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Alfred Werner
Artists Who Write
[Artisti scrittori]
Pubblicato in
Art Journal, Anno 24, Numero 4, (Estate 1965), pp. 342-347
Art Journal, Anno 24, Numero 4, (Estate 1965), pp. 342-347
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Fig. 1) Una foto senza data di Alfred Werner, contenuta nel fondo d’archivio Alfred Werner, interamente pubblicato su https://archive.org/details/alfredwernercoll01wern/page/n331 |
Nota introduttiva di Francesco Mazzaferro
L’articolo che segue è stato
pubblicato sull'Art Journal nel 1965 e documenta la discussione negli Stati Uniti
sulla letteratura artistica a metà degli anni Sessanta del Novecento, epoca in
cui esistono già o vengono pubblicate numerose antologie in lingua inglese,
alcune delle quali sono state recensite in questo blog. L’autore dell’articolo
è lo storico dell’arte Alfred Werner (1911-1979). Werner nasce a Vienna, suddito
dell’impero asburgico, e occupa, ancora giovanissimo a metà degli anni Trenta,
una posizione di rilievo nella vita letteraria della giovane Repubblica
post-imperiale, come poeta e scrittore. Dirige anche alcune iniziative
letterarie della comunità ebraica viennese.
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Fig. 2) Una rara foto di Alfred Werner ancora giovane, al suo arrivo negli Stati Uniti, pubblicata su The National Jewish Monthly nel numero dell’Aprile 1941 |
Dopo l’ingresso dei nazisti
in Austria nel 1938, Werner è perseguito come ebreo e internato per un anno a
Dachau (grazie all’aiuto della moglie viene scarcerato a fronte dell’impegno a
lasciare per sempre l’Austria). Dopo un anno trascorso senza fortuna in Gran
Bretagna, si trasferisce negli Stati Uniti nel 1940, dove si reinventa storico
dell’arte contemporanea (in particolare diventa esperto dell’espressionismo
europeo), studia storia dell’arte all’Institute of
Fine Arts di New York e, infine, diviene
collaboratore fisso di diverse riviste, tra le quali l’Art Journal. Nei tre decenni successivi pubblica
inoltre numerose monografie. Fra queste, volumi dedicati a Modigliani, Chagall,
Pascin, Dufy, Soutine, Munch, Barlach, Vlaminck, Klimt e Utrillo. Nel campo
della letteratura artistica, si limita invece a scrivere l’introduzione a
un’edizione americana di Noa Noa di
Paul Gauguin, pubblicata dalla casa editrice newyorkese The Noonday Press nel 1958.
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Fig. 3) Tre pubblicazioni di Alfred Werner su Utrillo (1951), Chagal (1970) e i quadri dei post-impressionisti (1963) |
Nell’articolo sull’Art Journal dell’estate 1965
Werner afferma il ruolo fondamentale degli scritti degli artisti per la
comprensione della loro arte. Il mito dell’artista incolto e impulsivo,
incapace di fornire un contributo allo studioso della sua arte, è – a suo
giudizio - un’invenzione dell’Ottocento, che è stata corroborata nel Novecento
dai comportamenti di Jackson Pollock e dall’intenzionale irrazionalità di un
Salvator Dalì. Il pubblico americano – scrive Werner – ha ormai assorbito
questa versione dell’essere artista come una condizione di esaltazione
maledetta, anche grazie a numerosi film di produzione hollywoodiana: si pensi
al famoso film di Vincent Minnelli ‘Lust for Life’ (Brama di vivere) in cui Kirk Douglas interpreta, nel 1956, il ruolo
di Vincent van Gogh, sulla base di un romanzo del famoso scrittore e biografo
americano Irving Stone (1903-1989), comparso nel 1939.
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Fig. 4) A sinistra: Il manifesto del film Brama di vivere di Vincent Minnelli, con Kirk Douglas che interpreta Vincent van Gogh. A destra: Il romanzo Lust for Life di Irving Stone |
In realtà - scrive Werner -
gli artisti sono persone razionali e capaci di comunicare in modo prezioso il
loro bagaglio di idee, cognizioni e sentimenti. Anche nell’Ottocento gli esempi
di Delacroix, Gauguin e Van Gogh esemplificano casi di artisti di grandissimo
spessore che ci hanno lasciato un ricco patrimonio di testi. Ad esempio, una
lettura filologicamente esatta delle lettere di Van Gogh (e dunque capace di
depurarle dalle manipolazioni di Stone, che ha anche pubblicato in inglese le
sue Lettere a Theo nel 1937, secondo criteri tuttavia non scientifici) ci fa scoprire un
Van Gogh razionale e cosciente dei problemi estetici.
La letteratura artistica
(per usare un termine derivato dal tedesco Kunstliteratur che non si è mai imposto negli Stati Uniti)
dovrebbe dunque divenire parte della cultura universitaria, ed essere basata su
un’analisi critica delle fonti, della loro gestazione e della loro fortuna. Il
mondo americano – che aveva già prodotto negli anni Quaranta alcune antologie
che Werner cita come testi ‘fondamentali’ – era pronto a recepire questo nuovo
appello: a partire proprio dal 1965 la casa editrice Prentice-Hall inizia a
pubblicare la collana “Sources and documents in the history of art”, mentre nel 1968 esce il fondamentale
manuale “Theories of modern art : a source book by artists and critics” di Herschel Browning Chipp, Peter Selz e
Joshua C. Taylor, che pone con forza la questione del metodo scientifico anche
per le fonti moderne e contemporanee.
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Fig. 6) Per quest’edizione di Non Noa di Paul Gauguin, pubblicata nel 1958 da The Noonday Press, Alfred Werner ha scritto l’introduzione |
Vorrei ringraziare Mary Ann
Muller di Taylor and Francis, per conto di The College Art Association,
per aver autorizzato la
traduzione e pubblicazione in italiano dell’articolo senza alcun costo. I
diritti d’autore continuano ovviamente a far capo alla College Art Association. Il
testo inglese è disponibile alla pagina https://www.jstor.org/stable/774811?read-now=1&loggedin=true&seq=1#metadata_info_tab_contents,
alle condizioni definite da JSTOR. L’articolo è anche disponibile – a pagamento
– presso l’editore Taylor & Francis all’indirizzo https://tandfonline.com/doi/abs/10.1080/00043249.1965.10794649.
* * *
Alfred Werner
Artists Who Write
Artists Who Write
È stato solamente nel secolo scorso che si è affermata l’idea, falsa
e malevola, secondo cui gli artisti –
siano essi pittori, scultori, grafici
– sarebbero stati degli
anti-intellettuali. Durante il Rinascimento era frequente che un artista
scrivesse versi, componesse trattati su problemi estetici o manuali di tecnica,
si intrattenesse con studiosi particolarmente raffinati e viaggiasse senza
sosta. Un uomo dell’età barocca come Rubens parlava molte lingue e svolgeva
delicati compiti diplomatici assegnatigli dal suo governo. L’Università di
Cambridge gli conferì il titolo di maestro onorario delle arti.
I creativi cominciarono ad allontanarsi in massa dalla società quando si ridusse il potere di Chiesa e aristocrazia, tradizionali committenti delle
arti. Tra essi, coloro che furono più colpiti furono gli artisti: un poeta
poteva evitare la fame vendendo di tanto in tanto un suo testo per la stampa;
il pittore poteva solamente cercare di vendere le sue tele al minuto a qualcuno,
spostandole da un luogo all’altro. Un uomo come Pissarro non aveva neppure
tempo per leggere: tutto il tempo che riusciva a strappare al lavoro in senso
stretto era destinato a visitare i mercanti d’arte e qualsiasi potenziale committente,
dal momento che aveva una moglie e sette figli da sfamare. Fino alla Rivoluzione
francese gli artisti erano spesso i protagonisti dei salotti buoni della
società e non si sarebbe potuto distinguerli nel modo di vestire dai nobili.
Nel XIX secolo, di regola, un artista serio era invece un outsider, viveva
nelle aree più povere delle città e non poteva certo permettersi – date le
condizioni di povertà – di frequentare teatri, l’opera e le sale da concerto. Vi
erano eccezioni, costituite da alcuni artisti con un considerevole patrimonio
finanziario, come Delacroix e Degas. Pittori e scultori che ricevevano medaglie
avevano un buon tenore di vita. Ma non erano quelli le cui opere meritano di
essere viste ancora nei musei e i cui nomi costituiscono il firmamento della
storia dell’arte. Il successo arrideva ai professori delle Ecoles des Beaux-Arts, certo abili ma molto più conservatori, o ai ritrattisti alla moda che
si dedicavano ai nuovi ricchi. Il vero buon pittore non aveva pubblico. Per la
borghesia era figura ridicola. Lo stesso Zola che, da giovane, si era
sbilanciato per difendere gli impressionisti, aveva poi creato nel suo romanzo L’Œuvre lo stereotipo dell’artista mezzo
pazzo la cui strada conduceva fatalmente al suicidio.
L’idea dell’artista come uno sciocco impulsivo che incappa negli
errori più grossolani ogni qualvolta prova a uscire dal suo orticello è giunta
sino alla nostra epoca, sebbene il XX secolo sia incredibilmente ricco di
pittori e scultori le cui qualità intellettuali sono fuori questione. È davvero
sorprendente quanti eccellenti contributi letterari volti alla comprensione
dell’arte siano giunti dalle penne di artisti moderni. Chagall, Kokoschka,
Klee, Picasso e molti altri hanno pubblicato novelle, versi e testi di
teatro. Il pubblico, tuttavia, ricorda
soltanto le farneticazioni anti-intellettuali di certi gruppi, come quelle di
Jackson Pollock, i suoi amici e seguaci, che s’incontravano al Cedar Bar di New
York. Pollock non ha mai dato importanza
alcuna alla parola scritta, e quel che diceva era spesso incoerente. I suoi
gesti violenti e la sua tragica fine – finì per schiantarsi contro un albero
con la macchina – sono tutto ciò che di lui si ricorda.
Un altro che ha fatto molto per rafforzare l’idea che l’artista sia
un uomo che non può mai essere preso troppo sul serio è Dalì. Egli stesso fece
in modo di creare, intenzionalmente, la
leggenda della propria pazzia, forse per perpetuare l’importanza del suo ruolo
nella società anche quando, un giorno, le sue facoltà artistiche fossero
declinate (come, infatti, è successo negli ultimi vent’anni!). L’alcolista Pollock almeno sembra essere
stato sincero. Ma che dire della sincerità di un Dali? Gira voce che durante una
cena con molti invitati abbia convinto tutti di essere matto, fino quando il
cameriere non gli portò il conto. All'istante, tornato in sé, cominciò a
riscontrare ogni voce con la serietà di un contabile…
Grande danno è stato fatto da molti artisti che – al pari di Dalì –
hanno dimostrato il loro rifiuto di un approccio troppo intellettuale all’arte
facendo consciamente annunci eclatanti che sapevano essere assurdi. Tutto ciò, oltre a una serie di romanzi a
sensazione e di film hollywoodiani, creati per un pubblico generalista che quasi
mai ne incontra uno in carne ed ossa, ha diffuso l’immagine dell’artista come un
babbeo trasandato che diventa ridicolo appena apre bocca. Quest’immagine ha una
base reale?
“I grandi artisti hanno sempre
una mente molto veloce," ha scritto Edgar Wind nel suo Art and Anarchy, e ha aggiunto: "Non ho mai incontrato un pittore o uno scultore
di rilievo che non scrivesse o pensasse davvero bene." Il Professor
Wind ha poi citato il famoso mercante d’arte Ambroise Vollard, che aveva
nominato una giuria di soli pittori per un nuovo premio di letteratura:
"Devo ammettere,''
scrive Vollard “che mi aveva preso un
certo senso di angoscia pensando a quale scelta una giuria talmente atipica
potesse fare. Con sorpresa generale, artisti di tendenze completamente diverse
dimostrarono di possedere un gusto particolarmente acuto e, allo stesso tempo,
ben chiaro: la loro decisione quasi unanime cadde su Paul Valery, che non era
stato ancora stato eletto membro dell’Académie Française."
Insomma, delle persone serie dovrebbero ancora coltivare l’idea
"romantica" dell’artista come uomo solitario in un atelier
miserabile, mentre usa i colori sulla tela in stato di semi-trance, ignaro di
tutto ciò che succede nel mondo esterno? I test psicologici sostengono la
validità di questa visione? Secondo la Professoressa Geraldine Pelles, no:
“Sin dagli anni Trenta non si è riusciti ad individuare nei risultati
dei test psicologici alcuna peculiarità degli artisti, in virtù della quale
essi sarebbero diversi per temperamento dalle altre persone e si differenzierebbero fra di loro più di quanto non lo facciano rispetto ad altri gruppi di persone
non preselezionate. L’ipotetica figura
archetipica dell’artista è così poco definita che i partecipanti a una serie di
esperimenti condotti secondo i protocolli di Rorschach, non sono stati in grado di indovinare se il
soggetto di cui si stava parlando fosse un artista” (citato da Art, Artists, and Society).
II
Il XIX secolo si erge a testimone di centinaia di artisti che si
vendicano nei confronti di una società che non li apprezza, sfidando le regole
della società e vivendo in modo edonistico e autodistruttivo, come se il fine
ultimo della loro vita fosse rovinarsi. In fin dei conti, si trattava di
nichilisti asociali, stanchi della vita, che campavano per sfida ai margini
della società. Ma lo stesso secolo ha anche prodotto uomini che sfidavano la
società e i suoi limiti creando grande arte molto in anticipo rispetto al tempo
in cui vivevano. Tra i pittori vorrei ricordare Eugène Delacroix, Paul Gauguin
e Vincent Van Gogh. Non è qui rilevante che fossero – soprattutto gli ultimi
due – degli outsider. La loro importanza è dovuta al fatto che, nella duplice veste
di pittori e scrittori, furono capaci di
espandere nettamente le frontiere del nostro mondo estetico e di conquistare aree
molto al di là della comprensione delle generazioni precedenti!
Mentre Gauguin e Van Gogh erano spesso preoccupati dalla lotta
contro povertà e fame, Delacroix, grazie a circostanze fortunate, non fu mai
privo di un qualche conforto materiale. Non ebbe mai bisogno di lavorare
facendo cose che gli dessero scarsa soddisfazione; assolutamente non disposto
e, a quel che pare, incapace di produrre opere ‘commerciali’, quest’uomo
orgoglioso e indipendente non ci ha mai lasciato neppure il minimo schizzo di
cui dovesse vergognarsi. Il suo non era uno stile di vita alla
"bohème." Era un genio rivoluzionario che spesso sbalordì il pubblico
con i suoi lavori, ma mai con il suo comportamento. Nonostante fosse uno dei leader
del cosiddetto movimento romantico, provò soltanto disprezzo per quegli pseudo-romantici
che sfoggiavano capi stravaganti, parlavano dileggiando le grandi opere del
passato e non producevano nulla di particolare valore.
Certo, aveva affari amorosi. Frequentava la società dell’epoca. Ma
la parte migliore della sua vita era dedicata a dipingere, leggere e scrivere. Fu
uno scrittore prolifico la cui produzione letteraria include un dramma, due
novelle brevi e numerosi saggi che si occupano di questioni estetiche o di
grandi artisti del passato come Raffaello, Michelangelo e Poussin. Molto più di ogni altro anche nei tempi
moderni, è lui a smentire la tesi che un artista fallisca quando cerca di
esprimersi a parole. Goethe, che ammirava il pittore Delacroix, non avrebbe mai
chiesto allo scrittore Delacroix di dedicarsi esclusivamente all’arte,
rimanendo altrimenti in silenzio. Come ha scritto recentemente il suo biografo
René Huyghe, a Delacroix "è
destinato un posto tra i maggiori scrittori del XIX secolo”.
Lo prova specialmente la sua opera principale, il Journal, un diario. Non si sa con
certezza assoluta se Delacroix pensasse alla sua pubblicazione. Lo iniziò nel
1822, all’età di 24 anni, e lo continuò per due anni. Vi fece alcune note nel
1832, visitando il Marocco. Nel 1847 lo riprese in mano e lo tenne aggiornato
fino alla morte, nel 1863.
Dopo la scomparsa dell’artista, il manoscritto fu copiato da un
amico e questa trascrizione servì come base per l’edizione a stampa del 1893,
trent’anni dopo la scomparsa. Nel frattempo, il manoscritto era stato smembrato
in una serie di frammenti venduti a più collezionisti. Consapevole che
l’edizione del 1893 aveva grosse pecche, André Joubin, conservatore alla
biblioteca d’arte dell’Università di Parigi, riunì, con enorme pazienza, la
maggior parte del manoscritto originale,
corresse gli errori che erano sorti a causa della trascrizione e
pubblicò nel 1932 la seconda edizione in tre volumi, complessivamente di 500
pagine. Selezioni del Diario sono state
pubblicate in inglese nel 1937 e nel 1951.
Nella prima pagine, il giovane Delacroix dichiara il suo obiettivo:
“Il mio desiderio più caro è
ricordare che scrivo solo per me; ciò mi manterrà autentico, io spero, e mi
farà bene. Queste pagine finiranno per ricordarmi la mia mutevolezza.”
Quarant’anni, e centinaia di quadri, dopo, il Diario si conclude con questa notazione:
“La prima qualità di un quadro
è di essere di diletto per gli occhi.
Ciò non significa che in esso vi debba essere un senso; è come in una
poesia: se stride all’orecchio, nessun significato al mondo la salverà dall’essere
brutta. Alcuni dicono di avere orecchio per la musica: allo stesso modo non
ogni occhio è pronto a gustare le gioie sottili della pittura. Gli occhi di molti
sono spenti o falsi; si limitano semplicemente a vedere, senza cogliere nulla di
ciò che è squisito."
Nelle pagine del Diario troviamo
davvero la ricchezza del pensiero: se predominano le riflessioni sull’arte
della pittura, ci sono anche osservazioni notevoli sulla letteratura, la
psicologia delle donne, l’arte di vivere senza nulla concedere alle sordide
tentazioni che circondano un uomo. Da questo unico tesoro di idee si potrebbero
trarre almeno tre libri – uno contenente riflessioni sulla pittura, il secondo
sulla civiltà francese sotto Carlo, Luigi Filippo e infine Napoleone III e il
terzo sulla filosofia del comportamento umano al più alto livello di
etica. È ovvio che il Diario sia stato una miniera per molti
antologizzatori; ricorderò solo tre recenti compilazioni in cui se ne possono
trovare degli estratti: Artists on Art, a cura di Robert Goldwater e Marco Treves; The
Nature of Art, a cura di John Gassner e Sidney Thomas e Painters on Painting, a cura di Eric Protter.
Mentre le teorie di Delacroix sono state ampiamente diffuse e gli studenti di
storia dell’arte conoscono le sue idee su bellezza, perfezione nell’arte,
ispirazione, colore e luce, l’uomo è rimasto un enigma per i più. Ad esempio,
pochi si aspetterebbero da lui una riflessione come quella scritta nel suo Diario il 12 ottobre 1862:
“... Dio è dentro di noi. È la
presenza interna che ci rende capaci di ammirare il bello, che ci rende felici
quando facciamo la cosa giusta, che ci consola per non aver preso parte al
piacere del malvagio. È certo Dio a soffiare negli uomini di genio l’ispirazione
e riscaldare i loro cuori alla vista della propria opera. Alcune persone sono
virtuose e altre sono geniali ed entrambe sono ispirate e favorite da Dio. E
perciò, anche il contrario è vero; ci devono essere persone sulle quali
l’afflato divino non ha effetto; uomini che compiono crimini a sangue freddo, e
mai gioiscono alla vista del vero e del bello. Dunque, l’Essere Eterno ha i
suoi favoriti. Per fortuna, gli uomini dal cuore grande non affondano per le
disgrazie che troppo spesso sembrano assillarli nella loro breve vita terrena.
La vista dei malvagi carichi dei doni del caso non dovrebbe scoraggiarli - ma
che dico? Essi sono spesso confortati da affanni e paure che assalgono gli
uomini cattivi e rendono la loro ricchezza ragione di amarezza. Essi spesso
sono testimoni della punizione dei malvagi in questo mondo. Il piacere interiore
di obbedire all’ispirazione divina è una ricompensa sufficiente…"
III
A differenza di Delacroix, Paul Gauguin non era un signore ben
educato e neppure un brillante stilista. Ma amava scrivere articoli per una
serie di giornali; nei Mari del Sud pubblicò per breve tempo un foglio satirico
che riempì di attacchi violenti all’amministrazione francese della Polinesia;
dal suo esilio volontario scrisse innumerevoli lettere alla moglie lontana,
Mette, e agli amici parigini, ai quali affidò i suoi affari (la vendita dei suoi
quadri): a Tahiti e poi nelle Isole Marchesi, i suoi pensieri presero la forma
di una montagna di appunti, molti dei quali furono pubblicati postumi.
Qualunque fossero i suoi limiti come scrittore, si espresse senza
inibizioni o limiti. Aveva il dono di osservare con passione e incessante curiosità
la natura di tutto ciò che incontrava. La sua personalità energica, il suo forte
temperamento trovarono nella scrittura una forma di espressione supplementare
che integrava quella del suo modo espressivo più peculiare, la pittura. Noa Noa
– il termine tahitiano che significa’profumo’ – è di gran lunga il più noto fra
i suoi scritti. Per più di sessant’anni ha affascinato i lettori come se fosse
il resoconto moderno di un paese mai esistito, come frammento emozionante di
un’autobiografia, un contributo alla nostra comprensione della cultura
dell’Oceania o un supporto alla nostra comprensione dell’arte di Gauguin.
Noa Noa ci informa sul primo soggiorno di
Gauguin ai tropici (1891-1893).
Purtroppo il testo, così come lo abbiamo oggi, non è interamente opera
di Gauguin; è il frutto di una strana collaborazione tra Gauguin e il suo amico, poeta e saggista, Charles Morice. Quest’ultimo riscrisse e ampliò il manoscritto
che il pittore gli aveva consegnato. I figli del pittore, Emil e Paul (Pola), insinuarono
che Morice si fosse preso libertà inaccettabili con il manoscritto del padre.
Morice, nella sua biografia di Gauguin (1919), si difese, affermando che, a
parte alcune pagine introduttive e l’inserimento di qualche suo verso, aveva
esclusivamente corretto il manoscritto di Gauguin per la pubblicazione - il
libro apparve nel 1901; quando, in origine, ne aveva letto la versione da lui
rivista al pittore, essa aveva incontrato l’approvazione di Gauguin.
Oggi abbiamo molte versioni di Noa
Noa, compresa una superbamente illustrata da Gauguin durante il secondo
soggiorno nei Mari del Sud. Senza dubbio, la versione curata da Morice contiene
frasi, e persino interi paragrafi, che non corrispondono per nulla al modo di
pensare e di esprimersi di Gauguin. Tuttavia,
anche quest’edizione "controversa" emette, in ogni pagina, il vero
spirito di Gauguin, come rivelato attraverso gli altri suoi scritti e,
naturalmente, attraverso le sue pitture, sculture e l’opera grafica.
La lettura del libro ci illumina in merito alle vere ragioni che
portarono Gauguin in una piccola isola a migliaia di chilometri dalla Francia
metropolitana. Scappò a Tahiti alla
ricerca di libertà – libertà dalla sforzo ingrato del naturalismo e dal giogo
della decadenza europea. Ironicamente, nel 1901, Tahiti gli sembrò essere stata talmente
europeizzata che Gauguin temeva che il suo viaggio costoso e pericoloso fosse
stato un grave errore.
“Era Europa; l’Europa di cui
avevo pensato di sbarazzarmi e che si presentava sotto le circostanze
aggravanti dello snobismo coloniale e dell’imitazione, grottesca fino al punto di
sembrare la caricatura dei nostri costumi, delle mode, dei vizi e delle assurdità
della civiltà. Avevo forse fatto questo lungo viaggio solo per trovare lo stesso mondo da cui
ero fuggito?"
Per fortuna, qualcosa della bellezza e della forza originali sopravviveva
nei piccoli villaggi a molti chilometri dalla capitale Papeete. All’interno
dell’isola, Gauguin trovò felicità e piacere, vivendo con una giovane indigena
incorrotta, che divenne la sua modella per molti dipinti, e da cui affermò di
aver ottenuto quei frammenti della teologia dell’Oceania, dei miti e dei misteri Maori che erano riusciti a sopravvivere fino al grigiastro XIX secolo,
meccanizzato e commercializzato (in realtà, aveva tratto il più delle sue
informazioni da un libro prestatogli da un funzionario francese a Papeete).
Goethe intitolò saggiamente la sua autobiografia Dichtung und Wahrheit (Poesia e verità).
La descrizione di Gauguin della vita sensuale e piacevole da lui condotta a Tahiti
era anch’essa un’abile commistione di poesia e verità, che – stando alle
lettere spesso piene di affanni che spedi a Copenhagen o Parigi – era meno
idilliaca di quanto Noa Noa ci possa
far credere. Tuttavia vi furono molte ore di profonda e non ostacolata
serenità. È interessante confrontare le sue esplosioni di gioia con alcuni
passaggi che possono essere reperiti nelle lettere che inviò a sua moglie:
“Il silenzio della notte a
Tahiti è ancora più strano di ogni altra cosa. Lo posso percepire; rimane
ininterrotto anche dal grido di un uccello"
E in Noa Noa si legge:
“Silenzio! Sto imparando a
conoscere il silenzio di una notte a Tahiti. In questo silenzio non sento
null’altro del battito del mio cuore.''
A Mette: "E noi chiamiamo
selvaggi queste persone! ... Cantano; non rubano mai; la mia porta non è mai
chiusa; non uccidono ... "
E in Noa Noa:
“Ho invidiato gli isolani. Ho
guardato la loro vita felice e pacifica attorno a me..."
È ovvio che vi siano molti libri che descrivono Tahiti. Alcuni sono
molto lunghi, molti sono pieni di dettagli melodrammatici, e pochi sono vera
letteratura. Ma Noa Noa, sebbene breve e senza pretese, rivela l’animo di un poeta,
la sensibilità di emozioni come quelle di un Hermann Melville, Pierre Loti o
Robert Louis Stevenson. Così come Gauguin non poté che cadere sotto l’influsso
del fascino Maori, anche il lettore nel 1964 non può resistere alla sottile
seduzione della prosa dell’artista. Nel corso di tutta la sua carriera di
pittore, Gauguin soffrì di disperazione cronica. Tuttavia, da Tahiti egli poté
scrivere:
“La civiltà mi abbandona poco
a poco. Sto iniziando a pensare in modo semplice, a sentire solo poco odio per
il mio vicino; anzi, ad amarlo. Tutte
le gioie (animali e umane) di una vita libera sono le mie. Ho abbandonato
ogni cosa che fosse artificiale, convenzionale, abitudinaria. Sto entrando
nella verità, nella natura."
IV
È ben strano che Vincent van Gogh, amico di Gauguin, si sia fatto
conoscere come scrittore molti anni prima che qualcuno, al di fuori di un piccolo
circolo di amici, lo prendesse sul serio come pittore. Alcune fra le sue
lettere private comparvero sul Mercure de
France già nel 1893, e su Kunst und
Kuenstler nel 1904. Si pensa, in genere, che le sue lettere siano state
presentate al pubblico inglese per la prima volta grazie a due corposi volumi
pubblicati a Londra e Boston nel 1927 (un terzo volume comparì nel 1929), ma è
in realtà nel 1913 che un libretto, Letters
of a Post-Impressionist, apparve in questo paese: si trattava di una selezione
di lettere tradotte in inglese non dall’olandese, dal francese o dagli
originali, ma dal tedesco!
Questo volume, ovviamente pieno di errori, per fortuna non ha
lasciato alcuna traccia permanente di sé. Uno successivo, tuttavia, anch’esso
privo di requisiti scientifici, entrò nella lista dei libri più venduti. Dear Theo, curato da Irving Stone, fece
ricorso alle lettere dell’artista amorevolmente preservate da Theo van Gogh e
poi attentamente trascritte e tradotte in inglese dalla vedova di Theo, Johanna.
Purtroppo Stone rimaneggiò le lettere in modo così arbitrario che parole, frasi
e persino paragrafi furono tagliati senza indicare le omissioni; in molti caso
l’ordine di paragrafi o frasi venne cambiato.
Lo spazio non mi permette di raccontare la storia intera delle
lettere. Theo sopravvisse al fratello solamente per qualche mese. Johanna van
Gogh conservò attentamente ogni piccolo scritto del cognato, ma saggiamente
aspettò il 1914 prima di pubblicare le Brieven
ann zijn Broeder (Lettere al fratello), perché non sarebbe mai stato
possibile presentare queste lettere così intime nella loro interezza a un
pubblico ostile all’arte di Vincent. Poi si trovarono e furono pubblicate le
lettere di Vincent alla sorella più giovane, Wilhelmina, e ai pittori Anthon G.
A. Ridder van Rappard, Emile Bernard, Paul Gauguin e ad altri. Finalmente, nel
1953, le Verzamelde Brieven van Vincent
van Gogh (Lettere complete di Vincent van Gogh) vennero edite in tempo per
il centenario (Van Gogh era nato nel 1853). Cinque anni dopo, l’edizione
inglese comparve in tre massici volumi con il titolo The Complete Letters of Vincent van Gogh. Questo lavoro non
solamente sostituì l’edizione canonica degli anni Venti, ma presentò anche ogni
lettera da e per Vincent mai apparsa in libri o periodici grazie
all’infaticabile energia del curatore della nuova versione, il settantenne
Vince Willem van Gogh, figlio di Theo e Johanna.
Questa raccolta di lettere rivela, molto meglio di ogni altra
selezione precedente, che van Gogh non era né un disadattato, brutto, sporco, e malato
di sesso, che in qualche modo meritò il suo tragico destino, né un santo
incompreso. Le lettere ci dicono che era niente più e niente meno di un vero
artista, un essere umano, con molte nobili qualità e molti difetti, che lottò
contro difficoltà insormontabili e insopportabili, si comportò come un uomo di
genio si comporterebbe in questo stato e scrisse con la stessa spontaneità con
cui dipinse e disegnò. Le sue lettere non erano i saggi scritti in maniera
elegante che si erano scambiati Goethe e Schiller o i messaggi di Rilke, formulati
con precisione, dal momento che van Gogh non sognò mai che i suoi sfoghi
potessero essere letti da qualcuno eccetto i destinatari.
Dunque, io interpreto le sue lettere come le dirette confessioni di
un uomo che iniziò con le intenzioni più nobili, e non venne mai a patti col
diavolo, qualsiasi fossero le difficoltà della vita di ogni giorno. Pensava a
qualcosa di molto più ampio dell’arte per l’arte, si interessava a qualcosa di
molto più esteso dell’ambito della tecnica. Ad esempio, scrivendo da Londra,
egli rigettò ogni miope nazionalismo: “A
volte sono propenso a credere di star gradualmente diventando un cosmopolita:
ovvero né un olandese né un inglese e neppure un francese, ma semplicemente un
uomo. E come patria, ho il mondo intero. . . ."
Quando decise di divenire pittore, egli cercò di analizzare le
proprie complessità:
"Sono un uomo di passioni,
capace di fare cose più o meno pazzesche, e vittima di ciò. Mi capita di
pentirmene, più o meno, con il senno di poi. Di tanto in tanto parlo e agisco troppo in fretta, quando sarebbe
stato bene aspettare con pazienza. Credo che altre persone facciano a volte lo
stesso errore. Bene, se è così, che cosa debbo fare? Devo considerarmi persona
pericolosa e incapace? Non credo. Ma il problema è cercare ogni mezzo per far
buon uso di quelle stesse passioni".
Delacroix ci può insegnare molto sulla civiltà francese del primo Ottocento e sull’arte del dipingere. Gauguin ci guida
in un mondo barbaro che è molto più civilizzato per molti aspetti della Parigi
decadente di fine secolo. Van Gogh è stato una guida morale per tutta la sua
breve vita, un uomo che ha cercato disperatamente di affermare la nobiltà dei
propri principi in un mondo di “cinici,
scettici e impostori”. A differenza di Gauguin, non ha mai lasciato
l’Europa, anche se credeva anch’egli che le civiltà non europee potessero
insegnare all’uomo bianco la saggezza richiesta per vivere in modo più
adeguato. Così egli scrisse, ad esempio:
“Se studiamo l’arte
giapponese, ecco un uomo che è certo saggio, filosofico e intelligente. Passa
il suo tempo facendo che cosa? Studia la distanza tra la terra e la luna? No!
Studia la politica di Bismarck? No! Studia un singolo filo d’erba. Ma questo
filo d’erba lo porta a disegnare ogni pianta e poi le stagioni, l’aspetto
generale della campagna, poi gli animali e infine la figura umana. È così che
passa la vita, e la vita è troppo corta per occuparsi di tutto. E insomma, non
è forse una vera religione quella che questo semplice giapponese ci insegna,
che vive nella natura come se fosse egli stesso un fiore?”
V
Delacroix, Gauguin, Van Gogh: i loro scritti smentiscono la frottola
che "gli artisti dicono le cose più
sciocche." Purtroppo, gli studenti di storia dell’arte non sono
sollecitati a dedicare lo stesso tempo all’esame delle loro lettere e a quello
delle loro pitture, sculture e stampe. Molti studenti universitari che hanno
già un’idea corretta dei dipinti di Rubens, non hanno mai avuto modo di apprezzarne
le lettere (nonostante la corrispondenza del pittore includesse i maggiori
studiosi, collezionisti ed artisti del tempo). I ritratti di Sir Joshua Reynolds sono molto più famosi dei Discourses
che tenne alla Royal Academy, per tacere poi delle affascinanti lettere che
inviò a Lady Ossory. Le conversazioni di Pablo Picasso con Christian Zervos
oppure gli articoli di Henry Moore sulla scultura non sono utilizzati abbastanza spesso dai critici
d’arte contemporanea, sebbene il loro valore come chiave per interpretare il
loro ego creativo sia immenso. È vero che alcuni dei maggiori artisti - Giotto, Giorgione, El Greco e Rembrandt per citarne alcuni - non ci hanno lasciato una sola lettera o, al massimo,
null’altro che semplici banalità che nulla ci dicono della loro personalità o della
loro opera. È altrettanto vero che, a volte, un artista si rivela commentatore molto
debole del proprio lavoro, esponendo le proprie convinzioni in maniera
impacciata e inadeguata. Ma la maggior parte degli artisti ci sa guidare
perfettamente attraverso i panorami sconcertanti che hanno creato.
Meriterebbero di essere ascoltati con avida attenzione!
Quasi tutti i tentativi letterari - lettere,
diari, saggi teorici - di artisti
famosi del passato o del presente sono elencati nei libri citati qui sotto (con
l’esclusione di scritti, come i pezzi teatrali di Barlach, Beckmann e Kokoschka
oppure i versi di Klee, che non hanno alcuna connessione con il lavoro di
questi uomini nel mondo delle belle arti). Tutte le antologie menzionate di
seguito dispongono di eccellenti bibliografie.
L’attenzione è concentrata su volumi stamparti negli Stati Uniti e
facilmente accessibili, ma ho preso in considerazione alcuni tascabili
recentemente editi nella Repubblica Federale Tedesca.
- Artists on Art: from the XIV to the XX Century. A cura di Robert Goldwater e Marco Treves (New York 1945).
- The Literary Sources of Art History, a cura di Elizabeth Gilmore Holt (Princeton 1947).
- A Documentary History of Art. A cura di Elizabeth Gilmore Holt. (New York 1957 e 1958). I due volumi di quest’edizione tascabile ("Medio Evo e Rinascimento " e “Michelangelo ed I manieristi: Il Barocco e il XVIII secolo”) sono versioni ampliate e riviste del già menzionato The Literary Sources of Art History.
- Letters of the Great Artists. A cura di Richard Friedenthal (New York 1963). Volume I: Da Ghiberti a Gainsborough”; volume II: “Da Blake a Pollock."
- Painters on Painting. Brani scelti ed editi con un’introduzione di Eric Protter (New York 1963) ).
- The Nature of Art. A cura di John Gassner e Sidney Thomas (New York 1964).
Tascabili tedeschi: Dokumente zum Verständnis der modernen Malerei di Walter
Hess (Amburgo 1956); Wie sie
einander sahen: Moderne Maler im Urteil ihrer Gefährten, a cura di H. M.
Winkler (Monaco 1961); Theorien
zeitgenössischer Malerei, a cura di Juergen Claus
(Reinbeck presso Amburgo 1963); Künstlebriefe
über Kunst, edited by Hermann Uhde-Bernays,
volume 1, “Von der Renaissance bis zur Romantik" (Francoforte sul Meno, 1960)
e volume 2, "Von Adolph von Menzel bis zur Moderne (Francoforte sul Meno,
1963).
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