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Federico Borromeo
Musaeum.
La Pinacoteca Ambrosiana nelle memorie del suo fondatore.
A cura di Piero Cigada. Con un commento di Gianfranco Ravasi
Milano, Claudio Gallone editore, 1997
Recensione di Giovanni Mazzaferro
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Caravaggio, Canestra di frutta, 1599 circa, Milano, Pinacoteca Ambrosiana Fonte: user:Lafit86 tramite Wikimedia Commons |
Dalla dottrina al gusto personale
Il Musaeum di Federico Borromeo viene pubblicato (in latino) nel 1625,
un anno dopo il De pictura sacra.
Valgono anche qui le stesse considerazioni fatte nella recensione a
quest’ultima opera: la tiratura è limitatissima e l’edizione a stampa può
essere considerata come una semplice ‘messa in bella copia’ di materiali
precedenti, alcuni dei quali sono stati scartati dal cardinale, ma sono stati
recuperati di recente. È il caso di una collazione di note preparatorie
rintracciata fra le carte del Borromeo e pubblicata di recente da Alessandro
Rovetta [1]. Quando Borromeo scrive il suo volumetto, giuridicamente le opere
non gli appartengono più. Nel 1618 le ha donate ufficialmente alla Pinacoteca Ambrosiana, terzo passo di una struttura che il Cardinale è andato delineando sin da
dieci anni prima: nel 1607 viene fondata la Biblioteca Ambrosiana (inaugurata
nel 1609), nel 1613 si pensa alla creazione di un’Accademia del Disegno (che
comincia i suoi corsi – a dire il vero assai brevi - nel 1620), a completare la
nascita di un polo didattico ispirato interamente da Borromeo.
Probabilmente anche a causa della
tiratura limitatissima, la fortuna del Musaeum
è assai scarsa. Lo è ai tempi in cui vive il Cardinale, ma anche
successivamente. Non che manchino
riedizioni (1754, 1909, 1987), ma sempre a diffusione limitata, quasi per
scelta, come nel caso della pubblicazione del 1987, a cura di Piero Cigada,
stampata dall’editore Philobyblon in 130 esemplari numerati e destinata
chiaramente a una schiera di bibliofili dal palato fine, più come curiosità che
altro. La presente versione riprende quella del 1987 (tant’è che compare la
nota al testo di Cigada, aggiornata dal medesimo) e si pone l’obiettivo (solo
parzialmente raggiunto) di rivolgersi a un pubblico assai più vasto, arricchendosi
anche di una belle introduzione di Mons. Giancarlo Ravasi. Ma il Museaum viene consacrato a livello
internazionale solo dall’edizione pubblicata nel 2010 nell’ambito de I Tatti
Renaissance Library [2].
Il Museaum, in realtà, è opera eccezionale per scandagliare i gusti e
le capacità critiche del Cardinale, qui ‘libero’ dalle bardature dottrinali del
De pictura sacra e in veste di
raffinato collezionista. È lo stesso Borromeo a spiegare le motivazioni che stanno
alla base dello scritto, proprio all’inizio del testo: “Qualche tempo fa mi trovavo
ad ammirare alcuni quadri, modelli e statue che avevo fatto sistemare qualche
tempo prima in un’ala della Biblioteca Ambrosiana fatta erigere a questo
specifico scopo, quando mi si avvicinarono due persone del mio seguito
appassionate d’arte; i due, con una sorta di sospiro, mi fanno: «Non
sarebbe un bel lavoro, un lavoro di gran gusto, descrivere con cura in un testo
tutte queste testimonianze di arte straordinaria che vediamo raccolte in questa
sede?»” (p. 3). L’opera è pensata ad utilità degli allievi dell’Accademia. Lo
stesso Borromeo, parlando di alcuni quadri fatte eseguire ad Antonio Mariani
copiandoli da originali di Raffaello, scrive: “Se gli allievi vorranno imitarli
con cura, sarà esattamente come se avessero davanti agli occhi le opere dello
stesso Raffaello. Se però nello studio e specificamente in questa imitazione
saranno troppo pigri, attribuiscano a sé stessi [sic] tale colpa” (p. 51).
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Eredi Luini (o Bernardino Luini), Sacra Famiglia con S.Anna e S, Giovannino, Fonte: The Yorck Project tramite Wikimedia Commons Per una polemica sull'attribuzione del quadro cliccate qui |
Le
opere d’arte fra ecfrasi e copie
L’intento didattico è evidente;
tuttavia altrettanto appariscente è un (umanissimo) senso di compiacimento per
la collezione che Federico è riuscito a mettere insieme (e in diverse occasioni
si accenna al prezzo salatissimo di alcune opere) unito a una sensibilità per
la tutela e la salvaguardia nei confronti dei posteri delle opere d’arte. A ben
guardare si tratta di un aspetto che abbiamo già incontrato nel De pictura sacra a proposito delle
testimonianze della prima cristianità. In quell'opera il Cardinale ragiona sull’enorme
quantità di opere d’arte dell’antichità greca e romana andate distrutte e si
compiace che la loro esistenza sia stata in qualche modo preservata da Plinio e
dalla sua Naturalis Historia. Ancora
una volta credo sia fondamentale tener conto dell’influenza pliniana sul mondo
erudito europeo di quegli anni, il vero collante di ogni scritto sul mondo
dell’arte dell’epoca. Borromeo ci dice: “Eppure, in ogni caso, questa rovina
[n.d.r. delle opere d’arte dell’antichità] è risarcita dall’impegno degli
scrittori e una così penosa perdita è
sanata dalla penna, di modo che straordinari capolavori periti tanto tempo fa
sono ancora vivi sotto i nostri occhi e non si possono ritenere ancora
scomparsi. Questo dimostra l’abilità con cui sono riusciti gli scrittori a
restituire uno per uno i contorni e i tratti, dando vita a un’entusiasmante
gara tra la penna e il pennello o lo scalpello, con risultati tanto fortunati
da lasciare il dubbio a quale dei due contendenti debba essere aggiudicata la
vittoria” (p. 5). Di per sé si tratta di un elogio della pratica efrastica e di
una riproposizione di un tema che potremmo far ricadere in qualche modo
nell’ambito dell’ “ut pictura poesis”.
Con una differenza: mentre Plinio
descrive quasi sempre opere che non ha visto, Borromeo si confronta
direttamente coi quadri. Per quanto elogi l’abilità degli scrittori Borromeo
avverte che la dimensione visiva è indispensabile, e quindi dà particolare rilevanza
alla pratica delle copie: “Vorrei anzitutto far presente che fin troppo
instabili sono le umane cose e che in un troppo breve istante si corrompono
tutte e si dissolvono. Per questo sarebbe stato auspicabile, a vantaggio di
tutti gli uomini, che, come ci sono giunte le trascrizioni degli antichi libri,
così ci fossero potute pervenire anche le copie dei quadri celebri e che il
diligente lavoro degli antenati consentisse la trasmissione di tali opere alle
età successive” (pp. 19-21). Per questo motivo Borromeo non esita non solo a
collezionare copie di capolavori, ma si fa parte diligente dell’esecuzione di
nuove repliche, a patto che gli originali siano in uno stato di deperimento
tale da far pensare alla loro probabile ed imminente distruzione. Il Cardinale,
dunque, non ragiona in termini di restauro, ma di trasmissione della cultura
attraverso una copia perfetta destinata a sostituire l’originale. Gli esempi
nel Museaum sono numerosissimi e
famosi: si va dal Cenacolo di
Leonardo alle Sibille di Raffaello in
Santa Maria della Pace, ma io vorrei segnalare in particolare la replica della Zingara del Correggio (l’originale,
rovinatissimo, è oggi al Museo di Capodimonte a Napoli): “anch’esso [n.d.r. il
quadro] fu riprodotto da uno dei Caracciolo e ne abbiamo visto a Parma
l’originale a tal punto corroso e rovinato da farci sospettare che in breve
sarebbe scomparso. Del resto la bellezza di tale lavoro fu pregiudicata
dall’artista stesso col violare le leggi del decoro, attribuendo alla
ladruncola egiziana la figura della Vergine” (p. 25). L’importanza della
testimonianza culturale viene prima del decoro (almeno in questa circostanza).
Se avesse dovuto valutare con gli stessi parametri esposti nel De pictura sacra, Borromeo non avrebbe
dovuto far eseguire la copia dell’opera, in quanto priva di decoro cristiano.
Qui però emerge una sorta di ‘dovere morale’ nei confronti di chi verrà dopo,
che non si estrinseca nel restauro (un concetto a cui il Cardinale non accenna
mai), ma, appunto, nella riproduzione fedele del dipinto.
Il
gusto di un collezionista
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Tiziano, Adorazione dei Magi, 1559-1560 circa, Milano, Pinacoteca Ambrosiana Fonte: http://donfrancesco.blogspot.it/2012/12/lo-sguardo-del-padre-negli-occhi-di.html |
Ciò detto, è logico e naturale che, nel
parlare dei quadri dell’Ambrosiana, Borromeo utilizzi criteri come quello della
verosimiglianza e del decoro. Il gusto del Cardinale è sicuramente diverso da
quello dei nostri giorni e porta quindi inevitabilmente a valutazioni che
rischiano di farci pensare a un uomo incapace di riconoscere il ‘bello’
(quando, semplicemente, il ‘bello’ della sua epoca è diverso dal nostro). La Canestra di frutta del Caravaggio è sì
elogiata, ma nella personalissima gerarchia borromaica viene senza dubbio dopo
le opere di Jan Brueghel (o Bruegel dei Velluti che dir si voglia). Tuttavia i
giudizi espressi da Federico sono sempre interessanti e tradiscono una
conoscenza che va al di là del dilettantismo, per spingersi sino all’aspetto
tecnico. Si può forse arrivare a dire che è proprio per questo motivo (che è
conseguenza del fatto che Borromeo vede i quadri e li ha fisicamente davanti a
sé) che il Cardinale viene in qualche modo meno allo spirito ecfrastico
pliniano che dice di aver assunto come modello. Il primo giudizio, dedicato
all’Adorazione dei Magi di Tiziano,
contiene delle righe fulminanti: “Nel tratteggiare i paesaggi Tiziano ha
sfruttato l’eccellente abilità in cui si è sempre distinto e proprio di lì si
può riconoscere l’artista quale veramente fu. Infatti, ai confini dove i
margini del cielo, i profili più lontani dei monti e i limitari dei campi si
confondono e si mescolano, lasciò intenzionalmente la tela soltanto verniciata,
senza aggiungere colore; l’effetto che tale vuoto nel lavoro provoca è quello
di una sorta di allucinazione visiva; in effetti quando gli occhi guardano
oggetti troppo lontani sono tratti erroneamente in inganno. Così il celebre
artista ha espresso il confondersi delle cose non la tecnica di cui si servono
i nostri pittori che fanno una penosa fatica per creare tale effetto; si è
limitato invece a confondere le cose stesse, a mescolare cioè superficie,
vernice, tela con alcuni colori grezzi, surrogando in tal modo una tecnica
cerebrale” (pp. 9-11). Mi permetto di segnalare che la traduzione italiana (al
contrario di quella inglese) sembra evidenziare un giudizio negativo relativo
alle tecniche dei “nostri altri pittori” (“penosa”…”cerebrale”). Personalmente
sono convinto che così non sia. Semplicemente Borromeo indica il fatto che
Tiziano riesce a fare con grande scioltezza e libertà di gesto quanto per altri
è cosa estremamente faticosa. È difficile pensare (a parte le suggestioni
leonardesche) che un uomo colto come Borromeo non abbia presente in questo
momento le discussioni sulla prospettiva aerea tipiche del mondo lombardo (a
cominciare dal Lomazzo). Senza giungere a concludere automaticamente che
conoscesse invece gli scritti sulla prospettiva delle distanze e dei colori
dell’Accolti o di Matteo Zaccolini (pure non pubblicati), è chiaro che il Cardinale
sta riflettendo su uno dei temi più dibattuti in quegli anni.
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Paul Bril, Paesaggio con palude, 1595 circa, Milano, Pinacoteca Ambrosiana Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons |
Il
paesaggio e la natura morta
Uno degli aspetti che più colpiscono,
leggendo il Musaeum, è la mancata
formalizzazione di una gerarchia dei dipinti che proceda dalla pittura di
storia (fondamentalmente religiosa) al paesaggio, alla natura morta e al
ritratto. Si può dire senz’altro che lo spazio dedicato ai ritratti è ridotto,
ma solamente perché l’opera si interrompe bruscamente quando Borromeo cede la
parola a un suo collaboratore (non sappiamo con certezza chi fosse) incaricato
appunto di trattare la lunga serie di ritratti fatta eseguire appositamente dal
Cardinale. In questo senso si può dire, dunque, che l’opera è monca.
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Bruegel dei Velluti, Topolino con cespo di rose, Milano, Pinacoteca Ambrosiana Fonte: http://www.storiadimilano.it/repertori/cronologia_federigo/cronologia_federigo.htm |
Tuttavia lo spazio riservato alla
pittura di paesaggio e, più in generale, alla pittura fiamminga è davvero
impressionante e lascia trasparire un grande amore, che il Cardinale
(soprattutto negli anni romani) ha nutrito soprattutto nei confronti di due
artefici: il già citato Jan Bruegel e Paul Brill. Di Bruegel si loda la
capacità di dipingere quadri di dimensioni ridottissime che però sono
egualmente caratterizzati da esecuzioni eccellenti; è sintomatico che ancora
volta il collezionista abbia il sopravvento sul moralista e si citino dunque la
Passione di Cristo (“in quei minuscoli corpi seppe inserire valori spirituali
tanto nobili e intensi che sembra lasciare nell’animo degli osservatori il
dubbio se la dimensione di quelle figurine sia profonda o umile – cfr. pp.
25-27) ma anche un disegno su pergamena (celeberrimo) “che ritrae un topo, un
cespo di rose e vari animaletti; accenno volutamente a tale pergamena tra le
altre e mi ci soffermo affinché si comprenda il suo pregio dal fatto stesso che
in essa persino i topi piacciono” (p. 31). È così che fra i quadri di uno
stesso autore spesso Borromeo dice che si accendono vere e proprie “battaglie”
(parlando ovviamente in senso metaforico). Una di queste battaglie si anima proprio fra due ghirlande di fiori dipinte da Brueghel, una esposta nella prima
sala della Pinacoteca (“…una corona che comprende un’enorme varietà di fiori,
da definire quasi trionfale, degna veramente di stare alla pari delle opere
precedenti. Sono posati sui fiori degli uccellini, i fiori stessi si presentano
in aspetti esotici, in quanto l’artista non si è accontentato delle specie
nostrane” – cfr. p. 29); l’altra in una sala successiva (“Svolazzano
tutt’intorno delle farfalle, spicca il verde delle erbe e sparse giacciono a
terra delle conchiglie; per tutto questo qualsiasi altro quadro sarebbe venduto
a un prezzo esorbitante. Questi fiori, che così sporgono dal vaso, li
anteponiamo di molto alla corona del medesimo artista che, come ho già
precisato, è stata collocata nella prima sala del museo” – cfr. pp. 41-43).
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Bruegel dei Velluti, Vaso di fiori, 1606, Pinacoteca Ambrosiana Fonte: https://piccolacriticadarte.wordpress.com/2012/04/26/186/ |
Borromeo
e Mancini
Gli spunti per parlare a lungo del Musaeum e delle opere segnalate da
Borromeo sarebbero davvero tanti. Io vorrei concludere, però, accennando
all’opera del Cardinale vista in relazione alle regole per collocare e
conservare le pitture esposte da Giulio Mancini nelle sue Considerazioni sulla pittura. I due testi sembrano in qualche modo
farsi reciprocamente da contrappunto. Sono scritti sostanzialmente negli stessi
anni, il primo a Milano e il secondo a Roma; tuttavia – come noto – Borromeo
visse almeno dieci anni a Roma sul finire del Cinquecento (tanto che molte
delle sue opere sono acquistate nella Città eterna) e si può presumere che il
gusto dei due sia in qualche modo sovrapponibile. Con una differenza: Mancini
scrive per proporsi come ‘curatore’ di una collezione nobile, Borromeo è il
‘nobile’ collezionista. Potenzialmente Borromeo è il destinatario dei consigli
e delle regole proposte dal Mancini. Nel concreto, i criteri con cui il
Cardinale allestisce la Pinacoteca ambrosiana sono i medesimi proposti da
Mancini? Difficile dirlo. Borromeo scrive che nel suo Museaum si ripromette di seguire “la disposizione dei quadri;
questi, sia subito detto, sono stati collocati secondo l’ordine suggerito
dall’opportunità, cioè in genere dai vincoli degli spazi” (p. 7). Mancini
suggerisce invece una disposizione più strutturata, in cui a diversi ambienti
corrispondano diverse tipologie di opere (dai quadri lascivi negli appartamenti
privati ai blasoni e agli stemmi in quelli di rappresentanza). Solo poi se ve
ne sia occasione (e spazio) propone l’allestimento di una galleria in cui i
quadri siano disposti secondo le materie, il colorito, la scuola di
appartenenza e il momento storico. Sembra quindi che l’allestimento borromaico
si sostanzi (come logico) in un maggiore pragmatismo rispetto all’ipotesi di
scuola manciniana. Va peraltro detto che Mancini suggerisce anche di alternare
fra loro quadri di diverse scuole, ma di stesso periodo, non solo a vantaggio
di una varietà che spezzi la monotonia dell’allestimento, ma anche per dar modo
allo spettatore di effettuare confronti. Non è forse inutile notare che
Borromeo parla del combattimento di due “violente battaglie” nella sua Galleria:
la prima (l’abbiamo visto) è fra due ghirlande di Bruegel che si trovano in
sale diverse, ma la seconda vede operare il confronto fra una Maddalena di
Tiziano e una del Luini (ispirata a un disegno di Leonardo) che si trovano una
accanto all’altra. Il criterio del paragone fra le opere sembra dunque essere seguito anche dal Cardinale.
Al di là delle somiglianze e delle
differenze specifiche, è evidente che entrambi gli scrittori sono uomini di
cultura estremamente raffinata. In particolare, nel caso di Borromeo, il
teologo pedante del De pictura sacra
sembra essere felicemente soppiantato da un cattolico umanista di ben più
larghe vedute.
NOTE
[1] Alessandro Rovetta, “Gli
appunti del Cardinale. Note inedite di Federico Borromeo per il Musaeum” in
Annali di critica d’arte, n. 2, 2006, pp. 105-142. La segnatura del fascicolo
contenente le note è ms. G 310 inf., ins. 40, ff. 11r-13v. (n. 30).
[2] Federico Borromeo, Sacred
Painting – Museum, Edited and translated by Kenneth S. Rothwell, Jr. with
Introduction and Notes by Pamela M. Jones. Cambridge (MA) e Londra, Harvard
University Press, 2010.
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