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lunedì 8 maggio 2017

Enrico Panzacchi. Il Libro degli Artisti: Antologia, 1902. Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda


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Storia delle antologie di letteratura artistica
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Enrico Panzacchi, 
Il Libro degli Artisti. Antologia 
Milano, Tipografia Editrice L.F. Cogliati, 1902, 527 pagine.

Recensione di Francesco Mazzaferro. Parte Seconda


Fig. 26) Una foto di Enrico Panzacchi nel 1904, anno della scomparsa

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Nella prima parte di questo saggio abbiamo visto come il mondo di Panzacchi sia caratterizzato da un incrocio tra letteratura ed arte. La letteratura artistica è da lui implicitamente definita come quell’ampio spazio del mondo delle lettere dove s’incrociano gli scritti di letterati e artisti sulle questioni estetiche. Il ruolo cruciale dell’incontro tra linguaggio e immagine è testimoniato dal fatto che nel 1900 Panzacchi approfitti dei pochi mesi della sua presenza al governo del Regno per introdurre la storia dell’arte nei programmi delle scuole superiori, inquadrandola appunto nell’insegnamento delle lettere. Due anni dopo, nel 1902, la pubblicazione dell’antologia Il Libro degli Artisti, il più esteso dei suoi scritti sull’arte, offre a professori e studenti un’ampia antologia di letteratura artistica italiana. È una delle ultime fatiche di Panzacchi, che scompare nel 1904. 

Fig. 27) Giampietro Zanotti, Avvertimenti per lo incamminamento di un giovane alla pittura, 1756

Consideriamo ora il contenuto dell’antologia, analizzando la scelta dei circa 250 brani, un centinaio dei quali sono testi poetici. Lo facciamo seguendo l’intuizione che Panzacchi voglia creare per la prima volta, con la sua antologia, un canone completo delle fonti di storia dell’arte in Italia. Semplicemente da un punto di vista quantitativo, i principali punti di riferimento per tale storia sono Leonardo da Vinci (con cinquantotto capitoli del Trattato della Pittura), il Vasari (con una quarantina di citazioni, in gran parte citazioni dalle Vite, ma anche lettere spedite o ricevute), Cennino Cennini (del suo Libro dell’arte sono riprodotti diciotto capitoli), Michelangelo (diciotto testi tra poesie e lettere inviate o ricevute), Benvenuto Cellini (tredici tra citazioni dell’autobiografia, dei trattati e di versi), Gian Battista Marino (con dieci tra poemi e lettere), Filippo Baldinucci (con otto brani tratti dalle Notizie dei professori del disegno), Francesco Milizia (otto brani) e Salvator Rosa (cinque testi tra poesie e lettere). Un ruolo importante è anche assegnato alla disputa rinascimentale sul paragone delle arti (con otto testi di vari autori, pubblicati in modo da essere identificati come parte di un'unica discussione). Tra gli autori degli ultimi anni, rilevante l’interesse per due artisti molto rinomati, entrambi scomparsi da poco al momento della pubblicazione: Giovanni Segantini (sei brani) e Telemaco Signorini (quattordici citazioni in prosa e poesia).


Fig. 28) Giuliano Cassiani, Poesie scelte, 1794

Dal punto di vista geografico, va segnalata l’importanza del contributo emiliano-romagnolo a partire dal Seicento. In quel secolo all’intero materiale prodotto dagli artisti della scuola di Bologna (scritti dei tre Carracci e di Domenichino, Guercino, Guido Reni ed Albani) si aggiungono i contributi del Malvasia, dello Scannelli e del Rosignoli. Nel Settecento (con Zanotti, Crespi, Cassiani e Passeri) e nell’Ottocento (con Costa, Fontanesi e Serra) compaiono invece artisti e letterati che, almeno in alcuni casi, sono oggi poco conosciuti a livello nazionale e sono probabilmente inclusi nel Libro degli Artisti per rappresentare la continuità della letteratura artistica locale. 

Fig. 29) Niccola Passeri, Esame ragionato sopra la nobiltà della pittura, e della scultura, 1783

Quali sono le fonti di Panzacchi? Almeno ad un primo esame, sembra che tutti i testi provengano più dalle biblioteche che dagli archivi, ovvero che si tratti di opere tutte già stampate e non di manoscritti. In altre parole, Panzacchi avrebbe sicuramente consultato uno spettro molto ampio di opere già presenti, ma non avrebbe allargato il perimetro delle conoscenze scientifiche. Considerando ad esempio gli autori emiliani già citati nella sezione del Settecento, gli Avvertimenti per lo incamminamento di un giovane alla Pittura di Zanotti esistono in edizioni a stampa in versioni del 1756 e del 1828, le Poesie scelte di Giuliano Cassiani in edizioni del 1794, 1802 e del 1897, ed infine l’Esame ragionato sopra la nobiltà della pittura e della scultura di Nicola Passeri in un’edizione del 1783. Più in generale, le raccolte di Bottari, Gaye e Gualandi offrono ovviamente a Panzacchi un repertorio importante di lettere. Ritorna spesso anche il nome di Gaetano Milanesi, come fonte di testi toscani. Per le poesie una delle fonti più citate è Poesie italiane inedite di dugento autori di Francesco Trucchi (1846). 

Fig. 30) Francesco Trucchi,
Poesie Italiane inedite di dugento autori dall'origine della lingua infino al secolo decimosettimo, 1846

Mi sembra altrettanto significativo indicare fin d'ora anche quel che evidentemente Panzacchi decide di non includere nell’antologia. Assente il Bellori, citato solamente in nota. Pochissimi i veneti (Algarotti, Canova e Goldoni), probabilmente perché nel mondo carducciano dell’università di Bologna risulta difficile proporre ad un largo pubblico testi che non siano scritti in toscano, la lingua scelta come comune all’Italia intera. Esclusa quasi totalmente (con l’eccezione del Milizia) la trattatistica sei-settecentesca, probabilmente perché ad essa viene assegnato un ruolo diverso da quello letterario. Mancano totalmente i testi dei primi storici dell’arte italiani, compresi quelli di grande diffusione (si pensi ad esempio al Lanzi a fine Settecento) e gli scritti dei conoscitori italiani dell’Ottocento (dal Cavalcaselle a Morelli), forse perché considerati non far parte del magico incontro tra letteratura ed arte. Infine, non vi è nessun testo di artisti stranieri.

Consideriamo ora separatamente le varie sezioni, cercando di intuire – per quanto possibile – le ragioni che hanno spinto il Panzacchi a selezionare gli autori.


Duecento e Trecento

Nell’introduzione al primo capitolo Panzacchi ritorna ai temi che ha già trattato dieci anni prima in una conferenza su “Le origini dell'arte nuova”, tenutasi a Firenze nel 1890 per un ciclo d’incontri su gli “Albori della vita italiana” [30]. In quel testo Panzacchi prende nettamente le distanze dai movimenti di riscoperta dell’arte dell’alto medioevo, tipici del romanticismo: “Che cos’è, esteticamente parlando, il medio evo? Non si può parlare del risveglio artistico che si manifestò nel dugento senza risalire, un poco o molto, all’epoca precedente. (…) Per me, lo dico subito, il medio evo è un’epoca essenzialmente inestetica. I rivenditori di quest’epoca insorgono contro questa mia affermazione e adducon fatti numerosi e importanti per provare il contrario, ma io credo che essi vadano equivocando e che confondano il vero medio evo con dei fatti che costituiscono appunto la negazione e il principio della cessazione di quell’epoca. Figuratevi che vi sono alcuni i quali mettono fra le glorie del medio evo anche la Divina Commedia! (…) Durante i secoli precedenti l’opera d’arte vera e completa non vi troverete mai. (…) E poi, nel medio evo, predomina troppo la fantasia del brutto” [31].

Fig. 31) Affresco absidale con Cristo Pantacreatore, San Clemente de Tahull, 1123 circa

Appartengono al brutto, secondo il testo del 1890, sia i Cristi pantocratori di tradizione bizantina sia le chiese gotiche con le loro decorazioni. E tuttavia, a differenza di altri paesi, in Italia anche durante il Medioevo si è conservato – anche in forma fantastica e mitologica – il ricordo della bellezza classica, che rende possibile “il risorgimento artistico in Italia ed in Toscana” grazie a Niccolò Pisano e Giotto. A tal proposito, sempre nella conferenza del 1890, Panzacchi si affida ad una antica leggenda rabbinica, “resuscitata e commentata” dallo storico francese delle religioni Ernest Renan (1823–1892) nei cui confronti nutre una vera e propria venerazione (gli dedica uno dei Saggi critici [32] del 1896 e lo cita continuamente in molti scritti). Secondo questa tradizione, durante l’alto Medioevo il popolo di Roma avrebbe nascosto nelle proprie abitazioni le più belle statue romane che riproducevano donne, non dichiarando la loro scoperta alle autorità ecclesiali, per poterle ammirare di nascosto; in tal modo il popolo italiano avrebbe preservato in segreto il buon gusto e l’amore per il bello [33].

Fig. 32) Léon Bonna, Ritratto di Ernest Renan, 1892

L’antologia si apre con il primo capitolo del Libro dell’arte di Cennino Cennini (qui citato con il nome di Trattato della pittura dall’edizione Milanesi del 1859). Da un punto di vista cronologico, il testo di Cennini appartiene in realtà alla fase conclusiva di questo periodo (ed addirittura, secondo alcuni, è un testo innovativo del primo umanesimo). Panzacchi pubblica comunque l’intero primo capitolo all’inizio del suo Libro degli Artisti, come primo brano dell’antologia e dunque come vero e proprio testo fondatore della letteratura artistica. Credo lo faccia per quel che vi si legge su “fantasia” e “operazione di mano”, e sulla modernità del linguaggio artistico, che passa con Giotto dalla maniera greca a quella latina. Di Cennino vengono proposti altri diciassette capitoli, ma significativamente non immediatamente dopo il primo, a sottolineare che quest’ultimo ha valore assoluto sulla rinascita dell’arte, come confermato anche da altri passaggi nella sezione, tratti da testi di Ghiberti e Vasari (che con Duecento e Trecento non centrano affatto).

Quello di Panzacchi, si è detto, non è un universo di tipo tardo-romantico, tutto occupato nel recupero dei miti dell’alto medioevo. E tuttavia, nonostante le breve citazioni dagli statuti dell’arte dei pittori e degli orafi di Firenze e Siena, il metodo di Panzacchi non è neppure quello positivista che si è andato diffondendo nel mondo austriaco con Rudolf Eitelberger von Edelberg (1817–1885) e in quello italiano con Gaetano Milanesi (1813–1895). L’immagine di Duecento e Trecento di Panzacchi resta comunque letteraria ed è testimoniata dall’inclusione nell’antologia di testi sull’arte di Giovanni Villani, Dante Alighieri, Franco Sacchetti e Francesco Petrarca.

Fig. 33) Andrea Orcagna, San Matteo con scene della vita, 1367 circa

L’interesse specifico di Panzacchi per la poesia come strumento più nobile dei sentimenti degli artisti è testimoniato dai bei versi di Andrea Orcagna (1310 circa – 1368), uno dei primi artisti globali (fu pittore, scultore, architetto ed anche poeta). Tra di essi ho scelto i versi sui “Tristi effetti del giuoco”, tratti dalla raccolta di Trucchi.

“Quanto la vita mia si meni amara,
S’avessi cento lingue, non saprei
Narrare, e tutti gli affanni miei,
E il perdimento dell’alma sì cara
.

Di tutto n’è cagion la brutta zara:
Che viver con virtù più non saprei,
Se non fosse l’aiuto di colei
Che a’ miei crudi accidenti sempre para
.

Io mi trovo distrutto dell’avere
Per te, vizioso giuoco; perdo e vinco,
E Cristo e i santi ho messo in non calere;


E il corpo n’è sì stanco lasso e vinto
Che in vita più non posso sostenere,
Benché nel viso lo porti dipinto.


Nè mai non ebbi vinto.
Che la ragione mi stesse del pari:
Avrei caro il morir più che i denari”
[34]. 

Fig. 34) Andrea Orcagna, Tabernacolo, Morte e assunzione della Vergine, 1355-1359

Quattrocento

La sezione dell’antologia sul Quattrocento si apre con gli architetti del primo rinascimento (Alberti e Brunelleschi) e si chiude con Leonardo, che viene dunque considerato – per usare la terminologia del Vasari – come l’ultimo dei grandi artisti della ‘maniera moderna’ e non come il primo dalla ‘nuova maniera cinquecentesca’, in tal modo seguendo una logica diversa da quella delle Vite.

Fig. 35) Leonardo da Vinci,
Trattato della Pittura, nouamente dato in luce, con la vita dell'istesso autore, scritta da Rafaelle du Fresne, 1651

Considerando gli architetti del primo Quattrocento, di Leon Battista Alberti sono citati i trattati latini Della pittura e Della statua (nella traduzione italiana di Cosimo Bartoli) e due brevi brani poetici in toscano dello stesso autore. I testi dei trattati sono tratti dalla versione pubblicata nel 1651 da Giacomo Langlois, che li include in appendice al Trattato della Pittura di Leonardo. Dell’edizione Langlois esistono anche versioni più recenti del 1733 e del 1786, ma evidentemente Panzacchi ha accesso alla prima edizione. Versioni critiche più moderne dei testi dei trattati di Alberti sono anche pubblicate a Vienna in italiano (ed in tedesco) nella famosissima edizione del 1877 a cura di Hubert Janitschek (come parte della raccolta viennese delle fonti di storia dell’arte, di chiaro impianto positivista). Non è escluso che Panzacchi non la conoscesse. Le poesie dell’Alberti sono invece tratte dal Trucchi. Lo stesso vale per tre sonetti del Brunelleschi, uno dei quali è di grande amarezza. Mi piace citarlo, perché sembra confermare che sentimenti di insoddisfazione sul funzionamento della società appartengano a tutte le età, incluse quelle (come la Firenze del Quattrocento) che sono oggi considerate come momenti di eccellenza collettiva.

Fig. 36) Filippo Brunelleschi, Cappella dei Pazzi, a partire dal 1429

“Io veggo il mondo tutto inritrosito,
che chi de' dar dimanda a chi de' avere,
e chi promette non vuole attenere,
colui che offende accusa po' il ferito.
Prosciolto è 'l ladro, il giusto è punito;
e 'l tradimento tiensi più sapere:
così inganna l'un l'altro al più potere,
e chi fa peggio n'ha miglior partito.
Veggo che 'l padre del figliuol si parte,
E l’un coll’altro fratel si percuote:
non val senza amistà, ragione o carte.
Adunque la sua parte si riscuote,
chi me' di tradimento sa far l' arte ,
e mal ci nacque chi poco ci puote.
Ma sì torbide note
Converrà che si purghin con ragione
nanzi che passi non lunga stagione”
[35].

Fig. 37) Benozzo Gozzoli, La Cavalcata dei Magi, Parete sud, 1459-60, affresco, Palazzo Medici-Riccardi, Firenze

La struttura dell’antologia, come si è detto, è cronologica. Credo tuttavia che si possa ‘destrutturare’ la sezione dell’antologia sul Quattrocento identificandone cinque ‘pilastri’. Il primo è il racconto di Vasari, che è la fonte di informazione più presente. Le sue Vite vengono citate pagine a proposito di (nell’ordine in cui compaiono nell’antologia) Brunelleschi, Donatello, Andrea del Castagno, Domenico Veneziano, Fra Filippo Lippi, Paolo Uccello, Ghiberti, Desiderio da Settignano, Lorenzo Costa, Iacopo Bellini, Ercole de’ Roberti, Filippino Lippi, il Verrocchio, il Perugino, Sandro Botticelli, Francesco Francia, il Cecca e Leonardo. Il secondo pilastro consiste nelle lettere che gli artisti indirizzano ai potenti del loro tempo (Benozzo Gozzoli a Pietro de’ Medici, Andrea Mantegna a Francesco Gonzaga, lo stesso Mantegna alla Marchesa Isabella Gonzaga, Giovan Giacomo Calandra alla medesima marchesa), tutte tratte dalla raccolta del Gaye; sono la testimonianza del successo sociale dell’arte nel Quattrocento. Seguono alcuni testi autobiografici (dai Commentari di Ghiberti, dai Ricordi di Alessio Baldovinetti, dai Ricordi del Filarete) citati da edizioni ottocentesche, ed un passo di Francesco Colonna dal Polifilo: gli artisti divengono autori di opere letterarie che hanno una loro identità definita. Vi sono poi, come quarto pilastro, lunghi testi poetici puramente letterari: la Giostra di Poliziano, la Cronaca Rimata di Giovanni Santi, padre di Raffaello (citata dalla celebre monografia di Passavant su Raffaello e suo padre, tradotta in italiano nel 1882 con il titolo “Raffaello d'Urbino e il padre suo, Giovanni Santi”), ed il celeberrimo Trionfo di Bacco ed Arianna di Lorenzo il Magnifico: l’arte diviene uno dei temi di riflessione primaria degli intellettuali del tempo, compresi quelli che non hanno dimestichezza alcuna con la materialità della produzione artistica. L’ultimo pilastro è costituito da una serie di epitaffi ed iscrizioni funebri che testimoniano il bisogno della società di ricordare le personalità dell’arte ormai scomparse, primo necessario requisito per ogni identificazione di una storia dell’arte.

Ecco due epitaffi sul giovanissimo Masaccio (il primo di Annibal Caro, il secondo anonimo), entrambi originariamente inclusi nelle Vite del Vasari.

“Pinsi, e la mia pittura al ver fu pari;
l’atteggiai, l’avvivai, le diedi il moto,
le diedi affetto. Insegni il Buonarroto
a tutti gli altri, e da me solo impari”
[36].

“Se alcun cercasse il marmo o il nome mio;
la chiesa è il marmo, una cappella è il nome.
Morii, che Natura ebbe invidia, come
l’Arte del mio pennello uopo e desio”
[37].

Il Libro degli Artisti lascia al Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci lo spazio più ampio in tutta l’antologia. A lui Panzacchi dedica una conferenza nel corso degli anni Novanta, pubblicata nella raccolta Conferenze e discorsi nel 1899. Si tratta in gran parte di presentazioni al grande pubblico non specializzato (in quell’occasione, una conferenza ad un pubblico solo femminile), che confermano la vena di Panzacchi come divulgatore. Nel caso di Leonardo lo studioso si pone l’obiettivo di chiarire che, a suo parere, Leonardo è prima di tutto artista e poi scienziato” [38]. “Se non che, per quanto mi ha dettato lo studio amoroso dei manoscritti leonardeschi ora in molta parte editi, io penso che, mentre lo scienziato pare alle volte che dietro a sé ci nasconda l’artista, l’artista invece tiene sempre il campo. È sempre l’Arte la regina della mente di Leonardo. Basta leggere alcune pagine del Trattato in cui celebra le lodi della sua prediletta fra le arti, la pittura, per capire da che sovrano entusiasmo estetico fosse riscaldato e mosso l’animo suo. Per cui tante volte, mentre direste alla prima che la indagine scientifica prepari in Leonardo il lavoro dell’arte, la verità vera è invece il contrario: vale a dire che il lavoro della scienza non è altro che un prolungamento, a dir così, della ricerca artistica. E con questa gran differenza che, mentre gli altri artisti suoi contemporanei si fermavano alla parvenza delle cose e quella cercavano di ritrarre secondo le regole, Leonardo, spinto da un fervore d’animo tutto suo particolare, andava anche al di là della parvenza artistica, e voleva trovare e trovava in fatto la ragione d’essere di questa in una più alta ragione speculativa” [39]. Si spiega così perché Panzacchi, a fianco di pagine chiaramente rilevanti per capire lo stile del pittore, come ad esempio sul chiaroscuro, includa nell’antologia anche passaggi su come raffigurare gli alberi, i prati e le foglie: si tratta sempre del tema dell’arte naturale.


Cinquecento

La sezione introduttiva al capitolo sul Cinquecento ripropone la separazione ‘tradizionale’ tra i primi quattro decenni del secolo, che segnano il culmine dell’arte italiana, e la seconda metà del secolo, caratterizzato da un inesorabile declino, condannando il manierismo come forma involutiva. Panzacchi assegna un ruolo centrale al papato per formare l’arte romana nei primi quattro decenni. Cita dunque la lettera di Raffaello a Papa Leone X del 1519 sulla protezione e conservazione (o addirittura ricostruzione) dei monumenti della Roma pagana come esempio di come la cultura umanistica si consolidi e divenga addirittura il nucleo delle politiche pubbliche della Chiesa. Va detto, per inciso, che negli stessi anni quel testo viene invece spesso menzionato dalla nascente critica d’arte tedesca come esempio di una cattiva gestione delle risorse intellettuali nella Roma papale, in quanto il pontefice avrebbe distolto l’artista dai suoi compiti principali, nominandolo sopraintendente delle antichità e degli scavi di Roma nel 1516 e dunque comportando un rallentamento della sua produzione pittorica. Seguono i decenni della decadenza: “Gli stili si corrompono e trionfano le maniere” [40].

Fig. 38) Raffaello Sanzio,
Lettera di Raffaello d'Urbino a papa Leone X. di nuovo posta in luce dal cavaliere Pietro Ercole Visconti, 1840

Utilizzando la stessa tecnica di decostruzione del racconto cronologico, vi sono evidentemente aspetti di continuità con la trattazione del Quattrocento, di cui si possono identificare gli stessi ‘pilastri’. Il ruolo narrativo del Vasari continua ad essere preminente, non solamente con le biografie degli artisti, ma anche con pagine ‘programmatiche’: la sezione dell’antologia sul Cinquecento si apre, infatti, con le pagine del Vasari (nell’introduzione alla terza parte delle Vite) sui tre periodi dell’arte italiana, cui si aggiungono discussioni sui rapporti tra pittura e scultura e sulla pittura a tempera (nell’introduzione alle Vite) e la descrizione dell’origine delle Vite stesse (contenuta nella Vita di sé medesimo). Le consuete pagine biografiche di Vasari sono tratte dalle Vite di Giorgione, del Sodoma, del Correggio, di Piero di Cosimo, del Tribolo, di Rustici, del Raffaello, di Andrea del Sarto, di Sebastiano del Piombo, di Marcantonio Raimondi e di Tiziano.

Le lettere ai potenti sono rappresentate, come già detto, dal testo che Raffaello invia a Leone X (accompagnato a sue missive meno impegnative, come quelle a Francesco Francia ed al conte Baldassarre Castiglione), ma anche dalla corrispondenza tra Tiziano con Federigo Gonzaga ed il Principe ereditario di Spagna. I testi autobiografici comprendono l’Autobiografia di Raffaello da Montelupo e soprattutto la Vita di Benvenuto Cellini. Quanto alla poesia, l’interesse continua ad essere testimoniato dai versi di numerosissimi autori: in ordine di posizione nell’antologia, vorrei ricordare il Bembo, il Bramante, l’Ariosto, Giovanni Della Casa, Francesco Francia (con il menzionato sospetto che si tratti di una falsificazione), Francesco Berni, Giovan Battista Strozzi il vecchio, Michelangelo, Benvenuto Cellini, il Bronzino e Domenico Poggini. Se ne ricava chiaramente l’impressione che produrre poesia sia nel Cinquecento un’attività ancor più diffusa che nel Quattrocento. Per gli artisti, comporre in versi non è semplicemente un trastullo per soddisfare lo spirito, ma un potente strumento di comunicazione. Sono del resto, in gran parte, gli stessi ambienti della Toscana in cui, solo qualche decennio dopo, nascerà l’opera lirica, segno che la società è alla ricerca di nuovi strumenti d’espressione che combinino le arti.

Ecco i versi con cui un Giovan Battista Strozzi declama la sua ammirazione per la Pietà di Michelangelo, usando argomenti religiosi con molta libertà, segno che il tempo della rigidità teologica della controriforma non è ancora arrivato.

“Bellezza et onestate
E doglia e pietà in vivo marmo morte,
Deh, come voi pur fate,
Non piangete sì forte,
Che anzi tempo risveglisi da morte,
E pur, malgrado suo,
Nostro signore e tuo,
Sposo, figliuolo e padre,
Unica sposa sua figliuola e madre
[41].

Fig. 39) Michelangelo, Pietà, 1498–1499

Il Libro degli Artisti non potrebbe ovviamente non dedicare ampio spazio al Buonarroti, sia con “sonetti e madrigali”, sia infine con alcune lettere, inviate anche ad amici e familiari. Anche qui è centrale il rapporto con i potenti: a Michelangelo si rivolge Cosimo I nel 1557, invitandolo a ritornare in patria dopo la lunga permanenza a Roma. A Michelangelo sono dedicate anche numerose citazioni dalla sua biografia scritta da Ascanio Condivi. Ecco infine alcuni versi di Buonarroti stesso. Anche se Panzacchi non lo dice, non è escluso che il testo contenga modifiche, sia per rendere il testo più comprensibile sia forse per evitare espressioni che avrebbero forse, a suo parere, urtato la sensibilità degli studenti del 1902 (‘nel parto’ viene trasformato in ‘nascendo’):

Per fido esemplo di mia vocazione
Nascendo mi fu data la bellezza,
Che di due arti m’è lucerna e specchio.
E s’altro uom crede, è falsa opinione.
Questa sol l’occhio porta a quella altezza
Per cui scolpire e pingere m’apparecchio.
Sono i giudizi temerari e sciocchi,
Ch’al senso tiran la beltà, che muove
E porta al cielo ogni intelletto sano.
Dal mortale al divin non vanno gli occhi,
Che sono infermi, e non ascendono dove
Ascender senza grazia è pensier vano
[42].

Infine, un altro autore che occupa un ruolo preminente è Benvenuto Cellini. Formidabili ed ancora emozionanti sono le sue pagine in cui racconta la fusione del Perseo, tratte dalla sua Vita. Ecco invece i versi con cui Benvenuto Cellini sfida il suo rivale Baccio Bandinelli in termini poetici, dopo essersi scontrato con lui davanti a Cosimo de’ Medici a proposito di un’accusa di plagio:

Cavalier, se voi fussi [sic] anche poeta
Qual io son, boschereccio, ognor vorrei
De’ vostri versi, e mandarvi de’ miei:
Faremmo un’amicizia bona e cheta.
Presente il duca già facemmo dieta
Di gran contesa: or voi faceste, io fei
Rider lo ‘nferno e sdegno a’sacri Iddei,
Natura ha un di noi perversa, inquieta.
De’ vivi ho percosso io; voi molti sassi
Fracassati e distrutti, qual si vede
Biasimo a voi, è mia cuopre la terra
Un di noi perde le parole e i passi
Che [a] quel gran Dio del mar ciascun si crede
‘L censo portar di tale onesta guerra?  
[43].

[n.d.r.: Cellini e Bandinelli si scontrarono anche per la Fontana del Nettuno a Firenze, poi realizzata da Bartolomeo Ammanati] 

Fig. 40) Tiziano, Ritratto di Pietro Aretino, 1545

Emergono anche figure di veri e propri intellettuali che riescono a fungere come punto di trasmissione tra arte e letteratura. Uno di essi è Pietro Aretino, con cui corrispondono (per citare le lettere nell’ antologia) Sebastiano del Piombo, Veronica Gambara, Lorenzo Lotto, Michelangelo, Tiziano e Tintoretto.

Fig. 41) Benvenuto Cellini, I trattati dell’oreficeria e della scultura a cura di Carlo Milanesi, 1857

Anche la trattatistica è ben rappresentata. Il letterato fiorentino Agnolo Firenzuola scrive nel 1552 (almeno così scrive Panzacchi: in realtà la princeps è del 1541) il Dialogo delle bellezze delle donne, ovvero un testo tutto centrato sulla questione centrale per Panzacchi dell’arte come fonte di diletto. Paolo Pino produce pochi anni prima il Dialogo della Pittura. Secondo lo studioso influenza Firenzuola, mentre in realtà ne è influenzato. Nel 1557 Ludovico Dolce dà la parola all’Aretino in un altro Dialogo della Pittura, i cui passi citati nell’antologia sono dedicati a celebrare Dürer e Raffaello. Il genere del Dialogo è infine rappresentato nell’antologia anche da Andrea Gilio, con l’opera omonima del 1561. Benvenuto Cellini è presente con pagine del Trattato dell’Oreficeria, Andrea Palladio con I quattro libri dell'architettura del 1570, Raffaello Borghini con Il Riposo del 1584 ed infine Giovanni Paolo Lomazzo con il Trattato dell’Arte della Pittura del 1584 e l’Idea del Tempio della Pittura del 1590. Chiude la serie (che si era aperta cantando la bellezza delle donne) un’opera che risente pienamente della cultura della Controriforma come I Veri Precetti della Pittura di Armenini (1586). 

Fig. 42) Due lezioni di M. Benedetto Varchi, 1549

E tuttavia, come si è già detto, il cuore della sezione sulla letteratura artistica del Cinquecento, come disegnata nell’antologia, è nella discussione organizzata da Benedetto Varchi sulla “questione della preminenza fra la pittura e la scultura”, tema di scuola che pur era stato trattato precedentemente dall’Alberti, da Leonardo e Baldassare Castiglione, ma che nel Cinquecento diviene fondamentale. Al centro dell’analisi di Panzacchi è il volume che Varchi pubblica nel 1549 presso Torrentino, con una lezione sul tema, basata su pareri che egli aveva chiesto ad una serie di artisti. Un’altra importante fonte per Panzacchi è la discussione sul tema contenuto nell’introduzione da parte di Carlo Milanesi dei Trattati dell’Oreficeria e della Scultura di Benvenuto Cellini, datata 1857. Panzacchi include nella sua antologia le opinioni che a Varchi sono comunicate da Cellini, Pontormo, Giovambattista Del Tasso, Sangallo, Michelangelo; aggiunge la discussione sul tema nel Riposo di Raffaello Borghini. Di Varchi sono anche l’orazione funeraria per la morte di Michelangelo ed un sonetto in lode del Perseo di Cellini.


Il Seicento

Nel Seicento cade la supremazia dell’arte italiana. Le altre nazioni entrano in gara, e spesso riescono vincitrici nella pittura. Le altre due arti, sino alla fine del secolo, restarono nostre” [44]. Con queste parole il Panzacchi spiega, nel modo più esplicito possibile, che il suo obiettivo non è quello di scrivere un’antologia di letteratura artistica ‘globale’, ma solamente di autori italiani. Il suo tema è quello della competizione tra arte italiana e non, e non vi è dubbio su dove batta il suo cuore: non per l’arte in quanto tale, ma per l’arte italiana tout court. La fortuna di ogni sezione dell’antologia, in tal modo, è a suo parere intimamente legata a quella delle sorti della letteratura artistica nazionale: là dove egli percepisce che la letteratura artistica italiana ha prodotto risultati meno valenti, egli si trova nella necessità di offrire ai lettori una selezione di testi che sia comunque rappresentativa di un’epoca. Del resto, come vedremo in seguito, anche nel campo della letteratura ‘non-artistica’ tutte le antologie a cavallo dei due secoli, fino ai testi antologici innovativi di Giovanni Pascoli, abbracciano solamente la produzione italiana. Le antologie (come del resto le gallerie nazionali ed i testi di storia dell’arte) sono tutte strumenti di codificazione che vogliono ‘formare’ una nuova identità nazionale italiana. 

Fig. 43) Scuola bolognese del XVII secolo, Annibale, Ludovico e Agostino Carracci, senza data

È un chiaro segno di adesione alla cultura della sua epoca. E tuttavia Panzacchi non condivide l’attitudine negativa del suo tempo nei confronti dell’arte barocca: “il Seicento oggi è un secolo calunniato. (…) È proprio vero che in genere i pittori secentisti e quei della Scuola bolognese in particolare meritino tutta la severità di giudizio, che loro dimostra oggi quasi unanimemente la critica?” [45]. Il Libro degli Artisti rappresenta dunque, in questo caso, un atteggiamento innovativo. Al di là delle diverse ragioni generali per difendere quel secolo (si pensi ai suoi interessi musicali), non si può dimenticare che il nostro autore è anche e soprattutto uno strenuo difensore del mondo bolognese, che tanto ha dato alla pittura del secolo non solamente con l’arte dei Carracci, ma con la creazione prima dell'Accademia dei Desiderosi (1582) poi degli Incamminati (1590) e dunque con la fondazione di una scuola importante d’arte cui si ispireranno, direttamente o indirettamente, artisti emiliani fino al primo Settecento, con la rifondazione dell’Accademia Clementina dopo un periodo di declino.

Fig. 44) Giampietro Zanotti, dal frontespizio della Storia dell'Accademia Clementina di Bologna (Bologna 1739)

Panzacchi si ispira all’insegnamento di Pietro Selvatico per spiegare – nell’introduzione della sezione dell’antologia sulla letteratura artistica del Seicento – i fondamenti dell’insegnamento carraccesco: “(i) studio della prospettiva, dell’anatomia e di quei rami di cultura generale che hanno strette attinenze con l’arti figurative [sic]; (ii) studio del vivo nelle circostanze più opportune, per modo che l’artista s’impadronisse gagliardamente delle due principali manifestazioni della vita, cioè il movimento e il chiaroscuro; (iii) comporre e colorire, avendo occhio a quanto di meglio avevano dato le grandi scuole di pittura antecedenti” [46].

Nell’esigenza dei Carracci di trarre un bilancio dalle scuole italiane precedenti gli ultimi decenni del Cinquecento (il cosiddetto ‘eclettismo’, cui Panzacchi dedica una lunga nota, spiegando che “proponeva come regola d’arte il disegno dell’antico, il colore dei Veneziani, la composizione di Raffaello, la grazie del Correggio, la forza di Michelangelo” [47]) vi sono in realtà un riflesso ed un imperativo che sono comune ai bisogni intellettuali della generazione di Panzacchi: assorbire – nel breve spazio che segue l’unità italiana – la grande varietà di tradizioni dei secoli precedenti, offrendo ai ‘nuovi italiani’ una visione d’insieme delle belle arti che sia coerente con la narrativa unitaria. In fondo, in Italia ogni arte nuova ha sempre e comunque la necessità immanente di sistematizzare e rielaborare un passato vario e glorioso, in cui nuovi strati si aggiungono a sedimentazioni secolari. Nel Libro degli artisti, questo parallelismo è simboleggiato dalle similitudini tra due sonetti con cui due artisti d’epoca diversa si dilettano sui modi di trarre lezione dal passato: uno di Agostino Carracci (allora ancora considerato da Panzacchi come avente un significato umoristico ed oggi, secondo Gli scritti dei Carracci di Giovanna Perini, come un omaggio a Nicolo dell’Abate) e l’altro di Telemaco Signorini, ovvero degli anni direttamente precedenti la pubblicazione dell’antologia. 

Fig. 45) Nicolò dell’Abate, Il ratto di Proserpina, 1552

Ecco i versi di Agostino:

“Chi farsi un buon Pittore brama e desia,
Il disegno di Roma abbia alla mano,
La mossa coll' ombrar veneziano,
E il degno colorir di Lombardia;
Di Michelangiol la terribil via,
II vero natural di Tiziano,
Del Correggio lo stil puro e sovrano,
Di un Raffael la vera simmetria;
Del Tebaldi il decoro e il fondamento,
Del dotto Primaticcio I'inventare,
E un po’ di grazia del Parmigianino.
Ma senza tanti studi e tanto stento
Si ponga solo l’opre ad imitare
Che qui lasciossi il nostro Nicolino”
[48].

Ed ecco i versi di Telemaco Signorini (con il titolo “Ricetta per far l’arte italiana”):

“Se prendo il colorito ai Veneziani,
a quelli di Bologna il chiaroscuro,
il disegno a Firenze, ed ai Romani
il far grandioso nobile e sicuro;
Se la grazia di Parma non trascuro,
ma ne condisco il piatto a piene mani;
di chi dice di no non me ne curo,
chè fatta l’arte avrò per gli Italiani.
Unisco tutti insiem questi ingredienti,
tal qual come fu unita la nazione,
ed un pasto ne fo per tutti i denti;
poi servo caldo a Roma al gran Salone,
e l’arte che s’oppone a tali portenti
l’atto reciterà di contrazione”
[49].


Fig. 46) Telemaco Signorini, La sala delle agitate nell'ospedale di San Bonifacio, 1865

E tuttavia va detto che – se Panzacchi trova l’insegnamento dei Carracci moderno ed attuale – le preclusioni del mondo dell’arte italiano nei loro confronti (e il luogo comune sul loro eclettismo) saranno superate a pieno solamente nel 1956, con la mostra sui Disegni dei Carracci organizzata a Bologna da Dennis Mahon, e nel 1959 con la mostra dell’Arcangeli sui Maestri della Pittura del Seicento emiliano, sempre a Bologna. Quella di Panzacchi è dunque un’interpretazione che rimase a lungo incompresa.


Fig. 47) Catalogo della mostra dei Disegni dei Carracci, Bologna, 1956
Fig. 48) Catalogo della mostra dei Maestri della Pittura del seicento Emiliano, Bologna, 1959

L’atteggiamento nei confronti di Caravaggio e dei caravaggeschi è invece differente. Panzacchi critica il loro indirizzo ‘naturalistico’, perché esso “nega ogni autorità e si dà tutto all’imitazione materiale del mondo visibile”: è l’eco lontana di polemiche che hanno origine con il Bellori, che si sviluppano per due secoli e sono ancora molto presenti nel primo Novecento. Anch’esse saranno infine superate solo dopo la seconda guerra mondiale, con la Mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi del 1951, organizzata da Roberto Longhi a Palazzo Reale a Milano. Se, come si è già detto, il Bellori non è fra gli autori inclusi nell’antologia del Panzacchi, la fronda anticavaraggista è rappresentata dalle dichiarazioni dell’Albani (testimoniate da Malvasia), che “non poté mai tollerare che si seguitasse il Caravaggio, scorgendo esser quel modo il precipizio e la totale ruina della nobilissima e compitissima virtù della pittura” [50].


Fig. 49) Catalogo della mostra del Caravaggio e dei Caravaggeschi, Milano, 1951

Mi si consenta di ripetere l’opera di ‘destrutturazione’ della sequenza cronologica del Seicento. L’impianto della sezione si basa sulla narrazione dei fatti biografici di diversi artisti da parte del Baldinucci e del Malvasia. Del primo sono citati passaggi delle Notizie dei professori del disegno, con riferimento alle Vite di Annibale, Ludovico ed Agostino Carracci, del Domenichino, del Barocci e del Bernini; del secondo si trovano pagine dalle Vite ancora del Domenichino, del Guercino e di Guido Reni (un testo toccante sul vizio del gioco di cui è vittima anche Guido Reni). Tra le altre fonti si trovano Francesco Scannelli (Microcosmo della Pittura, su Guido Reni), Giovan Battista Passeri (Vite dei pittori, su Pietro da Cortona) e Francesco Milizia (in realtà un settecentista, con le sue Memorie degli architetti, sul Borromini). I testi del gesuita Rosignoli (con la Pittura in Giudizio) continuano la tradizione della trattatistica della controriforma.

L’unica missiva inviata da un artista ad un potente è la lettera di Gian Lorenzo Bernini al cardinale di Richelieu. Per il resto, le lettere sono ormai spesso rivolte a comunicazioni tra artisti, sia su questioni d’arte sia su temi personali: i Carracci tra loro, il Domenichino e l’Albani, Zuccari e Ludovico Carracci. È l’indice che gli artisti ‘fanno squadra’, per usare una terminologia moderna, anche frequentando istituzioni comuni. L’importanza dei legami familiari si evidenzia con le testimonianze di Domenico e Pietro Filippo Bernini a proposito del padre Gian Lorenzo Bernini. Non manca la corrispondenza degli artisti con i committenti (Ludovico Carracci a don Carlo Ferrante; Guido Reni ad Antonio Galeazzo Fibbia; Francesco Albani a Cesare Leopardi; Salvator Rosa a Giovan Battista Ricciardi), che indicano la situazione di dipendenza economica degli artisti da uomini di potere che non sono più al vertice delle istituzioni. La citazione di alcune pagine del Libro dei conti del Guercino ed il rapporto medico con le dichiarazioni del Borromini sul suo tentativo di suicidio (cui egli infine soccomberà nel giro di qualche giorno) sono, per molti aspetti, solamente curiosità. 

Fig. 50) Salvator Rosa, Scene di stregonerie, circa 1645-1649
Fig. 51) Salvator Rosa, Paesaggio con Mercurio e il boscaiolo disonesto, 1663 circa

Quanto alla poesia, va segnalata la satira “La pittura” di Salvator Rosa. Di lui Panzacchi scrive: “Fu uno dei più bizzarri ingegni che possa vantare l’Italia. Fu pittore di genere, di ritratti e di battaglie, ed è anche uno dei più notevoli tra i pittori di paese. Egli interpretò con mano maestra e con animo ispirato gli orrori della natura salvaggia [sic] o infuriata, gli uragani della terra e del mare, le gole dei mondi abitate dall’ombre e dai banditi. (…) Fu, come si vede dai brani riportati sopra, satirico vigoroso e arguto. Le sue satire hanno un’importanza straordinaria per lo studio dell’arte e dei suoi traviamenti secenteschi; le prime tre sono intitolate dalla musica, dalla poesia, dalla pittura” [51]. Nella satira il Rosa – che pur era pittore estroso e fuori dai criteri iconografici tradizionali – attacca frontalmente l’attività dei “bamboccianti”, pittori di genere stranieri (che lui chiama “ultramontani’) famosi per una pittura caricaturale di scene di vita popolare (si veda qui il Carnevale romano di Jan Miel).


Fig. 52) Jan Miel, Carnevale romano, 1653

E tuttavia, nonostante Salvator Rosa voglia segnalare disapprovazione per quel che ritiene un eccesso da parte dei Bamboccianti, il testo della sua satira è così esplicito da venire persino censurato dal Panzacchi: il verso “un che piscia, un che caga, un che alla gatta / vende la trippa” viene riportato nella forma “un che…, un che…, un che alla gatta / vende la trippa”. Riportiamo qui il testo come mostrato da Panzacchi.

“Vi è poi qualcun che col pennel trascorse
a dipinger faldoni e guitterie
e facchini e monelli e tagliaborse,
vignate, carri, calcate, osterie,
stuolo d'imbriaconi e genti ghiotte,
tignesi tabaccari o barberie,
nigregnacche bracon trentapagnotte,
chi si cerca i pidocchi e chi si gratta
e chi vende al baron le pere cotte,
un che …, un che…, un che a la gatta
vende la trippa, Gimignan che suona,
chi rattoppa un boccal, chi la ciabatta.
Nè crede oggi il pittor far cosa buona
se non dipinge un gruppo di stracciati,
se la pittura sua non è barona.” 
[n.d.r.: ci si riferisce ad un gioco dei dadi, il gioco del barone] [52].

Uno spazio del tutto particolare è infine riservato a Gian Battista Marino (1569-1625). Oltre ad una lettera a Ludovico Carracci, il Libro degli Artisti contiene nove componimenti poetici: uno in onore di Annibale Carracci e sette che celebrano altrettanti dipinti: l’Erodiade con la testa di San Giovanni Battista d’Annibale, la Salmace ed il Bacco ed Arianna di Ludovico, il Polifemo di Agostino, la Calisto e l’Apollo e Dafne di Guido Reni e l'Erodiade con la testa di San Giovanni Battista di Lavinia Fontana. Va detto che in molti casi si tratta di dipinti fittizi, che non corrispondono ad opere effettivamente realizzate (o forse solamente a disegni e schizzi).

Ecco due composizioni di Gian Battista Marino sullo stesso tema, l’Erodiade con la testa di San Giovanni Battista, nella versione prima per un’opera inventata di Annibale Carracci e poi per una di Lavinia Fontana.

“O Tragedia funesta,
Come tronca ed esangue
Fa del buon Precursor la sacra testa
I bianchi lini rosseggiar di sangue!
Ahi, pompose ne son di cibi tali
Sol le mense reali.
Non è, credilo a me, donna nefanda,
da desco poverel simil vivanda” [53].

“Mentre in giro movendo il vago piede
la Danzatrice Hebrea,
ciò ch'a pena potea
soffrir con gli occhi, con la lingua chiede;
ebro il Re Palestino
di lascivia e di vino,
le dona pur, dal giuramento astretto,
il capo benedetto.
O più perfida assai, ché ciò concede,
d'ogni perfidia altrui, perfida fede!” [54].

Quello di Marino sembrerebbe il caso perfetto di un fertile incontro tra letteratura e pittura, come nel caso di Salvator Rosa. E tuttavia, nonostante le molte citazioni, nel Libro degli Artisti il Panzacchi si mostra molto reticente, semplicemente affermando: “Nella Galleria il poeta cantava opere d’arte con strofe piene di concettini e di versi armoniosi. Il Marini [sic], la cui vita appartiene alla storia letteraria, nacque a Napoli nel 1569 e vi morì nel 1625” [55]. In realtà a Panzacchi la poesia di Marino non piace affatto. Al poeta barocco (considerato ai suoi tempi il più importante poeta del mondo) egli dedica un altro dei discorsi al pubblico femminile contenute in Conferenze e discorsi [56], spiegando che la sua opera è comunque artificiosa e di pessimo gusto (ed il marinismo è addirittura un fenomeno di “patologia letteraria”), anche se tali pecche non sono solamente una sua caratteristica, ma si riscontrano ovunque nella letteratura di quegli anni.

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NOTE

[30] Gli Albori della vita italiana: conferenze tenute a Firenze nel 1890, a cura di Olindo Guerrini. Conferenze di Pasquale Villari, Pompeo Molmenti, Romualdo Bonfadini, Ruggero Bonghi, Arturo Graf, Felice Tocco, Pio Rajna, Adolfo Bartoli, Francesco Schupfer, Giacomo Barzellotti, Enrico Panzacchi ed Ernesto Masi Epilogo, Milano, F. Treves, 1897, 398 pagine. Si veda 

[31] Gli Albori della vita italiana … (citato), p. 352.

[32] Panzacchi Enrico, Saggi critici, Napoli, Chiurazzi, 1896, 349 pagine. Si veda: 

[33] Gli Albori della vita italiana … (citato), p. 363.

[34] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti: Antologia, Milano, Tipografia editrice L. F. Cogliati, 1902, 535 pagine. Citazione alle pagine 40-41.

[35] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), pp. 70-71.

[36] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), pp. 114.

[37] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), pp. 115.

[38] Panzacchi, Enrico – Conferenze e discorsi, Milano, Tipografia Editrice L. F. Cogliati, 1899, pagine 296. La conferenza su Leonardo è alle pagine 87- 111. Si veda 

[39] Panzacchi, Enrico – Conferenze e discorsi … (citato), pp. 96-97.

[40] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 10.

[41] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 222.

[42] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 224.

[43] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 274.

[44] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 315.

[45] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 315.

[46] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 316.

[47] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 322.

[48] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 326.

[49] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 527.

[50] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 354.

[51] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), pp. 368-369.

[52] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 367.

[53] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 337.

[54] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 357.

[55] Enrico Panzacchi - Il libro degli artisti … (citato), p. 330.

[56] Panzacchi, Enrico – Conferenze e discorsi … (citato), pp. 96-97.






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