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Storia delle antologie di letteratura artistica
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Francesco Mazzaferro
Luci e ombre nelle due versioni dell'antologia "Artisti sull'arte" di Hans Eckstein (1938 e 1954).
Parte Quarta
[Versione originale: aprile 2017 - Nuova versione: aprile 2019]
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Fig.59) Claude-Nicolas Ledoux, Progetto di casa sferica, 1770 |
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Concludiamo l’analisi
delle due antologie di Hans Eckstein proponendo, l’uno dopo l’altro, i due
testi introduttivi sull’architettura, nelle versioni del 1938 e del 1954. Come
detto nella seconda parte di questo post, le
variazioni tra le due versioni possono demarcare sia i diversi spazi di libertà
dopo la fine della guerra sia la mutazione delle idee dell’autore nel tempo. Le
parti comuni sono segnate in corsivo.
L'architettura nel XIX secolo (pp. 232-236) [18]
Versione 1938
Entrambe le esigenze del classicismo – di una architettura che desse corpo alle idee e di un’architettura che perseguisse un fine – di un obiettivo ‘in senso spirituale’ e di un obiettivo ‘in senso fisico’ entrarono dunque in un conflitto permanente fra loro. È una contraddizione che il XIX secolo non riuscirà mai a superare. Le facciate erano organizzate sulla base dell’idea, mentre l’utilità aveva spesso, anche nell’epoca neoclassica, un ruolo secondario. Quel che l’architetto J.I. Hittorf ha detto come presidente dell’Académie des Beaux-Arts nel suo discorso commemorativo su Schinkel (1781-1846), che ne era membro corrispondente, vale per il neoclassicismo in generale. “I critici di Schinkel gli rimproverano che troppo spesso i suoi edifici avessero effetto non solamente grazie a belle masse, ma a ragione di effetti teatrali, che erano equivalenti a progetti di architetture apparenti, in cui zoccoli molto elevati e scale gigantesche si univano, senza alcuna finalità, ad enormi sale circondate da colonne. Nelle costruzioni di Schinkel mancherebbe il rapporto indispensabile tra l’interno e l’esterno, tra il loro aspetto ed il loro scopo. L’assenza di queste caratteristiche necessarie deriverebbe dall’inclinazione di Schinkel a sconcertare … A quattr’occhi Schinkel è spesso stato il migliore critico di se stesso, e si è pentito di quest’irresistibile tendenza della sua volontà immaginativa.” Nell’effettivo operare di questo straordinario talento, che solamente il tempo (e certo non l’insufficienza della capacità creativa) ha reso un epigono, si manifestano aspetti davvero contraddittori: a fianco di sogni romantici d’interni di chiese gotiche, castelli medievalizzanti per cavalieri (Castello di Neuabelsberg).e l’architettura fantasiosa di un palazzo reale greco, che deve superare in altezza le rovine del Partenone, si trovano edifici cui non manca un carattere proprio, che hanno dimensioni chiare e nobili, forme semplici (la Neue Wache, l’Opera, il museo della Nuova Galleria, il padiglione nel parco di Charlottenburg) e persino progetti che hanno saputo anticipare i tempi, come il disegno di un supermercato.”
Hans Eckstein
Sul destino dell'architettura nel XIX e XX secolo (pp. 215-218) [19]
Versione 1954
L’architetto non crea
forme con la stessa libertà di un pittore o di uno scultore. Più che creare le
forme delle sue costruzioni, egli le organizza e le amministra. E infatti le
forme della costruzione non sono il lavoro di uno solo, ma il risultato di
migliaia di esperienze ben affermate e della sensibilità di molte generazioni.
Solamente entro confini ristretti il sistema di forme che noi chiamiamo stile è
flessibile. E tuttavia questo spazio residuo di libertà che rimane disponibile
ai talenti artistici in architettura è quel che conta: è lì che si afferma la
forza della personalità.
La volontà creatrice
dell’architetto è limitata anche da un altro punto di vista. L’architetto non
può scegliersi da solo i compiti. Egli ha bisogno di una commissione, ed ogni
commissione è legata a richieste pratiche ed ideali che limitano la libertà
dell’artista. Ogni costruzione è
sottoposta ai vincoli derivanti dallo stato di necessità, dalla costruzione e
dal materiale, dalla tradizione della forma e dalla capacità
tecnico-artigianale del tempo, ed anche dalle condizioni che derivano dalla
considerazione degli edifici esistenti delle epoche precedenti. Ed in tal modo la personalità dell’architetto risalta nel
suo lavoro in modo molto meno chiaro di un artista visivo, ed anche i suoi pensieri sono molto più indirizzati
a fattori meta-artistici di natura
sociale, economica, tecnica, scientifica ed organizzativa in senso generale, e
da tali fattori definiti.
L’architetto divide la
sua fama con i suoi costruttori, con il tempo, la società e la nazione, per
incarico del quale egli crea. Dal momento che la sua arte è – fra tutte le
altre arti – la più pubblica, la più sociale, e quella più legata ai bisogni.
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Fig. 60) Franz Heger e Georg Moller, Progetti di determinati edifici realizzati o da realizzare. Primo quaderno: il teatro di corte granducale di Darmstadt, 1826 |
Dalla fine del XVIII secolo la volontà creatrice ideale
degli architetti ed i bisogni reali si sono sempre più andati allontanando. La
costruzione neoclassica era definita da ideali culturali che spesso andavano in
direzione opposta ai bisogni ideali. In teoria si richiedeva che la costruzione
fosse adeguata al fine, e addirittura Franz Heger (uno scolaro di Georg Moller)
formulò la richiesta molto moderna di una costruzione dove l’interno
determinasse l’esterno. “Così come in un edificio la disposizione dell’esterno
deriva dalla disposizione degli interni, dalle necessità e dal fine assoluto,
allo stesso modo l’esterno è in qualche modo l’espressione dell’interno.” Ma
l’attrazione verso l’ideale è stata in quasi tutti gli architetti neoclassici
più forte della volontà di radicarsi nei bisogni. L'architetto ha preferito
lasciarsi condurre da un’ “idea pura”, “creata in modo puro, da lui stesso, e
del tutto indipendentemente dal mondo” (Schinkel).
Le costruzioni avrebbero dovuto infatti dare corpo a contenuti concettuali
precisi, a veri e propri ‘caratteri’. Allo stesso modo il pittore Carstens
scriveva che “la scelta del contenuto e l’invenzione della poesia sono il
fattore principale” nell’arte ed il nazareno Overbeck aveva l’intenzione “di
rendere percettibile un’idea”. “Gli edifici – scrive Schinkel – debbono
suscitare sensazioni profonde o addirittura creare stati d’animo che siano alla
base di tendenze morali più elevate, che conducano a punti di vista morali, e
dai quali possano trarre origini espressioni morali proprie.” L’architetto si
sentiva come “l’educatore etico del genere umano”, così come Friedrich Schlegel
chiamava l’architetto d’eccellenza [n.d.t. Prachtbaumeister], ovvero come un educatore
alla morale. Per il neoclassicista francese J. N. L. Durand “la maggior parte
degli antichi tempi, più che luoghi dedicati all’esercizio pubblico del culto,
erano monumenti per rappresentare qualche virtù.”
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Fig. 61) Jean-Nicolas-Louis Durand, Testi delle lezioni d’architettura date alla Scuola Reale del Politecnico, 1805 |
Certamente, anche nel caso di costruzioni dei secoli
precedenti i bisogni ideali avevano avuto un ruolo fondamentale. Queste idee
erano però state di natura meno astratta e programmatica, ed erano sempre state
parte d’impulsi vitali generali, che offrivano una forma alla vita intera in
tutte le sue forme. Nei secoli precedenti progetti giganteschi di chiese,
chiostri o castelli spesso non furono eseguiti per mancanza di mezzi. Le
semplici forme stereometriche – sfera, cilindro, piramide, cubo – di fantasie
architettoniche monumentalizzanti di un Ledoux, Boulée, il Monumento per
Federico II di Friedrich Gilly (che pianificò un mezzo per promuovere grandi
obiettivi morali e patriottici), incorporavano idee fantastiche, ma non furono
mai messe in pratica, perché non corrispondevano né alle idee pratiche né a
quelle ideali del tempo.
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Fig. 62) Jacques Ignace Hittorff, La stazione ferroviaria del nord (Gare du Nord) di Parigi, 1861-1865 (stampa del 1864) |
Entrambe le esigenze del classicismo – di una architettura che desse corpo alle idee e di un’architettura che perseguisse un fine – di un obiettivo ‘in senso spirituale’ e di un obiettivo ‘in senso fisico’ entrarono dunque in un conflitto permanente fra loro. È una contraddizione che il XIX secolo non riuscirà mai a superare. Le facciate erano organizzate sulla base dell’idea, mentre l’utilità aveva spesso, anche nell’epoca neoclassica, un ruolo secondario. Quel che l’architetto J.I. Hittorf ha detto come presidente dell’Académie des Beaux-Arts nel suo discorso commemorativo su Schinkel (1781-1846), che ne era membro corrispondente, vale per il neoclassicismo in generale. “I critici di Schinkel gli rimproverano che troppo spesso i suoi edifici avessero effetto non solamente grazie a belle masse, ma a ragione di effetti teatrali, che erano equivalenti a progetti di architetture apparenti, in cui zoccoli molto elevati e scale gigantesche si univano, senza alcuna finalità, ad enormi sale circondate da colonne. Nelle costruzioni di Schinkel mancherebbe il rapporto indispensabile tra l’interno e l’esterno, tra il loro aspetto ed il loro scopo. L’assenza di queste caratteristiche necessarie deriverebbe dall’inclinazione di Schinkel a sconcertare … A quattr’occhi Schinkel è spesso stato il migliore critico di se stesso, e si è pentito di quest’irresistibile tendenza della sua volontà immaginativa.” Nell’effettivo operare di questo straordinario talento, che solamente il tempo (e certo non l’insufficienza della capacità creativa) ha reso un epigono, si manifestano aspetti davvero contraddittori: a fianco di sogni romantici d’interni di chiese gotiche, castelli medievalizzanti per cavalieri (Castello di Neuabelsberg).e l’architettura fantasiosa di un palazzo reale greco, che deve superare in altezza le rovine del Partenone, si trovano edifici cui non manca un carattere proprio, che hanno dimensioni chiare e nobili, forme semplici (la Neue Wache, l’Opera, il museo della Nuova Galleria, il padiglione nel parco di Charlottenburg) e persino progetti che hanno saputo anticipare i tempi, come il disegno di un supermercato.”
Il neoclassicismo non ha voluto solamente ripetere un
fenomeno che era ‘storicamente chiuso”, ma anche creare un nuovo mondo di
forme. Ciò gli è riuscito solamente in parte. Le riflessioni storiche di quel
romantico ottimismo che ha avvolto in modo illusorio il fondamento spirituale e
civile dell’intero XIX secolo creavano già nel primo 1800 gli ostacoli
fondamentali per la creazione di un’architettura che potesse farsi carico del
cambiamento delle strutture sociali. La ragione per la quale il neoclassicismo
non è divenuto un vero e proprio stile con capacità creatici autonome non è
conseguenza del fatto che le forme fossero derivate da modelli precedenti (lo
stesso era vero anche per le forme del romanico, del gotico e del
rinascimento), ma perché non gli è riuscita quella trasformazione e
reinvenzione che sarebbe stata la conseguenza necessaria delle condizioni
generali e ne avrebbero fatto una convenzione piena di vita. Non sono mancati i talenti, ma un
sistema vincolante di forme e tradizioni genuine. Senza di esse il talento non
può che far affidamento, in ultima istanza, che sulla propria personalità, e
l’unica norma diviene il sentire individuale. Ogni arbitrio è però una
violazione della regola suprema di ogni architettura. Il neoclassicismo aveva
già a sua disposizione tutte le forme di ogni stile. E già il neoclassicismo ha
saccheggiato il tesoro delle forme della storia universale. “Il campo della storia – dice però Johann
Georg Hamann – è come una distesa sconfinata piena di ossa, e – guarda un po’ –
sono tutte secche”.
La seconda parte del XIX secolo non ha saputo liberarsi
dalla concezione neoclassicista che ogni edificio possa assumere un
‘carattere’, al di là della sua pura utilità, se non vestendo un costume
storico. Semper chiama l’architetto uno ‘studioso di tutti i tempi”. La
considerazione degli stili storici è a suo parere “tanto più necessaria, quanto
più l’impressione che un edificio provoca sulle masse è in parte almeno basato
su reminiscenze. Un teatro deve sempre ricordare un teatro greco, se vuole
avere carattere. Un teatro gotico sarebbe irriconoscibile, chiese in stile del
primo medioevo tedesco ed anche in stile rinascimentale… non hanno per noi
alcun aspetto ecclesiale. È questo il nostro punto di vista essenziale.”
Ed è così che tutti gli scontri su questioni di stile sono
divenuti scontri sulla scelta delle tradizioni, mentre al tempo stesso – come
conseguenza dell’industrializzazione di ogni aspetto della società, che già si
veniva manifestando all’epoca di Schinkel
– venivano emergendo nuovi materiali e costruzioni ed all’architetto
venivano posti, dal giorno alla notte, interrogativi nei confronti dei quali
non aveva alcuna possibilità di risposta.
Per oscure ragioni
dovute in parte ad autocostrizione a forme artistiche ed in parte ad
imbarazzo, le forme tecniche furono
mascherate in maniera storicizzante: i supporti in ferro come colonne scanalate
con capitello ionico-corinzio, il palo della luce come candelabro
rinascimentale, la stazione come
palazzo mediceo.
L’ingegnere ha allora guadagnato terreno sull’architetto in
molti aspetti. Anatole de Baudot (1834-1915), uno scolaro di Labroust e
Viollet-le-Duc (il restauratore delle cattedrali) ha scritto nel 1864: “Si può
forse pensare che il pubblico sia soddisfatto, se lo si sente ogni giorno
lamentare, e se si vede effettivamente, quanto si prediligano gli ingegneri agli
architetti? Perché questa preferenza? Semplicemente perché gli ingegneri non
prendono una posizione rigida e si concentrano ad assolvere il compito che
viene dato loro, mentre gli architetti spesso violano le legittime richieste e
necessità del committente, a vantaggio di quel che considerano bello.”
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Fig. 67) Gabriel Davioud (architetto) e Jules Bourdais (ingegnere), Palazzo del Trocadéro per l’Esposizione universale, Parigi, 1878. Demolito nel 1937. |
L’architetto del
Trocadéro, Davioud ha scritto nel 1877: “La soluzione si perfezionerà davvero
quando architetto ed ingegnere, artista e scienziato saranno la stessa persona…
. Viviamo da tempo nell’ingenua convinzione che l’arte sia cosa che si
differenzi da ogni altra forma dell’intelligenza umana, sia da essa
indipendente ed abbia la propria origine nella capricciosa fantasia
dell’artista.”
La teoria di Semper, che vuol spiegare le forme artistiche a
partire dal materiale, è nata sotto l’impressione dell’ingegneria moderna e dei
nuovi macchinari. Ha contribuito ad originare l’errore moderno che nuove forme
stilistiche possano essere ricavate semplicemente dal nuovo materiale. Ma non
esiste uno stile della costruzione in ferro o della costruzione in cemento. “Il
cemento come creatore di forme”, come intitolano un loro saggio J. Vischer e L.
Hilberseimer , è un nonsenso. La forma non convince perché è in linea con i
materiali o le finalità delle costruzioni, ma solamente quando – al di là di
tali aspetti – si sviluppa secondo una propria logica creativa. La finalità e
la materialità non possono essere la legge universale dell’architettura, ma
solamente la sua base. E tuttavia l’insegnamento che l’ingegnere ha dato
all’architetto è stato più utile di ogni deduzione di stile da mondi formali
già estinti. Solamente quando si è confrontato con le realizzazioni delle
macchine e delle costruzioni ingegneristiche l’architetto si è reso conto con
orrore di quanto l’architettura storicista si posasse sul vuoto e che l’arte
non è mai semplicemente un ingrediente che si aggiunga ad una costruzione ben
finalizzata (così come si avvitavano ornamenti in ghisa ai sostegni di ferro),
ma ha una propria legge autonoma, che deve essere resa visibile mettendola in
adeguato rapporto con finalità e necessità della costruzione.
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Fig. 69) Parma, Fondazione Neri - Museo Italiano della Ghisa Fonte: http://www.museoitalianoghisa.org/#/home |
Il XIX secolo non è riuscito, se non in misura limitata, a
risolvere i problemi architettonici davanti al quale è stato posto. Ma li ha
riconosciuti in gran parte. Da ogni parte si sono levate le voci che facevano
riferimento ai nuovi compiti, e gli architetti hanno cercato di chiarire i
nuovi vincoli che derivano da materiale, costruzione e necessità. Solamente se
chiediamo loro di parlarci delle loro concezioni teoriche possiamo comprendere
a pieno la problematica che si cela dietro il pot-pourri di stili del XIX
secolo. Come teorici, questi architetti furono spesso i migliori critici della
propria architettura.
Sul destino dell'architettura nel XIX e XX secolo (pp. 215-218) [19]
Versione 1954
L’architetto non crea
forme con la stessa libertà di un pittore o di uno scultore. Più che creare le
forme delle sue costruzioni, egli le organizza e le amministra. E infatti le
forme della costruzione non sono il lavoro di uno solo, ma il risultato di
migliaia di esperienze ben affermate e della sensibilità di molte generazioni.
La volontà creatrice
dell’architetto è limitata anche da un altro punto di vista. L’architetto non
può scegliersi da solo i compiti. Egli ha bisogno di una commissione, ed ogni
commissione è legata a richieste pratiche ed ideali che limitano la libertà
dell’artista. Poiché ogni costruzione
è sottoposta ai vincoli derivanti dallo stato di necessità, dalla costruzione e dal materiale, la
personalità dell’architetto risalta nel suo lavoro in modo molto meno chiaro di
quella di un pittore o scultore in una forma dipinta, disegnata o plastica. Sì,
nella consapevolezza dei contemporanei e dei posteri, la sua personalità
finisce in secondo piano rispetto al suo lavoro. Invece l’architetto divide la sua fama con i suoi costruttori, con il tempo,
la società e la nazione, per incarico del quale egli crea. Il suo
contributo alla creazione di un sentimento generale della forma ed alla
coniatura dell’ambiente visibile è però molto maggiore di quello di pittori e
scultori. Sì, la sua arte è tra tutte le arti quella più pubblica e sociale. Ma
ciò si riflette su di lui, l’architetto stesso. I suoi pensieri sono molto
più indirizzati al generale. Di essi fanno parte in maniera essenziale
molti temi di natura sociale, economica,
tecnica, scientifica ed organizzativa in senso generale, e da tali fattori
definiti.
Nonostante tutti questi limiti alla libertà creativa, ogni costruzione è anche manifestazione di un impeto a creare forme. La costruzione,
che sia tempio, palazzo, semplice casa colonica o capannone industriale, è
opera d’arte nella misura in cui gli elementi costruttivi non si sommano
semplicemente in essa, ma si combinano in un’unità tra corpo e spazio che è
esteticamente sensata. Sì, fin quando il costruire soddisfa a pieno a queste
esigenze dell’arte, l’architettura è arte in senso molto stretto ed assoluto. E
proprio a quest’assolutezza e purezza l’architetto deve sacrificare l’arbitrio
della propria fantasia.
Anche tra gli architetti del XIX secolo vi sono stati grandi
talenti. Ma nessuno di essi ha saputo dare una nuova direzione al corso
dell’architettura. Dal neoclassicismo fino al passaggio al nuovo secolo e
ancora nella prima parte del nostro secolo ogni costruzione era dominata da una
fantasia romantica nostalgica del passato. In una lettera all’architetto Ludwig Catel, Goethe ha scritto: “quanto più veniamo a conoscere in termini
storico-critici le caratteristiche di quei vecchi edifici, tanto più svanisce
la voglia di usare per la progettazione di nuovi edifici quelle forme che
appartengono ad un passato ormai trascorso. La recente tendenza in quel senso
era sorta da un istinto sbagliato: quello di volere riprodurre anche in
condizioni del tutto diverse quello di cui si ha stima.” È successo esattamente
il contrario di quel che Goethe si era atteso nel 1815. Il neoclassicismo e
l’intero XIX secolo hanno quasi esclusivamente costruito nelle forme per le
quali il nuovo interesse per l’archeologia li aveva riempiti di passione.
Grazie a quelle forme si è creduto di dare all’edificio un preciso carattere. A
questa ingordigia per la storia creata da ragioni culturali si è affiancata una
profonda paura nel subconscio per il nuovo mondo che stava nascendo e che –
come scrisse Goethe – minacciava di detronizzare “il puro sentimento umano”.
Era sintomo della paura per il mondo della tecnica.
E così, mentre si sondava il campo della storia –di cui Johann
Georg Hamann disse che “è come una distesa sconfinata piena di ossa, e – guarda
un po’ – tutte secche”, mentre si saccheggiava il tesoro delle forme
storiche come una cava di pietra, con un’ingenuità colossale che solo poteva
ricordare i barbari, s’iniziò a costruire un mondo libero di forme, libero da
ogni fantasie rivolte al passato, al di là di questo pot-pourri di stili. In
tal nuovo mondo ha trovato la propria espressione il pensiero costruttivo
dell’epoca della tecnica, che è divenuto dominante con l’avvio dei processi di
industrializzazione intorno al 1930. Apparve un nuovo materiale da costruzione
artificiale – più artificiale, più lontano dalla natura del mattone – il ferro,
ed in seguito il cemento armato. L’ingegnere si è assunto compiti che fino ad
allora erano riservati all’architetto, ed è sembrato metterlo in ombra.
Con l’architettura in ferro si è andata sempre più
affermando – invece della pura empiria – la teoria, il calcolo matematico, a
causa del quale i maestri dell’architettura classica hanno sembrato vedere la
decadenza dell’arte nella costruzione. Ad esempio Chr. Fr. Viel, un allievo
della Scuola di Belle Arti, ha messo in guardia sull’ “effetto infausto dei
meccanici” e sull’abuso della scienza. Nei suoi scritti si è fatto beffa della
“pazza pretesa della matematica di assicurare la saldezza degli edifici”, per
il quale non servono le “fredde equazioni piene di cifre e grandezze
algebriche”.
Anche gli ingegneri decoravano, per oscure ragioni dovute in parte ad autocostrizione a
rispettare le forme d’arte tramandate, le nuove forme tecniche con ornamenti
storici (il Crystal Palace di Paxton a Londra nel 1851), articolavano
l’architettura in ferro nell’arte della costruzione classica in pietra,
costruivano i supporti in ferro come
colonne scanalate con capitello ionico-corinzio, il palo della luce come candelabro
rinascimentale , la stazione come
palazzo mediceo. Le costruzioni in ferro dei saloni delle stazioni, dei
mercati e delle fiere furono celate con un mantello in pietra che nella maggior
parte dei casi faceva sfoggio di motivi storicizzanti. È il caso, ancora
all’inizio del ventesimo secolo, della struttura in ferro del salone delle feste
della Fiera di Francoforte di Friedrich Thiersch e del cerchio della
costruzione in cemento armato del planetario di Düsseldorf.
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Fig. 73) L’inaugurazione del Salone delle Feste della Fiera di Francoforte (progetto di Friedrich Thiersch) il 19 maggio 1909 |
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Fig. 74) Friedrich Thiersch, Interno del salone delle feste, Fiera di Francoforte sul Meno, 1907-1909 |
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Fig. 75) Wilhelm Kreis, Planetario, Düsseldorf, 1925-1926 (foto del 1938) |
Di fronte ad alcune rovine romane a Terni, Goethe scrisse nel
1786:”Una seconda natura, che agisce per fini umani, è l’arte del costruire dei
Romani: è da lì che nascono l’anfiteatro, il tempio e l’acquedotto. Ed ora io
avverto solo adesso quanto io giustamente odiassi ogni cosa arbitraria, come
per esempio il Winterkasten sul Weissenstein, un edificio da nulla per il
nulla, un'enorme confezione decorativa, e ciò vale anche per altre migliaia di
cose. Questi edifici sono nati morti, poiché ciò che non ha vitalità interiore
non ha vita e non può né essere né diventare grande.” L’arbitrarietà dell’architettura storicizzante e delle
scelte tradizionali del XIX secolo e la ‘vera esistenza interna’ degli edifici
costruiti con i mezzi della moderna tecnica meccanica divengono oggi sempre più
percepiti in modo chiaro, anche se ancora sempre solamente da persone singole.
Considerando l’architettura del ferro di Veugny, Labrouste (Bibliothéque
Sainte-Geneviève a Parigi presso la Gare du Nord) ed altri, il romantico
Théophile Gautier scrisse nel 1850, con capacità preveggente: “Al tempo stesso
si creerà una propria architettura, utilizzando i nuovi mezzi che la nuova
industria offre. L’impiego della ghisa consente e costringe a nuove forme, che
si possono osservare nelle stazioni ferroviarie, ponti sospesi e nelle arcate
delle verande.”
L’architetto del
Trocadéro Davioud ha scritto nel 1877: “La soluzione si perfezionerà davvero
quando architetto ed ingegnere, artista e scienziato saranno la stessa persona…
. Viviamo da tempo nell’ingenua convinzione che l’arte sia cosa che si
differenzi da ogni altra forma dell’intelligenza umana, sia da essa
indipendente ed abbia la propria origine nella capricciosa fantasia
dell’artista."
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Fig. 77) Louis Sullivan e Dankmar Adler, Wainwright Building, Chicago, 1891 (foto degli anni sessanta) |
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Fig. 78) Louis Sullivan, Wainwright Building, particolare del cornicione, Chicago, 1891 |
Il riconoscimento che la tecnica moderna ha creato una nuova
e unica vera tradizione e che, come ha scritto Otto Wagner nel 1900 “tutto
quel di moderno che viene creato con un nuovo materiale (e dunque ferro e
cemento armato) deve corrispondere alle esigenze del presente, se deve
adattarsi all’umanità moderna”, ed infine la convinzione che – come spiega
Louis Sullivan (1850-1924) – la forma debba seguire la funzione, hanno creato
la condizione mentale per rifiutare il carnevale delle forme storiche e per
costruire in forme nuove che fossero in linea con il pensiero costruttivo dei
nuovi tempi, ovvero con quello della tecnica. Forti impulsi sono chiaramente
provenuti anche dal movimento di riforma delle arti applicate, il cui capo spirituale
era John Ruskin (1819-1900), che predicava che la verità fosse il fondamento,
l’imitazione la distruzione di ogni arte. Nell’Art Nouveau, che in Germania si
chiama ‘Jugendstil’, l’architettura ha finalmente assunto quel sano sentimento
per la modernità, che si era già da lungo svegliato nella pittura (ed anche
nella letteratura) con Manet e gli impressionisti e che aveva fatto del XIX
secolo, almeno in Francia, una grande epoca della pittura. Nei gruppi degli
architetti d’avanguardia si è così imposta, intorno all’inizio del secolo, la
convinzione che non vi potesse essere più alcuna concezione artistica al di
fuori del pensiero costruttivo della ‘tecnica’ e delle sue nuove possibilità.
Ed in tal modo le forme espressive dell’architettura e quelle della pittura (il
cosiddetto cubismo e la cosiddetta arte concreta o neoplastica di Mondrian e
van Doesburg) si sono incontrate di nuovo, come espressioni di un affine
sentimento della forma e della struttura.
NOTE
[18] Eckstein, Hans - Artisti sull’arte. Lettere,
rapporti, scritti di pittori, scultori e architetti tedeschi [Künstler über
Kunst. Briefe, Berichte, Aufzeichnungen deutscher Maler, Bildhauer,
Architekten] Ebenhausen – Monaco, Wilhelm Langewiesche-Brandt, 1938, 267 pagine.
[19] Eckstein, Hans - Lettere e scritti di pittori,
scultori e architetti [Künstler über Kunst. Briefe und Aufzeichnungen von
Malern, Bildhauern, Architekten] Berlino e Darmstadt, Deutsche
Buch-Gemeinschaft, 1954, 278 pagine.
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