, ma nel farvi
ricorso sono d’obbligo sensibilità e moderazione. La fotografia non può e non
deve usurpare il posto dell’originale. È necessario definire la portata e i
limiti del suo contributo” (p. 113). Quelle che, in ultima analisi, possono
sembrare semplicissime parole di buon senso non furono sempre così scontate e,
senza dubbio, furono uno degli elementi dirimenti nell’individuazione del
‘conoscitore’ Si pensi a Carl Frey (cfr. il saggio di Fabian Jonietz più
avanti) che nel 1890 scrive che “i
«magnifici fogli» di riproduzioni esatte di questo genere [n.d.r. sta
parlando di riproduzioni fotografiche] fanno
«apparire viaggi e visite agli originali sul luogo quasi superflui»: «Anzi
certi monumenti si conoscono addirittura meglio a casa da riproduzioni
fotogrammetriche che dall’originale stesso” (p. 157).
Gabriele Fattorini
Frida Schottmüller (1872-1936): connoisseurship al femminile nella Berlino di Wilhelm von Bode
(pp. 127-138)
Frida Schottmüller (1872-1936): connoisseurship al femminile nella Berlino di Wilhelm von Bode
(pp. 127-138)
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La traduzione italiana (Torino, Itala Ars, 1921) del volume di Frida Schottmüller Wohnungskultur und Mobël der italienischen Renaissance (Stoccarda 1921) |
Frida Schottmüller è l’unica figura di conoscitrice
proposta nel volume, semplicemente perché il mondo della storia dell'arte (non solo in
Germania) ai primi del Novecento è di fatto monopolizzato dagli uomini.
Laureatasi nel 1904 con una tesi su Donatello (una delle sue grandi passioni), Schottmüller
ha un percorso professionale che si sviluppa interamente all’ombra di Wilhelm
von Bode, che la assume nel 1905 come assistente alla ricerca per il neonato Kaiser-Friedrich-Museum
berlinese (oggi Bode-Museum). Nel 1919 è promossa assistente curatrice e tale
rimane per i successivi quindici anni. Fattorini non ha dubbi sul fatto che il
suo essere donna le sia di danno, sul piano della carriera, e le precluda
l’accesso a una posizione dirigenziale apicale. Il rapporto con Bode è chiaramente
strettissimo; appare evidente che è su sollecitazione di Bode che Frida si
trasferisce a Firenze presso il «Kunst» fra 1907 e 1908, come esperta
di scultura toscana, ma anche in traccia di opere d’arte potenzialmente
acquistabili. La scultura è, senza ombra di dubbio, il campo in cui la
conoscitrice dà prova migliore delle sue capacità di lettura stilistica delle
opere, in particolare nel Die
italienischen und spanischen Bildwerke der Renaissance und des Barock,
catalogo delle sculture italiane e spagnole del Kaiser-Friedrich, di cui escono
due edizioni, una nel 1913 e la seconda nel 1933. Ma in realtà la produzione
bibliografica della studiosa è intensissima e riflette anche quella che è la
vera eredità di Bode, ovvero la versatilità (oserei dire l’enciclopedismo)
della connoisseurship di Frida, che spazia
dalla scultura, alla pittura, alle arti cosiddette minori, arredamento
compreso. Recensendo la seconda edizione del Catalogo del 1933, nel 1938 (la studiosa era morta da due anni)
Ulrich Middeldorf ebbe modo di scrivere, fra l’altro: “Cataloghi di tanto rilievo come il presente sono delle vere pietre
miliari sul cammino della scienza e conviene sostarvi con raccoglimento per
orientarci e giudicare a qual punto ci troviamo, quanto abbiamo lasciato dietro
di noi e quanti compiti ancora ci restano” (pp. 137-138)
Fabian Jonietz
Carl Frey (1857-1917) e il rapporto tra Stilkritik e Quellenkritik
(pp. 139-160)
Carl Frey (1857-1917) e il rapporto tra Stilkritik e Quellenkritik
(pp. 139-160)
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Il frontespizio bilingue della vita vasariana di Donatello pubblicata nel 1884 da Carl Frey nell'ambito della Sammlung ausgewählter Biographien Vasari's. |
Trovare un (bel) saggio dedicato
a Carl Frey in un volume dedicato ai conoscitori è, senza ombra di dubbio, una
sorpresa, perché Frey è tradizionalmente considerato un paladino dello studio
delle fonti e della ricerca d’archivio rispetto all’analisi stilistica delle
opere tipica della connoisseurship.
Frey è noto, ad esempio, per la sua edizione del carteggio vasariano e per un
tentativo (rimasto incompleto) di edizione critica delle Vite dell’artista e scrittore aretino.
L’uomo – va detto subito – non fu
mai amato. Non lo fu a livello di comportamenti personali (sono divertenti, in
nota, le testimonianze acide di molti suoi colleghi, fra cui spicca l’invio di
una lettera di censura perché, all’Istituto di Storia dell’Arte a Berlino
prendeva i periodici di pubblica consultazione e se li andava a leggere in
bagno); non fu stimato da molti suoi colleghi del mondo universitario (nel
corso di una lunga e clamorosa diatriba con August Schmarsow, datata 1889-1890
– cfr. p. 148 – quest’ultimo ebbe a scrivere su un’importante rivista di studi
umanistici, “di non intrattenere già da
anni alcun rapporto personale o professionale con lui, né di sapere dire di
averlo mai riconosciuto come collega in senso stretto [n.d.r. ovvero come
storico dell’arte]”); poco apprezzato dagli artisti contemporanei (“Max Liebermann […] nel 1900 nominava Frey
come esempio per antonomasia di quei professori universitari di Storia
dell’arte responsabili della cattiva comprensione delle arti figurative in
Germania, e contrapponeva loro direttori di museo come Wilhelm Bode e Adolf Bayersdorfer”
– p. 143); sicuramente fu odiato dagli storici dell’arte italiana. La vicenda è
nota: il carteggio vasariano fu riscoperto nel 1908 da Giovanni Poggi,
all’epoca direttore del Museo Nazionale a Firenze, presso l’archivio privato
del conte Rasponi-Spinelli. Ma l’Italia se lo vide, di fatto, scippare dalla Germania
che acquistò i documenti con un finanziamento privato dell’imperatore Guglielmo
II e affidò a Frey (che era il vero ideatore del blitz) il compito di
pubblicarlo, esentandolo a più riprese dagli obblighi di insegnamento. La
storia è raccontata per filo e per segno nella Letteratura artistica (p. 341) di Schlosser, che probabilmente
esagera scrivendo: “e anche se fu una
tempesta in un bicchier d’acqua [n.d.r. sta parlando dell’acquisto
dell’archivio in maniera non troppo ortodossa] si trattò ancora di uno di quegli elementi imponderabili, che purtroppo
ebbero una parte nella posizione presa dall’Italia nella tempesta mondiale che
si stava addensando!”, quasi che la vicenda avesse contribuito a
determinare la volontà italiana di entrare in guerra contro la Germania (mentre
è certo che ebbe un peso quando si trattò, dopo la sconfitta bellica tedesca,
di riaprire il «Kunst» e di non vederselo espropriare). E proprio il giudizio di
Schlosser, che nell’ambito delle fonti si muoveva con nota disinvoltura, mi
sembra particolarmente significativo. Lo studioso austriaco, parlando di Frey,
usa espressioni rispettose, senza tuttavia mai chiamarlo professore o storico
dell’arte. Mi permetto di riportare per intero il giudizio sul primo volume
dell’edizione commentata delle Vite
vasariane, dove, però, le riserve sulla reale statura del personaggio emergono
in tutta la loro chiarezza (pp. 336-337): “Tutto
questo però non fa che precorrere la grande edizione completa che l’attivissimo
e solerte autore aveva progettato e il cui primo (ed ultimo) volume, un enorme
in quarto di ben 914 (+XXIV pagine) pagine uscì a Monaco nel 1911, editore Müller. Si prende in mano con uno strano
senso di commozione, mista di rimpianto e di gratitudine. Infatti è tragico che
un uomo non più giovane abbia considerato la propria vita sufficiente a
condurre a termine in una mole simile la iniziata impresa. I tratti
caratteristici, specie la mancanza di metodo da parte di Frey, sono qui
aggravati in un modo spaventoso. Infatti questo volume non contiene nient’altro
che l’introduzione del Vasari, poi (abbastanza maltrattata) l’introduzione
sulla tecnica, la lettera dell’Adriani (a cui però è stata data più cura di
quel che meriti questo inutile elaborato), finalmente solo tre fra le prime
vite (Cimabue, Arnolfo, i Pisani),
che occupano più della metà del volume
(387-899)! In fondo è incomprensibile che un editore abbia potuto consentire ad
una pubblicazione , la quale, se mai fosse stata finita, avrebbe superato di
molto con la sua mole la grande edizione del Goethe di Weimar e il suo primo
volume sarebbe stato già antiquato alla pubblicazione dell’ultimo. Infatti in
questo primo volume il Frey ha tentato di ammassare tutte le nostre conoscenze
attuali di quei tre artisti, in appendici, dissertazioni, estratti di
documenti, tavole, ecc. cose tutte che in fondo sono estranee a un testo e lo
sovraccaricano inutilmente; ci mancherebbe ancora l’aggiunta del materiale
figurato! […] Ne deriva, come in
tutte le pubblicazioni del Frey, la mancanza della visione d’insieme, lo
spezzettamento in particolari innumerevoli, che rende l’uso del grosso volume
un tormento, perché manca qualsiasi indice. Il lavoro di quest’uomo degno ed
instancabile, che ora deve rimanere per sempre mutilo, è un esempio classico
della difficoltà ad orientarsi della storia dell’arte in un campo che pure deve
tanto al Frey”.
Non vi è il minimo dubbio che
Frey, la cui carriera si racchiude tutta all’interno dell’Istituto di Storia
dell’Arte berlinese, rimanendo tuttavia sempre professore straordinario (nel
1901 la concreta possibilità che divenisse ordinario suscitò vivacissime
polemiche), sentisse molto l’accusa di non avere un occhio educato e – fa
notare Jonietz – in molti suoi scritti insiste quasi maniacalmente sulle
circostanze in cui aveva avuto modo di vedere le opere di cui parlava.
In realtà un tentativo di meglio
comprendere quanto e se Frey sia stato parte integrante della connoisseurship, deve seguire varie
piste, a partire dall’esame delle recensioni che lo studioso ebbe modo di
scrivere in numerose occasioni sulla stampa periodica. In esse, pur cadendo in
errori che peraltro non furono certo solo suoi (si pensi al suo sostegno
all’attribuzione del San Giovannino mediceo al giovane Michelangelo avanzata da
Bode – cfr. Francesco Caglioti, Su Wilhelm von Bode (1845-1929), Frey si pone
il problema dell’analisi stilistica dei manufatti; alla stessa maniera sono
utili anche i due diari del suo viaggio italiano; non si può poi tacere
l’interesse per le riproduzioni fotografiche, anche se, nel caso specifico, la
fiducia nei confronti delle foto appare in qualche modo cieca, tale da poter
sostituire la visione diretta delle opere (cfr. p. 157).
Un discorso a parte merita il
metodo utilizzato da Frey nell’ambito delle sue pubblicazioni. Scrive Schlosser
– e conferma Jonietz – che molti dei lavori di Frey consistono in una
sedimentazione caotica di documenti, carteggi, appendici. Tuttavia lo studioso
tedesco è il primo a utilizzare, nell’ambito del primo e unico volume delle sue
Vite vasariane, l’esame comparato
delle versioni delle Vite torrentiane
e giuntine, mettendone in evidenza differenze e analogie. Si tratta di un
metodo che sarà riutilizzato solo cinquant’anni dopo da Paola Barocchi e
Rosanna Bettarini nell’edizione che è oggi di riferimento. Ciò da cui le due
studiose italiane si discostano sono piuttosto i criteri di trascrizione
ultraconservativi dell’opera, che sono presto considerati causa della
sostanziale illegibilità e incomprensione dei medesimi (e Schlosser non
rinuncia a segnalare che, nel caso di uno studioso di lingua non italiana, si
tratta ovviamente di un peccato di presunzione). Tuttavia, nel campo del
disegno (Frey fu autore di tre volumi sul corpus dei disegni michelangioleschi)
il nostro sfodera un metodo di catalogazione che si rivela vincente, molto
migliore di quelli proposti da Berenson o Thode: in sostanza (e non è aspetto
minore) nasce “un sistema […] che pone
nelle mani del connoisseur un’attrezzatura che con i parametri di Frey si
mostra in sintonia con una Kunstwissenschaft obiettiva e rigorosa.” (p. 160).
Antonie Rita Wiedemann
Wilhelm Suida (1877-1959): la formazione di un conoscitore tra Henry Thode e la Scuola di Vienna
(pp. 261-272)
Wilhelm Suida (1877-1959): la formazione di un conoscitore tra Henry Thode e la Scuola di Vienna
(pp. 261-272)
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Il frontespizio della monografia dedicata all'arte genovese da Wilhelm Suida nel 1906 Fonte: https://archive.org/details/genua00suid/page/n5 |
Nel 1959, poco prima che morisse,
la Kress Foundation pubblicò un volume pensato per l’ottantesimo compleanno di
Wilhelm Suida, storico dell’arte austriaco che, in seguito all’Anschluss, nel
1939, si era trasferito dapprima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti (1940),
dove ebbe compiti di particolare responsabilità presso la Kress Foundation,
risultando determinante nelle campagne di acquisto operate in Europa da Samuel
Kress. I nomi dei contributori del volume dimostrano chiaramente un aspetto
fondamentale: la fortuna di Suida era soprattutto legata alle sue
frequentazioni italiane e anglosassoni; il peso specifico degli studiosi di
lingua tedesca era, invece, incredibilmente basso (p. 271). Di Suida, peraltro,
si dice spesso che aveva fatto parte della Scuola di Vienna ed era stato
allievo di Wickhoff, senza però entrare in troppo particolari.
Wiedemann cerca di mettere a
fuoco innanzi tutto la formazione di Suida. Ne emerge che Suida fu innanzi
tutto allievo di Henry Thode all’università di Lipsia (non è certo che fossero
parenti, ma Suida lo chiamava ‘zio’), condividendone la passione per la musica
wagneriana e la ricerca storica volta alla definizione e all’esaltazione di
un’autentica arte tedesca, che, nel contemporaneo, si rifletteva nel sostegno
ad artisti come Hans Thoma e Böcklin in contrapposizione
all’influenza negativa esercitata dall’arte francese [8]. La carriera di Suida
va dunque riletta alla luce del magistero di Thode, da cui, peraltro, Wilhelm
ebbe modo di affrancarsi almeno parzialmente quando, nel 1905, si trasferì a
Vienna, studiando sotto Wickhoff e Riegl (considerati da Thode suoi nemici
mortali) e avvicinandosi all’attribuzionismo morelliano.
Nel concreto, la carriera di
Suida si declina soprattutto verso l’arte di ambito lombardo e genovese
(quest’ultima sostanzialmente sconosciuta nel mondo di lingua tedesca
all’epoca). Pur non avvertendo la necessità di definirlo in maniera precisa,
l’autrice del saggio ritiene che, nel processo mentale che porta il conoscitore
all’attribuzione “prima di tutto viene
l’intuizione, che solo successivamente è confermata dallo studio
storico-critico e soprattutto dalla conoscenza delle tecniche artistiche”
(p. 269).
Ma il caso Suida è di particolare
importanza perché segna un momento di riflessione e di rifiuto del mondo della
ricerca nei confronti del collezionismo e del mercato. Suida (di famiglia
ricca) aveva una propria collezione e relazioni col mondo dei mercanti d’arte
che non esitavano a contattarlo in materia di attribuzioni a fini prettamente
commerciali. Già nel 1911 la sua nomina alla cattedra di Storia dell’arte
presso l’università di Graz saltò in virtù di rilievi sulla correttezza dei sui
comportamenti; entrato nel Joanneum (sempre di Graz), dove fu direttore delle
collezioni artistiche, si vide costretto a firmare nel 1917 una dichiarazione
in cui tutti gli impiegati si obbligavano non solo a non collaborare con il
mercato antiquario, ma addirittura a rinunciare alla propria collezione; nel
1920, nonostante tutto, fu prepensionato proprio in seguito a un provvedimento
disciplinare che ne censurava i comportamenti sul mercato antiquario.
Suida, insomma, rappresenta il
rifiuto del mondo universitario austriaco nei confronti del commercio
dell’arte; un rifiuto netto che probabilmente riassumeva al momento la
posizione dominante della Scuola di Vienna (tant’è che Schlosser nemmeno lo
cita fra gli allievi della scuola viennese nelle sue memorie). D’altra parte
l’allontanamento dal Joanneaum gli diede la possibilità di avvicinarsi al mondo
dei conoscitori italiani o che, comunque, vivevano in Italia, da Longhi a
Berenson, e lo inserirono in un circuito senz’altro meno ostile a pratiche
commerciali che lo portò poi, col trasferimento in America, alla collaborazione
con la Kress Foundation.
Fine Parte Terza
NOTE
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