Elizabeth Darrow
Pietro Edwards: The restorer as 'philosophe'
[Pietro Edwards: il restauratore come 'philosophe']
Pubblicato in
The Burlington Magazine, aprile 2017 CLIX, pp. 308-317
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Pubblicato in
The Burlington Magazine, aprile 2017 CLIX, pp. 308-317
Recensione di Giovanni Mazzaferro
Nell’ambito di una serie di
contributi dedicati alla storia del restauro e dei suoi protagonisti (The Art of Conservation), The Burlington
Magazine affida a Elizabeth Darrow il compito di scrivere di Pietro Edwards. Un
compito ingrato, perché della biografia personale di questo veneziano di
origini inglesi (la famiglia, di fede cattolica, si trasferì in Italia nel 1688
in seguito alla Gloriosa Rivoluzione) sappiamo pochissimo: il grosso delle
carte private di Edwards (ad esempio tutta la corrispondenza) è andato perso e
quanto si conserva oggi presso vari enti veneziani (soprattutto il Seminario Patriarcale)
ha natura frammentaria. Edwards ci si presenta oggi come un personaggio sfuocato
persino fisicamente: ci manca un suo qualsiasi ritratto (o autoritratto) sicché
ognuno di noi se lo immagina con la sua fantasia.
Ben venga quindi il contributo di
Elizabeth Darrow (che a Pietro Edwards ha già dedicato la sua tesi di PhD [1],
soprattutto perché, oltre a richiamare elementi ormai molto noti (almeno fra
gli addetti ai lavori, come l’impresa della Restaurazione generale dei quadri
di pubblica proprietà della Repubblica di Venezia) ha il merito di richiamare
due punti secondo me sottovalutati.
Una cultura di livello europeo
Innanzi tutto il fatto che
Edwards fosse ampiamente aggiornato rispetto alla letteratura tecnica (e in
particolare rispetto agli sviluppi della chimica) europea. Come fare a saperlo
se, come noto, Edwards non pubblicò mai nulla? A testimonianza della sua
cultura in materia sta l’enorme quantità di relazioni redatte per conto della
Repubblica in quanto direttore del laboratorio di restauro presso la Basilica
dei Santi Giovanni e Paolo (o, per i veneziani, semplicemente, San Zanipolo).
In questi testi, e in altri di natura più tecnica ma sempre redatti in forma di
relazione alle pubbliche istituzioni, Edwards dimostra di conoscere gli scritti
dei francesi Pierre-Joseph Macquer (1718-1784), Jacques François
Demachy (1728-1803), Antoine Lavoisier (1743-1794), René Antoine Ferchault de
Réaumur e Robert Picault, dei tedeschi Johannes Kunckel (1630-1703) e Georg
Ernst Stahl (1659-1734), nonché dell’inglese Robert Boyle (1627-1691). Sicché
la prima cosa che viene da dire è rammaricarsi della perdita della sua
biblioteca personale. Non solo Edwards si dimostra aggiornato sulle esperienze
straniere, ma stabilisce egli stesso nuovi standard per il restauro dei quadri,
dimostrando capacità organizzative, ma prim’ancora progettuali, fuori dal comune
e divenendo esempio per i tecnici di tutta Europa. I progressi conseguiti da
Edwards partono da un’unica origine: l’esperienza acquisita di fronte alla
necessità. È
a tutti noto che, per le proprie particolarissime condizioni climatiche,
Venezia metteva a durissima prova i suoi quadri (per non parlare degli
affreschi). Non vi è il benché minimo dubbio che quella di Edwards sia una
carriera di pittore mancato (e forse mediocre) riconvertita in una figura
professionale del tutto assente fino a quegli anni: il restauratore a tempo
pieno. La battaglia che Pietro combatte (a metà degli anni '70 del Settecento)
per farsi assegnare il restauro dei teleri di Palazzo Ducale è dettata, senza
dubbio alcuno, da motivazioni di carattere economico in un periodo
particolarmente difficile per chi fa l’artista a Venezia e da ambizione
personale; ma segna soprattutto la sostituzione degli interventi sporadici
eseguiti da pittori che fanno anche i restauratori con figure professionali
impiegate esclusivamente nella preservazione delle opere. Segna anche una nuova
consapevolezza, da Edwards dichiarata in maniera molto chiara e ripresa con
grande lucidità da Darrow, ovvero che il restauro non restituisce l’immortalità
a un’opera, semplicemente perché nessuna opera è immortale. È
una chiusura netta al mondo degli imbonitori interessati che cercano di
accaparrarsi gli interventi di recupero promettendo ‘guarigioni miracolose’ e
l’affermarsi di una scienza basata sull’esperienza (in cui ad esempio i metodi
applicati alle tele non sono identici in tutti i casi, ma dipendono dalla
singola realtà oggettiva) che – lasciatemi dire – mi ricorda molto l’empirismo
di Bacone e mi fa chiedere se gli Edwards non avessero familiarità con tale
empirismo già prima del loro esilio italiano (non sappiamo nulla sulla
famiglia).
![]() |
Tiziano, Martirio di San Lorenzo, Venezia, Chiesa dei Gesuiti Fonte: http://caffetteriadellemore.forumcommunity.net/?t=56726894 |
La fama internazionale di Pietro Edwards
In questo contesto – e siamo
passati al secondo aspetto - l’autrice ci ricorda quanto grande fosse la fama
dell’esperienza veneziana di Edwards. Sono almeno tre gli episodi in merito a
testimoniarlo. Il primo è la visita dell’erede
al trono di Russa, Paolo I e di sua moglie Maria Feodorovna, che, sotto le
false generalità di Conti del Nord, giungono a Venezia nel gennaio del 1782 e il
22 si recano a visitare “il Ponte di Rialto e la bottega di Pietro Edwards”
[2]. Il resoconto di Edwards ha – come riferisce Darrow – toni trionfalistici,
ma, al di là di tutto, è evidente che se il governo veneziano portava due
principi russi a visitare il laboratorio di restauro di San Zanipolo era perché
tale struttura veniva giudicata – per usare un termine odierno – un’eccellenza
della Repubblica. La fama di Edwards risulta anche dalle righe che gli dedicano
il Lanzi nella sua Storia pittorica e
(cosa che assolutamente non conoscevo) lo stesso Goethe, non nel suo Viaggio in
Italia, edito assai più tardi, ma in un testo del 1790 che solo di recente è
stato tradotto in italiano [3]. Qui Goethe affronta il tema del restauro
moderno a Venezia e rifacendosi ad un episodio del 1790 (suo secondo soggiorno
nella città lagunare) racconta di aver avuto modo di confrontarsi (in maniera
quasi casuale) con gli operatori che lavoravano nel laboratorio di San Giovanni
e Paolo e di avervi fatto tappa più volte, affascinato dal loro modo di
procedere. Charles Lock Eastlake, il grande conoscitore di metà Ottocento, forse
aveva letto quel testo, che in effetti fu tradotto per la prima volta in
inglese da A.J. W. Morrison e Charles Nisbet in 1833, come appendice alla loro
traduzione del Viaggio in Italia. Inoltre
Eastlake conobbe molto bene le opere di Goethe, posto che tradusse in inglese
la sua Teoria dei colori nel 1840;
sicuramente conobbe e lesse la traduzione inglese della Storia pittorica dell’Italia del
Lanzi (operata dal Roscoe nel 1828) e il passaggio su Edwards non passò
inosservato né a lui né a quel mondo inglese che stava cercando freneticamente
il segreto della pittura ad olio sin dalla fine del Settecento [4]. Nessun
dubbio che quando, per conto del governo inglese, spedì Mary Philadelphia Merrifield in Italia per cercare di indagare le tecniche degli antichi maestri
(1845), le abbia detto di andare a Venezia e di rivolgersi innanzi tutto al
figlio di Edwards, Giovanni. Ciò che è certo è che, già mentre viveva, Edwards
diventa molto noto all’estero per la sua attività di restauratore e nella prima
metà dell’Ottocento la sua figura acquista quasi i contorni del mito fra gli
studiosi inglesi di tecniche artistiche. A interessare loro, naturalmente, non
è il procedimento del restauro in sé, ma l’indagine delle tecniche segrete, nella
speranza di scoprirle e poter così ricominciare a dipingere come Tiziano e gli
altri grandi del Rinascimento veneto.
Un restauratore ‘philosophe’
La tesi principale di Darrow è
che Eastlake sia stato, a suo modo, un restauratore ‘philosope’. Si può essere
d’accordo per alcuni temi specifici; per altri (anche tenendo conto dei
materiali di Edwards che ho avuto modo di esaminare personalmente) meno [5].
Non vi è dubbio – come detto – che Edwards abbia letto i testi dei grandi
scienziati dell’illuminismo europeo; è altrettanto certo che non considera il
ruolo del restauratore come semplice operatore artigianale, ma come elemento
intellettualmente attivo nella conservazione del patrimonio artistico. D’altro
canto basta leggere i suoi scritti di sapore meno tecnico e più ‘storico’ per
rendersi conto che l’uomo è (oserei dire come la maggior parte dei veneziani
dell’epoca) tutto consacrato al mito nostalgico della Venezia rinascimentale;
in questo senso, più che un illuminista francese, Edwards è un veneziano di
fine Settecento, che vive in un mondo crepuscolare ed è incapace di pensare una
qualsiasi realtà al di fuori di esso. Il Settecento – inteso come gusto – gli è
praticamente indifferente; nelle poche situazioni in cui ne parla lo fa solo
per farlo rientrare in un’inarrestabile parabola di declino artistico cominciata
dopo la morte di Tiziano e proseguita fino ai suoi giorni. Tale declino ha
sostanzialmente la sua ragion d’essere nel venir meno del (presunto e del tutto
immaginario) sistema di controllo sulla professione operato dalla corporazione
degli artisti prima e dal Collegio dei pittori poi. La sua soluzione del
problema è il ritorno all’utilizzo di pratiche monopolistiche nell’esercizio
della professione artistica, utilizzo che spetterebbe appunto al Collegio dei
pittori. La sua eloquenza in merito allo stato di conservazione dei dipinti,
così come risulta dai documenti, contrasta con l’assoluta omertà sui metodi
seguiti per il loro restauro. Il mondo anglosassone di Edwards e della
Merrifield non capisce e attribuisce questa omertà alla ‘Venetian jealousy’, ma
in realtà la competizione non è con l’estero: è con gli altri
artisti/restauratori veneziani dell’epoca; è uno scontro ad assicurarsi il
monopolio dei restauri pubblici che rappresentano una rendita sicura in una
città in cui il denaro è sempre più scarso.
Ciò non toglie che Edwards – e
qui sono pienamente d’accordo con l’autrice – nutra un sincero senso del dovere
nei confronti della preservazione del patrimonio artistico pubblico della città
(pubblico, si badi bene; non quello privato). Per scherzo del destino la storia
lo ricorda per aver consegnato i quadri veneziani alle truppe francesi e non
per il suo progetto (fallito) di una Galleria dei pittori veneti che radunasse
i migliori quadri delle scuole venete liberatesi in seguito alle soppressioni
napoleoniche. Un progetto a cui lavorò prima dell’approntamento della
pinacoteca dell’Accademia, che, di fatto, fu solo un ripiego.
L’uomo, insomma – come noi tutti
– ebbe lati oscuri ed altri più edificanti. La sua attività di restauratore,
sicuramente all’avanguardia per l’Europa dell’epoca, è sicuramente fra gli
aspetti che vanno a suo merito e che giustificano pienamente l’inserimento di
Edwards nella serie dedicata alla storia del restauro dal Burlington Magazine.
NOTE
[1] E. Darrow, Pietro Edwards and
the Restoration of the Public Pictures of Venice: Necessity Introduced these
Arts, dissertazione di PhD inedita (University of Washington, 2000).
[2] M. Marcella Ferraccioli,
Gianfranco Giraudo, Quanto
costa un Principe in incognito? Appunti sul viaggio dei Conti del Nord a
Venezia, 2012.
[3] Si veda Cristina Giannini,
Johann Wolfgang von Goethe, Aeltere Gemaelde. Neuere Restaurationen in Venedig,
Betrachtet, 1790 in Mosaico. Temi e metodi d’arte e critica per Gianni Carlo
Sciolla a cura di R. Cioffi e O. Scognamiglio, Napoli, Luciano editore, 2012,
pp. 321-330.
[4] Si veda in questo blog Giovanni
Mazzaferro, Indiana Jones alla ricerca del “Segreto Veneziano”: dal manoscritto
Provis a Mary Philadelphia Merrifield.
[5] Si vedano Giovanni
Mazzaferro, Le Belle Arti a Venezia nei manoscritti di Pietro e Giovanni Edwards, Firenze, Goware, 2015 e Giovanni Mazzaferro, Fra Repubblica, Napoleone
e Impero Austriaco: Pietro Edwards Ispettore Generale alle Belle Arti di Venezia
in Annuario Accademia di belle arti di Venezia, 2015/2016, in corso di stampa.
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