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Pubblicazioni in onore di Johan Joachim Winckelmann
Winckelmann a Milano
A cura di Aldo Coletto e Pierluigi Panza
2017, Milano, Scalpendi Editore, 176 pagine
Recensione di Francesco Mazzaferro
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Fig. 1) Il catalogo della mostra di Milano. In copertina, il ritratto di Winckelmann dipinto da Anton von Maron nel 1768 |
Dopo quelle di Firenze e Chiasso-Napoli, la terza mostra tenutasi in ordine
cronologico in Italia per celebrare i 300 anni dalla nascita (2017) e i 250
dalla morte (2018) di Johann Joachim Winckelmann è Winckelmann a Milano, ospitata nella Sala Maria Teresa della
Biblioteca Braidense, dal 2 ottobre all’11 novembre 2017. La mostra è stata
tutta dedicata alla prima edizione italiana della Storia dell’arte nell’antichità (Geschichte der Kunst
des Alterthums), originariamente pubblicata da
Winckelmann a Dresda nel 1764. La prima traduzione italiana (in due tomi) fu
pubblicata appunto a Milano, nel 1779 con il titolo Storia Delle Arti Del Disegno Presso Gli Antichi, con traduzione
dell’abate Carlo Amoretti (1741-1816).
Editore dei due volumi era l’Imperial Monistero di S. Ambrogio Maggiore,
e già l’aggettivo imperiale ci ricorda che siamo nella Lombardia del dominio
asburgico. La Storia è pubblicata a
Milano proprio per iniziativa del governo di Maria Teresa d’Austria (1717-1780),
tre anni dopo l’apertura dell’Accademia di Brera e uno appena dopo
l’inaugurazione della Scala (Nuovo Regio
Ducal Teatro alla Scala), entrambi progettati dall’architetto neoclassico Giuseppe
Piermarini (1734–1808). L’uomo simbolo dello studio dell’arte classica è
tradotto in italiano – su iniziativa austriaca – in una città in pieno fermento
culturale, dove il neoclassicismo è divenuto un linguaggio capace di rinsaldare
mondo asburgico e sensibilità locali. Va qui ricordato, solo di sfuggita, che
il governo asburgico, nello stesso contesto, è promotore, proprio in quegli
anni (a partire dal 1771), di un progetto (non portato a compimento) volto alla
pubblicazione di una storia dell’arte milanese attraverso le biografie degli
artefici locali (si veda la recensione a Antonio
Francesco Albuzzi, Memorie per servire alla storia de’ pittori, scultori e
architetti milanesi, a cura di Stefano Bruzzese). Per la corte d’Asburgo –
del resto – il testo dello studioso tedesco ha già assunto valore identitario,
tanto che le autorità hanno disposto la pubblicazione della seconda edizione
tedesca a Vienna nel 1776. “La traduzione
[del 1779 a Milano] contribuisce … a
rafforzare il mito italiano della sovrana asburgica, considerata da molti
intellettuali lombardi come la principale sostenitrice della stretta
collaborazione tra potere e cultura” [1].
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Fig. 3) Uno scudo milanese del 1779 con l'iimmagine di Maria Teresa |
“L’importanza
dell’edizione milanese del 1779 sta nella completezza mai raggiunta da quelle
precedenti. È un elemento ribadito da un appunto manoscritto di [Carlo] Amoretti, [traduttore e curatore
dell’edizione], in cui si sottolinea che
la tipografia è costituita su «insinuazione» del Governo, e che le aggiunte «potrebbero rendere l’edizione
italiana superiore a quella tedesca». L’intenzione, specie attraverso le immagini, è anche quella di
ampliare il parterre dei lettori. Il successo dell’edizione viene testimoniato dalle due
medaglie d’oro che Maria Teresa, tramite il Firmian, fa recapitare ai
responsabili editoriali” [2].
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Fig. 4) Domenico Aspari (1746-1831), Veduta del Teatro alla Scala, 1790 |
La mostra documenta come, attorno alla
pubblicazione nel 1779 della Storia
(che in realtà fu molto più di una traduzione), si sia raccolto uno
straordinario consenso, che vide le autorità austriache locali, primo fra tutto
Karl Joseph von Firmian (1716–1782), cooperare con il fior fiore della nobiltà
e dell’alta borghesia cittadina. Il catalogo ci conduce attraverso la lista dei
66 sostenitori milanesi dell’opera (ovvero dei sottoscrittori che ne
garantirono l’acquisto prima che uscisse) mettendo in evidenza che è l’intera
Milano illuminista a sostenere il progetto, con un entusiasmo che, a occhi
odierni, ha il senso di un’antica solidarietà di spirito all’interno di una
comunità coesa. “Il solo elenco parziale
dei cognomi lascia intendere l’importanza che la città conferì all’impresa
editoriale degli anni 1778-1779, anni in cui la Milano dell’Illuminismo cambiò
volto. Tralasciando le famiglie di Bergamo, Brescia, Como e Pavia, che pure
sottoscrissero l’opera, i milanesi hanno cognomi come d’Adda, Beccaria,
Bianconi, Biumi, Bossi, Carcano, Carli, Carpani, Dugnani, Franchi, Frisi, Litta
Visconti, Secchi Comneno, Stampa, Trivulzio, Verri, Visconti, Wilczek… A essi
vanno aggiunte le sottoscrizioni del clero secolare e delle congregazioni religiose.
In sostanza, fu una mobilitazione dell’élite. Alcuni di questi sottoscrittori
insegnarono anche a Brera (oppure alle Scuole Palatine o all’Ambrosiana); di
altri si vedono ancora i busti nel cortile di Brera” [3]. Una volta
pubblicata, la Storia – come vedremo
- raccolse molti consensi, ma anche severe critiche, sia in Italia sia nel
mondo di lingua tedesca.
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Fig. 5) Il primo tomo della Storia delle arti del disegno presso gli antichi (1779) |
Consideriamo di seguito i saggi più
interessanti contenuti nel catalogo.
Pierluigi Panza
Figure milanesi per i trecento anni di Winckelmann
Pierluigi Panza (1963-), professore di estetica
al Politecnico di Milano, da tempo collaboratore del Corriere della Sera e
autore di numerosi saggi su Piranesi, sulla storia dell’architettura e
sull’arte contemporanea, introduce in questo saggio le figure delle personalità milanesi (non necessariamente per nascita, ma comunque residenti o gravitanti
attorno alla città) che entrarono in relazione con Winckelmann. Alcune di queste
(il Cardinale Alberigo Archinto, Carlo Bianconi, il conte di Firmian) lo
conobbero mentre era in vita; altre, come Carlo Amoretti e Gaetano Cattaneo,
ebbero comunque a che fare con la traduzione della sua Storia.
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Fig. 6) Anton Raphael Mengs (1728 –1779), Ritratto del Cardinal Alberto Archinto, 1756 |
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Fig. 7) Giuseppe Franchi (1731-1806), Bassorilievo con ritratto del conte Carlo di Firmian, particolare del monumento a Carlo di Firmian, Milano, Chiesa di San Bartolomeo, 1783 |
Il Cardinale Alberto Archinto (1698-1758) conobbe
Winckelmann a Dresda. Proveniva da Milano, dove fu abate di Santa Maria in
Brera. Fu lui a favorire la sua conversione al cattolicesimo (come aveva del
resto fatto, negli anni immediatamente precedenti, la casa di Sassonia per
legittimare la sua fusione con quella di Polonia) e a spingerlo a compiere il
viaggio a Roma. Carlo Bianconi (1732– 1802), pittore e, soprattutto,
segretario perpetuo dell’Accademia delle Belle Arti di Brera, era il fratello
di quel Giovanni Ludovico, medico bolognese, che tanta parta ebbe nella diffusione della cultura italiana alla Corte di Augusto III a Dresda, e fu
amico, corrispondente e sostenitore di Winckelmann anche quando entrambi si
ritrovarono a Roma.
Karl Joseph von Firmian (in italiano ‘di Firmian’), oltre a essere egli stesso
conoscitore e collezionista d’antichità (ebbe una collezione che Panza
definisce “sterminata” [4], e il cui catalogo d’asta fu preparato proprio da Carlo
Bianconi) fu ambasciatore d’Austria a Napoli e lì conobbe Winckelmann; poi
divenne plenipotenziario per la Lombardia della casa reale d’Asburgo a Milano.
Fu Winckelmann a raccomandare a von Firmian l’assunzione di Martin Knoller
(1725-1804) come pittore di corte prima e come professore di disegno poi. In
maniera non difforme da altri rapporti amicali dell’erudito tedesco, anche i
rapporti personali con Firmian andarono guastandosi col passare degli anni:
il casus belli, nello specifico, pare essere stata la dedica a von Brühl e non
a Firmian della sua Lettera sulle scoperte
di Ercolano (1762). Ciò non toglie che, quando fu varato il progetto di
traduzione della Storia di Winckelmann, Firmian fornì ai curatori dell’edizione
milanese molti materiali della sua collezione, da cui ricavare nuove incisioni.
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Fig. 8) Philipp Frey (1729 -1793), Ritratto di Karl Joseph von Firmian, 1781, da un dipinto di Martin Knoller |
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Fig. 9) Martin Knoller (1725 –1804), Autoritratto, 1803 |
L’abate Carlo Amoretti (lo si è già detto)
tradusse il testo di Winckelmann e ne curò la pubblicazione intitolandolo Storia dell’Arte del Disegno presso gli
Antichi. Il Conte Gaetano Cattaneo (1771-1841) cugino di Carlo Cattaneo
(1801-1869) fu grande conoscitore in fatto di monete e gemme antiche e molto
scrisse su Winckelmann; di lui sappiamo anche che possedeva edizioni rare di numerose
sue opere.
Stefano Ferrari
La prima traduzione della Geschichte der Kunst des Alterthums: vicende editoriali e ricezione critica
Abbiamo già incontrato Stefano Ferrari
(1958-) come curatore del catalogo della mostra su Winckelmann tenutasi a Chiasso e Napoli.
Ferrari è autore di numerose monografie e articoli sulle traduzioni e sul
transfert culturale degli scritti di Winckelmann [5] e a lui è stato affidato
il capitolo dedicato allo stile della scrittura di Winckelmann, nel recente manuale sullo
studioso tedesco, pubblicato in Germania in occasione dell’anniversario [6].
L’edizione viennese – scrive Ferrari – è
dovuta a due illuministi: Joseph von Sonnenfels (1732–1817) e Friedrich Justus
Riedel (1742-1785). Del primo, famoso soprattutto per uno scritto
sull’abolizione della tortura, va evidenziata l’immediata prossimità culturale
con Cesare Beccaria (1738-1794) (famoso in tutto il mondo per il suo Dei
delitti e delle pene del 1764) e con Pietro Verri (1728-1797) (anch’egli
sottoscrittore della versione italiana della Storia e autore delle Osservazioni
sulla tortura del 1777). Il secondo era professore di estetica.
Uomini di grande vedute, von Sonnenfels e Riedel
si rivelarono però pessimi curatori dell’edizione viennese della Geschichte di Winckelmann, che venne
unanimemente considerata un fallimento critico. Poco dopo la pubblicazione
dell’opera – non a caso - cominciò a circolare una memoria anonima (Flüchtige Erinnerungen gegen die neue
wienerische Auflage von Winkelmanns [sic] Geschichte der Kunst im J. 1776 – ovvero Memorie fugaci contro la nuova edizione viennese della Storia dell’arte
di Winckelmann) che elencava tutti gli errori dell’edizione viennese. Non
volendo ammettere pubblicamente lo smacco, ma dovendo correre ai ripari, la corte
imperiale decise allora di ricorrere a una traduzione stampata da una
tipografia imperiale, ma non in tedesco bensì in una lingua, l’italiano, allora
ancora molto conosciuta e che dunque poteva servire agli studiosi dell’impero
per avere una corretta visione dell’opera: “Viene
scelta la capitale lombarda perché è il più importante centro intellettuale e
tipografico dei possedimenti austriaci in Italia. La nuova versione deve
inoltre essere stampata all’interno dei confini della monarchia asburgica, affinché
la corona imperiale la possa ostentare a supporto della propria politica
culturale” [7].
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Fig. 13) Joseph von Sonnenfels, Sull'abolizione della tortura, Zurich, 1775 |
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Fig. 14) Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Seconda edizione rivista, pubblicata a Livorno (ma con indicazione 'Londra') nel 1774 |
Ferrari continua: “La traduzione viene affidata … [all’abate Carlo] Amoretti, il quale era in possesso non solo
di ottime conoscenze nel campo dell’antiquaria e dell’arte antica (…) ma anche
di eccellenti componenti linguistiche. L’abate di origine ligure era già
diventato da alcuni anni un apprezzato traduttore dal tedesco. (…) Nel 1776 egli aveva fatto stampare a Milano,
presso il tipografo Giuseppe Galeazzi, la traduzione dell’opuscolo di Joseph
von Sonnefels, Su l’abolizione della tortura, ricavato dall’originale tedesco apparso l’anno precedente a Zurigo. La
versione ebbe la piena approvazione dello stesso autore austriaco, il quale non
solo apprezzò il rispetto del testo originale, evitando di migliorarlo «con una
libertà alla francese», ma riconobbe anche al traduttore italiano una tale padronanza
della lingua tedesca «che un giorno sarà in grado di far conoscere ai suoi
compatrioti i nostri migliori scrittori»” [8].
Vi è, insomma, in quegli anni, un impressionante incrocio d’interessi tra
storia dell’arte e diritti dell’uomo (von Sonnefels è curatore a Vienna di
Winckelmann e schierato contro la tortura, Amoretti traduce in italiano a
Milano Winckelmann e il saggio di von Sonnefels contro la tortura), che oggi è
persino difficile da comprendere. Scrivere in modo critico sulla storia
dell’arte è visto come esercizio di indipendenza culturale che ha il suo
parallelo nella ribellione contro l’uso arbitrario del potere. Ciò non
significa, ovviamente, identità di vedute in materia artistica: Verri – uno dei
maggiori sostenitori dei diritti dell’uomo di fronte alla giustizia in quegli
anni – sarà sì sottoscrittore della Storia
di Winckelmann, ma anche uno di coloro che più contesteranno il suo metodo
storiografico.
Le autorità di Vienna non volevano
rischiare un altro buco nell’acqua e per questo motivo fornirono ad Amoretti
sia la già menzionata memoria anonima che elencava gli errori dell’edizione
viennese sia una traduzione manoscritta in francese (ancora inedita). In queste
circostanze d’eccezionale sostegno pubblico, Amoretti decise che l’edizione
italiana della Geschichte sarebbe stata molto più di una semplice traduzione.
L’obiettivo principale era quello di rendere chiaro il testo di Winckelmann,
sottoponendolo a una valutazione di coerenza e correggendolo dove necessario. “Per dare alla nuova traduzione un solido
impianto critico e iconografico” [9] Amoretti si avvalse di due assistenti
(altri due abati), Angelo Fumagalli (1728–1804) e Carlo Giovanni Venini (data
di nascita e morte sconosciute). “Il
lavoro di Amoretti e dei suoi aiutanti non si limita… solo a predisporre un
ampio e rinnovato dispositivo di note che spieghi ai lettori gli errori in cui
Winckelmann è incorso, prodotti magari da una cattiva interpretazione
filologica da parte dei curatori viennesi, ma che illustri anche in qual modo
ci si deve avvicinare correttamente ad alcuni degli snodi teorici più
importanti presenti nel capolavoro dello storico dell’arte prussiano. È in
quest’ottica che nella nuova edizione milanese l’opera critica di Christian
Gottlob Heyne [1729–1812] viene
chiamata a fornire delle spiegazioni sui passaggi più controversi della
Geschichte der Kunst. Non solo vengono
riassunti in alcune estese note i giudizi contenuti nella Sammlung antiquarischer
Aufsätze [n.d.r. Raccolta dei saggi sull’antichità, testo fondamentale di
Heyne], ma soprattutto viene tradotta
integralmente la Lobschrift auf Winckelmann [Scritto in lode di
Winckelmann] (Lipsia 1778), premessa al
testo della Storia delle Arti del Disegno. In tal modo, attraverso la versione di Amoretti, il pubblico italiano
è in grado di conoscere molto prima, rispetto agli altri paesi europei, gli
scritti di uno dei più apprezzati studiosi di filologia e antiquaria tedeschi
contemporanei” [10].
L’edizione milanese riscuote successo.
Angelo Fabroni, nel suo Giornale de’
Letterati di Pisa, scrive: “Non
anderebbe errato, chi giudicasse, che con questo libro ha fatto il Winckelmann
a pro dell’arti quello che Montesquieu ha fatto per lo studio delle leggi, e
Descartes per quello della filosofia” [11]. Non mancano tuttavia le voci
dissonanti; fra queste è d’obbligo ricordare Pietro Verri e il diplomatico e
collezionista spagnolo José Nicolás de Azara (1730-1804). Per Nicolás de Azara
Winckelmann aveva in gran parte copiato e storpiato Mengs; quanto a Pietro
Verri “in due lettere del 22 e del 26
gennaio 1780 al fratello Alessandro, egli manifesta tutta la sua ostilità verso
gli obiettivi della buona disciplina creata dallo studioso tedesco. Per lui non
solo il giudizio artistico dipende esclusivamente dalla «sensibilità di
ciascuno», ma
esso deve essere soprattutto sgombro da qualsiasi preoccupazione di tipo
filologico o antiquario. Egli non comprende affatto l’assillo manifestato da
Heyne di stabilire l’autenticità di un monumento antico, l’età cui appartiene e
se sia «stato risarcito o restaurato»” [12].
Per quanto riguarda il mondo tedesco, si
deve ricordare la reazione di Christian Felix Weiße. Siamo nel 1781 e il
commento è assolutamente negativo (si denuncia il ritardo della cultura
italiana nella scoperta dei pregi di Winckelmann, l’esiguo numero dei sottoscrittori
dell’opera, la cattiva scelta dei riferimenti nella dottrina filologica
tedesca, la traduzione italiana elegante, ma non fedele). Del tutto opposta la
recensione di Heyne, sempre del 1781, secondo cui l’opera (in cui del resto era
abbondantemente presente, come appena visto) era del tutto degna di Winckelmann
e aveva grandi pregi di praticità, soprattutto per quel che riguarda
illustrazioni e note, compresa la segnalazione di nuovi ritrovamenti di reperti
antichi.
Silvia Morgana
Un milanese d'adozione: Carlo Amoretti
Un milanese d'adozione: Carlo Amoretti
Carlo Amoretti, si trasferisce nel 1772 a
Milano da Parma, dove insegna diritto canonico, quando Maria Amalia, Duchessa
di Parma e figlia di Maria Teresa, decide di concludere frettolosamente la fase
di governo illuminata sotto il primo ministro Guillaume du Tillot (1711-1774) e
licenzia tutti i professori riformisti. A Milano il governo di Maria Teresa è
molto lontano dagli eccessi parmensi della figlia e persegue invece una
politica riformatrice. Poliglotta, Amoretti decide a Milano di dedicarsi al
tedesco, divenendo presto un richiesto traduttore. Si applica anche al
giornalismo di alta divulgazione scientifica e nel 1780 ottiene “la carica di segretario perpetuo della
Società Patriotica [sic] (istituita
nel 1776 da Maria Teresa per promuovere l’agricoltura, le buone arti e le
manifatture)” [13]. Grazie alle lingue diviene corrispondente di agronomi di
tutt’Europa e pubblica molti saggi d’agricoltura. A essi si affiancano studi
sulla storia dell’arte (si pensi a quelli dedicati a Leonardo).
Durante il periodo napoleonico Amoretti
perde l’impiego (la Società Patriotica viene chiusa) e si dedica in privato
alla redazione di diversi studi di carattere divulgativo. Conduce poi una serie
di viaggi in Italia, che continua fino alla fine dei suoi giorni e che
documenta in una serie di memorie. Nell’ultima parte della sua vita riesce
prima a rientrare nei favori delle autorità francesi e poi a ottenere un
incarico come funzionario delle miniere dopo la restaurazione austriaca. Muore
a settantacinque anni a Milano, dopo essere appena ritornato da uno dei suoi
viaggi per conoscere e testare nuove tecniche agrarie in Lombardia.
Pierluigi Panza
Sottoscrittori e collezionisti: Milano e la Storia delle Arti del Disegno presso gli Antichi
Sottoscrittori e collezionisti: Milano e la Storia delle Arti del Disegno presso gli Antichi
Il ricchissimo articolo di Pierluigi Panza
spiega come, pur essendo la pubblicazione a cura di una stamperia imperiale, e
dunque di un’istituzione pubblica, la Storia
venga finanziata attraverso un sistema di credito da parte dei futuri
acquirenti dell’opera, che anticipano i fondi all’editore grazie ad una
sottoscrizione preventiva. In cambio, i sottoscrittori hanno diritto a uno
sconto sull’opera del 25%. Vi sono 114 sottoscrittori, 66 dei quali provengono
da Milano.
Si tratta di un meccanismo molto diffuso in
quei tempi. Nel caso della Storia, i
sottoscrittori possono essere individui (in questo caso, comprano una copia) o
imprese (i librai, che possono comprare anche più di dieci copie per poi
rivenderle).
Panza cataloga i sottoscrittori in quattro
gruppi:
(i) Personalità legate a Brera ed
alla Società Patriottica;
(ii) Personalità legate alla
Biblioteca Ambrosiana;
(iii) Esponenti di grandi famiglie;
(iv) Librai.
Il saggio di Panza, quantunque molto
interessante per chiunque voglia comprendere il substrato sociale che sorregge
il neoclassicismo milanese sotto il governo asburgico, va al di là dello scopo
di questo blog. Testimonia comunque come il fior fiore della società milanese
si sia mobilitata a supporto del progetto della traduzione e offre un’immagine
precisa e dettagliata della rete di rapporti tra buona parte dei 66
sottoscrittori. Tra loro, Panza dedica spazio soprattutto al già citato Carlo
Bianconi, agli artisti Domenico Aspari (incisore) e Giuseppe Franchi (scultore)
di cui abbiamo mostrato alcune opere nelle illustrazioni di questo post, e al
ricco collezionista Carlo Trivulzio (1715-1789), cui appartengono alcuni
reperti la cui riproduzione è incisa nella Storia:
fra di essi, vi è la famosa Diàtreta
Trivulzio, una coppa romana in vetro – racchiusa da una rete di anelli di
vetro – con una scritta in lettere di vetro verde, oggi custodita al Museo
Archeologico di Milano.
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Fig. 20) La Diàtreta Trivulzio, IV secolo a.C. L'originale, oggi al Museo Archeologico di Milano, e l'incisione nella Storia delle arti del disegno presso gli antichi del 1779 |
Elena Agazzi
Luigi Bossi in dialogo con Winckelmann. Studi antiquari e scienze naturali al tramonto del XVIII secolo
Luigi Bossi in dialogo con Winckelmann. Studi antiquari e scienze naturali al tramonto del XVIII secolo
Elena Agazzi dedica un breve saggio a Luigi
Bossi (1758-1835), un personaggio che l’autrice stessa definisce misterioso per
i suoi contatti col mondo politico dell’epoca, ma di cui considera in
particolare l’attività di studioso e cultore di antichità classiche. Il tema
principale è l’opera Spiegazione Di Una
Raccolta Di Gemme: Incise Dagli Antichi Con Osservazioni Risguardanti La
Religione, I Costumi, E La Storia Dell'arte Degli Antichi Popoli del 1795.
Come si è già visto a proposito del catalogo della mostra dedicata a Winckelmann a Firenze,
quello delle gemme è un territorio già occupato da eminenti studiosi, sin dagli
anni del barone Philipp von Stosch (1691-1757). Bossi entra in questo campo
dimostrando “una sempre più spiccata
attenzione per una costellazione di simboli e allegorie tipica del gusto
romantico, confrontandosi particolarmente su soggetti chimerici e fantastici”
[14]. È del resto questa la passione dell’erudito milanese, che nel 1791
pubblica uno studio Dei basilischi,
dragoni ed altri animali creduti favolosi.
Sarebbe però sbagliato credere che Bossi
sia semplicemente un credulone vittima di superstizioni. Semplicemente ha
criteri storiografici diversi da quelli di Winckelmann. Se lo studioso tedesco
fa derivare il grado di progresso di una civiltà dal modo in cui essa si
avvicina alla descrizione del bello nella raffigurazione dei corpi, per
l’erudito milanese invece quel che conta è la conoscenza tecnico-scientifica di
una civiltà, e, in particolare, la sua conoscenza delle scienze naturali. Se
dunque per Winckelmann la civiltà persiana è primitiva (perché le pieghe dei
vestiti nei bassorilievi sono rappresentate sempre in forma rigorosamente
perpendicolare), per Bossi si tratta invece di un mondo altamente civilizzato
(si pensi all’apprezzamento per le nozioni di astronomia che si celano dietro
alle pratiche di magia dei persiani [15]). È in questa prospettiva che si può
comprendere la difesa ad oltranza delle civiltà più antiche, come quella
egizia, e delle culture italiche preromane. Bossi non è affatto intimidito
dalla fama di Johann Joachim, e, anzi, non esita a pubblicare nel suo libro una
serie di “avvertenze contro il sign.
Winckelmann” [16], alcune delle quali fattualmente corrette.
Francesca Tasso
Cattaneo vs Winckelmann, intorno al Grande cameo di Vienna
Cattaneo vs Winckelmann, intorno al Grande cameo di Vienna
Si è già detto che il Cattaneo rilevante
per comprendere la fortuna dell’edizione italiana della Storia di Winckelmann non è il famoso Carlo, ma il cugino Gaetano
(nato nel 1771 e dunque più vecchio di lui di trent’anni). Disegnatore, artista
e storico dell’arte, Gaetano si guadagna da vivere come conservatore del
gabinetto numismatico di Brera, dove è prima assunto come disegnatore e poi fa
carriera fino ad assumere il compito di primo direttore della Zecca di Milano.
Nella cultura milanese, si distingue come amico molto stretto di Carlo Porta
(1775-1821), Giuseppe Bossi (1777-1815) e soprattutto Alessandro Manzoni
(1785-1873).
Cattaneo si dedica nel 1812 ad un Dialogo sul gran Cammeo del Museo Imperiale
di Vienna con una tavola di medaglie (testo rimasto manoscritto). Gli attori
del dialogo fittizio sono un filosofo (studioso di Gianbattista Vico e Immanuel Kant) e uno studioso di gemme. Cattaneo li fa discutere in merito al
famoso cammeo augusteo di Vienna, cogliendo l’occasione per affermare che i
metodi di studio della glittica, raffinati da Winckelmann, dovrebbero
applicarsi anche alla numismatica, ma anche per contestare violentemente le
metodologie di Winckelmann, Mariette e D’Agincourt in nome di considerazioni stilistiche
abbastanza miopi. Tutto sommato - scrive l’autrice - la sua è una prova di provincialismo.
Il catalogo ospita infine due saggi sulla
vita e l’opera di Winckelmann al di fuori di Milano:
Marco
Dezzi Bardeschi
Il primo Winckelmann da Dresda a Firenze: nascita di un
iconologo strutturalista
Paolo
Mascilli Migliorini,
Diventare Winckelmann, da Nöthnitz all’Italia: l’ascesa di
un bibliotecario
NOTE
[2] Winckelmann a Milano ... (citato), p.15
[3] Winckelmann a Milano ... (citato), p.15
[4] Winckelmann a Milano ... (citato), p.16
[5] Di Stefano Ferrari sono stati pubblicati, fra l’altro “ll rifugiato e l’antiquario. Fortunato Bartolomeo De Felice e il transfert italo-elvetico di Winckelmann nel secondo Settecento”, Rovereto, Osiride, 2008, 116 pagine, e “Il piacere di tradurre. François- Vincent Toussaint e la versione incompiuta dell’Histoire de l’art chez les Anciens di Winckelmann”, Rovereto, Osiride, 2011, 276 pagine.
[6] Winckelmann-Handbuch. Leben - Werk – Wirkung. A cura di Martin Disselkamp e Fausto Testa, Stoccarda, J.B. Metzler, 2017
[7] Winckelmann a Milano ... (citato), p.23
[8] Winckelmann a Milano ... (citato), p.24
[9] Winckelmann a Milano ... (citato), p.25
[10] Winckelmann a Milano ... (citato), p.24
[11] Winckelmann a Milano ... (citato), p.27
[12] Winckelmann a Milano ... (citato), pp.26-27
[13] Winckelmann a Milano ... (citato), p.38
[14] Winckelmann a Milano ... (citato), p.63
[15] Winckelmann a Milano ... (citato), pp. 66-67
[16] Winckelmann a Milano ... (citato), p.72
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