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Storia delle antologie di letteratura artistica
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Enrico Panzacchi,
Il Libro degli Artisti. Antologia
Milano, Tipografia Editrice L.F. Cogliati, 1902, 527 pagine.
Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda
Nella prima parte di questo saggio abbiamo visto come il mondo
di Panzacchi sia caratterizzato da un incrocio tra letteratura ed arte. La
letteratura artistica è da lui implicitamente definita come quell’ampio
spazio del mondo delle lettere dove s’incrociano gli scritti di letterati e
artisti sulle questioni estetiche. Il ruolo cruciale dell’incontro tra
linguaggio e immagine è testimoniato dal fatto che nel 1900 Panzacchi
approfitti dei pochi mesi della sua presenza al governo del Regno per
introdurre la storia dell’arte nei programmi delle scuole superiori,
inquadrandola appunto nell’insegnamento delle lettere. Due anni dopo, nel 1902,
la pubblicazione dell’antologia Il Libro
degli Artisti, il più esteso dei suoi scritti sull’arte, offre a professori
e studenti un’ampia antologia di letteratura artistica italiana. È una delle
ultime fatiche di Panzacchi, che scompare nel 1904.
Consideriamo ora il contenuto dell’antologia, analizzando la
scelta dei circa 250 brani, un centinaio dei quali sono testi poetici. Lo
facciamo seguendo l’intuizione che Panzacchi voglia creare per la prima volta, con la sua antologia, un canone completo delle fonti di storia dell’arte
in Italia. Semplicemente da un punto di vista quantitativo, i principali punti
di riferimento per tale storia sono Leonardo da Vinci (con cinquantotto
capitoli del Trattato della Pittura),
il Vasari (con una quarantina di citazioni, in gran parte citazioni dalle Vite, ma anche lettere spedite o
ricevute), Cennino Cennini (del suo Libro
dell’arte sono riprodotti diciotto capitoli), Michelangelo (diciotto testi tra
poesie e lettere inviate o ricevute), Benvenuto Cellini (tredici tra citazioni
dell’autobiografia, dei trattati e di versi), Gian Battista Marino (con dieci
tra poemi e lettere), Filippo Baldinucci (con otto brani tratti dalle Notizie dei professori del disegno),
Francesco Milizia (otto brani) e Salvator Rosa (cinque testi tra poesie e
lettere). Un ruolo importante è anche assegnato alla disputa rinascimentale sul
paragone delle arti (con otto testi di vari autori, pubblicati in modo da
essere identificati come parte di un'unica discussione). Tra gli autori degli
ultimi anni, rilevante l’interesse per due artisti molto rinomati, entrambi
scomparsi da poco al momento della pubblicazione: Giovanni Segantini (sei
brani) e Telemaco Signorini (quattordici citazioni in prosa e poesia).
Dal punto di vista geografico, va segnalata l’importanza del
contributo emiliano-romagnolo a partire dal Seicento. In quel secolo all’intero
materiale prodotto dagli artisti della scuola di Bologna (scritti dei tre
Carracci e di Domenichino, Guercino, Guido Reni ed Albani) si aggiungono i
contributi del Malvasia, dello Scannelli e del Rosignoli. Nel Settecento (con
Zanotti, Crespi, Cassiani e Passeri) e nell’Ottocento (con Costa, Fontanesi e
Serra) compaiono invece artisti e letterati che, almeno in alcuni casi, sono
oggi poco conosciuti a livello nazionale e sono probabilmente inclusi nel
Libro degli Artisti per rappresentare
la continuità della letteratura artistica locale.
Quali sono le fonti di Panzacchi? Almeno ad un primo esame,
sembra che tutti i testi provengano più dalle biblioteche che dagli archivi,
ovvero che si tratti di opere tutte già stampate e non di manoscritti. In altre
parole, Panzacchi avrebbe sicuramente consultato uno spettro molto ampio di
opere già presenti, ma non avrebbe allargato il perimetro delle conoscenze
scientifiche. Considerando ad esempio gli autori emiliani già citati nella
sezione del Settecento, gli Avvertimenti
per lo incamminamento di un giovane alla Pittura di Zanotti esistono in
edizioni a stampa in versioni del 1756 e del 1828, le Poesie scelte di Giuliano Cassiani in edizioni del 1794, 1802 e del
1897, ed infine l’Esame ragionato sopra
la nobiltà della pittura e della scultura di Nicola Passeri in un’edizione
del 1783. Più in generale, le raccolte di Bottari, Gaye e Gualandi offrono
ovviamente a Panzacchi un repertorio importante di lettere. Ritorna spesso
anche il nome di Gaetano Milanesi, come fonte di testi toscani. Per le poesie
una delle fonti più citate è Poesie
italiane inedite di dugento autori di Francesco Trucchi (1846).
![]() |
Fig. 30) Francesco Trucchi, Poesie Italiane inedite di dugento autori dall'origine della lingua infino al secolo decimosettimo, 1846 |
Mi sembra altrettanto significativo indicare fin d'ora
anche quel che evidentemente Panzacchi decide di non includere nell’antologia.
Assente il Bellori, citato solamente in nota. Pochissimi i veneti (Algarotti,
Canova e Goldoni), probabilmente perché nel mondo carducciano dell’università
di Bologna risulta difficile proporre ad un largo pubblico testi che non siano
scritti in toscano, la lingua scelta come comune all’Italia intera. Esclusa
quasi totalmente (con l’eccezione del Milizia) la trattatistica sei-settecentesca, probabilmente perché ad essa viene assegnato un ruolo
diverso da quello letterario. Mancano totalmente i testi dei primi storici
dell’arte italiani, compresi quelli di grande diffusione (si pensi ad esempio
al Lanzi a fine Settecento) e gli scritti dei conoscitori italiani
dell’Ottocento (dal Cavalcaselle a Morelli), forse perché considerati non far
parte del magico incontro tra letteratura ed arte. Infine, non vi è nessun
testo di artisti stranieri.
Consideriamo ora separatamente le varie sezioni, cercando di
intuire – per quanto possibile – le ragioni che hanno spinto il Panzacchi a selezionare
gli autori.
Duecento e Trecento
Nell’introduzione al primo capitolo Panzacchi ritorna ai
temi che ha già trattato dieci anni prima in una conferenza su “Le origini dell'arte nuova”, tenutasi a
Firenze nel 1890 per un ciclo d’incontri su gli “Albori della vita italiana” [30]. In quel testo Panzacchi prende
nettamente le distanze dai movimenti di riscoperta dell’arte dell’alto medioevo,
tipici del romanticismo: “Che cos’è,
esteticamente parlando, il medio evo? Non si può parlare del risveglio
artistico che si manifestò nel dugento senza risalire, un poco o molto,
all’epoca precedente. (…) Per me, lo dico subito, il medio evo è un’epoca
essenzialmente inestetica. I rivenditori di quest’epoca insorgono contro questa
mia affermazione e adducon fatti numerosi e importanti per provare il
contrario, ma io credo che essi vadano equivocando e che confondano il vero
medio evo con dei fatti che costituiscono appunto la negazione e il principio
della cessazione di quell’epoca. Figuratevi che vi sono alcuni i quali mettono
fra le glorie del medio evo anche la Divina Commedia! (…) Durante i secoli
precedenti l’opera d’arte vera e completa non vi troverete mai. (…) E poi, nel
medio evo, predomina troppo la fantasia del brutto” [31].
Appartengono al brutto, secondo il testo del 1890, sia i
Cristi pantocratori di tradizione bizantina sia le chiese gotiche con le loro
decorazioni. E tuttavia, a differenza di altri paesi, in Italia anche durante
il Medioevo si è conservato – anche in forma fantastica e mitologica – il
ricordo della bellezza classica, che rende possibile “il risorgimento artistico in Italia ed in Toscana” grazie a Niccolò
Pisano e Giotto. A tal proposito, sempre nella conferenza del 1890, Panzacchi
si affida ad una antica leggenda rabbinica, “resuscitata e commentata” dallo storico francese delle religioni Ernest
Renan (1823–1892) nei cui confronti nutre una vera e propria venerazione
(gli dedica uno dei Saggi critici [32] del 1896 e lo cita continuamente in
molti scritti). Secondo questa tradizione, durante l’alto Medioevo il popolo di
Roma avrebbe nascosto nelle proprie abitazioni le più belle statue romane che
riproducevano donne, non dichiarando la loro scoperta alle autorità ecclesiali,
per poterle ammirare di nascosto; in tal modo il popolo italiano avrebbe
preservato in segreto il buon gusto e l’amore per il bello [33].
L’antologia si apre con il primo capitolo del Libro dell’arte di Cennino Cennini (qui
citato con il nome di Trattato della
pittura dall’edizione Milanesi del 1859). Da un punto di vista cronologico,
il testo di Cennini appartiene in realtà alla fase conclusiva di questo periodo
(ed addirittura, secondo alcuni, è un testo innovativo del primo umanesimo).
Panzacchi pubblica comunque l’intero primo capitolo all’inizio del suo Libro degli Artisti, come primo brano
dell’antologia e dunque come vero e proprio testo fondatore della letteratura
artistica. Credo lo faccia per quel che vi si legge su “fantasia” e “operazione
di mano”, e sulla modernità del linguaggio artistico, che passa con Giotto dalla
maniera greca a quella latina. Di Cennino vengono proposti altri diciassette
capitoli, ma significativamente non immediatamente dopo il primo, a
sottolineare che quest’ultimo ha valore assoluto sulla rinascita dell’arte,
come confermato anche da altri passaggi nella sezione, tratti da testi di
Ghiberti e Vasari (che con Duecento e Trecento non centrano affatto).
Quello di Panzacchi, si è detto, non è un universo di tipo
tardo-romantico, tutto occupato nel recupero dei miti dell’alto medioevo. E
tuttavia, nonostante le breve citazioni dagli statuti dell’arte dei pittori e
degli orafi di Firenze e Siena, il metodo di Panzacchi non è neppure quello
positivista che si è andato diffondendo nel mondo austriaco con Rudolf Eitelberger von Edelberg (1817–1885) e in quello italiano con Gaetano Milanesi
(1813–1895). L’immagine di Duecento e Trecento di Panzacchi resta comunque
letteraria ed è testimoniata dall’inclusione nell’antologia di testi sull’arte
di Giovanni Villani, Dante Alighieri, Franco Sacchetti e Francesco Petrarca.
L’interesse specifico di Panzacchi per la poesia come
strumento più nobile dei sentimenti degli artisti è testimoniato dai bei versi
di Andrea Orcagna (1310 circa – 1368), uno dei primi artisti globali (fu
pittore, scultore, architetto ed anche poeta). Tra di essi ho scelto i versi
sui “Tristi effetti del giuoco”,
tratti dalla raccolta di Trucchi.
“Quanto la vita mia si
meni amara,
S’avessi cento lingue, non saprei
Narrare, e tutti gli affanni miei,
E il perdimento dell’alma sì cara.
Di tutto n’è cagion la brutta zara:
Che viver con virtù più non saprei,
Se non fosse l’aiuto di colei
Che a’ miei crudi accidenti sempre para.
Io mi trovo distrutto dell’avere
Per te, vizioso giuoco; perdo e vinco,
E Cristo e i santi ho messo in non calere;
E il corpo n’è sì stanco lasso e vinto
Che in vita più non posso sostenere,
Benché nel viso lo porti dipinto.
Nè mai non ebbi vinto.
Che la ragione mi stesse del pari:
Avrei caro il morir più che i denari” [34].
S’avessi cento lingue, non saprei
Narrare, e tutti gli affanni miei,
E il perdimento dell’alma sì cara.
Di tutto n’è cagion la brutta zara:
Che viver con virtù più non saprei,
Se non fosse l’aiuto di colei
Che a’ miei crudi accidenti sempre para.
Io mi trovo distrutto dell’avere
Per te, vizioso giuoco; perdo e vinco,
E Cristo e i santi ho messo in non calere;
E il corpo n’è sì stanco lasso e vinto
Che in vita più non posso sostenere,
Benché nel viso lo porti dipinto.
Nè mai non ebbi vinto.
Che la ragione mi stesse del pari:
Avrei caro il morir più che i denari” [34].
Quattrocento
La sezione dell’antologia sul Quattrocento si apre con gli
architetti del primo rinascimento (Alberti e Brunelleschi) e si chiude con
Leonardo, che viene dunque considerato – per usare la terminologia del Vasari –
come l’ultimo dei grandi artisti della ‘maniera moderna’ e non come il primo
dalla ‘nuova maniera cinquecentesca’, in tal modo seguendo una logica diversa
da quella delle Vite.
![]() |
Fig. 35) Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, nouamente dato in luce, con la vita dell'istesso autore, scritta da Rafaelle du Fresne, 1651 |
Considerando gli architetti del primo Quattrocento, di Leon
Battista Alberti sono citati i trattati latini Della pittura e Della statua
(nella traduzione italiana di Cosimo Bartoli) e due brevi brani poetici in
toscano dello stesso autore. I testi dei trattati sono tratti dalla versione
pubblicata nel 1651 da Giacomo Langlois, che li include in appendice al Trattato della Pittura di Leonardo.
Dell’edizione Langlois esistono anche versioni più recenti del 1733 e del 1786,
ma evidentemente Panzacchi ha accesso alla prima edizione. Versioni critiche
più moderne dei testi dei trattati di Alberti sono anche pubblicate a Vienna in
italiano (ed in tedesco) nella famosissima edizione del 1877 a cura di Hubert
Janitschek (come parte della raccolta viennese delle fonti di storia dell’arte,
di chiaro impianto positivista). Non è escluso che Panzacchi non la conoscesse.
Le poesie dell’Alberti sono invece tratte dal Trucchi. Lo stesso vale per tre
sonetti del Brunelleschi, uno dei quali è di grande amarezza. Mi piace citarlo,
perché sembra confermare che sentimenti di insoddisfazione sul funzionamento
della società appartengano a tutte le età, incluse quelle (come la Firenze del
Quattrocento) che sono oggi considerate come momenti di eccellenza collettiva.
“Io veggo il mondo
tutto inritrosito,
che chi de' dar dimanda a chi de' avere,
e chi promette non vuole attenere,
colui che offende accusa po' il ferito.
che chi de' dar dimanda a chi de' avere,
e chi promette non vuole attenere,
colui che offende accusa po' il ferito.
Prosciolto è 'l ladro, il giusto è punito;
e 'l tradimento tiensi più sapere:
così inganna l'un l'altro al più potere,
e chi fa peggio n'ha miglior partito.
e 'l tradimento tiensi più sapere:
così inganna l'un l'altro al più potere,
e chi fa peggio n'ha miglior partito.
Veggo che 'l padre del
figliuol si parte,
E l’un coll’altro fratel si percuote:
non val senza amistà, ragione o carte.
E l’un coll’altro fratel si percuote:
non val senza amistà, ragione o carte.
Adunque la sua parte
si riscuote,
chi me' di tradimento sa far l' arte ,
e mal ci nacque chi poco ci puote.
chi me' di tradimento sa far l' arte ,
e mal ci nacque chi poco ci puote.
Ma sì torbide note
Converrà che si purghin con ragione
nanzi che passi non lunga stagione” [35].
Converrà che si purghin con ragione
nanzi che passi non lunga stagione” [35].
![]() |
Fig. 37) Benozzo Gozzoli, La Cavalcata dei Magi, Parete sud, 1459-60, affresco, Palazzo Medici-Riccardi, Firenze |
La struttura dell’antologia, come si è detto, è cronologica.
Credo tuttavia che si possa ‘destrutturare’ la sezione dell’antologia sul
Quattrocento identificandone cinque ‘pilastri’. Il primo è il racconto di
Vasari, che è la fonte di informazione più presente. Le sue Vite vengono citate pagine a proposito
di (nell’ordine in cui compaiono nell’antologia) Brunelleschi, Donatello,
Andrea del Castagno, Domenico Veneziano, Fra Filippo Lippi, Paolo Uccello,
Ghiberti, Desiderio da Settignano, Lorenzo Costa, Iacopo Bellini, Ercole de’
Roberti, Filippino Lippi, il Verrocchio, il Perugino, Sandro Botticelli,
Francesco Francia, il Cecca e Leonardo. Il secondo pilastro consiste nelle
lettere che gli artisti indirizzano ai potenti del loro tempo (Benozzo Gozzoli
a Pietro de’ Medici, Andrea Mantegna a Francesco Gonzaga, lo stesso Mantegna
alla Marchesa Isabella Gonzaga, Giovan Giacomo Calandra alla medesima
marchesa), tutte tratte dalla raccolta del Gaye; sono la testimonianza del
successo sociale dell’arte nel Quattrocento. Seguono alcuni testi
autobiografici (dai Commentari di
Ghiberti, dai Ricordi di Alessio
Baldovinetti, dai Ricordi del
Filarete) citati da edizioni ottocentesche, ed un passo di Francesco Colonna
dal Polifilo: gli artisti divengono
autori di opere letterarie che hanno una loro identità definita. Vi sono poi,
come quarto pilastro, lunghi testi poetici puramente letterari: la Giostra di Poliziano, la Cronaca Rimata di Giovanni Santi, padre
di Raffaello (citata dalla celebre monografia di Passavant su Raffaello e suo
padre, tradotta in italiano nel 1882 con il titolo “Raffaello d'Urbino e il
padre suo, Giovanni Santi”), ed il celeberrimo Trionfo di Bacco ed Arianna di Lorenzo il Magnifico: l’arte diviene
uno dei temi di riflessione primaria degli intellettuali del tempo, compresi
quelli che non hanno dimestichezza alcuna con la materialità della produzione
artistica. L’ultimo pilastro è costituito da una serie di epitaffi ed
iscrizioni funebri che testimoniano il bisogno della società di ricordare le
personalità dell’arte ormai scomparse, primo necessario requisito per ogni
identificazione di una storia dell’arte.
Ecco due epitaffi sul giovanissimo Masaccio (il primo di
Annibal Caro, il secondo anonimo), entrambi originariamente inclusi nelle Vite del Vasari.
“Pinsi, e la mia
pittura al ver fu pari;
l’atteggiai, l’avvivai, le diedi il moto,
le diedi affetto. Insegni il Buonarroto
a tutti gli altri, e da me solo impari” [36].
l’atteggiai, l’avvivai, le diedi il moto,
le diedi affetto. Insegni il Buonarroto
a tutti gli altri, e da me solo impari” [36].
“Se alcun cercasse il
marmo o il nome mio;
la chiesa è il marmo, una cappella è il nome.
Morii, che Natura ebbe invidia, come
l’Arte del mio pennello uopo e desio” [37].
la chiesa è il marmo, una cappella è il nome.
Morii, che Natura ebbe invidia, come
l’Arte del mio pennello uopo e desio” [37].
Il Libro degli Artisti
lascia al Trattato della Pittura di
Leonardo da Vinci lo spazio più ampio in tutta l’antologia. A lui Panzacchi
dedica una conferenza nel corso degli anni Novanta, pubblicata nella raccolta Conferenze e discorsi nel 1899. Si
tratta in gran parte di presentazioni al grande pubblico non specializzato (in
quell’occasione, una conferenza ad un pubblico solo femminile), che confermano
la vena di Panzacchi come divulgatore. Nel caso di Leonardo lo studioso si pone
l’obiettivo di chiarire che, a suo parere, Leonardo è prima di tutto artista e
poi scienziato” [38]. “Se non che, per
quanto mi ha dettato lo studio amoroso dei manoscritti leonardeschi ora in
molta parte editi, io penso che, mentre lo scienziato pare alle volte che
dietro a sé ci nasconda l’artista, l’artista invece tiene sempre il campo. È
sempre l’Arte la regina della mente di Leonardo. Basta leggere alcune pagine
del Trattato in cui celebra le lodi
della sua prediletta fra le arti, la pittura, per capire da che sovrano
entusiasmo estetico fosse riscaldato
e mosso l’animo suo. Per cui tante volte, mentre direste alla prima che la
indagine scientifica prepari in Leonardo il lavoro dell’arte, la verità vera è
invece il contrario: vale a dire che il lavoro della scienza non è altro che un
prolungamento, a dir così, della ricerca artistica. E con questa gran
differenza che, mentre gli altri artisti suoi contemporanei si fermavano alla
parvenza delle cose e quella cercavano di ritrarre secondo le regole, Leonardo,
spinto da un fervore d’animo tutto suo particolare, andava anche al di là della
parvenza artistica, e voleva trovare e trovava in fatto la ragione d’essere di
questa in una più alta ragione speculativa” [39]. Si spiega così perché
Panzacchi, a fianco di pagine chiaramente rilevanti per capire lo stile del
pittore, come ad esempio sul chiaroscuro, includa nell’antologia anche passaggi
su come raffigurare gli alberi, i prati e le foglie: si tratta sempre del tema
dell’arte naturale.
Cinquecento
La sezione introduttiva al capitolo sul Cinquecento
ripropone la separazione ‘tradizionale’ tra i primi quattro decenni del secolo,
che segnano il culmine dell’arte italiana, e la seconda metà del secolo,
caratterizzato da un inesorabile declino, condannando il manierismo come forma
involutiva. Panzacchi assegna un ruolo centrale al papato per formare l’arte
romana nei primi quattro decenni. Cita dunque la lettera di Raffaello a Papa Leone X del 1519 sulla protezione e conservazione (o addirittura ricostruzione) dei monumenti
della Roma pagana come esempio di come la cultura umanistica si consolidi e
divenga addirittura il nucleo delle politiche pubbliche della Chiesa. Va detto,
per inciso, che negli stessi anni quel testo viene invece spesso menzionato dalla
nascente critica d’arte tedesca come esempio di una cattiva gestione delle
risorse intellettuali nella Roma papale, in quanto il pontefice avrebbe
distolto l’artista dai suoi compiti principali, nominandolo sopraintendente
delle antichità e degli scavi di Roma nel 1516 e dunque comportando un
rallentamento della sua produzione pittorica. Seguono i decenni della
decadenza: “Gli stili si corrompono e
trionfano le maniere” [40].
![]() |
Fig. 38) Raffaello Sanzio, Lettera di Raffaello d'Urbino a papa Leone X. di nuovo posta in luce dal cavaliere Pietro Ercole Visconti, 1840 |
Utilizzando la stessa tecnica di decostruzione del racconto
cronologico, vi sono evidentemente aspetti di continuità con la trattazione del
Quattrocento, di cui si possono identificare gli stessi ‘pilastri’. Il ruolo
narrativo del Vasari continua ad essere preminente, non solamente con le
biografie degli artisti, ma anche con pagine ‘programmatiche’: la sezione
dell’antologia sul Cinquecento si apre, infatti, con le pagine del Vasari
(nell’introduzione alla terza parte delle Vite)
sui tre periodi dell’arte italiana, cui
si aggiungono discussioni sui rapporti tra pittura e scultura e sulla pittura a
tempera (nell’introduzione alle Vite)
e la descrizione dell’origine delle Vite
stesse (contenuta nella Vita di sé
medesimo). Le consuete pagine biografiche di Vasari sono tratte dalle Vite di Giorgione, del Sodoma, del
Correggio, di Piero di Cosimo, del Tribolo, di Rustici, del Raffaello, di
Andrea del Sarto, di Sebastiano del Piombo, di Marcantonio Raimondi e di
Tiziano.
Le lettere ai potenti sono rappresentate, come già detto,
dal testo che Raffaello invia a Leone X (accompagnato a sue missive meno
impegnative, come quelle a Francesco Francia ed al conte Baldassarre
Castiglione), ma anche dalla corrispondenza tra Tiziano con Federigo Gonzaga ed
il Principe ereditario di Spagna. I testi autobiografici comprendono l’Autobiografia di Raffaello da Montelupo
e soprattutto la Vita di Benvenuto
Cellini. Quanto alla poesia, l’interesse continua ad essere testimoniato dai
versi di numerosissimi autori: in ordine di posizione nell’antologia, vorrei
ricordare il Bembo, il Bramante, l’Ariosto, Giovanni Della Casa, Francesco
Francia (con il menzionato sospetto che si tratti di una falsificazione),
Francesco Berni, Giovan Battista Strozzi il vecchio, Michelangelo, Benvenuto
Cellini, il Bronzino e Domenico Poggini. Se ne ricava chiaramente l’impressione
che produrre poesia sia nel Cinquecento un’attività ancor più diffusa che nel
Quattrocento. Per gli artisti, comporre in versi non è semplicemente un
trastullo per soddisfare lo spirito, ma un potente strumento di comunicazione.
Sono del resto, in gran parte, gli stessi ambienti della Toscana in cui, solo
qualche decennio dopo, nascerà l’opera lirica, segno che la società è alla
ricerca di nuovi strumenti d’espressione che combinino le arti.
Ecco i versi con cui un Giovan Battista Strozzi declama la
sua ammirazione per la Pietà di
Michelangelo, usando argomenti religiosi con molta libertà, segno che il tempo
della rigidità teologica della controriforma non è ancora arrivato.
“Bellezza et onestate
E doglia e pietà in vivo marmo morte,
Deh, come voi pur fate,
Non piangete sì forte,
Che anzi tempo risveglisi da morte,
E pur, malgrado suo,
Nostro signore e tuo,
Sposo, figliuolo e padre,
Unica sposa sua figliuola e madre [41].
E doglia e pietà in vivo marmo morte,
Deh, come voi pur fate,
Non piangete sì forte,
Che anzi tempo risveglisi da morte,
E pur, malgrado suo,
Nostro signore e tuo,
Sposo, figliuolo e padre,
Unica sposa sua figliuola e madre [41].
Il Libro degli Artisti
non potrebbe ovviamente non dedicare ampio spazio al Buonarroti, sia con
“sonetti e madrigali”, sia infine con alcune lettere, inviate anche ad amici e
familiari. Anche qui è centrale il rapporto con i potenti: a Michelangelo si
rivolge Cosimo I nel 1557, invitandolo a ritornare in patria dopo la lunga
permanenza a Roma. A Michelangelo sono dedicate anche numerose citazioni dalla
sua biografia scritta da Ascanio Condivi. Ecco infine alcuni versi di
Buonarroti stesso. Anche se Panzacchi non lo dice, non è escluso che il testo contenga
modifiche, sia per rendere il testo più comprensibile sia forse per evitare
espressioni che avrebbero forse, a suo parere, urtato la sensibilità degli
studenti del 1902 (‘nel parto’ viene
trasformato in ‘nascendo’):
Per fido esemplo di
mia vocazione
Nascendo mi fu data la bellezza,
Che di due arti m’è lucerna e specchio.
E s’altro uom crede, è falsa opinione.
Questa sol l’occhio porta a quella altezza
Per cui scolpire e pingere m’apparecchio.
Sono i giudizi temerari e sciocchi,
Ch’al senso tiran la beltà, che muove
E porta al cielo ogni intelletto sano.
Dal mortale al divin non vanno gli occhi,
Che sono infermi, e non ascendono dove
Ascender senza grazia è pensier vano [42].
Nascendo mi fu data la bellezza,
Che di due arti m’è lucerna e specchio.
E s’altro uom crede, è falsa opinione.
Questa sol l’occhio porta a quella altezza
Per cui scolpire e pingere m’apparecchio.
Sono i giudizi temerari e sciocchi,
Ch’al senso tiran la beltà, che muove
E porta al cielo ogni intelletto sano.
Dal mortale al divin non vanno gli occhi,
Che sono infermi, e non ascendono dove
Ascender senza grazia è pensier vano [42].
Infine, un altro autore che occupa un ruolo preminente è
Benvenuto Cellini. Formidabili ed ancora emozionanti sono le sue pagine in cui
racconta la fusione del Perseo,
tratte dalla sua Vita. Ecco invece i
versi con cui Benvenuto Cellini sfida il suo rivale Baccio Bandinelli in
termini poetici, dopo essersi scontrato con lui davanti a Cosimo de’ Medici a
proposito di un’accusa di plagio:
Cavalier, se voi fussi
[sic] anche poeta
Qual io son, boschereccio, ognor vorrei
De’ vostri versi, e mandarvi de’ miei:
Faremmo un’amicizia bona e cheta.
Qual io son, boschereccio, ognor vorrei
De’ vostri versi, e mandarvi de’ miei:
Faremmo un’amicizia bona e cheta.
Presente il duca già
facemmo dieta
Di gran contesa: or voi faceste, io fei
Rider lo ‘nferno e sdegno a’sacri Iddei,
Natura ha un di noi perversa, inquieta.
Di gran contesa: or voi faceste, io fei
Rider lo ‘nferno e sdegno a’sacri Iddei,
Natura ha un di noi perversa, inquieta.
De’ vivi ho percosso
io; voi molti sassi
Fracassati e distrutti, qual si vede
Biasimo a voi, è mia cuopre la terra
Fracassati e distrutti, qual si vede
Biasimo a voi, è mia cuopre la terra
Un di noi perde le
parole e i passi
Che [a] quel gran Dio del mar ciascun si crede
‘L censo portar di tale onesta guerra? [43].
Che [a] quel gran Dio del mar ciascun si crede
‘L censo portar di tale onesta guerra? [43].
[n.d.r.: Cellini e Bandinelli si scontrarono anche
per la Fontana del Nettuno a Firenze, poi realizzata da Bartolomeo Ammanati]
Emergono anche figure di veri e propri intellettuali che
riescono a fungere come punto di trasmissione tra arte e letteratura. Uno di
essi è Pietro Aretino, con cui corrispondono (per citare le lettere nell’
antologia) Sebastiano del Piombo, Veronica Gambara, Lorenzo Lotto,
Michelangelo, Tiziano e Tintoretto.
![]() |
Fig. 41) Benvenuto Cellini, I trattati dell’oreficeria e della scultura a cura di Carlo Milanesi, 1857 |
Anche la trattatistica è ben rappresentata. Il letterato
fiorentino Agnolo Firenzuola scrive nel 1552 (almeno così scrive Panzacchi: in realtà la princeps è del 1541) il Dialogo delle bellezze delle donne, ovvero un testo tutto centrato
sulla questione centrale per Panzacchi dell’arte come fonte di diletto. Paolo
Pino produce pochi anni prima il Dialogo
della Pittura. Secondo lo studioso influenza Firenzuola, mentre in realtà ne è influenzato. Nel 1557 Ludovico Dolce dà
la parola all’Aretino in un altro Dialogo
della Pittura, i cui passi citati nell’antologia sono dedicati a celebrare
Dürer e Raffaello. Il genere del Dialogo
è infine rappresentato nell’antologia anche da Andrea Gilio, con l’opera
omonima del 1561. Benvenuto Cellini è presente con pagine del Trattato dell’Oreficeria, Andrea
Palladio con I quattro libri
dell'architettura del 1570, Raffaello Borghini con Il Riposo del 1584 ed infine Giovanni Paolo Lomazzo con il Trattato dell’Arte della Pittura del
1584 e l’Idea del Tempio della Pittura del
1590. Chiude la serie (che si era aperta cantando la bellezza delle donne) un’opera
che risente pienamente della cultura della Controriforma come I Veri Precetti della Pittura di
Armenini (1586).
E tuttavia, come si è già detto, il cuore della sezione
sulla letteratura artistica del Cinquecento, come disegnata nell’antologia, è
nella discussione organizzata da Benedetto Varchi sulla “questione della
preminenza fra la pittura e la scultura”, tema di scuola che pur era stato
trattato precedentemente dall’Alberti, da Leonardo e Baldassare Castiglione, ma
che nel Cinquecento diviene fondamentale. Al centro dell’analisi di Panzacchi è
il volume che Varchi pubblica nel 1549 presso Torrentino, con una lezione sul
tema, basata su pareri che egli aveva chiesto ad una serie di artisti. Un’altra
importante fonte per Panzacchi è la discussione sul tema contenuto nell’introduzione da parte di Carlo Milanesi dei Trattati dell’Oreficeria e della Scultura di Benvenuto Cellini,
datata 1857. Panzacchi include nella sua antologia le opinioni che a Varchi
sono comunicate da Cellini, Pontormo, Giovambattista Del Tasso, Sangallo,
Michelangelo; aggiunge la discussione sul tema nel Riposo di Raffaello Borghini. Di Varchi sono anche l’orazione
funeraria per la morte di Michelangelo ed un sonetto in lode del Perseo di
Cellini.
Il Seicento
“Nel Seicento cade la
supremazia dell’arte italiana. Le altre nazioni entrano in gara, e spesso
riescono vincitrici nella pittura. Le altre due arti, sino alla fine del
secolo, restarono nostre” [44]. Con queste parole il Panzacchi spiega, nel
modo più esplicito possibile, che il suo obiettivo non è quello di scrivere
un’antologia di letteratura artistica ‘globale’, ma solamente di autori
italiani. Il suo tema è quello della competizione tra arte italiana e non, e
non vi è dubbio su dove batta il suo cuore: non per l’arte in quanto tale, ma
per l’arte italiana tout court. La
fortuna di ogni sezione dell’antologia, in tal modo, è a suo parere intimamente
legata a quella delle sorti della letteratura artistica nazionale: là dove egli
percepisce che la letteratura artistica italiana ha prodotto risultati meno
valenti, egli si trova nella necessità di offrire ai lettori una selezione di
testi che sia comunque rappresentativa di un’epoca. Del resto, come vedremo in
seguito, anche nel campo della letteratura ‘non-artistica’ tutte le antologie a
cavallo dei due secoli, fino ai testi antologici innovativi di Giovanni
Pascoli, abbracciano solamente la produzione italiana. Le antologie (come del
resto le gallerie nazionali ed i testi di storia dell’arte) sono tutte
strumenti di codificazione che vogliono ‘formare’ una nuova identità nazionale
italiana.
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Fig. 43) Scuola bolognese del XVII secolo, Annibale, Ludovico e Agostino Carracci, senza data |
È un chiaro segno di adesione alla cultura della sua epoca. E tuttavia Panzacchi non condivide l’attitudine negativa del suo tempo nei confronti dell’arte barocca: “il Seicento oggi è un secolo calunniato. (…) È proprio vero che in genere i pittori secentisti e quei della Scuola bolognese in particolare meritino tutta la severità di giudizio, che loro dimostra oggi quasi unanimemente la critica?” [45]. Il Libro degli Artisti rappresenta dunque, in questo caso, un atteggiamento innovativo. Al di là delle diverse ragioni generali per difendere quel secolo (si pensi ai suoi interessi musicali), non si può dimenticare che il nostro autore è anche e soprattutto uno strenuo difensore del mondo bolognese, che tanto ha dato alla pittura del secolo non solamente con l’arte dei Carracci, ma con la creazione prima dell'Accademia dei Desiderosi (1582) poi degli Incamminati (1590) e dunque con la fondazione di una scuola importante d’arte cui si ispireranno, direttamente o indirettamente, artisti emiliani fino al primo Settecento, con la rifondazione dell’Accademia Clementina dopo un periodo di declino.
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Fig. 44) Giampietro Zanotti, dal frontespizio della Storia dell'Accademia Clementina di Bologna (Bologna 1739) |
Panzacchi si ispira all’insegnamento di Pietro Selvatico per
spiegare – nell’introduzione della sezione dell’antologia sulla letteratura
artistica del Seicento – i fondamenti dell’insegnamento carraccesco: “(i) studio della prospettiva, dell’anatomia
e di quei rami di cultura generale che hanno strette attinenze con l’arti
figurative [sic]; (ii) studio del vivo nelle circostanze più opportune, per
modo che l’artista s’impadronisse gagliardamente delle due principali
manifestazioni della vita, cioè il movimento e il chiaroscuro; (iii) comporre e
colorire, avendo occhio a quanto di meglio avevano dato le grandi scuole di
pittura antecedenti” [46].
Nell’esigenza dei Carracci di trarre un bilancio dalle
scuole italiane precedenti gli ultimi decenni del Cinquecento (il cosiddetto
‘eclettismo’, cui Panzacchi dedica una lunga nota, spiegando che “proponeva come regola d’arte il disegno
dell’antico, il colore dei Veneziani, la composizione di Raffaello, la grazie
del Correggio, la forza di Michelangelo” [47]) vi sono in realtà un
riflesso ed un imperativo che sono comune ai bisogni intellettuali della
generazione di Panzacchi: assorbire – nel breve spazio che segue l’unità
italiana – la grande varietà di tradizioni dei secoli precedenti, offrendo ai
‘nuovi italiani’ una visione d’insieme delle belle arti che sia coerente con la
narrativa unitaria. In fondo, in Italia ogni arte nuova ha sempre e comunque la
necessità immanente di sistematizzare e rielaborare un passato vario e
glorioso, in cui nuovi strati si aggiungono a sedimentazioni secolari. Nel Libro degli artisti, questo parallelismo
è simboleggiato dalle similitudini tra due sonetti con cui due artisti d’epoca
diversa si dilettano sui modi di trarre lezione dal passato: uno di Agostino
Carracci (allora ancora considerato da Panzacchi come avente un significato umoristico
ed oggi, secondo Gli scritti dei Carracci di Giovanna Perini, come un omaggio a Nicolo dell’Abate) e l’altro di Telemaco
Signorini, ovvero degli anni direttamente precedenti la pubblicazione
dell’antologia.
Ecco i versi di Agostino:
“Chi farsi un buon
Pittore brama e desia,
Il disegno di Roma abbia alla mano,
La mossa coll' ombrar veneziano,
E il degno colorir di Lombardia;
Il disegno di Roma abbia alla mano,
La mossa coll' ombrar veneziano,
E il degno colorir di Lombardia;
Di Michelangiol la
terribil via,
II vero natural di Tiziano,
Del Correggio lo stil puro e sovrano,
Di un Raffael la vera simmetria;
II vero natural di Tiziano,
Del Correggio lo stil puro e sovrano,
Di un Raffael la vera simmetria;
Del Tebaldi il decoro
e il fondamento,
Del dotto Primaticcio I'inventare,
E un po’ di grazia del Parmigianino.
Del dotto Primaticcio I'inventare,
E un po’ di grazia del Parmigianino.
Ma senza tanti studi e
tanto stento
Si ponga solo l’opre ad imitare
Che qui lasciossi il nostro Nicolino” [48].
Si ponga solo l’opre ad imitare
Che qui lasciossi il nostro Nicolino” [48].
Ed ecco i versi di Telemaco Signorini (con il titolo
“Ricetta per far l’arte italiana”):
“Se prendo il colorito
ai Veneziani,
a quelli di Bologna il chiaroscuro,
il disegno a Firenze, ed ai Romani
il far grandioso nobile e sicuro;
a quelli di Bologna il chiaroscuro,
il disegno a Firenze, ed ai Romani
il far grandioso nobile e sicuro;
Se la grazia di Parma
non trascuro,
ma ne condisco il piatto a piene mani;
di chi dice di no non me ne curo,
chè fatta l’arte avrò per gli Italiani.
ma ne condisco il piatto a piene mani;
di chi dice di no non me ne curo,
chè fatta l’arte avrò per gli Italiani.
Unisco tutti insiem
questi ingredienti,
tal qual come fu unita la nazione,
ed un pasto ne fo per tutti i denti;
tal qual come fu unita la nazione,
ed un pasto ne fo per tutti i denti;
poi servo caldo a Roma
al gran Salone,
e l’arte che s’oppone a tali portenti
l’atto reciterà di contrazione” [49].
e l’arte che s’oppone a tali portenti
l’atto reciterà di contrazione” [49].
E tuttavia va detto che – se Panzacchi trova l’insegnamento
dei Carracci moderno ed attuale – le preclusioni del mondo dell’arte italiano
nei loro confronti (e il luogo comune sul loro eclettismo) saranno superate a
pieno solamente nel 1956, con la mostra sui Disegni
dei Carracci organizzata a Bologna da Dennis Mahon, e nel 1959 con la
mostra dell’Arcangeli sui Maestri della Pittura del Seicento emiliano, sempre a
Bologna. Quella di Panzacchi è dunque un’interpretazione che rimase a lungo
incompresa.
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Fig. 47) Catalogo della mostra dei Disegni dei Carracci, Bologna, 1956 |
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Fig. 48) Catalogo della mostra dei Maestri della Pittura del seicento Emiliano, Bologna, 1959 |
L’atteggiamento nei confronti di Caravaggio e dei
caravaggeschi è invece differente. Panzacchi critica il loro indirizzo
‘naturalistico’, perché esso “nega ogni
autorità e si dà tutto all’imitazione materiale del mondo visibile”: è
l’eco lontana di polemiche che hanno origine con il Bellori, che si sviluppano
per due secoli e sono ancora molto presenti nel primo Novecento. Anch’esse
saranno infine superate solo dopo la seconda guerra mondiale, con la Mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi
del 1951, organizzata da Roberto Longhi a Palazzo Reale a Milano. Se, come si è
già detto, il Bellori non è fra gli autori inclusi nell’antologia del
Panzacchi, la fronda anticavaraggista è rappresentata dalle dichiarazioni
dell’Albani (testimoniate da Malvasia), che “non poté mai tollerare che si seguitasse il Caravaggio, scorgendo esser
quel modo il precipizio e la totale ruina della nobilissima e compitissima virtù
della pittura” [50].
Mi si consenta di ripetere l’opera di ‘destrutturazione’
della sequenza cronologica del Seicento. L’impianto della sezione si basa sulla
narrazione dei fatti biografici di diversi artisti da parte del Baldinucci e
del Malvasia. Del primo sono citati passaggi delle Notizie dei professori del disegno, con riferimento alle Vite di Annibale, Ludovico ed Agostino
Carracci, del Domenichino, del Barocci e del Bernini; del secondo si trovano
pagine dalle Vite ancora del
Domenichino, del Guercino e di Guido Reni (un testo toccante sul vizio del
gioco di cui è vittima anche Guido Reni). Tra le altre fonti si trovano
Francesco Scannelli (Microcosmo della
Pittura, su Guido Reni), Giovan Battista Passeri (Vite dei pittori, su Pietro da Cortona) e Francesco Milizia (in realtà
un settecentista, con le sue Memorie
degli architetti, sul Borromini). I testi del gesuita Rosignoli (con la Pittura in Giudizio) continuano la
tradizione della trattatistica della controriforma.
L’unica missiva inviata da un artista ad un potente è la
lettera di Gian Lorenzo Bernini al cardinale di Richelieu. Per il resto, le
lettere sono ormai spesso rivolte a comunicazioni tra artisti, sia su questioni
d’arte sia su temi personali: i Carracci tra loro, il Domenichino e l’Albani,
Zuccari e Ludovico Carracci. È l’indice che gli artisti ‘fanno squadra’, per
usare una terminologia moderna, anche frequentando istituzioni comuni.
L’importanza dei legami familiari si evidenzia con le testimonianze di Domenico
e Pietro Filippo Bernini a proposito del padre Gian Lorenzo Bernini. Non manca
la corrispondenza degli artisti con i committenti (Ludovico Carracci a don
Carlo Ferrante; Guido Reni ad Antonio Galeazzo Fibbia; Francesco Albani a
Cesare Leopardi; Salvator Rosa a Giovan Battista Ricciardi), che indicano la
situazione di dipendenza economica degli artisti da uomini di potere che non
sono più al vertice delle istituzioni. La citazione di alcune pagine del Libro dei conti del Guercino ed il rapporto
medico con le dichiarazioni del Borromini sul suo tentativo di suicidio (cui
egli infine soccomberà nel giro di qualche giorno) sono, per molti aspetti,
solamente curiosità.
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Fig. 50) Salvator Rosa, Scene di stregonerie, circa 1645-1649 |
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Fig. 51) Salvator Rosa, Paesaggio con Mercurio e il boscaiolo disonesto, 1663 circa |
Quanto alla poesia, va segnalata la satira “La pittura” di Salvator Rosa. Di lui
Panzacchi scrive: “Fu uno dei più
bizzarri ingegni che possa vantare l’Italia. Fu pittore di genere, di ritratti
e di battaglie, ed è anche uno dei più notevoli tra i pittori di paese. Egli
interpretò con mano maestra e con animo ispirato gli orrori della natura
salvaggia [sic] o infuriata, gli uragani della terra e del mare, le gole dei
mondi abitate dall’ombre e dai banditi. (…) Fu, come si vede dai brani
riportati sopra, satirico vigoroso e arguto. Le sue satire hanno un’importanza
straordinaria per lo studio dell’arte e dei suoi traviamenti secenteschi; le
prime tre sono intitolate dalla musica, dalla poesia, dalla pittura” [51].
Nella satira il Rosa – che pur era pittore estroso e fuori dai criteri
iconografici tradizionali – attacca frontalmente l’attività dei “bamboccianti”,
pittori di genere stranieri (che lui chiama “ultramontani’) famosi per una pittura caricaturale di scene di vita
popolare (si veda qui il Carnevale romano
di Jan Miel).
E tuttavia, nonostante Salvator Rosa voglia segnalare
disapprovazione per quel che ritiene un eccesso da parte dei Bamboccianti, il
testo della sua satira è così esplicito da venire persino censurato dal Panzacchi:
il verso “un che piscia, un che caga, un
che alla gatta / vende la trippa” viene riportato nella forma “un che…, un che…, un che alla gatta / vende
la trippa”. Riportiamo qui il testo come mostrato da Panzacchi.
“Vi è poi qualcun che
col pennel trascorse
a dipinger faldoni e guitterie
e facchini e monelli e tagliaborse,
a dipinger faldoni e guitterie
e facchini e monelli e tagliaborse,
vignate, carri, calcate,
osterie,
stuolo d'imbriaconi e genti ghiotte,
tignesi tabaccari o barberie,
stuolo d'imbriaconi e genti ghiotte,
tignesi tabaccari o barberie,
nigregnacche bracon
trentapagnotte,
chi si cerca i pidocchi e chi si gratta
e chi vende al baron le pere cotte,
chi si cerca i pidocchi e chi si gratta
e chi vende al baron le pere cotte,
un che …, un che…, un
che a la gatta
vende la trippa, Gimignan che suona,
chi rattoppa un boccal, chi la ciabatta.
vende la trippa, Gimignan che suona,
chi rattoppa un boccal, chi la ciabatta.
Nè crede oggi il
pittor far cosa buona
se non dipinge un gruppo di stracciati,
se la pittura sua non è barona.”
se non dipinge un gruppo di stracciati,
se la pittura sua non è barona.”
[n.d.r.: ci si riferisce ad un gioco dei dadi,
il gioco del barone] [52].
Uno spazio del tutto particolare è infine riservato a Gian
Battista Marino (1569-1625). Oltre ad una lettera a Ludovico Carracci, il Libro degli Artisti contiene nove
componimenti poetici: uno in onore di Annibale Carracci e sette che celebrano
altrettanti dipinti: l’Erodiade con la testa di San Giovanni Battista d’Annibale,
la Salmace ed il Bacco ed Arianna di Ludovico, il Polifemo di Agostino, la Calisto
e l’Apollo e Dafne di Guido Reni e l'Erodiade con la testa di San Giovanni
Battista di Lavinia Fontana. Va detto che in molti casi si tratta di
dipinti fittizi, che non corrispondono ad opere effettivamente realizzate (o
forse solamente a disegni e schizzi).
Ecco due composizioni di Gian Battista Marino sullo stesso
tema, l’Erodiade con la testa di San
Giovanni Battista, nella versione prima per un’opera inventata di Annibale
Carracci e poi per una di Lavinia Fontana.
“O
Tragedia funesta,
Come
tronca ed esangue
Fa
del buon Precursor la sacra testa
I
bianchi lini rosseggiar di sangue!
Ahi,
pompose ne son di cibi tali
Sol
le mense reali.
Non
è, credilo a me, donna nefanda,
da
desco poverel simil vivanda” [53].
“Mentre
in giro movendo il vago piede
la
Danzatrice Hebrea,
ciò
ch'a pena potea
soffrir
con gli occhi, con la lingua chiede;
ebro
il Re Palestino
di
lascivia e di vino,
le
dona pur, dal giuramento astretto,
il
capo benedetto.
O
più perfida assai, ché ciò concede,
d'ogni
perfidia altrui, perfida fede!” [54].
Quello di Marino sembrerebbe il caso perfetto di un fertile incontro tra letteratura e pittura, come nel caso di Salvator Rosa. E tuttavia, nonostante le molte citazioni, nel Libro degli Artisti il Panzacchi si mostra molto reticente, semplicemente affermando: “Nella Galleria il poeta cantava opere d’arte con strofe piene di concettini e di versi armoniosi. Il Marini [sic], la cui vita appartiene alla storia letteraria, nacque a Napoli nel 1569 e vi morì nel 1625” [55]. In realtà a Panzacchi la poesia di Marino non piace affatto. Al poeta barocco (considerato ai suoi tempi il più importante poeta del mondo) egli dedica un altro dei discorsi al pubblico femminile contenute in Conferenze e discorsi [56], spiegando che la sua opera è comunque artificiosa e di pessimo gusto (ed il marinismo è addirittura un fenomeno di “patologia letteraria”), anche se tali pecche non sono solamente una sua caratteristica, ma si riscontrano ovunque nella letteratura di quegli anni.
Vai alla parte Terza (di prossima pubblicazione)
NOTE
[30] Gli Albori della vita italiana: conferenze tenute
a Firenze nel 1890, a cura di Olindo Guerrini. Conferenze di Pasquale Villari,
Pompeo Molmenti, Romualdo Bonfadini, Ruggero Bonghi, Arturo Graf, Felice Tocco,
Pio Rajna, Adolfo Bartoli, Francesco Schupfer, Giacomo Barzellotti, Enrico
Panzacchi ed Ernesto Masi Epilogo, Milano, F. Treves, 1897, 398 pagine. Si veda
[31] Gli Albori della vita italiana … (citato), p. 352.
[32] Panzacchi
Enrico, Saggi critici, Napoli, Chiurazzi, 1896, 349 pagine. Si veda:
[33] Gli Albori della vita italiana … (citato), p. 363.
[34] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti: Antologia, Milano, Tipografia editrice L. F. Cogliati, 1902, 535 pagine. Citazione
alle pagine 40-41.
[35] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), pp. 70-71.
[36] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), pp. 114.
[37] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), pp. 115.
[38] Panzacchi, Enrico – Conferenze e discorsi, Milano,
Tipografia Editrice L. F. Cogliati, 1899, pagine 296. La conferenza su Leonardo
è alle pagine 87- 111. Si veda
[39] Panzacchi, Enrico – Conferenze e discorsi … (citato), pp. 96-97.
[40] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 10.
[41] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 222.
[42] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 224.
[43] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 274.
[44] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 315.
[45] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 315.
[46] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 316.
[47] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 322.
[48] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 326.
[49] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 527.
[50] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 354.
[51] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), pp. 368-369.
[52] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 367.
[53] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 337.
[54] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 357.
[55] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti …
(citato), p. 330.
[56] Panzacchi, Enrico – Conferenze e discorsi … (citato), pp. 96-97.
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