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mercoledì 24 ottobre 2018

Alfred Werner Artists Who Write [Artisti scrittori]


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Alfred Werner
Artists Who Write

[Artisti scrittori]

Pubblicato in

Art Journal, Anno 24, Numero 4, (Estate 1965), pp. 342-347

Fig. 1) Una foto senza data di Alfred Werner, contenuta nel fondo d’archivio Alfred Werner, interamente pubblicato su https://archive.org/details/alfredwernercoll01wern/page/n331


Nota introduttiva di Francesco Mazzaferro

L’articolo che segue è stato pubblicato sull'Art Journal nel 1965 e documenta la discussione negli Stati Uniti sulla letteratura artistica a metà degli anni Sessanta del Novecento, epoca in cui esistono già o vengono pubblicate numerose antologie in lingua inglese, alcune delle quali sono state recensite in questo blog. L’autore dell’articolo è lo storico dell’arte Alfred Werner (1911-1979). Werner nasce a Vienna, suddito dell’impero asburgico, e occupa, ancora giovanissimo a metà degli anni Trenta, una posizione di rilievo nella vita letteraria della giovane Repubblica post-imperiale, come poeta e scrittore. Dirige anche alcune iniziative letterarie della comunità ebraica viennese.

Fig. 2) Una rara foto di Alfred Werner ancora giovane, al suo arrivo negli Stati Uniti, pubblicata su The National Jewish Monthly nel numero dell’Aprile 1941

Dopo l’ingresso dei nazisti in Austria nel 1938, Werner è perseguito come ebreo e internato per un anno a Dachau (grazie all’aiuto della moglie viene scarcerato a fronte dell’impegno a lasciare per sempre l’Austria). Dopo un anno trascorso senza fortuna in Gran Bretagna, si trasferisce negli Stati Uniti nel 1940, dove si reinventa storico dell’arte contemporanea (in particolare diventa esperto dell’espressionismo europeo), studia storia dell’arte all’Institute of Fine Arts di New York e, infine, diviene collaboratore fisso di diverse riviste, tra le quali l’Art Journal. Nei tre decenni successivi pubblica inoltre numerose monografie. Fra queste, volumi dedicati a Modigliani, Chagall, Pascin, Dufy, Soutine, Munch, Barlach, Vlaminck, Klimt e Utrillo. Nel campo della letteratura artistica, si limita invece a scrivere l’introduzione a un’edizione americana di Noa Noa di Paul Gauguin, pubblicata dalla casa editrice newyorkese The Noonday Press nel 1958.

Fig. 3) Tre pubblicazioni di Alfred Werner su Utrillo (1951), Chagal (1970) e i quadri dei post-impressionisti (1963)

Nell’articolo sull’Art Journal dell’estate 1965 Werner afferma il ruolo fondamentale degli scritti degli artisti per la comprensione della loro arte. Il mito dell’artista incolto e impulsivo, incapace di fornire un contributo allo studioso della sua arte, è – a suo giudizio - un’invenzione dell’Ottocento, che è stata corroborata nel Novecento dai comportamenti di Jackson Pollock e dall’intenzionale irrazionalità di un Salvator Dalì. Il pubblico americano – scrive Werner – ha ormai assorbito questa versione dell’essere artista come una condizione di esaltazione maledetta, anche grazie a numerosi film di produzione hollywoodiana: si pensi al famoso film di Vincent Minnelli ‘Lust for Life’ (Brama di vivere) in cui Kirk Douglas interpreta, nel 1956, il ruolo di Vincent van Gogh, sulla base di un romanzo del famoso scrittore e biografo americano Irving Stone (1903-1989), comparso nel 1939.

Fig. 4) A sinistra: Il manifesto del film Brama di vivere di Vincent Minnelli, con Kirk Douglas che interpreta Vincent van Gogh. A destra: Il romanzo Lust for Life di Irving Stone

In realtà - scrive Werner - gli artisti sono persone razionali e capaci di comunicare in modo prezioso il loro bagaglio di idee, cognizioni e sentimenti. Anche nell’Ottocento gli esempi di Delacroix, Gauguin e Van Gogh esemplificano casi di artisti di grandissimo spessore che ci hanno lasciato un ricco patrimonio di testi. Ad esempio, una lettura filologicamente esatta delle lettere di Van Gogh (e dunque capace di depurarle dalle manipolazioni di Stone, che ha anche pubblicato in inglese le sue Lettere a Theo nel 1937, secondo criteri tuttavia non scientifici) ci fa scoprire un Van Gogh razionale e cosciente dei problemi estetici.

Fig. 5) La versione delle lettere di Vincent van Gogh, intitolata Dear Theo, presentata da Irving Stone come autobiografia. È comparsa per la prima volta nel 1937 (sinistra) e più volte da allora, sino al 1995 (destra).

La letteratura artistica (per usare un termine derivato dal tedesco Kunstliteratur che non si è mai imposto negli Stati Uniti) dovrebbe dunque divenire parte della cultura universitaria, ed essere basata su un’analisi critica delle fonti, della loro gestazione e della loro fortuna. Il mondo americano – che aveva già prodotto negli anni Quaranta alcune antologie che Werner cita come testi ‘fondamentali’ – era pronto a recepire questo nuovo appello: a partire proprio dal 1965 la casa editrice Prentice-Hall inizia a pubblicare la collana “Sources and documents in the history of art”, mentre nel 1968 esce il fondamentale manuale “Theories of modern art : a source book by artists and critics” di Herschel Browning Chipp, Peter Selz e Joshua C. Taylor, che pone con forza la questione del metodo scientifico anche per le fonti moderne e contemporanee.

Fig. 6) Per quest’edizione di Non Noa di Paul Gauguin, pubblicata nel 1958 da The Noonday Press, Alfred Werner ha scritto l’introduzione

Vorrei ringraziare Mary Ann Muller di Taylor and Francis, per conto di The College Art Association,
per aver autorizzato la traduzione e pubblicazione in italiano dell’articolo senza alcun costo. I diritti d’autore continuano ovviamente a far capo alla College Art Association. Il testo inglese è disponibile alla pagina https://www.jstor.org/stable/774811?read-now=1&loggedin=true&seq=1#metadata_info_tab_contents, alle condizioni definite da JSTOR. L’articolo è anche disponibile – a pagamento – presso l’editore Taylor & Francis all’indirizzo https://tandfonline.com/doi/abs/10.1080/00043249.1965.10794649.


*  *  *

Alfred Werner
Artists Who Write

È stato solamente nel secolo scorso che si è affermata l’idea, falsa e malevola, secondo cui  gli artisti – siano essi pittori, scultori, grafici    sarebbero stati degli anti-intellettuali. Durante il Rinascimento era frequente che un artista scrivesse versi, componesse trattati su problemi estetici o manuali di tecnica, si intrattenesse con studiosi particolarmente raffinati e viaggiasse senza sosta. Un uomo dell’età barocca come Rubens parlava molte lingue e svolgeva delicati compiti diplomatici assegnatigli dal suo governo. L’Università di Cambridge gli conferì il titolo di maestro onorario delle arti.

I creativi cominciarono ad allontanarsi in massa dalla società quando si ridusse il potere di Chiesa e aristocrazia, tradizionali committenti delle arti. Tra essi, coloro che furono più colpiti furono gli artisti: un poeta poteva evitare la fame vendendo di tanto in tanto un suo testo per la stampa; il pittore poteva solamente cercare di vendere le sue tele al minuto a qualcuno, spostandole da un luogo all’altro. Un uomo come Pissarro non aveva neppure tempo per leggere: tutto il tempo che riusciva a strappare al lavoro in senso stretto era destinato a visitare i mercanti d’arte e qualsiasi potenziale committente, dal momento che aveva una moglie e sette figli da sfamare. Fino alla Rivoluzione francese gli artisti erano spesso i protagonisti dei salotti buoni della società e non si sarebbe potuto distinguerli nel modo di vestire dai nobili. Nel XIX secolo, di regola, un artista serio era invece un outsider, viveva nelle aree più povere delle città e non poteva certo permettersi – date le condizioni di povertà – di frequentare teatri, l’opera e le sale da concerto. Vi erano eccezioni, costituite da alcuni artisti con un considerevole patrimonio finanziario, come Delacroix e Degas. Pittori e scultori che ricevevano medaglie avevano un buon tenore di vita. Ma non erano quelli le cui opere meritano di essere viste ancora nei musei e i cui nomi costituiscono il firmamento della storia dell’arte. Il successo arrideva ai professori delle Ecoles des Beaux-Arts, certo abili ma molto più conservatori, o ai ritrattisti alla moda che si dedicavano ai nuovi ricchi. Il vero buon pittore non aveva pubblico. Per la borghesia era figura ridicola. Lo stesso Zola che, da giovane, si era sbilanciato per difendere gli impressionisti, aveva poi creato nel suo romanzo L’Œuvre lo stereotipo dell’artista mezzo pazzo la cui strada conduceva fatalmente al suicidio.

L’idea dell’artista come uno sciocco impulsivo che incappa negli errori più grossolani ogni qualvolta prova a uscire dal suo orticello è giunta sino alla nostra epoca, sebbene il XX secolo sia incredibilmente ricco di pittori e scultori le cui qualità intellettuali sono fuori questione. È davvero sorprendente quanti eccellenti contributi letterari volti alla comprensione dell’arte siano giunti dalle penne di artisti moderni. Chagall, Kokoschka, Klee, Picasso e molti altri hanno pubblicato novelle, versi e testi di teatro.  Il pubblico, tuttavia, ricorda soltanto le farneticazioni anti-intellettuali di certi gruppi, come quelle di Jackson Pollock, i suoi amici e seguaci, che s’incontravano al Cedar Bar di New York.  Pollock non ha mai dato importanza alcuna alla parola scritta, e quel che diceva era spesso incoerente. I suoi gesti violenti e la sua tragica fine – finì per schiantarsi contro un albero con la macchina – sono tutto ciò che di lui si ricorda.

Un altro che ha fatto molto per rafforzare l’idea che l’artista sia un uomo che non può mai essere preso troppo sul serio è Dalì. Egli stesso fece in modo di creare, intenzionalmente,  la leggenda della propria pazzia, forse per perpetuare l’importanza del suo ruolo nella società anche quando, un giorno, le sue facoltà artistiche fossero declinate (come, infatti, è successo negli ultimi vent’anni!).  L’alcolista Pollock almeno sembra essere stato sincero. Ma che dire della sincerità di un Dali? Gira voce che durante una cena con molti invitati abbia convinto tutti di essere matto, fino quando il cameriere non gli portò il conto. All'istante, tornato in sé, cominciò a riscontrare ogni voce con la serietà di un contabile…

Grande danno è stato fatto da molti artisti che – al pari di Dalì – hanno dimostrato il loro rifiuto di un approccio troppo intellettuale all’arte facendo consciamente annunci eclatanti che sapevano essere assurdi.  Tutto ciò, oltre a una serie di romanzi a sensazione e di film hollywoodiani, creati per un pubblico generalista che quasi mai ne incontra uno in carne ed ossa, ha diffuso l’immagine dell’artista come un babbeo trasandato che diventa ridicolo appena apre bocca. Quest’immagine ha una base reale?

I grandi artisti hanno sempre una mente molto veloce," ha scritto Edgar Wind nel suo Art and Anarchy, e ha aggiunto: "Non ho mai incontrato un pittore o uno scultore di rilievo che non scrivesse o pensasse davvero bene." Il Professor Wind ha poi citato il famoso mercante d’arte Ambroise Vollard, che aveva nominato una giuria di soli pittori per un nuovo premio di letteratura:

"Devo ammettere,'' scrive Vollard “che mi aveva preso un certo senso di angoscia pensando a quale scelta una giuria talmente atipica potesse fare. Con sorpresa generale, artisti di tendenze completamente diverse dimostrarono di possedere un gusto particolarmente acuto e, allo stesso tempo, ben chiaro: la loro decisione quasi unanime cadde su Paul Valery, che non era stato ancora stato eletto membro dell’Académie Française."

Insomma, delle persone serie dovrebbero ancora coltivare l’idea "romantica" dell’artista come uomo solitario in un atelier miserabile, mentre usa i colori sulla tela in stato di semi-trance, ignaro di tutto ciò che succede nel mondo esterno? I test psicologici sostengono la validità di questa visione? Secondo la Professoressa Geraldine Pelles, no:

Sin dagli anni Trenta non si è riusciti ad individuare nei risultati dei test psicologici alcuna peculiarità degli artisti, in virtù della quale essi sarebbero diversi per temperamento dalle altre persone e si differenzierebbero fra di loro più di quanto non lo facciano rispetto ad altri gruppi di persone non preselezionate.  L’ipotetica figura archetipica dell’artista è così poco definita che i partecipanti a una serie di esperimenti condotti secondo i protocolli di Rorschach,  non sono stati in grado di indovinare se il soggetto di cui si stava parlando fosse un artista (citato da Art, Artists, and Society).

II

Il XIX secolo si erge a testimone di centinaia di artisti che si vendicano nei confronti di una società che non li apprezza, sfidando le regole della società e vivendo in modo edonistico e autodistruttivo, come se il fine ultimo della loro vita fosse rovinarsi. In fin dei conti, si trattava di nichilisti asociali, stanchi della vita, che campavano per sfida ai margini della società. Ma lo stesso secolo ha anche prodotto uomini che sfidavano la società e i suoi limiti creando grande arte molto in anticipo rispetto al tempo in cui vivevano. Tra i pittori vorrei ricordare Eugène Delacroix, Paul Gauguin e Vincent Van Gogh. Non è qui rilevante che fossero – soprattutto gli ultimi due – degli outsider. La loro importanza è dovuta al fatto che, nella duplice veste di pittori e scrittori,  furono capaci di espandere nettamente le frontiere del nostro mondo estetico e di conquistare aree molto al di là della comprensione delle generazioni precedenti!

Mentre Gauguin e Van Gogh erano spesso preoccupati dalla lotta contro povertà e fame, Delacroix, grazie a circostanze fortunate, non fu mai privo di un qualche conforto materiale. Non ebbe mai bisogno di lavorare facendo cose che gli dessero scarsa soddisfazione; assolutamente non disposto e, a quel che pare, incapace di produrre opere ‘commerciali’, quest’uomo orgoglioso e indipendente non ci ha mai lasciato neppure il minimo schizzo di cui dovesse vergognarsi. Il suo non era uno stile di vita alla "bohème." Era un genio rivoluzionario che spesso sbalordì il pubblico con i suoi lavori, ma mai con il suo comportamento. Nonostante fosse uno dei leader del cosiddetto movimento romantico, provò soltanto disprezzo per quegli pseudo-romantici che sfoggiavano capi stravaganti, parlavano dileggiando le grandi opere del passato e non producevano nulla di particolare valore.

Certo, aveva affari amorosi. Frequentava la società dell’epoca. Ma la parte migliore della sua vita era dedicata a dipingere, leggere e scrivere. Fu uno scrittore prolifico la cui produzione letteraria include un dramma, due novelle brevi e numerosi saggi che si occupano di questioni estetiche o di grandi artisti del passato come Raffaello, Michelangelo e Poussin.  Molto più di ogni altro anche nei tempi moderni, è lui a smentire la tesi che un artista fallisca quando cerca di esprimersi a parole. Goethe, che ammirava il pittore Delacroix, non avrebbe mai chiesto allo scrittore Delacroix di dedicarsi esclusivamente all’arte, rimanendo altrimenti in silenzio. Come ha scritto recentemente il suo biografo René Huyghe, a Delacroix "è destinato un posto tra i maggiori scrittori del XIX secolo”.

Lo prova specialmente la sua opera principale, il Journal, un diario. Non si sa con certezza assoluta se Delacroix pensasse alla sua pubblicazione. Lo iniziò nel 1822, all’età di 24 anni, e lo continuò per due anni. Vi fece alcune note nel 1832, visitando il Marocco. Nel 1847 lo riprese in mano e lo tenne aggiornato fino alla morte, nel 1863.

Dopo la scomparsa dell’artista, il manoscritto fu copiato da un amico e questa trascrizione servì come base per l’edizione a stampa del 1893, trent’anni dopo la scomparsa. Nel frattempo, il manoscritto era stato smembrato in una serie di frammenti venduti a più collezionisti. Consapevole che l’edizione del 1893 aveva grosse pecche, André Joubin, conservatore alla biblioteca d’arte dell’Università di Parigi, riunì, con enorme pazienza, la maggior parte del manoscritto originale,  corresse gli errori che erano sorti a causa della trascrizione e pubblicò nel 1932 la seconda edizione in tre volumi, complessivamente di 500 pagine. Selezioni del Diario sono state pubblicate in inglese nel 1937 e nel 1951.

Nella prima pagine, il giovane Delacroix dichiara il suo obiettivo:

Il mio desiderio più caro è ricordare che scrivo solo per me; ciò mi manterrà autentico, io spero, e mi farà bene. Queste pagine finiranno per ricordarmi la mia mutevolezza.

Quarant’anni, e centinaia di quadri, dopo, il Diario si conclude con questa notazione:

La prima qualità di un quadro è di essere di diletto per gli occhi.  Ciò non significa che in esso vi debba essere un senso; è come in una poesia: se stride all’orecchio, nessun significato al mondo la salverà dall’essere brutta. Alcuni dicono di avere orecchio per la musica: allo stesso modo non ogni occhio è pronto a gustare le gioie sottili della pittura. Gli occhi di molti sono spenti o falsi; si limitano semplicemente a vedere, senza cogliere nulla di ciò che è squisito."

Nelle pagine del Diario troviamo davvero la ricchezza del pensiero: se predominano le riflessioni sull’arte della pittura, ci sono anche osservazioni notevoli sulla letteratura, la psicologia delle donne, l’arte di vivere senza nulla concedere alle sordide tentazioni che circondano un uomo. Da questo unico tesoro di idee si potrebbero trarre almeno tre libri – uno contenente riflessioni sulla pittura, il secondo sulla civiltà francese sotto Carlo, Luigi Filippo e infine Napoleone III e il terzo sulla filosofia del comportamento umano al più alto livello di etica.  È ovvio che il Diario sia stato una miniera per molti antologizzatori; ricorderò solo tre recenti compilazioni in cui se ne possono trovare degli estratti: Artists on Art, a cura di Robert Goldwater e Marco Treves; The Nature of Art, a cura di John Gassner e Sidney Thomas e Painters on Painting, a cura di Eric Protter. Mentre le teorie di Delacroix sono state ampiamente diffuse e gli studenti di storia dell’arte conoscono le sue idee su bellezza, perfezione nell’arte, ispirazione, colore e luce, l’uomo è rimasto un enigma per i più. Ad esempio, pochi si aspetterebbero da lui una riflessione come quella scritta nel suo Diario il 12 ottobre 1862:

... Dio è dentro di noi. È la presenza interna che ci rende capaci di ammirare il bello, che ci rende felici quando facciamo la cosa giusta, che ci consola per non aver preso parte al piacere del malvagio. È certo Dio a soffiare negli uomini di genio l’ispirazione e riscaldare i loro cuori alla vista della propria opera. Alcune persone sono virtuose e altre sono geniali ed entrambe sono ispirate e favorite da Dio. E perciò, anche il contrario è vero; ci devono essere persone sulle quali l’afflato divino non ha effetto; uomini che compiono crimini a sangue freddo, e mai gioiscono alla vista del vero e del bello. Dunque, l’Essere Eterno ha i suoi favoriti. Per fortuna, gli uomini dal cuore grande non affondano per le disgrazie che troppo spesso sembrano assillarli nella loro breve vita terrena. La vista dei malvagi carichi dei doni del caso non dovrebbe scoraggiarli - ma che dico? Essi sono spesso confortati da affanni e paure che assalgono gli uomini cattivi e rendono la loro ricchezza ragione di amarezza. Essi spesso sono testimoni della punizione dei malvagi in questo mondo. Il piacere interiore di obbedire all’ispirazione divina è una ricompensa sufficiente…"


III

A differenza di Delacroix, Paul Gauguin non era un signore ben educato e neppure un brillante stilista. Ma amava scrivere articoli per una serie di giornali; nei Mari del Sud pubblicò per breve tempo un foglio satirico che riempì di attacchi violenti all’amministrazione francese della Polinesia; dal suo esilio volontario scrisse innumerevoli lettere alla moglie lontana, Mette, e agli amici parigini, ai quali affidò i suoi affari (la vendita dei suoi quadri): a Tahiti e poi nelle Isole Marchesi, i suoi pensieri presero la forma di una montagna di appunti, molti dei quali furono pubblicati postumi.

Qualunque fossero i suoi limiti come scrittore, si espresse senza inibizioni o limiti. Aveva il dono di osservare con passione e incessante curiosità la natura di tutto ciò che incontrava. La sua personalità energica, il suo forte temperamento trovarono nella scrittura una forma di espressione supplementare che integrava quella del suo modo espressivo più peculiare, la pittura.  Noa Noa – il termine tahitiano che significa’profumo’ – è di gran lunga il più noto fra i suoi scritti. Per più di sessant’anni ha affascinato i lettori come se fosse il resoconto moderno di un paese mai esistito, come frammento emozionante di un’autobiografia, un contributo alla nostra comprensione della cultura dell’Oceania o un supporto alla nostra comprensione dell’arte di Gauguin.

Noa Noa ci informa sul primo soggiorno di  Gauguin ai tropici (1891-1893).  Purtroppo il testo, così come lo abbiamo oggi, non è interamente opera di Gauguin; è il frutto di una strana collaborazione tra Gauguin e il suo amico, poeta e saggista, Charles Morice. Quest’ultimo riscrisse e ampliò il manoscritto che il pittore gli aveva consegnato. I figli del pittore, Emil e Paul (Pola), insinuarono che Morice si fosse preso libertà inaccettabili con il manoscritto del padre. Morice, nella sua biografia di Gauguin (1919), si difese, affermando che, a parte alcune pagine introduttive e l’inserimento di qualche suo verso, aveva esclusivamente corretto il manoscritto di Gauguin per la pubblicazione - il libro apparve nel 1901; quando, in origine, ne aveva letto la versione da lui rivista al pittore, essa aveva incontrato l’approvazione di Gauguin.

Oggi abbiamo molte versioni di Noa Noa, compresa una superbamente illustrata da Gauguin durante il secondo soggiorno nei Mari del Sud. Senza dubbio, la versione curata da Morice contiene frasi, e persino interi paragrafi, che non corrispondono per nulla al modo di pensare e di esprimersi di Gauguin.  Tuttavia, anche quest’edizione "controversa" emette, in ogni pagina, il vero spirito di Gauguin, come rivelato attraverso gli altri suoi scritti e, naturalmente, attraverso le sue pitture, sculture e l’opera grafica.

La lettura del libro ci illumina in merito alle vere ragioni che portarono Gauguin in una piccola isola a migliaia di chilometri dalla Francia metropolitana.  Scappò a Tahiti alla ricerca di libertà – libertà dalla sforzo ingrato del naturalismo e dal giogo della decadenza europea. Ironicamente, nel 1901,  Tahiti gli sembrò essere stata talmente europeizzata che Gauguin temeva che il suo viaggio costoso e pericoloso fosse stato un grave errore.

Era Europa; l’Europa di cui avevo pensato di sbarazzarmi e che si presentava sotto le circostanze aggravanti dello snobismo coloniale e dell’imitazione, grottesca fino al punto di sembrare la caricatura dei nostri costumi, delle mode, dei vizi e delle assurdità della civiltà. Avevo forse fatto questo lungo viaggio solo per trovare lo stesso mondo da cui ero fuggito?"

Per fortuna, qualcosa della bellezza e della forza originali sopravviveva nei piccoli villaggi a molti chilometri dalla capitale Papeete. All’interno dell’isola, Gauguin trovò felicità e piacere, vivendo con una giovane indigena incorrotta, che divenne la sua modella per molti dipinti, e da cui affermò di aver ottenuto quei frammenti della teologia dell’Oceania, dei miti e dei misteri Maori che erano riusciti a sopravvivere fino al grigiastro XIX secolo, meccanizzato e commercializzato (in realtà, aveva tratto il più delle sue informazioni da un libro prestatogli da un funzionario francese a Papeete).

Goethe intitolò saggiamente la sua autobiografia Dichtung und Wahrheit (Poesia e verità). La descrizione di Gauguin della vita sensuale e piacevole da lui condotta a Tahiti era anch’essa un’abile commistione di poesia e verità, che – stando alle lettere spesso piene di affanni che spedi a Copenhagen o Parigi – era meno idilliaca di quanto Noa Noa ci possa far credere. Tuttavia vi furono molte ore di profonda e non ostacolata serenità. È interessante confrontare le sue esplosioni di gioia con alcuni passaggi che possono essere reperiti nelle lettere che inviò a sua moglie:

Il silenzio della notte a Tahiti è ancora più strano di ogni altra cosa. Lo posso percepire; rimane ininterrotto anche dal grido di un uccello"

E in Noa Noa si legge:
Silenzio! Sto imparando a conoscere il silenzio di una notte a Tahiti. In questo silenzio non sento null’altro del battito del mio cuore.''

A Mette: "E noi chiamiamo selvaggi queste persone! ... Cantano; non rubano mai; la mia porta non è mai chiusa; non uccidono ... "

E in Noa Noa:
Ho invidiato gli isolani. Ho guardato la loro vita felice e pacifica attorno a me..."

È ovvio che vi siano molti libri che descrivono Tahiti. Alcuni sono molto lunghi, molti sono pieni di dettagli melodrammatici, e pochi sono vera letteratura.  Ma Noa Noa, sebbene breve e senza pretese, rivela l’animo di un poeta, la sensibilità di emozioni come quelle di un Hermann Melville, Pierre Loti o Robert Louis Stevenson. Così come Gauguin non poté che cadere sotto l’influsso del fascino Maori, anche il lettore nel 1964 non può resistere alla sottile seduzione della prosa dell’artista. Nel corso di tutta la sua carriera di pittore, Gauguin soffrì di disperazione cronica. Tuttavia, da Tahiti egli poté scrivere:

La civiltà mi abbandona poco a poco. Sto iniziando a pensare in modo semplice, a sentire solo poco odio per il mio vicino; anzi, ad amarlo.   Tutte le gioie (animali e umane) di una vita libera sono le mie. Ho abbandonato ogni cosa che fosse artificiale, convenzionale, abitudinaria. Sto entrando nella verità, nella natura."


IV

È ben strano che Vincent van Gogh, amico di Gauguin, si sia fatto conoscere come scrittore molti anni prima che qualcuno, al di fuori di un piccolo circolo di amici, lo prendesse sul serio come pittore. Alcune fra le sue lettere private comparvero sul Mercure de France già nel 1893, e su Kunst und Kuenstler nel 1904. Si pensa, in genere, che le sue lettere siano state presentate al pubblico inglese per la prima volta grazie a due corposi volumi pubblicati a Londra e Boston nel 1927 (un terzo volume comparì nel 1929), ma è in realtà nel 1913 che un libretto, Letters of a Post-Impressionist, apparve in questo paese: si trattava di una selezione di lettere tradotte in inglese non dall’olandese, dal francese o dagli originali, ma dal tedesco!

Questo volume, ovviamente pieno di errori, per fortuna non ha lasciato alcuna traccia permanente di sé. Uno successivo, tuttavia, anch’esso privo di requisiti scientifici, entrò nella lista dei libri più venduti. Dear Theo, curato da Irving Stone, fece ricorso alle lettere dell’artista amorevolmente preservate da Theo van Gogh e poi attentamente trascritte e tradotte in inglese dalla vedova di Theo, Johanna. Purtroppo Stone rimaneggiò le lettere in modo così arbitrario che parole, frasi e persino paragrafi furono tagliati senza indicare le omissioni; in molti caso l’ordine di paragrafi o frasi venne cambiato.

Lo spazio non mi permette di raccontare la storia intera delle lettere. Theo sopravvisse al fratello solamente per qualche mese. Johanna van Gogh conservò attentamente ogni piccolo scritto del cognato, ma saggiamente aspettò il 1914 prima di pubblicare le Brieven ann zijn Broeder (Lettere al fratello), perché non sarebbe mai stato possibile presentare queste lettere così intime nella loro interezza a un pubblico ostile all’arte di Vincent. Poi si trovarono e furono pubblicate le lettere di Vincent alla sorella più giovane, Wilhelmina, e ai pittori Anthon G. A. Ridder van Rappard, Emile Bernard, Paul Gauguin e ad altri. Finalmente, nel 1953, le Verzamelde Brieven van Vincent van Gogh (Lettere complete di Vincent van Gogh) vennero edite in tempo per il centenario (Van Gogh era nato nel 1853). Cinque anni dopo, l’edizione inglese comparve in tre massici volumi con il titolo The Complete Letters of Vincent van Gogh. Questo lavoro non solamente sostituì l’edizione canonica degli anni Venti, ma presentò anche ogni lettera da e per Vincent mai apparsa in libri o periodici grazie all’infaticabile energia del curatore della nuova versione, il settantenne Vince Willem van Gogh, figlio di Theo e Johanna.

Questa raccolta di lettere rivela, molto meglio di ogni altra selezione precedente, che van Gogh non era né un disadattato, brutto, sporco, e malato di sesso, che in qualche modo meritò il suo tragico destino, né un santo incompreso. Le lettere ci dicono che era niente più e niente meno di un vero artista, un essere umano, con molte nobili qualità e molti difetti, che lottò contro difficoltà insormontabili e insopportabili, si comportò come un uomo di genio si comporterebbe in questo stato e scrisse con la stessa spontaneità con cui dipinse e disegnò. Le sue lettere non erano i saggi scritti in maniera elegante che si erano scambiati Goethe e Schiller o i messaggi di Rilke, formulati con precisione, dal momento che van Gogh non sognò mai che i suoi sfoghi potessero essere letti da qualcuno eccetto i destinatari.

Dunque, io interpreto le sue lettere come le dirette confessioni di un uomo che iniziò con le intenzioni più nobili, e non venne mai a patti col diavolo, qualsiasi fossero le difficoltà della vita di ogni giorno. Pensava a qualcosa di molto più ampio dell’arte per l’arte, si interessava a qualcosa di molto più esteso dell’ambito della tecnica. Ad esempio, scrivendo da Londra, egli rigettò ogni miope nazionalismo: “A volte sono propenso a credere di star gradualmente diventando un cosmopolita: ovvero né un olandese né un inglese e neppure un francese, ma semplicemente un uomo. E come patria, ho il mondo intero. . . ."

Quando decise di divenire pittore, egli cercò di analizzare le proprie complessità:

"Sono un uomo di passioni, capace di fare cose più o meno pazzesche, e vittima di ciò. Mi capita di pentirmene, più o meno, con il senno di poi. Di tanto in tanto parlo e agisco troppo in fretta, quando sarebbe stato bene aspettare con pazienza. Credo che altre persone facciano a volte lo stesso errore. Bene, se è così, che cosa debbo fare? Devo considerarmi persona pericolosa e incapace? Non credo. Ma il problema è cercare ogni mezzo per far buon uso di quelle stesse passioni".

Delacroix ci può insegnare molto sulla civiltà francese del primo Ottocento  e sull’arte del dipingere. Gauguin ci guida in un mondo barbaro che è molto più civilizzato per molti aspetti della Parigi decadente di fine secolo. Van Gogh è stato una guida morale per tutta la sua breve vita, un uomo che ha cercato disperatamente di affermare la nobiltà dei propri principi in un mondo di “cinici, scettici e impostori”. A differenza di Gauguin, non ha mai lasciato l’Europa, anche se credeva anch’egli che le civiltà non europee potessero insegnare all’uomo bianco la saggezza richiesta per vivere in modo più adeguato. Così egli scrisse, ad esempio:

Se studiamo l’arte giapponese, ecco un uomo che è certo saggio, filosofico e intelligente. Passa il suo tempo facendo che cosa? Studia la distanza tra la terra e la luna? No! Studia la politica di Bismarck? No! Studia un singolo filo d’erba. Ma questo filo d’erba lo porta a disegnare ogni pianta e poi le stagioni, l’aspetto generale della campagna, poi gli animali e infine la figura umana. È così che passa la vita, e la vita è troppo corta per occuparsi di tutto. E insomma, non è forse una vera religione quella che questo semplice giapponese ci insegna, che vive nella natura come se fosse egli stesso un fiore?


V

Delacroix, Gauguin, Van Gogh: i loro scritti smentiscono la frottola che "gli artisti dicono le cose più sciocche." Purtroppo, gli studenti di storia dell’arte non sono sollecitati a dedicare lo stesso tempo all’esame delle loro lettere e a quello delle loro pitture, sculture e stampe. Molti studenti universitari che hanno già un’idea corretta dei dipinti di Rubens, non hanno mai avuto modo di apprezzarne le lettere (nonostante la corrispondenza del pittore includesse i maggiori studiosi, collezionisti ed artisti del tempo). I ritratti di Sir Joshua Reynolds sono molto più famosi dei Discourses che tenne alla Royal Academy, per tacere poi delle affascinanti lettere che inviò a Lady Ossory. Le conversazioni di Pablo Picasso con Christian  Zervos  oppure gli articoli di Henry Moore sulla scultura non sono utilizzati abbastanza spesso dai critici d’arte contemporanea, sebbene il loro valore come chiave per interpretare il loro ego creativo sia immenso. È vero che alcuni dei maggiori artisti  - Giotto, Giorgione, El Greco e  Rembrandt per citarne alcuni -  non ci hanno lasciato una sola lettera o, al massimo, null’altro che semplici banalità che nulla ci dicono della loro personalità o della loro opera. È altrettanto vero che, a volte, un artista si rivela commentatore molto debole del proprio lavoro, esponendo le proprie convinzioni in maniera impacciata e inadeguata. Ma la maggior parte degli artisti ci sa guidare perfettamente attraverso i panorami sconcertanti che hanno creato. Meriterebbero di essere ascoltati con avida attenzione!


Quasi tutti i tentativi letterari  - lettere,   diari,  saggi teorici - di artisti famosi del passato o del presente sono elencati nei libri citati qui sotto (con l’esclusione di scritti, come i pezzi teatrali di Barlach, Beckmann e Kokoschka oppure i versi di Klee, che non hanno alcuna connessione con il lavoro di questi uomini nel mondo delle belle arti). Tutte le antologie menzionate di seguito dispongono di eccellenti bibliografie.  L’attenzione è concentrata su volumi stamparti negli Stati Uniti e facilmente accessibili, ma ho preso in considerazione alcuni tascabili recentemente editi nella Repubblica Federale Tedesca.
  • Artists on Art: from the XIV to the XX Century. A cura di Robert Goldwater e Marco Treves (New York 1945). 
  • The Literary Sources of Art History, a cura di Elizabeth Gilmore Holt (Princeton 1947). 
  • A Documentary History of Art. A cura di Elizabeth Gilmore Holt. (New York 1957 e 1958). I due volumi di quest’edizione tascabile ("Medio Evo e Rinascimento "  e  “Michelangelo ed I manieristi: Il Barocco e il XVIII secolo”) sono versioni ampliate e riviste del già menzionato The Literary Sources of Art History.
  • Letters of the Great Artists. A cura di Richard Friedenthal (New York 1963). Volume I: Da Ghiberti a Gainsborough”; volume II: “Da Blake a Pollock."
  • Painters  on Painting.  Brani scelti ed editi con un’introduzione di Eric Protter (New  York  1963) ).
  • The Nature of Art. A cura di John Gassner e Sidney Thomas (New York 1964). 

Tascabili tedeschi:  Dokumente zum  Verständnis der modernen Malerei di  Walter  Hess (Amburgo 1956); Wie  sie  einander sahen: Moderne Maler im Urteil ihrer Gefährten, a cura di  H. M. Winkler (Monaco 1961); Theorien zeitgenössischer Malerei, a cura di Juergen Claus (Reinbeck presso Amburgo 1963); Künstlebriefe über Kunstedited by Hermann Uhde-Bernays, volume 1, “Von der Renaissance bis zur Romantik" (Francoforte sul Meno, 1960) e volume 2, "Von Adolph von Menzel bis zur Moderne (Francoforte sul Meno, 1963).


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