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lunedì 23 aprile 2018

Carlo Vecce. La biblioteca perduta. I libri di Leonardo.


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Carlo Vecce
La biblioteca perduta. I libri di Leonardo


Roma, Salerno editrice, 2017

Recensione di Giovanni Mazzaferro





La biblioteca di un “omo sanza lettere”

Quella di Leonardo (1452-1519) – si sa - è una biblioteca perduta. Di tutti i libri che possedette (o, comunque, che ebbe modo di leggere) resta solo il manoscritto della prima redazione del Trattato di architettura di Francesco di Giorgio Martini, il codice Laurenziano Ashburnhamiano 361, oggi conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, su cui l’artista, in un periodo compreso fra 1502 e 1504 appose complessivamente dodici fra postille e segni grafici. La prima domanda che sporge spontanea è, quindi, che senso abbia questo libro. A maggior ragione l’interrogativo si pone quando si torna con la mente ad alcune affermazioni che Leonardo scrive nei suoi codici, prima fra tutte quella di essere “omo sanza lettere”; circostanza di cui l’artista è consapevole, ma a cui contrappone il primato dell’ “esperienza”: “So bene che, per non essere io litterato, che alcuno prosuntuoso gli parrà ragionevolmente potermi biasimare coll’allegare io essere omo sanza lettere […]. Diranno, che per non avere io lettere, non potere ben dire quello di che voglio trattare. Or non sanno questi che le mie cose son più da essere tratte dalla sperienzia, che dall’altrui parola; la quale fu maestra di chi bene scrisse, e così per maestra la piglio e quella in tutt’i casi allegherò” (p. 124).  

“Omo sanza lettere”, in realtà, è un’espressione fraintesa in un determinato periodo storico (l’Ottocento) e che continua a esserlo nell’immaginario collettivo di tutti coloro che pensano a Leonardo in termini di genio: non un uomo, ma un supereroe calato da un altro pianeta, che ha inventato tutto e per di più ci ha lasciato messaggi esoterici. Un uomo che non ha bisogno di leggere i libri, perché sa già tutto. Lo scopo principale di quest'opera (scritta, non lo si dimentichi, da Carlo Vecce, ovvero da uno dei più grandi esperti viventi dell’artista) è dimostrare che Leonardo era un uomo come tutti, viveva in un contesto e aveva una cultura di cui i suoi libri (la sua biblioteca) sono espressione. Già? Ma quali libri lesse? Per nostra fortuna Leonardo, nei suoi codici, scriveva tutto: lo scriveva alla rovescia, e in maniera disordinata, ma davvero lasciava tracce di ogni cosa che faceva. Proprio nei codici compaiono elenchi di libri letti e da leggere (ma anche di cui entrare in possesso in maniera poco ortodossa); naturalmente, poi, i contenuti dei manoscritti vinciani, a un’analisi attenta (quanto faticosa), consentono di capire quali fossero le fonti di Leonardo e a quali libri stesse pensando mentre scriveva. Si tratta di mettere tutto insieme, in un esercizio che si dimostra affascinante, per ricostruire il bagaglio culturale di un uomo che, sostanzialmente da autodidatta, si pose il problema del confronto con gli autori (con gli “altori”, come li chiamava lui), decidendo di divenire “altore” a sua volta.

Ma non vi è dubbio che Leonardo fu “uomo di lettere”. In un foglio del codice di Madrid II (risalente grosso modo al 1503, ovvero a 16 anni prima della morte) Leonardo elenca 166 libri contenuti in un cassone di sua proprietà custodito probabilmente in quel momento al convento della Santissima Annunziata di Firenze (l’elenco è in appendice alle pagine 198-200). Sia chiaro: quando parliamo di biblioteca leonardesca dobbiamo farlo in senso lato, ovvero tenendo conto sia dei taccuini che scrisse (una cinquantina di quei 166 titoli, più della metà andata perduta). sia dei manoscritti. sia dei libri a stampa veri e propri. Ma dobbiamo tenere a mente, innanzi tutto, che, definendosi “omo sanza lettere” l’uomo indicava la circostanza di non aver potuto studiare il latino da giovane, e, dunque di non far parte della cerchia degli umanisti; un handicap che cercò di recuperare per tutta la vita, comprando grammatiche (alcune delle quali comprese nei 166 libri sopra indicati), facendo esercizi, ma, in sostanza, non riuscendo mai a impadronirsi pienamente della lingua.

Leonardo da Vinci, Annunciazione, 1472-75, Firenze, Galleria degli Uffizi
Fonte: Google Art Project tramite Wikimedia Commons

Leonardo e il rapporto con gli "altori"

Ci sono alcune pagine fondamentali nel libro di Vecce, da cui è bene partire. Qual è il rapporto di Leonardo con gli "altori" (ovvero con coloro che hanno scritto i libri che legge)? La prima cosa da notare è che “con scarto fonetico tipicamente fiorentino” (p. 123), gli autori diventano altori, “parola che suggerisce anche l’idea di padre, parente, generatore, per la falsa etimologia dal latino alere (‘donare la vita, il nutrimento). […] L’altore è padre, creatore, produttore e “allevatore” non solo delle sue creature di primo grado (i testi, i libri, le opere), ma anche di coloro che leggono quei testi, e ne traggono nutrimento spirituale e intellettivo” (ibidem). Se l’altore è padre, il lettore è figlio. Ma (mi permetto di continuare il parallelo di Vecce) non un bambino che pensa che tutto quello che fa il padre sia perfetto, e nemmeno un figlio adolescente, che ne mette in discussione qualsiasi azione, rifiutandola per partito preso. Un figlio adulto, consapevole di quanto di buono gli ha insegnato il padre, ma anche delle sue debolezze, che, nel caso di Leonardo, sono riscontrate tenendo presente che c’è una sola madre, la Natura, e che per conoscerla bisogna ricorrere all’esperienza: “Di fronte a questi lontani “padri” che sono gli altori antichi, non conosciuti nei loro testi originali, Leonardo rivendica però il diritto di guidare in modo indipendente e autonomo la propria formazione intellettuale, rivolgendosi direttamente all’unica e vera altrice e madre (sua e dell’umanità), la maggiore maestra, la Natura, e ai suoi insegnamenti, attinti per mezzo della sperienzia, cioè dell’esperienza diretta dei fenomeni naturali. È un atteggiamento che ci colloca nel cuore della rivoluzione culturale che apre la modernità, con il superamento del principio di autorità, dominante fino ad allora in una civiltà basata sulla tradizione della scrittura e del libro” (pp. 123-124). A ben vedere, i veri bersagli della critica leonardesca non sono gli altori antichi, ma quelli moderni che pretendono di rileggerli senza verificarne la correttezza sulla base dell’esperienza. A fare eccezione sono in pochissimi: uno di questi è, ovviamente, Leon Battista Alberti, il cui De re aedificatoria l’artista studia con enorme fatica, nell’edizione (latina) del 1485, ponendone a confronto la terminologia con quella del De architectura di Vitruvio (anch’essa in latino), curata da Sulpicio nel 1486 (si veda p. 97).

Leonardo da Vinci, Dama con l'ermellino, 1485, Cracovia, Museo Czartoryski
Fonte: Frank Zöllner (2000). Leonardo da Vinci, 1452-1519. Taschen. ISBN 38-22859-79-6 tramite Wikimedia Commons


I primi libri di Leonardo

Quali sono i primi libri letti da Leonardo? Il primo che cita in un manoscritto è un libro “di Michele di Francesco Barberini e di sua discendenzia”. Siamo attorno al 1478. E qui dobbiamo subito fare una precisazione. In un mondo in cui i libri sono ancora, in maggior parte, manoscritti, e quindi oggetti individuali, frutto di trascrizione a mano di esemplari precedenti, gli stessi si identificano con il nome dei loro proprietari. Non è assolutamente raro trovare nei codici di Leonardo l’indicazione di tali nomi al posto (o in compagnia) dei titoli dei medesimi. È evidente che tutto ciò comporta per noi un problema interpretativo che non sempre è possibile risolvere in maniera univoca. Nel caso del libro di Michele di Francesco Barberini la nota è preceduta da stralci del contenuto dell’opera: si tratta di testi tratti dalle Metamorfosi di Ovidio, “nel volgarizzamento di Arrigo de’ Simintendi da Prato (ca. 1330), disponibile in un’ampia tradizione manoscritta di area toscana” (p. 154). Con la sua storia delle origini del mondo, la sua narrazione dello sviluppo e del succedersi delle età dello stesso, Ovidio è “il grande libro della natura per il giovane Leonardo a Firenze negli anni Settanta” (p. 156). Non l’unico: c’è, ad esempio, quella grande opera enciclopedica dell’antichità costituita dall’Historia Naturalis di Plinio, che Leonardo legge nella traduzione di Cristoforo Landino, pubblicata a Venezia nel 1476. Ancora una volta Plinio si conferma uno dei grandi testi che attraversano il Medio Evo e riscuotono l’interesse non solo degli umanisti, ma anche di chi, come l’artista, cerca notizie sulla cosmologia, la zoologia, la botanica e (naturalmente) sulla storia della pittura antica. Assieme agli altori antichi, poi, compare naturalmente la grande letteratura toscana: Dante, Petrarca, Boccaccio. Dante, in particolare, è consultato non solo per la sua valenza letteraria, ma anche per le implicazioni cosmologiche della Commedia. Non secondario è l’influsso del Convivio.

Leonardo, La Belle Ferronière, 1495-99, Parigi, Museo del Louvre
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

Da lettore ad altore

Quando Leonardo decide di diventare altore si trova a Milano. Siamo fra il 1485 e il 1490. Il suo scopo è descrivere la natura attraverso la scienza e l’esperienza. Come vada a finire, è cosa ben nota. Non pubblicherà mai nulla. Il testo che più si avvicina a una sistemazione organica del suo pensiero è il Libro di pittura (che è tuttavia frutto di una risistemazione degli scritti leonardeschi ad opera del discepolo prediletto Francesco Melzi dopo la sua morte). Il codice, tuttavia, andrà ben presto perso e sarà recuperato solo a fine ‘800 nella Biblioteca Vaticana; ne verrà pubblicata una versione a stampa da un manoscritto apografo (e incompleto) nel 1651 a Parigi, e storicamente è dunque con quel testo incompleto che si confrontano i lettori. Tutto il resto, di fatto, sarà riscoperto a partire dalla fine del XIX secolo (la prima edizione antologica di scritti vinciani risale al 1883 ed è opera di Jean Paul Richter). Lo studio dei codici (o meglio, di quanti ce ne sono pervenuti, e nelle modalità in cui ci sono giunti, spesso oggetto di sconsiderate risistemazioni e di operazioni commerciali che li rendono incompleti, confusi, disordinati) rivela però, a giudizio di Vecce, una verità inconfutabile: il “rapporto ininterrotto con il mondo dei libri e della parola scritta (oltre che, naturalmente, di quella orale, spontaneamente avvicinata negli anni della prima formazione fiorentina, nella cultura popolare e artistica contemporanea)” (p. 17). Sicuramente Leonardo legge e studia molto. Qua e là, nelle sue note, siamo in grado di trovare tracce delle sue opere (o dei tentativi intrapresi per scriverle): “«a dì 2 d’aprile 1489 libro titolato de figura umana»; «a dì 23 aprile 1490 cominciai questo libro e ricominciai il cavallo [n.d.r. è il progetto per il monumento equestre, in bronzo, di Francesco Sforza]»” (p. 126). Fra i primi taccuini che scrive e che ci sono giunti rivestono una particolare importanza il Codice B e il Codice Trivulziano. Il Codice B (siamo attorno al 1487) è importante perché Leonardo giunge a Milano come esperto di questioni militari (e forse questa fama è, a quell’epoca, in qualche modo millantata) e vi si trovano sostanziali riferimenti al De re militari di Roberto Valturio, letto nel volgarizzamento del 1481 di Paolo Ramusio, ma riscontrato sull’edizione latina del 1472. È molto interessante quanto scrive Vecce in proposito: “Il De re militari, trattato attento, più che alle cose, alle parole, e alla lezione degli antichi, alla compilazione erudita di testi classici, interessa a Leonardo per motivi diversi dall’arte militare. Non è qui che egli imparerà le sconvolgenti novità della rivoluzione tecnologica che stanno mutando il modo di fare la guerra nel Quattrocento: ma è qui che invece cerca di colmare le sue lacune di cultura classica e umanistica, per apparire ai suoi contemporanei un «omo di lettere». Valturio gli si rivela una facile scorciatoia al vagheggiato e inattingibile mondo degli Antichi, Il suo libro è letteralmente saccheggiato per le citazioni di autori classici, che potranno tornare utili nella composizione di testi più retoricamente elaborati, proemi di trattati, lettere e così via” (p. 129).

Nel Trivulziano, invece, compare una prima brevissima lista di libri (sono in tutto cinque), probabilmente un promemoria per ricordarsi di consultarli (fra essi c’è anche Plinio, che pure doveva aver già letto). Ma il Trivulziano è caratterizzato soprattutto da una lunghissima lista di vocaboli (8079 lemmi ‘normalizzati’, che occupano in tutto 51 pagine) che per Vecce sono “documento fondamentale del modo di leggere di Leonardo, del suo rapporto con il libro, con il documento scritto, e con la lingua” (p. 133). Si tratta di un lavoro lessicografico che andrà forse a finire nel “libro di mia vocabuli”, ricordato nel codice di Madrid II e a oggi disperso (p. 139). Difficile dire dove Leonardo lesse quei vocaboli e quali siano stati i criteri di scelta dei medesimi (si tratta quasi sempre di termini astratti e non specialistici). Alcune cose, però, le sappiamo: e ancora una volta la fonte principale (più di 1000 lemmi) è Valturio; poi il novelliere Masuccio Salernitano, e ancora “un volgarizzamento del Liber facetiarum di Poggio Bracciolini stampato a Milano… intorno al 1483” (p. 140). “Punto d’arrivo del lavoro di Leonardo nel Trivulziano… era naturalmente il riordinamento alfabetico di tutti i vocaboli, e la formazione di un thesaurus di parole dotte, di lemmi ed espressioni distintive di una comunicazione “alta”” (p. 138).

Si tratta di un lavoro di arricchimento personale chiaramente finalizzato al divenire altore. Ma il grande cruccio di Leonardo è quello di non conoscere (o conoscere malissimo) il latino, circostanza che non gli permette l’accesso a testi non tradotti in volgare o, se tradotti, alle loro versioni originali. Sono frequenti nei codici gli esempi di traduzioni cominciate e poi abbandonate. Evidentemente insoddisfatto, l’artista “intraprende così, a quarantadue anni, la più commovente delle sue avventure intellettuali: un tentativo di autoapprendimento del latino, a partire da una diffusa grammatica del tempo, i Rudimenta grammatices di Niccolò Perotti. Nel 1494, tornato da Vigevano a Milano, può dedicarsi allo studio solitario (e faticoso) del latino, ricavando dal suo libro gli specchietti di coniugazione dei verbi e delle declinazioni. L’esercizio è difficile, e capita spesso di sbagliare o confondere la desinenza: in fondo a uno di questi fogli, il principiante «omo di lettere» è costretto ad appuntarsi un memo da seguire scrupolosamente: «pensa bene al fine [n.d.r. ovvero alla desinenza] / risguarda bene al fine»” (p. 141).

Leonardo, La Vergine delle rocce (prima versione), 1483-86, Parigi, Museo del Louvre
Fonte: gallerix.ru tramite Wikimedia Commons

Liste di libri e interessi che evolvono

Si è detto che, fra le carte di Leonardo, sono diverse le liste di libri (o di persone da contattare per consultarli) estese dall’artista. Le due più importanti sono forse quella del Codice Atlantico (attorno al 1494), 41 titoli in cui a prevalere sono i testi di letteratura e di linguistica, e i 166 del Codice di Madrid II, risalenti grosso modo al 1503, quando Leonardo si trova a Firenze. Né nell’uno né nell’altro caso si tratta di inventari, e quindi non si può parlare di elenchi esaustivi. Tuttavia una cosa appare evidente, ovvero l’esplosione, in dieci anni, degli interessi scientifici dell’artista. Del resto, se la natura può essere percepita solo tramite la scienza, appare logico che Leonardo si ponga alla caccia di tutto ciò che possa aiutare nella sua comprensione (salvo il riscontro dell’esperienza). Non è certo qui il caso di richiamare ogni singolo titolo, e ciò che per Leonardo può aver voluto dire il poterlo leggere. È compito che Vecce assolve in maniera magistrale e a cui, quindi, si rimanda [1]. Alcune tendenze, ad ogni modo, vanno ricordate. Subito dopo il suo primo (e più importante) spostamento (quello da Firenze a Milano), Leonardo si rende conto che, oltre al latino, ad essere carenti sono anche le sue conoscenze matematiche, un aspetto fondamentale per chi crede che anche la pittura, in quanto rivelatrice della natura, la debba descrivere sulle basi di solidi principi matematico-geometrici; compare quindi un filone di letture dedicate alle matematiche, fra cui la Summa de Arithmetica Geometria Proportioni et Proportionalità di Luca Pacioli (1494). Come noto, solo qualche mese dopo, Pacioli si trasferisce da Venezia a Milano e i due si conoscono; Leonardo ne diventa ‘allievo’ e continuerà a esserlo anche negli anni successivi, ad esempio a Firenze; Pacioli lo introdurrà alla comprensione di Euclide. Ma i codici ci consegnano anche un Leonardo a caccia dei manoscritti di algebra e fisica del pavese Giovanni Marliani, defunto qualche anno prima e la cui biblioteca era in odore di smembramento; o, ancora, lo vedono subire il fascino di Pitagora e di Archimede, i grandi sapienti dell’antichità, e in caccia del manoscritto di quest’ultimo posseduto da Pierodella Francesca (p. 90). All’indomani del saccheggio di Urbino da parte di Cesare Borgia (1502) Leonardo (che è al suo servizio) si impossessa di un non meglio definito “libro da Urbino matematico”. Ma discorsi ugualmente affascinanti potrebbero essere fatti per gli studi di ottica e prospettiva (con un importante contributo dei testi scientifici arabi), per i libri di meccanica (si è già accennato a Francesco di Giorgio), per quelli di cosmologia, tutte opere di impianto fondamentalmente aristotelico che Leonardo sottopone al vaglio dell’esperienza e che lo aiutano a comprendere i fenomeni dell’unica grande madre: la Natura.

Leonardo da Vinci, L'Ultima Cena, 1495-98, Milano, Cenacolo di Santa Maria delle Grazie
Fonte: Wikimedia Commons

La dispersione

Sappiamo così poco della biblioteca di Leonardo che nemmeno conosciamo gli esatti termini della sua dispersione. In base al testamento, tutti i libri di Leonardo andarono a Francesco Melzi. Col termine ‘libri’ pare logico presumere che si intendessero sia i codici di cui Leonardo fu autore sia i manoscritti altrui, gli incunaboli e le cinquecentine. Sappiamo che Melzi fu geloso custode dei codici del maestro fino alla sua morte (furono gli eredi di Francesco a comportarsi da sconsiderati), ma non è detto che lo stesso sia successo per i libri. Può anche darsi che Melzi sentisse un legame sentimentale meno stretto nei confronti di quei libri, che in fondo erano testimoni di una conoscenza aristotelica a lui probabilmente estranea. Fatto sta che, a oggi, a parte il manoscritto di Francesco di Giorgio (che Leonardo consultò, ma di cui non era in possesso alla sua morte) nessuna biblioteca ci ha restituito anche un solo libro che, in qualche modo, possa essere riconosciuto (per la celeberrima calligrafia da destra a sinistra o per altri segni di possesso) come appartenuto a Leonardo. Inutile dire che reperirne uno sarebbe il sogno di tutti i bibliofili del mondo.


In conclusione...

Non mancano, purtroppo, le gaffe. A proposito dei Ludi matematici di Leon Battista Alberti leggiamo che "L'Alberti ne aveva composto una redazione in volgare dedicata alla principessa Meliaduse d'Este" (p. 99). Meliaduse d'Este (1406-1452) era un uomo. 


NOTE

[1] Se un appunto si può muovere al libro è che, in esso, la biblioteca di Leonardo è indagata procedendo cronologicamente a ritroso, il che comporta, a volte, delle ripetizioni e, in ogni modo, il rischio di un effetto di spiazzamento che tende a disorientare il lettore.



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