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lunedì 5 novembre 2018

I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento. A cura di Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Alessandro Nova. Parte Terza


English Version

I conoscitori tedeschi tra Otto e Novecento
A cura di Francesco Caglioti, Andrea De Marchi, Alessandro Nova


Milano, Officina Libraria, 2018

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Terza

Hans Thoma, Ritratto di Henry Thode, 1890, Francoforte, Staedel Museum
Fonte: https://www.staedelmuseum.de/en?StoryID=1819 tramite Wikimedia Commons

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Donata Levi
Alcuni appunti sulla ricezione di Crowe e Cavalcaselle in Germania

(pp. 89-101)

Rapida, precoce, ma breve (soppiantata dalla connoisseurship morelliana), la ricezione tedesca dei tre volumi della New History of Painting (1864-1866) e dei due della History of Painting in North Italy (1871), a firma di Crowe e Cavalcaselle, ha – ad avviso di Donata Levi - una duplice valenza: innanzi tutto costituisce una sorta di nuovo palinsesto (dopo le Vite vasariane) su cui gli studiosi possono far progredire i loro studi. In qualche modo, questo fatto si manifesta già nella pubblicazione della traduzione tedesca, curata da Max Jordan (rispettivamente 1869-1872 e 1873-1876), che in realtà è “una rielaborazione, cui collaborano anche i due autori e che in parte giustifica la definizione di «Original-Ausgabe [edizione originale]»” (p. 94); in secondo luogo sollecita una riflessione sul ruolo della connoisseurship, in anni in cui si fatica a delineare un metodo di lavoro. Emerge che il testo di Crowe e Cavalcaselle è apprezzato per la sua attenzione alla tecnica compositiva dell’opera come criterio distintivo per l’attribuzione e l’originalità della medesima (p. 97); più in generale “l’aspirazione è a una lettura complessiva che, partendo da una pluralità di piani tecnici e formali (procedimenti di costruzione dell’immagine, tipo di stesura, influssi e fonti ecc.), cerca di cogliere i percorsi e i loro incroci, mira appunto a utilizzare il riconoscimento – solo apparentemente apodittico – in chiave di ricostruzione storico-artistica” (p. 100).


Marco Mozzo
La raccolta fotografica di Henry Thode (1857-1920) al Vittoriale degli Italiani

(pp. 102-112)

L’esame dei fondi fotografici è di particolare importanza per lo studio della connoisseurship, in quanto la fotografia si impone rapidamente, nel secondo Ottocento, come strumento di lavoro indispensabile per lo storico dell’arte (anche se la ‘fiducia’ nei confronti della riproduzione fotografica è diversa di conoscitore in conoscitore). In questo caso è oggetti di analisi la raccolta fotografica appartenuta a Henry Thode prima, e a Gabriele d’Annunzio poi, presso Villa Cargnacco, sul lago di Garda. La villa, come noto, apparteneva a Thode, già (brevemente) direttore dello Städel e poi professore all’Università di Heidelberg, che dovette abbandonarla precipitosamente quando l'Italia entrò in guerra contro la Germania nella Prima guerra mondiale, lasciando lì le sue raccolte librarie, fotografiche, collezionistiche. Prima affittata, poi quasi subito acquistata da D’Annunzio (siamo nel 1921) la villa prese il nome di Vittoriale due anni dopo.


Ute Dercks, Almut Goldhahn
«Wer ist nun der so geschickt berechnende meister?»: Media e strumenti della connoisseurship dei primi del Novecento al Kunsthistorisches Institut in Florenz».

(pp. 113-126)

La celebre fototeca del Kunsthistorisches Institut in Florenz rappresenta un’utile cartina di tornasole per rileggere la storia dell’Istituto da un lato e l’approccio alla fotografia dei conoscitori. Il «Kunst», come noto, fu fondato solo nel 1897, ma già trent’anni prima “la ‘colonia tedesca’ di Firenze aveva cominciato a manifestare a gran voce il desiderio di un’istituzione che «mettesse un armamentario scientifico a disposizione di tutti coloro che desiderano approfondire e ampliare i propri studi in Italia a contatto diretto con i monumenti, e che divenisse essa stesso centro di fertile ricerca accademica»” (p. 115). Le prime riunioni si tennero a casa del barone Karl Eduard von Liphart. Un momento particolarmente significativo nel cammino verso la nascita del «Kunst» è individuato nel seminario che August Schmarsow tenne a Firenze, nel 1888, portando con sé studenti come Aby Warburg, Hermann Ulmann e Max Jacob Friedländer. Quando, nel 1897, si giunse alla nascita dell’Istituto fu il suo direttore onorario, Heinrich Brockhaus, ad allestire parte della sua abitazione come sede del «Kunst», con una biblioteca, una raccolta di immagini e una gipsoteca. Come capita spesso in queste occasioni, gli arricchimenti degli strumenti che erano a disposizione degli studiosi dipesero dalle donazioni dei soci o di privati, sia in termini finanziari sia in termini di raccolte. Fra i vari lasciti va segnalato proprio quello di Ulmann. E le parole di Ulmann chiariscono quale fu l’atteggiamento di molti conoscitori nei confronti delle riproduzioni fotografiche: si trattava di un approccio che – come logico – sottolineava l’utilità del media da un punto di vista documentario e memorativo, ne evidenziava anche l’utilità a fini didattici, ma ovviamente non poteva ammettere la sostituzione della visione diretta del manufatto con quella delle sue immagini. Le valutazioni di Ulmann sono strettamente tecniche e meritano di essere riportate: “Dato che nelle fotografie scattate dall’impalcatura [n.d.r. sta facendo riferimento a un volume dedicato al ciclo di Ercole a Palazzo Venezia a Roma, pubblicato nel 1894] l’obiettivo si trovava necessariamente alla stessa altezza del quadro, le figure concepite per essere viste dal basso risultano più schiacciate di quanto non appaiano dal vero, cioè viste da terra. È un dato da tenere presente nella valutazione delle illustrazioni. Lo stesso dicasi per i contorni, goffi e marcati: trattandosi di aggiunte successive, non del tutto rimovibili poiché effettuate a olio, non ne va incolpato il maestro. Nelle fototipie risultano tuttavia di gran lunga più vistosi di quanto non siano nell’originale, cromaticamante più intenso. Per la valutazione stilistica di quest’affresco, realizzato a scopo puramente decorativo, è dunque imprescindibile lo studio dell’originale in loco” (pp. 119-120). Parlando in termini metodologici, Max Jakob Friedländer fa da controcanto a Ulmann nel suo Von Kunst und Kennerschaft del 1946: “Si fotografa e si pubblica con sempre maggiore alacrità; comodi archivi rendono facilmente accessibili immense quantità di riproduzioni, laddove per molti studiosi d’arte la possibilità di viaggiare è limitata. Ne deriva che la critica stilistica viene esercitata in misura sempre maggiore sulla base di fotografie, con conseguenze tristemente evidenti. […] Non vi è dubbio che la fotografia sia uno strumento prezioso e ormai indispensabile, ma nel farvi ricorso sono d’obbligo sensibilità e moderazione. La fotografia non può e non deve usurpare il posto dell’originale. È necessario definire la portata e i limiti del suo contributo” (p. 113). Quelle che, in ultima analisi, possono sembrare semplicissime parole di buon senso non furono sempre così scontate e, senza dubbio, furono uno degli elementi dirimenti nell’individuazione del ‘conoscitore’ Si pensi a Carl Frey (cfr. il saggio di Fabian Jonietz più avanti) che nel 1890 scrive che “i «magnifici fogli» di riproduzioni esatte di questo genere [n.d.r. sta parlando di riproduzioni fotografiche] fanno «apparire viaggi e visite agli originali sul luogo quasi superflui»: «Anzi certi monumenti si conoscono addirittura meglio a casa da riproduzioni fotogrammetriche che dall’originale stesso” (p. 157).


Gabriele Fattorini
Frida Schottmüller (1872-1936): connoisseurship al femminile nella Berlino di Wilhelm von Bode

(pp. 127-138)

La traduzione italiana (Torino, Itala Ars, 1921) del volume di Frida Schottmüller Wohnungskultur und Mobël der italienischen Renaissance (Stoccarda 1921)


Frida Schottmüller è l’unica figura di conoscitrice proposta nel volume, semplicemente perché il mondo della storia dell'arte (non solo in Germania) ai primi del Novecento è di fatto monopolizzato dagli uomini. Laureatasi nel 1904 con una tesi su Donatello (una delle sue grandi passioni), Schottmüller ha un percorso professionale che si sviluppa interamente all’ombra di Wilhelm von Bode, che la assume nel 1905 come assistente alla ricerca per il neonato Kaiser-Friedrich-Museum berlinese (oggi Bode-Museum). Nel 1919 è promossa assistente curatrice e tale rimane per i successivi quindici anni. Fattorini non ha dubbi sul fatto che il suo essere donna le sia di danno, sul piano della carriera, e le precluda l’accesso a una posizione dirigenziale apicale. Il rapporto con Bode è chiaramente strettissimo; appare evidente che è su sollecitazione di Bode che Frida si trasferisce a Firenze presso il «Kunst» fra 1907 e 1908, come esperta di scultura toscana, ma anche in traccia di opere d’arte potenzialmente acquistabili. La scultura è, senza ombra di dubbio, il campo in cui la conoscitrice dà prova migliore delle sue capacità di lettura stilistica delle opere, in particolare nel Die italienischen und spanischen Bildwerke der Renaissance und des Barock, catalogo delle sculture italiane e spagnole del Kaiser-Friedrich, di cui escono due edizioni, una nel 1913 e la seconda nel 1933. Ma in realtà la produzione bibliografica della studiosa è intensissima e riflette anche quella che è la vera eredità di Bode, ovvero la versatilità (oserei dire l’enciclopedismo) della connoisseurship di Frida, che spazia dalla scultura, alla pittura, alle arti cosiddette minori, arredamento compreso. Recensendo la seconda edizione del Catalogo del 1933, nel 1938 (la studiosa era morta da due anni) Ulrich Middeldorf ebbe modo di scrivere, fra l’altro: “Cataloghi di tanto rilievo come il presente sono delle vere pietre miliari sul cammino della scienza e conviene sostarvi con raccoglimento per orientarci e giudicare a qual punto ci troviamo, quanto abbiamo lasciato dietro di noi e quanti compiti ancora ci restano” (pp. 137-138)


Fabian Jonietz
Carl Frey (1857-1917) e il rapporto tra Stilkritik e Quellenkritik

(pp. 139-160)

Il frontespizio bilingue della vita vasariana di Donatello pubblicata nel 1884 da Carl Frey nell'ambito della Sammlung ausgewählter Biographien Vasari's.

Trovare un (bel) saggio dedicato a Carl Frey in un volume dedicato ai conoscitori è, senza ombra di dubbio, una sorpresa, perché Frey è tradizionalmente considerato un paladino dello studio delle fonti e della ricerca d’archivio rispetto all’analisi stilistica delle opere tipica della connoisseurship. Frey è noto, ad esempio, per la sua edizione del carteggio vasariano e per un tentativo (rimasto incompleto) di edizione critica delle Vite dell’artista e scrittore aretino.

L’uomo – va detto subito – non fu mai amato. Non lo fu a livello di comportamenti personali (sono divertenti, in nota, le testimonianze acide di molti suoi colleghi, fra cui spicca l’invio di una lettera di censura perché, all’Istituto di Storia dell’Arte a Berlino prendeva i periodici di pubblica consultazione e se li andava a leggere in bagno); non fu stimato da molti suoi colleghi del mondo universitario (nel corso di una lunga e clamorosa diatriba con August Schmarsow, datata 1889-1890 – cfr. p. 148 – quest’ultimo ebbe a scrivere su un’importante rivista di studi umanistici, “di non intrattenere già da anni alcun rapporto personale o professionale con lui, né di sapere dire di averlo mai riconosciuto come collega in senso stretto [n.d.r. ovvero come storico dell’arte]”); poco apprezzato dagli artisti contemporanei (“Max Liebermann […] nel 1900 nominava Frey come esempio per antonomasia di quei professori universitari di Storia dell’arte responsabili della cattiva comprensione delle arti figurative in Germania, e contrapponeva loro direttori di museo come Wilhelm Bode e Adolf Bayersdorfer” – p. 143); sicuramente fu odiato dagli storici dell’arte italiana. La vicenda è nota: il carteggio vasariano fu riscoperto nel 1908 da Giovanni Poggi, all’epoca direttore del Museo Nazionale a Firenze, presso l’archivio privato del conte Rasponi-Spinelli. Ma l’Italia se lo vide, di fatto, scippare dalla Germania che acquistò i documenti con un finanziamento privato dell’imperatore Guglielmo II e affidò a Frey (che era il vero ideatore del blitz) il compito di pubblicarlo, esentandolo a più riprese dagli obblighi di insegnamento. La storia è raccontata per filo e per segno nella Letteratura artistica (p. 341) di Schlosser, che probabilmente esagera scrivendo: “e anche se fu una tempesta in un bicchier d’acqua [n.d.r. sta parlando dell’acquisto dell’archivio in maniera non troppo ortodossa] si trattò ancora di uno di quegli elementi imponderabili, che purtroppo ebbero una parte nella posizione presa dall’Italia nella tempesta mondiale che si stava addensando!”, quasi che la vicenda avesse contribuito a determinare la volontà italiana di entrare in guerra contro la Germania (mentre è certo che ebbe un peso quando si trattò, dopo la sconfitta bellica tedesca, di riaprire il «Kunst» e di non vederselo espropriare). E proprio il giudizio di Schlosser, che nell’ambito delle fonti si muoveva con nota disinvoltura, mi sembra particolarmente significativo. Lo studioso austriaco, parlando di Frey, usa espressioni rispettose, senza tuttavia mai chiamarlo professore o storico dell’arte. Mi permetto di riportare per intero il giudizio sul primo volume dell’edizione commentata delle Vite vasariane, dove, però, le riserve sulla reale statura del personaggio emergono in tutta la loro chiarezza (pp. 336-337): “Tutto questo però non fa che precorrere la grande edizione completa che l’attivissimo e solerte autore aveva progettato e il cui primo (ed ultimo) volume, un enorme in quarto di ben 914 (+XXIV pagine) pagine uscì a Monaco nel 1911, editore Müller. Si prende in mano con uno strano senso di commozione, mista di rimpianto e di gratitudine. Infatti è tragico che un uomo non più giovane abbia considerato la propria vita sufficiente a condurre a termine in una mole simile la iniziata impresa. I tratti caratteristici, specie la mancanza di metodo da parte di Frey, sono qui aggravati in un modo spaventoso. Infatti questo volume non contiene nient’altro che l’introduzione del Vasari, poi (abbastanza maltrattata) l’introduzione sulla tecnica, la lettera dell’Adriani (a cui però è stata data più cura di quel che meriti questo inutile elaborato), finalmente solo tre fra le prime vite (Cimabue, Arnolfo, i Pisani), che occupano più della metà del volume (387-899)! In fondo è incomprensibile che un editore abbia potuto consentire ad una pubblicazione , la quale, se mai fosse stata finita, avrebbe superato di molto con la sua mole la grande edizione del Goethe di Weimar e il suo primo volume sarebbe stato già antiquato alla pubblicazione dell’ultimo. Infatti in questo primo volume il Frey ha tentato di ammassare tutte le nostre conoscenze attuali di quei tre artisti, in appendici, dissertazioni, estratti di documenti, tavole, ecc. cose tutte che in fondo sono estranee a un testo e lo sovraccaricano inutilmente; ci mancherebbe ancora l’aggiunta del materiale figurato! […] Ne deriva, come in tutte le pubblicazioni del Frey, la mancanza della visione d’insieme, lo spezzettamento in particolari innumerevoli, che rende l’uso del grosso volume un tormento, perché manca qualsiasi indice. Il lavoro di quest’uomo degno ed instancabile, che ora deve rimanere per sempre mutilo, è un esempio classico della difficoltà ad orientarsi della storia dell’arte in un campo che pure deve tanto al Frey”.

Non vi è il minimo dubbio che Frey, la cui carriera si racchiude tutta all’interno dell’Istituto di Storia dell’Arte berlinese, rimanendo tuttavia sempre professore straordinario (nel 1901 la concreta possibilità che divenisse ordinario suscitò vivacissime polemiche), sentisse molto l’accusa di non avere un occhio educato e – fa notare Jonietz – in molti suoi scritti insiste quasi maniacalmente sulle circostanze in cui aveva avuto modo di vedere le opere di cui parlava.

In realtà un tentativo di meglio comprendere quanto e se Frey sia stato parte integrante della connoisseurship, deve seguire varie piste, a partire dall’esame delle recensioni che lo studioso ebbe modo di scrivere in numerose occasioni sulla stampa periodica. In esse, pur cadendo in errori che peraltro non furono certo solo suoi (si pensi al suo sostegno all’attribuzione del San Giovannino mediceo al giovane Michelangelo avanzata da Bode – cfr. Francesco Caglioti, Su Wilhelm von Bode (1845-1929), Frey si pone il problema dell’analisi stilistica dei manufatti; alla stessa maniera sono utili anche i due diari del suo viaggio italiano; non si può poi tacere l’interesse per le riproduzioni fotografiche, anche se, nel caso specifico, la fiducia nei confronti delle foto appare in qualche modo cieca, tale da poter sostituire la visione diretta delle opere (cfr. p. 157).

Un discorso a parte merita il metodo utilizzato da Frey nell’ambito delle sue pubblicazioni. Scrive Schlosser – e conferma Jonietz – che molti dei lavori di Frey consistono in una sedimentazione caotica di documenti, carteggi, appendici. Tuttavia lo studioso tedesco è il primo a utilizzare, nell’ambito del primo e unico volume delle sue Vite vasariane, l’esame comparato delle versioni delle Vite torrentiane e giuntine, mettendone in evidenza differenze e analogie. Si tratta di un metodo che sarà riutilizzato solo cinquant’anni dopo da Paola Barocchi e Rosanna Bettarini nell’edizione che è oggi di riferimento. Ciò da cui le due studiose italiane si discostano sono piuttosto i criteri di trascrizione ultraconservativi dell’opera, che sono presto considerati causa della sostanziale illegibilità e incomprensione dei medesimi (e Schlosser non rinuncia a segnalare che, nel caso di uno studioso di lingua non italiana, si tratta ovviamente di un peccato di presunzione). Tuttavia, nel campo del disegno (Frey fu autore di tre volumi sul corpus dei disegni michelangioleschi) il nostro sfodera un metodo di catalogazione che si rivela vincente, molto migliore di quelli proposti da Berenson o Thode: in sostanza (e non è aspetto minore) nasce “un sistema […] che pone nelle mani del connoisseur un’attrezzatura che con i parametri di Frey si mostra in sintonia con una Kunstwissenschaft obiettiva e rigorosa.” (p. 160).


Antonie Rita Wiedemann
Wilhelm Suida (1877-1959): la formazione di un conoscitore tra Henry Thode e la Scuola di Vienna

(pp. 261-272)

Il frontespizio della monografia dedicata all'arte genovese da Wilhelm Suida nel 1906
Fonte: https://archive.org/details/genua00suid/page/n5

Nel 1959, poco prima che morisse, la Kress Foundation pubblicò un volume pensato per l’ottantesimo compleanno di Wilhelm Suida, storico dell’arte austriaco che, in seguito all’Anschluss, nel 1939, si era trasferito dapprima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti (1940), dove ebbe compiti di particolare responsabilità presso la Kress Foundation, risultando determinante nelle campagne di acquisto operate in Europa da Samuel Kress. I nomi dei contributori del volume dimostrano chiaramente un aspetto fondamentale: la fortuna di Suida era soprattutto legata alle sue frequentazioni italiane e anglosassoni; il peso specifico degli studiosi di lingua tedesca era, invece, incredibilmente basso (p. 271). Di Suida, peraltro, si dice spesso che aveva fatto parte della Scuola di Vienna ed era stato allievo di Wickhoff, senza però entrare in troppo particolari.

Wiedemann cerca di mettere a fuoco innanzi tutto la formazione di Suida. Ne emerge che Suida fu innanzi tutto allievo di Henry Thode all’università di Lipsia (non è certo che fossero parenti, ma Suida lo chiamava ‘zio’), condividendone la passione per la musica wagneriana e la ricerca storica volta alla definizione e all’esaltazione di un’autentica arte tedesca, che, nel contemporaneo, si rifletteva nel sostegno ad artisti come Hans Thoma e Böcklin in contrapposizione all’influenza negativa esercitata dall’arte francese [8]. La carriera di Suida va dunque riletta alla luce del magistero di Thode, da cui, peraltro, Wilhelm ebbe modo di affrancarsi almeno parzialmente quando, nel 1905, si trasferì a Vienna, studiando sotto Wickhoff e Riegl (considerati da Thode suoi nemici mortali) e avvicinandosi all’attribuzionismo morelliano.

Nel concreto, la carriera di Suida si declina soprattutto verso l’arte di ambito lombardo e genovese (quest’ultima sostanzialmente sconosciuta nel mondo di lingua tedesca all’epoca). Pur non avvertendo la necessità di definirlo in maniera precisa, l’autrice del saggio ritiene che, nel processo mentale che porta il conoscitore all’attribuzione “prima di tutto viene l’intuizione, che solo successivamente è confermata dallo studio storico-critico e soprattutto dalla conoscenza delle tecniche artistiche” (p. 269).

Ma il caso Suida è di particolare importanza perché segna un momento di riflessione e di rifiuto del mondo della ricerca nei confronti del collezionismo e del mercato. Suida (di famiglia ricca) aveva una propria collezione e relazioni col mondo dei mercanti d’arte che non esitavano a contattarlo in materia di attribuzioni a fini prettamente commerciali. Già nel 1911 la sua nomina alla cattedra di Storia dell’arte presso l’università di Graz saltò in virtù di rilievi sulla correttezza dei sui comportamenti; entrato nel Joanneum (sempre di Graz), dove fu direttore delle collezioni artistiche, si vide costretto a firmare nel 1917 una dichiarazione in cui tutti gli impiegati si obbligavano non solo a non collaborare con il mercato antiquario, ma addirittura a rinunciare alla propria collezione; nel 1920, nonostante tutto, fu prepensionato proprio in seguito a un provvedimento disciplinare che ne censurava i comportamenti sul mercato antiquario.

Suida, insomma, rappresenta il rifiuto del mondo universitario austriaco nei confronti del commercio dell’arte; un rifiuto netto che probabilmente riassumeva al momento la posizione dominante della Scuola di Vienna (tant’è che Schlosser nemmeno lo cita fra gli allievi della scuola viennese nelle sue memorie). D’altra parte l’allontanamento dal Joanneaum gli diede la possibilità di avvicinarsi al mondo dei conoscitori italiani o che, comunque, vivevano in Italia, da Longhi a Berenson, e lo inserirono in un circuito senz’altro meno ostile a pratiche commerciali che lo portò poi, col trasferimento in America, alla collaborazione con la Kress Foundation.


Fine Parte Terza


NOTE

[8] Sul tema si veda in questo blog Thomas W. Gaehtgens. Il recepimento dell’arte moderna francese in Germania tra 1870 e 1945 in Perspectives croisées. La critique d'art franco-allemande - 1870-1945, a cura di Thomas W. Gaehtgens, Mathilde Arnoux e Friederike Kitschen.

 

 

 

 


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