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mercoledì 3 maggio 2017

Elizabeth Darrow. [Pietro Edwards: Il restauratore come 'philosophe'], The Burlington Magazine, aprile 2017


English Version

Elizabeth Darrow
Pietro Edwards: The restorer as 'philosophe'

[Pietro Edwards: il restauratore come 'philosophe']

Pubblicato in
The Burlington Magazine, aprile 2017 CLIX, pp. 308-317

Recensione di Giovanni Mazzaferro

La copertina del numero di aprile 2017 di The Burlington Magazine

Nell’ambito di una serie di contributi dedicati alla storia del restauro e dei suoi protagonisti (The Art of Conservation), The Burlington Magazine affida a Elizabeth Darrow il compito di scrivere di Pietro Edwards. Un compito ingrato, perché della biografia personale di questo veneziano di origini inglesi (la famiglia, di fede cattolica, si trasferì in Italia nel 1688 in seguito alla Gloriosa Rivoluzione) sappiamo pochissimo: il grosso delle carte private di Edwards (ad esempio tutta la corrispondenza) è andato perso e quanto si conserva oggi presso vari enti veneziani (soprattutto il Seminario Patriarcale) ha natura frammentaria. Edwards ci si presenta oggi come un personaggio sfuocato persino fisicamente: ci manca un suo qualsiasi ritratto (o autoritratto) sicché ognuno di noi se lo immagina con la sua fantasia.

Ben venga quindi il contributo di Elizabeth Darrow (che a Pietro Edwards ha già dedicato la sua tesi di PhD [1], soprattutto perché, oltre a richiamare elementi ormai molto noti (almeno fra gli addetti ai lavori, come l’impresa della Restaurazione generale dei quadri di pubblica proprietà della Repubblica di Venezia) ha il merito di richiamare due punti secondo me sottovalutati.

Francesco Albotto (in precedenza attribuito a Michele Marieschi), Campo Santi Giovanni e Paolo a Venezia. 1731 circa
Napolo, Museo Nazionale di Capodimonte.
Fonte: The Yorck Project tramite Wikimedia Commons

Una cultura di livello europeo

Innanzi tutto il fatto che Edwards fosse ampiamente aggiornato rispetto alla letteratura tecnica (e in particolare rispetto agli sviluppi della chimica) europea. Come fare a saperlo se, come noto, Edwards non pubblicò mai nulla? A testimonianza della sua cultura in materia sta l’enorme quantità di relazioni redatte per conto della Repubblica in quanto direttore del laboratorio di restauro presso la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo (o, per i veneziani, semplicemente, San Zanipolo). In questi testi, e in altri di natura più tecnica ma sempre redatti in forma di relazione alle pubbliche istituzioni, Edwards dimostra di conoscere gli scritti dei francesi Pierre-Joseph Macquer (1718-1784), Jacques François Demachy (1728-1803), Antoine Lavoisier (1743-1794), René Antoine Ferchault de Réaumur e Robert Picault, dei tedeschi Johannes Kunckel (1630-1703) e Georg Ernst Stahl (1659-1734), nonché dell’inglese Robert Boyle (1627-1691). Sicché la prima cosa che viene da dire è rammaricarsi della perdita della sua biblioteca personale. Non solo Edwards si dimostra aggiornato sulle esperienze straniere, ma stabilisce egli stesso nuovi standard per il restauro dei quadri, dimostrando capacità organizzative, ma prim’ancora progettuali, fuori dal comune e divenendo esempio per i tecnici di tutta Europa. I progressi conseguiti da Edwards partono da un’unica origine: l’esperienza acquisita di fronte alla necessità. È a tutti noto che, per le proprie particolarissime condizioni climatiche, Venezia metteva a durissima prova i suoi quadri (per non parlare degli affreschi). Non vi è il benché minimo dubbio che quella di Edwards sia una carriera di pittore mancato (e forse mediocre) riconvertita in una figura professionale del tutto assente fino a quegli anni: il restauratore a tempo pieno. La battaglia che Pietro combatte (a metà degli anni '70 del Settecento) per farsi assegnare il restauro dei teleri di Palazzo Ducale è dettata, senza dubbio alcuno, da motivazioni di carattere economico in un periodo particolarmente difficile per chi fa l’artista a Venezia e da ambizione personale; ma segna soprattutto la sostituzione degli interventi sporadici eseguiti da pittori che fanno anche i restauratori con figure professionali impiegate esclusivamente nella preservazione delle opere. Segna anche una nuova consapevolezza, da Edwards dichiarata in maniera molto chiara e ripresa con grande lucidità da Darrow, ovvero che il restauro non restituisce l’immortalità a un’opera, semplicemente perché nessuna opera è immortale. È una chiusura netta al mondo degli imbonitori interessati che cercano di accaparrarsi gli interventi di recupero promettendo ‘guarigioni miracolose’ e l’affermarsi di una scienza basata sull’esperienza (in cui ad esempio i metodi applicati alle tele non sono identici in tutti i casi, ma dipendono dalla singola realtà oggettiva) che – lasciatemi dire – mi ricorda molto l’empirismo di Bacone e mi fa chiedere se gli Edwards non avessero familiarità con tale empirismo già prima del loro esilio italiano (non sappiamo nulla sulla famiglia). 

Tiziano, Martirio di San Lorenzo, Venezia, Chiesa dei Gesuiti
Fonte: http://caffetteriadellemore.forumcommunity.net/?t=56726894

La fama internazionale di Pietro Edwards

In questo contesto – e siamo passati al secondo aspetto - l’autrice ci ricorda quanto grande fosse la fama dell’esperienza veneziana di Edwards. Sono almeno tre gli episodi in merito a testimoniarlo.  Il primo è la visita dell’erede al trono di Russa, Paolo I e di sua moglie Maria Feodorovna, che, sotto le false generalità di Conti del Nord, giungono a Venezia nel gennaio del 1782 e il 22 si recano a visitare “il Ponte di Rialto e la bottega di Pietro Edwards” [2]. Il resoconto di Edwards ha – come riferisce Darrow – toni trionfalistici, ma, al di là di tutto, è evidente che se il governo veneziano portava due principi russi a visitare il laboratorio di restauro di San Zanipolo era perché tale struttura veniva giudicata – per usare un termine odierno – un’eccellenza della Repubblica. La fama di Edwards risulta anche dalle righe che gli dedicano il Lanzi nella sua Storia pittorica e (cosa che assolutamente non conoscevo) lo stesso Goethe, non nel suo Viaggio in Italia, edito assai più tardi, ma in un testo del 1790 che solo di recente è stato tradotto in italiano [3]. Qui Goethe affronta il tema del restauro moderno a Venezia e rifacendosi ad un episodio del 1790 (suo secondo soggiorno nella città lagunare) racconta di aver avuto modo di confrontarsi (in maniera quasi casuale) con gli operatori che lavoravano nel laboratorio di San Giovanni e Paolo e di avervi fatto tappa più volte, affascinato dal loro modo di procedere. Charles Lock Eastlake, il grande conoscitore di metà Ottocento, forse aveva letto quel testo, che in effetti fu tradotto per la prima volta in inglese da A.J. W. Morrison e Charles Nisbet in 1833, come appendice alla loro traduzione del Viaggio in Italia. Inoltre Eastlake conobbe molto bene le opere di Goethe, posto che tradusse in inglese la sua Teoria dei colori nel 1840; sicuramente conobbe e lesse la traduzione inglese della Storia pittorica dell’Italia del Lanzi (operata dal Roscoe nel 1828) e il passaggio su Edwards non passò inosservato né a lui né a quel mondo inglese che stava cercando freneticamente il segreto della pittura ad olio sin dalla fine del Settecento [4]. Nessun dubbio che quando, per conto del governo inglese, spedì Mary Philadelphia Merrifield in Italia per cercare di indagare le tecniche degli antichi maestri (1845), le abbia detto di andare a Venezia e di rivolgersi innanzi tutto al figlio di Edwards, Giovanni. Ciò che è certo è che, già mentre viveva, Edwards diventa molto noto all’estero per la sua attività di restauratore e nella prima metà dell’Ottocento la sua figura acquista quasi i contorni del mito fra gli studiosi inglesi di tecniche artistiche. A interessare loro, naturalmente, non è il procedimento del restauro in sé, ma l’indagine delle tecniche segrete, nella speranza di scoprirle e poter così ricominciare a dipingere come Tiziano e gli altri grandi del Rinascimento veneto.


Un restauratore ‘philosophe’

La tesi principale di Darrow è che Eastlake sia stato, a suo modo, un restauratore ‘philosope’. Si può essere d’accordo per alcuni temi specifici; per altri (anche tenendo conto dei materiali di Edwards che ho avuto modo di esaminare personalmente) meno [5]. Non vi è dubbio – come detto – che Edwards abbia letto i testi dei grandi scienziati dell’illuminismo europeo; è altrettanto certo che non considera il ruolo del restauratore come semplice operatore artigianale, ma come elemento intellettualmente attivo nella conservazione del patrimonio artistico. D’altro canto basta leggere i suoi scritti di sapore meno tecnico e più ‘storico’ per rendersi conto che l’uomo è (oserei dire come la maggior parte dei veneziani dell’epoca) tutto consacrato al mito nostalgico della Venezia rinascimentale; in questo senso, più che un illuminista francese, Edwards è un veneziano di fine Settecento, che vive in un mondo crepuscolare ed è incapace di pensare una qualsiasi realtà al di fuori di esso. Il Settecento – inteso come gusto – gli è praticamente indifferente; nelle poche situazioni in cui ne parla lo fa solo per farlo rientrare in un’inarrestabile parabola di declino artistico cominciata dopo la morte di Tiziano e proseguita fino ai suoi giorni. Tale declino ha sostanzialmente la sua ragion d’essere nel venir meno del (presunto e del tutto immaginario) sistema di controllo sulla professione operato dalla corporazione degli artisti prima e dal Collegio dei pittori poi. La sua soluzione del problema è il ritorno all’utilizzo di pratiche monopolistiche nell’esercizio della professione artistica, utilizzo che spetterebbe appunto al Collegio dei pittori. La sua eloquenza in merito allo stato di conservazione dei dipinti, così come risulta dai documenti, contrasta con l’assoluta omertà sui metodi seguiti per il loro restauro. Il mondo anglosassone di Edwards e della Merrifield non capisce e attribuisce questa omertà alla ‘Venetian jealousy’, ma in realtà la competizione non è con l’estero: è con gli altri artisti/restauratori veneziani dell’epoca; è uno scontro ad assicurarsi il monopolio dei restauri pubblici che rappresentano una rendita sicura in una città in cui il denaro è sempre più scarso.

Ciò non toglie che Edwards – e qui sono pienamente d’accordo con l’autrice – nutra un sincero senso del dovere nei confronti della preservazione del patrimonio artistico pubblico della città (pubblico, si badi bene; non quello privato). Per scherzo del destino la storia lo ricorda per aver consegnato i quadri veneziani alle truppe francesi e non per il suo progetto (fallito) di una Galleria dei pittori veneti che radunasse i migliori quadri delle scuole venete liberatesi in seguito alle soppressioni napoleoniche. Un progetto a cui lavorò prima dell’approntamento della pinacoteca dell’Accademia, che, di fatto, fu solo un ripiego.

L’uomo, insomma – come noi tutti – ebbe lati oscuri ed altri più edificanti. La sua attività di restauratore, sicuramente all’avanguardia per l’Europa dell’epoca, è sicuramente fra gli aspetti che vanno a suo merito e che giustificano pienamente l’inserimento di Edwards nella serie dedicata alla storia del restauro dal Burlington Magazine.


NOTE

[1] E. Darrow, Pietro Edwards and the Restoration of the Public Pictures of Venice: Necessity Introduced these Arts, dissertazione di PhD inedita (University of Washington, 2000).


[3] Si veda Cristina Giannini, Johann Wolfgang von Goethe, Aeltere Gemaelde. Neuere Restaurationen in Venedig, Betrachtet, 1790 in Mosaico. Temi e metodi d’arte e critica per Gianni Carlo Sciolla a cura di R. Cioffi e O. Scognamiglio, Napoli, Luciano editore, 2012, pp. 321-330.


[5] Si vedano Giovanni Mazzaferro, Le Belle Arti a Venezia nei manoscritti di Pietro e Giovanni Edwards, Firenze, Goware, 2015 e Giovanni Mazzaferro, Fra Repubblica, Napoleone e Impero Austriaco: Pietro Edwards Ispettore Generale alle Belle Arti di Venezia in Annuario Accademia di belle arti di Venezia, 2015/2016, in corso di stampa. 

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