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mercoledì 24 maggio 2017

Federico Borromeo. Musaeum. La Pinacoteca Ambrosiana nelle memorie del suo fondatore. A cura di Piero Cigada, con un commento di Gianfranco Ravasi


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Federico Borromeo
Musaeum.
La Pinacoteca Ambrosiana nelle memorie del suo fondatore.
A cura di Piero Cigada. Con un commento di Gianfranco Ravasi


Milano, Claudio Gallone editore, 1997

Recensione di Giovanni Mazzaferro

Caravaggio, Canestra di frutta, 1599 circa, Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Fonte: user:Lafit86 tramite Wikimedia Commons

Dalla dottrina al gusto personale

Il Musaeum di Federico Borromeo viene pubblicato (in latino) nel 1625, un anno dopo il De pictura sacra. Valgono anche qui le stesse considerazioni fatte nella recensione a quest’ultima opera: la tiratura è limitatissima e l’edizione a stampa può essere considerata come una semplice ‘messa in bella copia’ di materiali precedenti, alcuni dei quali sono stati scartati dal cardinale, ma sono stati recuperati di recente. È il caso di una collazione di note preparatorie rintracciata fra le carte del Borromeo e pubblicata di recente da Alessandro Rovetta [1]. Quando Borromeo scrive il suo volumetto, giuridicamente le opere non gli appartengono più. Nel 1618 le ha donate ufficialmente alla Pinacoteca Ambrosiana, terzo passo di una struttura che il Cardinale è andato delineando sin da dieci anni prima: nel 1607 viene fondata la Biblioteca Ambrosiana (inaugurata nel 1609), nel 1613 si pensa alla creazione di un’Accademia del Disegno (che comincia i suoi corsi – a dire il vero assai brevi - nel 1620), a completare la nascita di un polo didattico ispirato interamente da Borromeo.

Probabilmente anche a causa della tiratura limitatissima, la fortuna del Musaeum è assai scarsa. Lo è ai tempi in cui vive il Cardinale, ma anche successivamente.  Non che manchino riedizioni (1754, 1909, 1987), ma sempre a diffusione limitata, quasi per scelta, come nel caso della pubblicazione del 1987, a cura di Piero Cigada, stampata dall’editore Philobyblon in 130 esemplari numerati e destinata chiaramente a una schiera di bibliofili dal palato fine, più come curiosità che altro. La presente versione riprende quella del 1987 (tant’è che compare la nota al testo di Cigada, aggiornata dal medesimo) e si pone l’obiettivo (solo parzialmente raggiunto) di rivolgersi a un pubblico assai più vasto, arricchendosi anche di una belle introduzione di Mons. Giancarlo Ravasi. Ma il Museaum viene consacrato a livello internazionale solo dall’edizione pubblicata nel 2010 nell’ambito de I Tatti Renaissance Library [2].

Il Museaum, in realtà, è opera eccezionale per scandagliare i gusti e le capacità critiche del Cardinale, qui ‘libero’ dalle bardature dottrinali del De pictura sacra e in veste di raffinato collezionista. È lo stesso Borromeo a spiegare le motivazioni che stanno alla base dello scritto, proprio all’inizio del testo: “Qualche tempo fa mi trovavo ad ammirare alcuni quadri, modelli e statue che avevo fatto sistemare qualche tempo prima in un’ala della Biblioteca Ambrosiana fatta erigere a questo specifico scopo, quando mi si avvicinarono due persone del mio seguito appassionate d’arte; i due, con una sorta di sospiro, mi fanno: «Non sarebbe un bel lavoro, un lavoro di gran gusto, descrivere con cura in un testo tutte queste testimonianze di arte straordinaria che vediamo raccolte in questa sede?»” (p. 3). L’opera è pensata ad utilità degli allievi dell’Accademia. Lo stesso Borromeo, parlando di alcuni quadri fatte eseguire ad Antonio Mariani copiandoli da originali di Raffaello, scrive: “Se gli allievi vorranno imitarli con cura, sarà esattamente come se avessero davanti agli occhi le opere dello stesso Raffaello. Se però nello studio e specificamente in questa imitazione saranno troppo pigri, attribuiscano a sé stessi [sic] tale colpa” (p. 51).

Eredi Luini (o Bernardino Luini), Sacra Famiglia con S.Anna e S, Giovannino,
Fonte: The Yorck Project tramite Wikimedia Commons
Per una polemica sull'attribuzione del quadro cliccate qui

Le opere d’arte fra ecfrasi e copie

L’intento didattico è evidente; tuttavia altrettanto appariscente è un (umanissimo) senso di compiacimento per la collezione che Federico è riuscito a mettere insieme (e in diverse occasioni si accenna al prezzo salatissimo di alcune opere) unito a una sensibilità per la tutela e la salvaguardia nei confronti dei posteri delle opere d’arte. A ben guardare si tratta di un aspetto che abbiamo già incontrato nel De pictura sacra a proposito delle testimonianze della prima cristianità. In quell'opera il Cardinale ragiona sull’enorme quantità di opere d’arte dell’antichità greca e romana andate distrutte e si compiace che la loro esistenza sia stata in qualche modo preservata da Plinio e dalla sua Naturalis Historia. Ancora una volta credo sia fondamentale tener conto dell’influenza pliniana sul mondo erudito europeo di quegli anni, il vero collante di ogni scritto sul mondo dell’arte dell’epoca. Borromeo ci dice: “Eppure, in ogni caso, questa rovina [n.d.r. delle opere d’arte dell’antichità] è risarcita dall’impegno degli scrittori e una  così penosa perdita è sanata dalla penna, di modo che straordinari capolavori periti tanto tempo fa sono ancora vivi sotto i nostri occhi e non si possono ritenere ancora scomparsi. Questo dimostra l’abilità con cui sono riusciti gli scrittori a restituire uno per uno i contorni e i tratti, dando vita a un’entusiasmante gara tra la penna e il pennello o lo scalpello, con risultati tanto fortunati da lasciare il dubbio a quale dei due contendenti debba essere aggiudicata la vittoria” (p. 5). Di per sé si tratta di un elogio della pratica efrastica e di una riproposizione di un tema che potremmo far ricadere in qualche modo nell’ambito dell’ “ut pictura poesis”.

Con una differenza: mentre Plinio descrive quasi sempre opere che non ha visto, Borromeo si confronta direttamente coi quadri. Per quanto elogi l’abilità degli scrittori Borromeo avverte che la dimensione visiva è indispensabile, e quindi dà particolare rilevanza alla pratica delle copie: “Vorrei anzitutto far presente che fin troppo instabili sono le umane cose e che in un troppo breve istante si corrompono tutte e si dissolvono. Per questo sarebbe stato auspicabile, a vantaggio di tutti gli uomini, che, come ci sono giunte le trascrizioni degli antichi libri, così ci fossero potute pervenire anche le copie dei quadri celebri e che il diligente lavoro degli antenati consentisse la trasmissione di tali opere alle età successive” (pp. 19-21). Per questo motivo Borromeo non esita non solo a collezionare copie di capolavori, ma si fa parte diligente dell’esecuzione di nuove repliche, a patto che gli originali siano in uno stato di deperimento tale da far pensare alla loro probabile ed imminente distruzione. Il Cardinale, dunque, non ragiona in termini di restauro, ma di trasmissione della cultura attraverso una copia perfetta destinata a sostituire l’originale. Gli esempi nel Museaum sono numerosissimi e famosi: si va dal Cenacolo di Leonardo alle Sibille di Raffaello in Santa Maria della Pace, ma io vorrei segnalare in particolare la replica della Zingara del Correggio (l’originale, rovinatissimo, è oggi al Museo di Capodimonte a Napoli): “anch’esso [n.d.r. il quadro] fu riprodotto da uno dei Caracciolo e ne abbiamo visto a Parma l’originale a tal punto corroso e rovinato da farci sospettare che in breve sarebbe scomparso. Del resto la bellezza di tale lavoro fu pregiudicata dall’artista stesso col violare le leggi del decoro, attribuendo alla ladruncola egiziana la figura della Vergine” (p. 25). L’importanza della testimonianza culturale viene prima del decoro (almeno in questa circostanza). Se avesse dovuto valutare con gli stessi parametri esposti nel De pictura sacra, Borromeo non avrebbe dovuto far eseguire la copia dell’opera, in quanto priva di decoro cristiano. Qui però emerge una sorta di ‘dovere morale’ nei confronti di chi verrà dopo, che non si estrinseca nel restauro (un concetto a cui il Cardinale non accenna mai), ma, appunto, nella riproduzione fedele del dipinto.


Il gusto di un collezionista

Tiziano, Adorazione dei Magi, 1559-1560 circa, Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Fonte: http://donfrancesco.blogspot.it/2012/12/lo-sguardo-del-padre-negli-occhi-di.html

Ciò detto, è logico e naturale che, nel parlare dei quadri dell’Ambrosiana, Borromeo utilizzi criteri come quello della verosimiglianza e del decoro. Il gusto del Cardinale è sicuramente diverso da quello dei nostri giorni e porta quindi inevitabilmente a valutazioni che rischiano di farci pensare a un uomo incapace di riconoscere il ‘bello’ (quando, semplicemente, il ‘bello’ della sua epoca è diverso dal nostro). La Canestra di frutta del Caravaggio è sì elogiata, ma nella personalissima gerarchia borromaica viene senza dubbio dopo le opere di Jan Brueghel (o Bruegel dei Velluti che dir si voglia). Tuttavia i giudizi espressi da Federico sono sempre interessanti e tradiscono una conoscenza che va al di là del dilettantismo, per spingersi sino all’aspetto tecnico. Si può forse arrivare a dire che è proprio per questo motivo (che è conseguenza del fatto che Borromeo vede i quadri e li ha fisicamente davanti a sé) che il Cardinale viene in qualche modo meno allo spirito ecfrastico pliniano che dice di aver assunto come modello. Il primo giudizio, dedicato all’Adorazione dei Magi di Tiziano, contiene delle righe fulminanti: “Nel tratteggiare i paesaggi Tiziano ha sfruttato l’eccellente abilità in cui si è sempre distinto e proprio di lì si può riconoscere l’artista quale veramente fu. Infatti, ai confini dove i margini del cielo, i profili più lontani dei monti e i limitari dei campi si confondono e si mescolano, lasciò intenzionalmente la tela soltanto verniciata, senza aggiungere colore; l’effetto che tale vuoto nel lavoro provoca è quello di una sorta di allucinazione visiva; in effetti quando gli occhi guardano oggetti troppo lontani sono tratti erroneamente in inganno. Così il celebre artista ha espresso il confondersi delle cose non la tecnica di cui si servono i nostri pittori che fanno una penosa fatica per creare tale effetto; si è limitato invece a confondere le cose stesse, a mescolare cioè superficie, vernice, tela con alcuni colori grezzi, surrogando in tal modo una tecnica cerebrale” (pp. 9-11). Mi permetto di segnalare che la traduzione italiana (al contrario di quella inglese) sembra evidenziare un giudizio negativo relativo alle tecniche dei “nostri altri pittori” (“penosa”…”cerebrale”). Personalmente sono convinto che così non sia. Semplicemente Borromeo indica il fatto che Tiziano riesce a fare con grande scioltezza e libertà di gesto quanto per altri è cosa estremamente faticosa. È difficile pensare (a parte le suggestioni leonardesche) che un uomo colto come Borromeo non abbia presente in questo momento le discussioni sulla prospettiva aerea tipiche del mondo lombardo (a cominciare dal Lomazzo). Senza giungere a concludere automaticamente che conoscesse invece gli scritti sulla prospettiva delle distanze e dei colori dell’Accolti o di Matteo Zaccolini (pure non pubblicati), è chiaro che il Cardinale sta riflettendo su uno dei temi più dibattuti in quegli anni.

Paul Bril, Paesaggio con palude, 1595 circa, Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

Il paesaggio e la natura morta

Uno degli aspetti che più colpiscono, leggendo il Musaeum, è la mancata formalizzazione di una gerarchia dei dipinti che proceda dalla pittura di storia (fondamentalmente religiosa) al paesaggio, alla natura morta e al ritratto. Si può dire senz’altro che lo spazio dedicato ai ritratti è ridotto, ma solamente perché l’opera si interrompe bruscamente quando Borromeo cede la parola a un suo collaboratore (non sappiamo con certezza chi fosse) incaricato appunto di trattare la lunga serie di ritratti fatta eseguire appositamente dal Cardinale. In questo senso si può dire, dunque, che l’opera è monca.

Bruegel dei Velluti, Topolino con cespo di rose, Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Fonte: http://www.storiadimilano.it/repertori/cronologia_federigo/cronologia_federigo.htm

Tuttavia lo spazio riservato alla pittura di paesaggio e, più in generale, alla pittura fiamminga è davvero impressionante e lascia trasparire un grande amore, che il Cardinale (soprattutto negli anni romani) ha nutrito soprattutto nei confronti di due artefici: il già citato Jan Bruegel e Paul Brill. Di Bruegel si loda la capacità di dipingere quadri di dimensioni ridottissime che però sono egualmente caratterizzati da esecuzioni eccellenti; è sintomatico che ancora volta il collezionista abbia il sopravvento sul moralista e si citino dunque la Passione di Cristo (“in quei minuscoli corpi seppe inserire valori spirituali tanto nobili e intensi che sembra lasciare nell’animo degli osservatori il dubbio se la dimensione di quelle figurine sia profonda o umile – cfr. pp. 25-27) ma anche un disegno su pergamena (celeberrimo) “che ritrae un topo, un cespo di rose e vari animaletti; accenno volutamente a tale pergamena tra le altre e mi ci soffermo affinché si comprenda il suo pregio dal fatto stesso che in essa persino i topi piacciono” (p. 31). È così che fra i quadri di uno stesso autore spesso Borromeo dice che si accendono vere e proprie “battaglie” (parlando ovviamente in senso metaforico). Una di queste battaglie si anima proprio fra due ghirlande di fiori dipinte da Brueghel, una esposta nella prima sala della Pinacoteca (“…una corona che comprende un’enorme varietà di fiori, da definire quasi trionfale, degna veramente di stare alla pari delle opere precedenti. Sono posati sui fiori degli uccellini, i fiori stessi si presentano in aspetti esotici, in quanto l’artista non si è accontentato delle specie nostrane” – cfr. p. 29); l’altra in una sala successiva (“Svolazzano tutt’intorno delle farfalle, spicca il verde delle erbe e sparse giacciono a terra delle conchiglie; per tutto questo qualsiasi altro quadro sarebbe venduto a un prezzo esorbitante. Questi fiori, che così sporgono dal vaso, li anteponiamo di molto alla corona del medesimo artista che, come ho già precisato, è stata collocata nella prima sala del museo” – cfr. pp. 41-43).

Bruegel dei Velluti, Vaso di fiori, 1606, Pinacoteca Ambrosiana
Fonte: https://piccolacriticadarte.wordpress.com/2012/04/26/186/

Borromeo e Mancini

Gli spunti per parlare a lungo del Musaeum e delle opere segnalate da Borromeo sarebbero davvero tanti. Io vorrei concludere, però, accennando all’opera del Cardinale vista in relazione alle regole per collocare e conservare le pitture esposte da Giulio Mancini nelle sue Considerazioni sulla pittura. I due testi sembrano in qualche modo farsi reciprocamente da contrappunto. Sono scritti sostanzialmente negli stessi anni, il primo a Milano e il secondo a Roma; tuttavia – come noto – Borromeo visse almeno dieci anni a Roma sul finire del Cinquecento (tanto che molte delle sue opere sono acquistate nella Città eterna) e si può presumere che il gusto dei due sia in qualche modo sovrapponibile. Con una differenza: Mancini scrive per proporsi come ‘curatore’ di una collezione nobile, Borromeo è il ‘nobile’ collezionista. Potenzialmente Borromeo è il destinatario dei consigli e delle regole proposte dal Mancini. Nel concreto, i criteri con cui il Cardinale allestisce la Pinacoteca ambrosiana sono i medesimi proposti da Mancini? Difficile dirlo. Borromeo scrive che nel suo Museaum si ripromette di seguire “la disposizione dei quadri; questi, sia subito detto, sono stati collocati secondo l’ordine suggerito dall’opportunità, cioè in genere dai vincoli degli spazi” (p. 7). Mancini suggerisce invece una disposizione più strutturata, in cui a diversi ambienti corrispondano diverse tipologie di opere (dai quadri lascivi negli appartamenti privati ai blasoni e agli stemmi in quelli di rappresentanza). Solo poi se ve ne sia occasione (e spazio) propone l’allestimento di una galleria in cui i quadri siano disposti secondo le materie, il colorito, la scuola di appartenenza e il momento storico. Sembra quindi che l’allestimento borromaico si sostanzi (come logico) in un maggiore pragmatismo rispetto all’ipotesi di scuola manciniana. Va peraltro detto che Mancini suggerisce anche di alternare fra loro quadri di diverse scuole, ma di stesso periodo, non solo a vantaggio di una varietà che spezzi la monotonia dell’allestimento, ma anche per dar modo allo spettatore di effettuare confronti. Non è forse inutile notare che Borromeo parla del combattimento di due “violente battaglie” nella sua Galleria: la prima (l’abbiamo visto) è fra due ghirlande di Bruegel che si trovano in sale diverse, ma la seconda vede operare il confronto fra una Maddalena di Tiziano e una del Luini (ispirata a un disegno di Leonardo) che si trovano una accanto all’altra. Il criterio del paragone fra le opere sembra dunque  essere seguito anche dal Cardinale.

Al di là delle somiglianze e delle differenze specifiche, è evidente che entrambi gli scrittori sono uomini di cultura estremamente raffinata. In particolare, nel caso di Borromeo, il teologo pedante del De pictura sacra sembra essere felicemente soppiantato da un cattolico umanista di ben più larghe vedute.


NOTE

[1] Alessandro Rovetta, “Gli appunti del Cardinale. Note inedite di Federico Borromeo per il Musaeum” in Annali di critica d’arte, n. 2, 2006, pp. 105-142. La segnatura del fascicolo contenente le note è ms. G 310 inf., ins. 40, ff. 11r-13v. (n. 30). 


[2] Federico Borromeo, Sacred Painting – Museum, Edited and translated by Kenneth S. Rothwell, Jr. with Introduction and Notes by Pamela M. Jones. Cambridge (MA) e Londra, Harvard University Press, 2010. 

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