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venerdì 21 aprile 2017

Giovanni Mazzaferro. Mary P. Merrifield e la prima traduzione inglese del 'Libro dell'Arte' di Cennino Cennini: le recensioni della stampa. Parte Seconda


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Giovanni Mazzaferro
Mary P. Merrifield e la prima traduzione inglese del Libro dell’Arte di Cennino Cennini: le recensioni della stampa.

Parte Seconda

Fig. 12) Bonamico Buffalmacco, Il trionfo della morte. Particolare: L'incontro tra vivi e morti. Camposanto di Pisa
Fonte: Saijlko (Francesco Bini) tramite Wikimedia Commons

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La recensione su Athenaeum

Non ho certezze su chi fu a recensire la traduzione del trattato cenniniano sul settimanale Athenaeum il 15 marzo 1845. Chiunque sia stato, una cosa è certa: era un polemista nato. La sua prosa è completamente differente rispetto alle altre esaminate in questo post ed è percorsa da una vena ironica spesso assai tagliente, nutrita a dire il vero di una notevole serie di luoghi comuni. La rivista, peraltro, diretta all’epoca da Charles Wentwoth Dilke (1789-1864), era nota per la ferocia corrosiva con cui recensiva le pubblicazioni.

Ci sono almeno tre punti che vanno messi in risalto nel valutare lo scritto.

In primo luogo l’autore compie immediatamente una scelta di campo, esprimendo una sensibilità puramente romantica: “Noi siamo ben noti ammiratori dell’Antico; crediamo che i Giotteschi siano artisti superiori ai Carracci e preferiamo il Campo Santo [n.d.r. di Pisa] al Chiostro della’Annunziata [n.d.r. il Chiostro della Basilica della Santissima Annunziata a Firenze]… Preferiremmo possedere ‘La Vergine e i quattri profeti’ di Cimabue [n.d.r. La Maestà di Santa Trinita] in tutta la sua sublime antichità rispetto a una Madonna di Carlo Maratti dipinta perfettamente”. L’antico [Antique], per il recensore, è dunque il Trecento e va distinto dall’antichità greca e romana, che viene definita Ancient. La preferenza è accordata al mondo semplice del Medioevo. Per questo motivo, ovviamente, l’accoglienza riservata al libro di Cennino è positiva; ma il discorso va ben al di là degli aspetti stilistici e conduce al discorso sulla spiritualità nell’arte e all’amore dell’arte per l’arte: “C’è un principio artistico che il libro di Cennini rende fruibile con piacere e che vorremmo potesse fungere da esempio, in quanto fonte profonda di capacità artistica: intendiamo dire la sincerità. Gli artisti inglesi, senza dubbio, sono sinceri in varie maniere: amano il guadagno, amano la fama (specie se entrambe già pronte), mirano a battere i francesi nel disegno e a trionfare sui tedeschi nell’affresco; diversi tipi di sincerità, ma nessuno del tipo che qui intendiamo. Le nostre parole non alludono nemmeno a principi religiosi […]. Sincero amore per l’arte, amore esclusivo per la sua perfezione: questa è la sincerità che desideriamo vedere! […] Lasciate che l’amore genuino, fervente e nobile per l’arte in sé prevalga su tutto, o dite addio alla speranza che diventi grande qui!”. L’approccio, come si diceva, è totalmente romantico e in qualche modo richiama alcuni temi cari ai preraffaelliti (va peraltro detto che nel 1846 la direzione della rivista cambiò e che con la nuova guida il periodico assunse un approccio critico nei confronti di questi ultimi quando si formarono, nel 1848).

Fig. 13) Cimabue, Maestà di Santa Trinita, Firenze, Galleria degli Uffizi
Fonte: Wikimedia Commons

Il secondo aspetto è di natura molto diversa e riguarda un’autentica insofferenza nei confronti delle discussioni sul primato nella scoperta della pittura ad olio. Nel caso specifico il recensore se la prende esclusivamente con Tambroni e con la sua inutilissima e lunga introduzione in cui sostiene che la pittura ad olio fu inventata in Italia. Non esita a ricorrere in merito ad espressioni colorite; dice, ad esempio, che tutte queste sono ‘Rialto-talk’, chiacchiere da fare sul ponte di Rialto (l’espressione rimanda al Mercante di Venezia di Shakespeare) e poi si chiede: perché tutto questo? Perché riproporci l’ennesima minestra riscaldata quando ormai sappiamo tutto? La risposta è sibillina, ed indicativa dello stile di chi scrive: “Perché esattamente come uno sfaccendato gentleman inglese deve per forza produrre, per amore della notorietà, un romanzo in tre volumi, un libro di viaggi e cinque atti di un dramma pesantissimo e irrecitabile […], così un italiano dolce-far-niente deve comporre una dozzina di sonetti, la sua pomposa dissertazione su Dante o la sua acutissima critica sulle Belle Arti” (p. 274).

L’ultima questione è quella che merita più attenzione, perché coinvolge direttamente la Merrifield (e questa volta in senso negativo). Il recensore comincia prendendola alla larga: “La traduzione delle lingue moderne recentemente è diventata il regno della letteratura delle Amazzoni, dove gli uomini sono ammessi solo di quando in quando per questioni veramente importanti”. Il riferimento è, ovviamente, al fenomeno vittoriano delle traduzioni femminili, di cui ho parlato nella prima parte di questo post. In sostanza – prosegue – se si vuole essere ‘liberali’, oggi bisogna parlarne bene, ma con un atteggiamento molto simile a chi fa della carità. Io invece faccio valutazioni su fatti reali e proprio il fatto che non risparmi nulla è conferma del rispetto che nutro per il genere femminile. Qui comincia l’enunciazione di una serie di clamorosi svarioni (del tutto veri) nella traduzione della Merrifield, a cominciare dalla frase più importante della parte iniziale, in cui Cennino dice che Giotto mutò il modo di dipingere da greco a latino e lo volse alla maniera moderna, che la ricercatrice di Brighton traduce dicendo “Giotto introdusse la maniera greca della pittura fra i latini e la riunì con la scuola moderna”, dimostrando di non aver capito il senso della frase. Com’è possibile – si chiede retoricamente il recensore – fare errori del genere? Merrifield si muove come “un ingegnere maldesto, che invece dell’oggetto a cui sta lavorando danneggia se stesso”. E, ancora, come è possibile scrivere che Giotto decorò a mosaico la navata di San Pietro a Roma, mentre in realtà si sta parlando dell’affresco della Navicella? O ancora, attribuire un quadro di van Eyck a Andrea del Castagno? “È stata la fretta o l’incompetenza ad occasionare questa strana danza di Mrs. Merrifield in un labirinto di errori?”. Qui arriva la stoccata finale, che dimostra esattamente ciò che il recensore si era affrettato a smentire preventivamente, ovvero che è prevenuto nei confronti delle donne: la verità è che “le memorie, le lettere delle donne abbondano di gradevolezze, ma anche di sottili deduzioni che vanno ben al di là della logica”. Intendiamoci – lo si ripete: gli errori segnalati dal recensore sono tutti veri e dimostrano quanto fino ad oggi sulla Merrifield non è stato chiarito, ovvero che non era né una filologa né una storica dell’arte, ma una ricercatrice e una donna di scienza. Per chi scrive su Athenaeum sono invece un’occasione per condannare l’eccessiva presenza femminile nel settore; come dire (venendo ai giorni nostri): io non sono razzista, ma il lavoro va dato prima agli italiani.

Fig. 14) Jan van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, Londra, National Gallery
Fonte: Wikimedia Commons

John Eagles sul Blackwood’s Edinburgh Magazine

La lunga recensione scritta dall’artista e critico d’arte John Eagles per il Blackwood’s Edinburgh Magazine è senza dubbio quella che presenta contenuti scientifici più approfonditi, a denotare le conoscenze chimiche dell’autore, per molti versi simili a quelle della Merrifield. Una cosa va detta: gran parte dell’articolo, che va dalla p. 717 alla 730 del numero di giugno, riguarda la pittura ad olio. Eagles comincia richiamando quanto da lui scritto in occasione della pubblicazione, nel 1839, della traduzione inglese di De la Peinture à l’Huile di J.F. Mérimée (con il titolo On Oil Painting e la traduzione di Sarsfield Taylor). Eagles è acerrimo nemico delle pratiche consigliate da Mérimée, in particolare dell’uso di mescolare vernici ed olio per ottenere una pittura particolarmente brillante. Quest’uso è alla base – sostiene – del rapidissimo deperimento dei quadri ad olio dei pittori inglesi del Settecento (primo fra tutti Joshua Reynolds). C’è un termine che Eagles vede come fumo negli occhi ed è il megilp, ovvero un veicolo composto da un misto di vernice e olio, che è a suo avviso la causa della distruzione dei quadri. Eagles è dunque grato alla Merrifield (a cui rivolge grandi complimenti) per la traduzione che permette di continuare a discutere sull’argomento. E qui si torna a un tema che abbiamo già incontrato con Egerton, ovvero al segreto degli Antichi Maestri: “Appare incontestabile che c’è stato un periodo in cui l’arte della pittura, grazie alla scoperta di un veicolo, è sfociata in una fase di splendore e bellezza fuori dal comune, splendore e bellezza in opere che sono fresche e perfette anche oggigiorno” (p. 718). Per capirlo basta confrontare i quadri di allora con quelli recenti. A puro titolo di curiosità vale la pena segnalare che Eagles cita opere appena entrate alla National Gallery, e che evidentemente hanno lasciato il segno, come il Ritratto dei coniugi Arnolfini (1842) e il Ritratto del Doge Leonardo Loredan di Giovanni Bellini, arrivato a Londra nel 1844. Non c’è nulla da stupirsi in merito alla perdita delle metodologie di una volta, perché quello era un mondo fatto di segreti trasmessi nell’ambito delle botteghe, spesso solo quando il maestro abbandonava l’attività artistica e a vantaggio di un unico discepolo. Ciò che bisogna andare a cercare, ovvero il segreto, sono quelle “altre misturedi cui parla Vasari a proposito di van Eyck, dicendo che, bollendole con olio di lino e di noce diedero vita a una vernice che era stata desiderata da tutti i pittori del mondo. Da qui Eagles parte con una serie di considerazioni e di ipotesi di carattere tecnico che risparmierò al lettore, ma che sono sostanziate da esperimenti di laboratorio condotti o personalmente o con la collaborazione di amici chimici. La prospettiva, nella sostanza, è la stessa con cui la Merrifield scrive i suoi libri: ricerca sperimentale del ‘segreto’ e confronto con le fonti dell’epoca, che dovrebbero portare, fra loro in simbiosi, alla possibilità di riprodurre perfettamente i quadri degli Antichi Maestri.

Fig. 15) Giovanni Bellini, Ritratto del doge Leonardo Loredan, Londra, National Gallery
Fonte: Wikimedia Commons

Oggi noi potremmo stupirci di una recensione di questo tipo, se si pensa che Cennino parla della pittura ad olio in tutto per due pagine (o sei capitoletti) della sua opera. Ai tempi di Eagles, evidentemente, le priorità erano diverse e, al di là delle contingenze (ovvero della realizzazione degli affreschi di Westminster) il vero problema stava nella comprensione delle tecniche ad olio. Circostanza, è banale dirlo, confermata dalla pubblicazione del primo volume di Eastlake sui Materials For a History of Oil Painting nel 1847 e dagli Original Treatises della Merrifield nel 1849, due testi che hanno fatto la storia.

Non conosco i particolari della biografia di Eagles. Quello che è certo è che fece – come molti altri - il tour italiano, e lì dovette acquistare una conoscenza della lingua e dei dialetti non banale, evidentemente poi coltivata negli anni. Fatto sta che, verso la fine dell’articolo, cita quattro versi dalla Carta del navegar pitoresco di Marco Boschini (1660), notoriamente scritta in dialetto veneziano. Non ho nessuna difficoltà a dire che la lettura dell’opera è oggigiorno ostica a qualsiasi italiano (compreso il sottoscritto). La citazione, tuttavia, è perfettamente calzante, indice di una cultura non comune [7].


NOTE

[6] La paternità dell’articolo non è legata solo al fatto che Eagles era il critico d’arte ufficiale della rivista. Ci sono all’interno dell’articolo rimandi ad articoli precedenti che permettono di stabilirla con certezza (viene ad esempio citata una lettera indirizzata all’Art Union e siglata J.E. 

[7] Una copia della Carta del navegar pitoresco è testimoniata nella biblioteca personale di Charles Lock Eastlake, oggi consultabile sul sito di Memofonte. Non me la sento di escludere, in linea di principio, che la citazione possa essere stata segnalata in precedenza da Eastlake.


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