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Giovanni Mazzaferro
Mary P. Merrifield e la prima traduzione inglese del Libro dell’Arte di Cennino Cennini: le recensioni della stampa.
Parte Seconda
Fig. 12) Bonamico Buffalmacco, Il trionfo della morte. Particolare: L'incontro tra vivi e morti. Camposanto di Pisa Fonte: Saijlko (Francesco Bini) tramite Wikimedia Commons |
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La recensione su Athenaeum
Non ho certezze su chi fu a
recensire la traduzione del trattato cenniniano sul settimanale Athenaeum il 15 marzo 1845. Chiunque sia
stato, una cosa è certa: era un polemista nato. La sua prosa è completamente
differente rispetto alle altre esaminate in questo post ed è percorsa da una
vena ironica spesso assai tagliente, nutrita a dire il vero di una notevole
serie di luoghi comuni. La rivista, peraltro, diretta all’epoca da Charles
Wentwoth Dilke (1789-1864), era nota per la ferocia corrosiva con cui recensiva le pubblicazioni.
Ci sono almeno tre punti che
vanno messi in risalto nel valutare lo scritto.
In primo luogo l’autore compie
immediatamente una scelta di campo, esprimendo una sensibilità puramente
romantica: “Noi siamo ben noti ammiratori
dell’Antico; crediamo che i Giotteschi siano artisti superiori ai Carracci e
preferiamo il Campo Santo [n.d.r. di Pisa] al Chiostro della’Annunziata [n.d.r. il Chiostro della Basilica
della Santissima Annunziata a Firenze]… Preferiremmo
possedere ‘La Vergine e i quattri profeti’ di Cimabue [n.d.r. La Maestà di
Santa Trinita] in tutta la sua sublime
antichità rispetto a una Madonna di Carlo Maratti dipinta perfettamente”.
L’antico [Antique], per il recensore,
è dunque il Trecento e va distinto dall’antichità greca e romana, che viene
definita Ancient. La preferenza è accordata al mondo semplice del Medioevo. Per questo motivo,
ovviamente, l’accoglienza riservata al libro di Cennino è positiva; ma il
discorso va ben al di là degli aspetti stilistici e conduce al discorso sulla
spiritualità nell’arte e all’amore dell’arte per l’arte: “C’è un principio artistico che il libro di Cennini rende fruibile con
piacere e che vorremmo potesse fungere da esempio, in quanto fonte profonda di
capacità artistica: intendiamo dire la sincerità. Gli artisti inglesi, senza
dubbio, sono sinceri in varie maniere: amano il guadagno, amano la fama (specie
se entrambe già pronte), mirano a battere i francesi nel disegno e a trionfare
sui tedeschi nell’affresco; diversi tipi di sincerità, ma nessuno del tipo che
qui intendiamo. Le nostre parole non alludono nemmeno a principi religiosi
[…]. Sincero amore per l’arte, amore
esclusivo per la sua perfezione: questa è la sincerità che desideriamo vedere!
[…] Lasciate che l’amore genuino,
fervente e nobile per l’arte in sé prevalga su tutto, o dite addio alla speranza
che diventi grande qui!”. L’approccio, come si diceva, è totalmente
romantico e in qualche modo richiama alcuni temi cari ai preraffaelliti (va
peraltro detto che nel 1846 la direzione della rivista cambiò e che con la
nuova guida il periodico assunse un approccio critico nei confronti di questi
ultimi quando si formarono, nel 1848).
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Fig. 13) Cimabue, Maestà di Santa Trinita, Firenze, Galleria degli Uffizi Fonte: Wikimedia Commons |
Il secondo aspetto è di natura
molto diversa e riguarda un’autentica insofferenza nei confronti delle
discussioni sul primato nella scoperta della pittura ad olio. Nel caso specifico
il recensore se la prende esclusivamente con Tambroni e con la sua inutilissima
e lunga introduzione in cui sostiene che la pittura ad olio fu inventata in
Italia. Non esita a ricorrere in merito ad espressioni colorite; dice, ad
esempio, che tutte queste sono ‘Rialto-talk’, chiacchiere da fare sul ponte di
Rialto (l’espressione rimanda al Mercante
di Venezia di Shakespeare) e poi si chiede: perché tutto questo? Perché
riproporci l’ennesima minestra riscaldata quando ormai sappiamo tutto? La
risposta è sibillina, ed indicativa dello stile di chi scrive: “Perché esattamente come uno sfaccendato
gentleman inglese deve per forza produrre, per amore della notorietà, un
romanzo in tre volumi, un libro di viaggi e cinque atti di un dramma
pesantissimo e irrecitabile […], così
un italiano dolce-far-niente deve
comporre una dozzina di sonetti, la sua pomposa dissertazione su Dante o la sua
acutissima critica sulle Belle Arti” (p. 274).
L’ultima questione è quella che
merita più attenzione, perché coinvolge direttamente la Merrifield (e questa
volta in senso negativo). Il recensore comincia prendendola alla larga: “La traduzione delle lingue moderne
recentemente è diventata il regno della letteratura delle Amazzoni, dove gli
uomini sono ammessi solo di quando in quando per questioni veramente importanti”.
Il riferimento è, ovviamente, al fenomeno vittoriano delle traduzioni
femminili, di cui ho parlato nella prima parte di questo post. In sostanza –
prosegue – se si vuole essere ‘liberali’, oggi bisogna parlarne bene, ma con un
atteggiamento molto simile a chi fa della carità. Io invece faccio valutazioni
su fatti reali e proprio il fatto che non risparmi nulla è conferma del
rispetto che nutro per il genere femminile. Qui comincia l’enunciazione di una
serie di clamorosi svarioni (del tutto veri) nella traduzione della Merrifield,
a cominciare dalla frase più importante della parte iniziale, in cui Cennino
dice che Giotto mutò il modo di dipingere da greco a latino e lo volse alla
maniera moderna, che la ricercatrice di Brighton traduce dicendo “Giotto introdusse la maniera greca della
pittura fra i latini e la riunì con la scuola moderna”, dimostrando di non
aver capito il senso della frase. Com’è possibile – si chiede retoricamente il
recensore – fare errori del genere? Merrifield si muove come “un ingegnere maldesto, che invece
dell’oggetto a cui sta lavorando danneggia se stesso”. E, ancora, come è
possibile scrivere che Giotto decorò a mosaico la navata di San Pietro a Roma,
mentre in realtà si sta parlando dell’affresco della Navicella? O ancora,
attribuire un quadro di van Eyck a Andrea del Castagno? “È
stata la fretta o l’incompetenza ad occasionare questa strana danza di Mrs.
Merrifield in un labirinto di errori?”. Qui arriva la stoccata finale, che
dimostra esattamente ciò che il recensore si era affrettato a smentire
preventivamente, ovvero che è prevenuto nei confronti delle donne: la verità è
che “le memorie, le lettere delle donne
abbondano di gradevolezze, ma anche di sottili deduzioni che vanno ben al di là
della logica”. Intendiamoci – lo si ripete: gli errori segnalati dal
recensore sono tutti veri e dimostrano quanto fino ad oggi sulla Merrifield non
è stato chiarito, ovvero che non era né una filologa né una storica dell’arte,
ma una ricercatrice e una donna di scienza. Per chi scrive su Athenaeum sono invece un’occasione per
condannare l’eccessiva presenza femminile nel settore; come dire (venendo ai
giorni nostri): io non sono razzista, ma il lavoro va dato prima agli italiani.
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Fig. 14) Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, Londra, National Gallery Fonte: Wikimedia Commons |
John Eagles sul Blackwood’s
Edinburgh Magazine
La lunga recensione scritta
dall’artista e critico d’arte John Eagles per il Blackwood’s Edinburgh Magazine è senza dubbio quella che presenta
contenuti scientifici più approfonditi, a denotare le conoscenze chimiche
dell’autore, per molti versi simili a quelle della Merrifield. Una cosa va
detta: gran parte dell’articolo, che va dalla p. 717 alla 730 del numero di
giugno, riguarda la pittura ad olio. Eagles comincia richiamando quanto da lui
scritto in occasione della pubblicazione, nel 1839, della traduzione inglese di
De la Peinture à l’Huile di
J.F. Mérimée (con il titolo On Oil Painting
e la traduzione di Sarsfield Taylor). Eagles è acerrimo nemico delle pratiche
consigliate da Mérimée, in particolare dell’uso di mescolare vernici ed olio
per ottenere una pittura particolarmente brillante. Quest’uso è alla base –
sostiene – del rapidissimo deperimento dei quadri ad olio dei pittori inglesi
del Settecento (primo fra tutti Joshua Reynolds). C’è un termine che Eagles
vede come fumo negli occhi ed è il megilp,
ovvero un veicolo composto da un misto di vernice e olio, che è a suo avviso la
causa della distruzione dei quadri. Eagles è dunque grato alla Merrifield (a
cui rivolge grandi complimenti) per la traduzione che permette di continuare a
discutere sull’argomento. E qui si torna a un tema che abbiamo già incontrato
con Egerton, ovvero al segreto degli Antichi Maestri: “Appare incontestabile che c’è stato un periodo in cui l’arte della
pittura, grazie alla scoperta di un veicolo, è sfociata in una fase di
splendore e bellezza fuori dal comune, splendore e bellezza in opere che sono
fresche e perfette anche oggigiorno” (p. 718). Per capirlo basta confrontare i quadri
di allora con quelli recenti. A puro titolo di curiosità vale la pena segnalare
che Eagles cita opere appena entrate alla National Gallery, e che evidentemente
hanno lasciato il segno, come il Ritratto dei coniugi Arnolfini (1842) e il Ritratto
del Doge Leonardo Loredan di Giovanni Bellini, arrivato a Londra nel 1844.
Non c’è nulla da stupirsi in merito alla perdita delle metodologie di una
volta, perché quello era un mondo fatto di segreti trasmessi nell’ambito delle
botteghe, spesso solo quando il maestro abbandonava l’attività artistica e a
vantaggio di un unico discepolo. Ciò che bisogna andare a cercare, ovvero il
segreto, sono quelle “altre misture”
di cui parla Vasari a proposito di van Eyck, dicendo che, bollendole con olio
di lino e di noce diedero vita a una vernice che era stata desiderata da tutti
i pittori del mondo. Da qui Eagles parte con una serie di considerazioni e di
ipotesi di carattere tecnico che risparmierò al lettore, ma che sono
sostanziate da esperimenti di laboratorio condotti o personalmente o con la
collaborazione di amici chimici. La prospettiva, nella sostanza, è la stessa
con cui la Merrifield scrive i suoi libri: ricerca sperimentale del ‘segreto’ e
confronto con le fonti dell’epoca, che dovrebbero portare, fra loro in
simbiosi, alla possibilità di riprodurre perfettamente i quadri degli Antichi
Maestri.
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Fig. 15) Giovanni Bellini, Ritratto del doge Leonardo Loredan, Londra, National Gallery Fonte: Wikimedia Commons |
Oggi noi potremmo stupirci di una
recensione di questo tipo, se si pensa che Cennino parla della pittura ad olio
in tutto per due pagine (o sei capitoletti) della sua opera. Ai tempi di
Eagles, evidentemente, le priorità erano diverse e, al di là delle contingenze
(ovvero della realizzazione degli affreschi di Westminster) il vero problema
stava nella comprensione delle tecniche ad olio. Circostanza, è banale dirlo,
confermata dalla pubblicazione del primo volume di Eastlake sui Materials For a History of Oil Painting
nel 1847 e dagli Original Treatises della Merrifield nel 1849, due testi che hanno fatto la storia.
Non conosco i particolari della
biografia di Eagles. Quello che è certo è che fece – come molti altri - il tour
italiano, e lì dovette acquistare una conoscenza della lingua e dei dialetti
non banale, evidentemente poi coltivata negli anni. Fatto sta che, verso la
fine dell’articolo, cita quattro versi dalla Carta del navegar pitoresco di Marco Boschini (1660), notoriamente
scritta in dialetto veneziano. Non ho nessuna difficoltà a dire che la lettura
dell’opera è oggigiorno ostica a qualsiasi italiano (compreso il sottoscritto).
La citazione, tuttavia, è perfettamente calzante, indice di una cultura non
comune [7].
NOTE
[6] La paternità dell’articolo non è legata solo al fatto che Eagles era il critico d’arte ufficiale della rivista. Ci sono all’interno dell’articolo rimandi ad articoli precedenti che permettono di stabilirla con certezza (viene ad esempio citata una lettera indirizzata all’Art Union e siglata J.E.
[7] Una copia della Carta del navegar pitoresco è testimoniata nella biblioteca personale di Charles Lock Eastlake, oggi consultabile sul sito di Memofonte. Non me la sento di escludere, in linea di principio, che la citazione possa essere stata segnalata in precedenza da Eastlake.
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