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lunedì 24 aprile 2017

Francesco Mazzaferro, Luci e ombre nelle due versioni dell'antologia "Artisti sull'arte" di Hans Eckstein (1938 e 1954). Parte Quarta


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Francesco Mazzaferro
Luci e ombre nelle due versioni dell'antologia "Artisti sull'arte" di Hans Eckstein (1938 e 1954).

Parte Quarta

[Versione originale: aprile 2017 - Nuova versione: aprile 2019]

Fig.59) Claude-Nicolas Ledoux, Progetto di casa sferica, 1770

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Concludiamo l’analisi delle due antologie di Hans Eckstein proponendo, l’uno dopo l’altro, i due testi introduttivi sull’architettura, nelle versioni del 1938 e del 1954. Come detto nella seconda parte di questo post, le variazioni tra le due versioni possono demarcare sia i diversi spazi di libertà dopo la fine della guerra sia la mutazione delle idee dell’autore nel tempo. Le parti comuni sono segnate in corsivo.

Hans Eckstein
L'architettura nel XIX secolo
 (pp. 232-236) [18]
Versione 1938 

L’architetto non crea forme con la stessa libertà di un pittore o di uno scultore. Più che creare le forme delle sue costruzioni, egli le organizza e le amministra. E infatti le forme della costruzione non sono il lavoro di uno solo, ma il risultato di migliaia di esperienze ben affermate e della sensibilità di molte generazioni. Solamente entro confini ristretti il sistema di forme che noi chiamiamo stile è flessibile. E tuttavia questo spazio residuo di libertà che rimane disponibile ai talenti artistici in architettura è quel che conta: è lì che si afferma la forza della personalità.

La volontà creatrice dell’architetto è limitata anche da un altro punto di vista. L’architetto non può scegliersi da solo i compiti. Egli ha bisogno di una commissione, ed ogni commissione è legata a richieste pratiche ed ideali che limitano la libertà dell’artista. Ogni costruzione è sottoposta ai vincoli derivanti dallo stato di necessità, dalla costruzione e dal materiale, dalla tradizione della forma e dalla capacità tecnico-artigianale del tempo, ed anche dalle condizioni che derivano dalla considerazione degli edifici esistenti delle epoche precedenti. Ed in tal modo la personalità dell’architetto risalta nel suo lavoro in modo molto meno chiaro di un artista visivo, ed anche i suoi pensieri sono molto più indirizzati a fattori meta-artistici di natura sociale, economica, tecnica, scientifica ed organizzativa in senso generale, e da tali fattori definiti.

L’architetto divide la sua fama con i suoi costruttori, con il tempo, la società e la nazione, per incarico del quale egli crea. Dal momento che la sua arte è – fra tutte le altre arti – la più pubblica, la più sociale, e quella più legata ai bisogni.


Fig. 60) Franz Heger e Georg Moller, Progetti di determinati edifici realizzati o da realizzare. Primo quaderno: il teatro di corte granducale di Darmstadt, 1826

Dalla fine del XVIII secolo la volontà creatrice ideale degli architetti ed i bisogni reali si sono sempre più andati allontanando. La costruzione neoclassica era definita da ideali culturali che spesso andavano in direzione opposta ai bisogni ideali. In teoria si richiedeva che la costruzione fosse adeguata al fine, e addirittura Franz Heger (uno scolaro di Georg Moller) formulò la richiesta molto moderna di una costruzione dove l’interno determinasse l’esterno. “Così come in un edificio la disposizione dell’esterno deriva dalla disposizione degli interni, dalle necessità e dal fine assoluto, allo stesso modo l’esterno è in qualche modo l’espressione dell’interno.” Ma l’attrazione verso l’ideale è stata in quasi tutti gli architetti neoclassici più forte della volontà di radicarsi nei bisogni. L'architetto ha preferito lasciarsi condurre da un’ “idea pura”, “creata in modo puro, da lui stesso, e del tutto indipendentemente dal mondo” (Schinkel). Le costruzioni avrebbero dovuto infatti dare corpo a contenuti concettuali precisi, a veri e propri ‘caratteri’. Allo stesso modo il pittore Carstens scriveva che “la scelta del contenuto e l’invenzione della poesia sono il fattore principale” nell’arte ed il nazareno Overbeck aveva l’intenzione “di rendere percettibile un’idea”. “Gli edifici – scrive Schinkel – debbono suscitare sensazioni profonde o addirittura creare stati d’animo che siano alla base di tendenze morali più elevate, che conducano a punti di vista morali, e dai quali possano trarre origini espressioni morali proprie.” L’architetto si sentiva come “l’educatore etico del genere umano”, così come Friedrich Schlegel chiamava l’architetto d’eccellenza [n.d.t. Prachtbaumeister], ovvero come un educatore alla morale. Per il neoclassicista francese J. N. L. Durand “la maggior parte degli antichi tempi, più che luoghi dedicati all’esercizio pubblico del culto, erano monumenti per rappresentare qualche virtù.”

  
Fig. 61) Jean-Nicolas-Louis Durand, Testi delle lezioni d’architettura date alla Scuola Reale del Politecnico, 1805

Certamente, anche nel caso di costruzioni dei secoli precedenti i bisogni ideali avevano avuto un ruolo fondamentale. Queste idee erano però state di natura meno astratta e programmatica, ed erano sempre state parte d’impulsi vitali generali, che offrivano una forma alla vita intera in tutte le sue forme. Nei secoli precedenti progetti giganteschi di chiese, chiostri o castelli spesso non furono eseguiti per mancanza di mezzi. Le semplici forme stereometriche – sfera, cilindro, piramide, cubo – di fantasie architettoniche monumentalizzanti di un Ledoux, Boulée, il Monumento per Federico II di Friedrich Gilly (che pianificò un mezzo per promuovere grandi obiettivi morali e patriottici), incorporavano idee fantastiche, ma non furono mai messe in pratica, perché non corrispondevano né alle idee pratiche né a quelle ideali del tempo.

Fig. 62) Jacques Ignace Hittorff, La stazione ferroviaria del nord (Gare du Nord) di Parigi, 1861-1865 (stampa del 1864)

Entrambe le esigenze del classicismo – di una architettura che desse corpo alle idee e di un’architettura che perseguisse un fine – di un obiettivo ‘in senso spirituale’ e di un obiettivo ‘in senso fisico’ entrarono dunque in un conflitto permanente fra loro. È una contraddizione che il XIX secolo non riuscirà mai a superare. Le facciate erano organizzate sulla base dell’idea, mentre l’utilità aveva spesso, anche nell’epoca neoclassica, un ruolo secondario. Quel che l’architetto J.I. Hittorf ha detto come presidente dell’Académie des Beaux-Arts nel suo discorso commemorativo su Schinkel (1781-1846), che ne era membro corrispondente, vale per il neoclassicismo in generale. “I critici di Schinkel gli rimproverano che troppo spesso i suoi edifici avessero effetto non solamente grazie a belle masse, ma a ragione di effetti teatrali, che erano equivalenti a progetti di architetture apparenti, in cui zoccoli molto elevati e scale gigantesche si univano, senza alcuna finalità, ad enormi sale circondate da colonne. Nelle costruzioni di Schinkel mancherebbe il rapporto indispensabile tra l’interno e l’esterno, tra il loro aspetto ed il loro scopo. L’assenza di queste caratteristiche necessarie deriverebbe dall’inclinazione di Schinkel a sconcertare … A quattr’occhi Schinkel è spesso stato il migliore critico di se stesso, e si è pentito di quest’irresistibile tendenza della sua volontà immaginativa.” Nell’effettivo operare di questo straordinario talento, che solamente il tempo (e certo non l’insufficienza della capacità creativa) ha reso un epigono, si manifestano aspetti davvero contraddittori: a fianco di sogni romantici d’interni di chiese gotiche, castelli medievalizzanti per cavalieri (Castello di Neuabelsberg).e l’architettura fantasiosa di un palazzo reale greco, che deve superare in altezza le rovine del Partenone, si trovano edifici cui non manca un carattere proprio, che hanno dimensioni chiare e nobili, forme semplici (la Neue Wache, l’Opera, il museo della Nuova Galleria, il padiglione nel parco di Charlottenburg) e persino progetti che hanno saputo anticipare i tempi, come il disegno di un supermercato.”

Fig. 63) Carl Emanuel Conrad, La rotonda dell’Altes Museum di Karl Friedrich Schinkel, 1830

Il neoclassicismo non ha voluto solamente ripetere un fenomeno che era ‘storicamente chiuso”, ma anche creare un nuovo mondo di forme. Ciò gli è riuscito solamente in parte. Le riflessioni storiche di quel romantico ottimismo che ha avvolto in modo illusorio il fondamento spirituale e civile dell’intero XIX secolo creavano già nel primo 1800 gli ostacoli fondamentali per la creazione di un’architettura che potesse farsi carico del cambiamento delle strutture sociali. La ragione per la quale il neoclassicismo non è divenuto un vero e proprio stile con capacità creatici autonome non è conseguenza del fatto che le forme fossero derivate da modelli precedenti (lo stesso era vero anche per le forme del romanico, del gotico e del rinascimento), ma perché non gli è riuscita quella trasformazione e reinvenzione che sarebbe stata la conseguenza necessaria delle condizioni generali e ne avrebbero fatto una convenzione piena di vita. Non sono mancati i talenti, ma un sistema vincolante di forme e tradizioni genuine. Senza di esse il talento non può che far affidamento, in ultima istanza, che sulla propria personalità, e l’unica norma diviene il sentire individuale. Ogni arbitrio è però una violazione della regola suprema di ogni architettura. Il neoclassicismo aveva già a sua disposizione tutte le forme di ogni stile. E già il neoclassicismo ha saccheggiato il tesoro delle forme della storia universale. “Il campo della storia – dice però Johann Georg Hamann – è come una distesa sconfinata piena di ossa, e – guarda un po’ – sono tutte secche”.


Fig. 64) Gottfried Semper, L'Opera di Dresda, 1838-1841

La seconda parte del XIX secolo non ha saputo liberarsi dalla concezione neoclassicista che ogni edificio possa assumere un ‘carattere’, al di là della sua pura utilità, se non vestendo un costume storico. Semper chiama l’architetto uno ‘studioso di tutti i tempi”. La considerazione degli stili storici è a suo parere “tanto più necessaria, quanto più l’impressione che un edificio provoca sulle masse è in parte almeno basato su reminiscenze. Un teatro deve sempre ricordare un teatro greco, se vuole avere carattere. Un teatro gotico sarebbe irriconoscibile, chiese in stile del primo medioevo tedesco ed anche in stile rinascimentale… non hanno per noi alcun aspetto ecclesiale. È questo il nostro punto di vista essenziale.”

Ed è così che tutti gli scontri su questioni di stile sono divenuti scontri sulla scelta delle tradizioni, mentre al tempo stesso – come conseguenza dell’industrializzazione di ogni aspetto della società, che già si veniva manifestando all’epoca di Schinkel  – venivano emergendo nuovi materiali e costruzioni ed all’architetto venivano posti, dal giorno alla notte, interrogativi nei confronti dei quali non aveva alcuna possibilità di risposta. 

Fig. 65) Lampioni ottocenteschi a Parigi

Per oscure ragioni dovute in parte ad autocostrizione a forme artistiche ed in parte ad imbarazzo, le forme tecniche furono mascherate in maniera storicizzante: i supporti in ferro come colonne scanalate con capitello ionico-corinzio, il palo della luce come candelabro rinascimentale, la stazione come palazzo mediceo.
Fig. 66) Anatole de Baudot, Sezione della Chiesa di Saint Jean de Montmartre, Parigi, 1897-1904

L’ingegnere ha allora guadagnato terreno sull’architetto in molti aspetti. Anatole de Baudot (1834-1915), uno scolaro di Labroust e Viollet-le-Duc (il restauratore delle cattedrali) ha scritto nel 1864: “Si può forse pensare che il pubblico sia soddisfatto, se lo si sente ogni giorno lamentare, e se si vede effettivamente, quanto si prediligano gli ingegneri agli architetti? Perché questa preferenza? Semplicemente perché gli ingegneri non prendono una posizione rigida e si concentrano ad assolvere il compito che viene dato loro, mentre gli architetti spesso violano le legittime richieste e necessità del committente, a vantaggio di quel che considerano bello.”

Fig. 67) Gabriel Davioud (architetto) e Jules Bourdais (ingegnere), Palazzo del Trocadéro per l’Esposizione universale, Parigi, 1878. Demolito nel 1937.

L’architetto del Trocadéro, Davioud ha scritto nel 1877: “La soluzione si perfezionerà davvero quando architetto ed ingegnere, artista e scienziato saranno la stessa persona… . Viviamo da tempo nell’ingenua convinzione che l’arte sia cosa che si differenzi da ogni altra forma dell’intelligenza umana, sia da essa indipendente ed abbia la propria origine nella capricciosa fantasia dell’artista.


Fig. 68) Julius Vischer e Ludwig Hilberseimer, Il Cemento come creatore di forme, 1928

La teoria di Semper, che vuol spiegare le forme artistiche a partire dal materiale, è nata sotto l’impressione dell’ingegneria moderna e dei nuovi macchinari. Ha contribuito ad originare l’errore moderno che nuove forme stilistiche possano essere ricavate semplicemente dal nuovo materiale. Ma non esiste uno stile della costruzione in ferro o della costruzione in cemento. “Il cemento come creatore di forme”, come intitolano un loro saggio J. Vischer e L. Hilberseimer , è un nonsenso. La forma non convince perché è in linea con i materiali o le finalità delle costruzioni, ma solamente quando – al di là di tali aspetti – si sviluppa secondo una propria logica creativa. La finalità e la materialità non possono essere la legge universale dell’architettura, ma solamente la sua base. E tuttavia l’insegnamento che l’ingegnere ha dato all’architetto è stato più utile di ogni deduzione di stile da mondi formali già estinti. Solamente quando si è confrontato con le realizzazioni delle macchine e delle costruzioni ingegneristiche l’architetto si è reso conto con orrore di quanto l’architettura storicista si posasse sul vuoto e che l’arte non è mai semplicemente un ingrediente che si aggiunga ad una costruzione ben finalizzata (così come si avvitavano ornamenti in ghisa ai sostegni di ferro), ma ha una propria legge autonoma, che deve essere resa visibile mettendola in adeguato rapporto con finalità e necessità della costruzione.


Fig. 69) Parma, Fondazione Neri - Museo Italiano della Ghisa
Fonte: http://www.museoitalianoghisa.org/#/home

Il XIX secolo non è riuscito, se non in misura limitata, a risolvere i problemi architettonici davanti al quale è stato posto. Ma li ha riconosciuti in gran parte. Da ogni parte si sono levate le voci che facevano riferimento ai nuovi compiti, e gli architetti hanno cercato di chiarire i nuovi vincoli che derivano da materiale, costruzione e necessità. Solamente se chiediamo loro di parlarci delle loro concezioni teoriche possiamo comprendere a pieno la problematica che si cela dietro il pot-pourri di stili del XIX secolo. Come teorici, questi architetti furono spesso i migliori critici della propria architettura.



Hans Eckstein
Sul destino dell'architettura nel XIX e XX secolo
 (pp. 215-218) [19]
Versione 1954

Fig. 70) Joseph Paxton, Il Crystal Palace di Londra, 1851

L’architetto non crea forme con la stessa libertà di un pittore o di uno scultore. Più che creare le forme delle sue costruzioni, egli le organizza e le amministra. E infatti le forme della costruzione non sono il lavoro di uno solo, ma il risultato di migliaia di esperienze ben affermate e della sensibilità di molte generazioni.

La volontà creatrice dell’architetto è limitata anche da un altro punto di vista. L’architetto non può scegliersi da solo i compiti. Egli ha bisogno di una commissione, ed ogni commissione è legata a richieste pratiche ed ideali che limitano la libertà dell’artista. Poiché ogni costruzione è sottoposta ai vincoli derivanti dallo stato di necessità, dalla costruzione e dal materiale, la personalità dell’architetto risalta nel suo lavoro in modo molto meno chiaro di quella di un pittore o scultore in una forma dipinta, disegnata o plastica. Sì, nella consapevolezza dei contemporanei e dei posteri, la sua personalità finisce in secondo piano rispetto al suo lavoro. Invece l’architetto divide la sua fama con i suoi costruttori, con il tempo, la società e la nazione, per incarico del quale egli crea. Il suo contributo alla creazione di un sentimento generale della forma ed alla coniatura dell’ambiente visibile è però molto maggiore di quello di pittori e scultori. Sì, la sua arte è tra tutte le arti quella più pubblica e sociale. Ma ciò si riflette su di lui, l’architetto stesso. I suoi pensieri sono molto più indirizzati al generale. Di essi fanno parte in maniera essenziale molti temi di natura sociale, economica, tecnica, scientifica ed organizzativa in senso generale, e da tali fattori definiti.

Nonostante tutti questi limiti alla libertà creativa, ogni costruzione è anche manifestazione di un impeto a creare forme. La costruzione, che sia tempio, palazzo, semplice casa colonica o capannone industriale, è opera d’arte nella misura in cui gli elementi costruttivi non si sommano semplicemente in essa, ma si combinano in un’unità tra corpo e spazio che è esteticamente sensata. Sì, fin quando il costruire soddisfa a pieno a queste esigenze dell’arte, l’architettura è arte in senso molto stretto ed assoluto. E proprio a quest’assolutezza e purezza l’architetto deve sacrificare l’arbitrio della propria fantasia.

Fig. 71) Ritratto dell’architetto Ludwig Catel (1776–1819), senza autore e data

Anche tra gli architetti del XIX secolo vi sono stati grandi talenti. Ma nessuno di essi ha saputo dare una nuova direzione al corso dell’architettura. Dal neoclassicismo fino al passaggio al nuovo secolo e ancora nella prima parte del nostro secolo ogni costruzione era dominata da una fantasia romantica nostalgica del passato. In una lettera all’architetto Ludwig Catel, Goethe ha scritto:  “quanto più veniamo a conoscere in termini storico-critici le caratteristiche di quei vecchi edifici, tanto più svanisce la voglia di usare per la progettazione di nuovi edifici quelle forme che appartengono ad un passato ormai trascorso. La recente tendenza in quel senso era sorta da un istinto sbagliato: quello di volere riprodurre anche in condizioni del tutto diverse quello di cui si ha stima.” È successo esattamente il contrario di quel che Goethe si era atteso nel 1815. Il neoclassicismo e l’intero XIX secolo hanno quasi esclusivamente costruito nelle forme per le quali il nuovo interesse per l’archeologia li aveva riempiti di passione. Grazie a quelle forme si è creduto di dare all’edificio un preciso carattere. A questa ingordigia per la storia creata da ragioni culturali si è affiancata una profonda paura nel subconscio per il nuovo mondo che stava nascendo e che – come scrisse Goethe – minacciava di detronizzare “il puro sentimento umano”. Era sintomo della paura per il mondo della tecnica.

E così, mentre si sondava il campo della storia –di cui Johann Georg Hamann disse che “è come una distesa sconfinata piena di ossa, e – guarda un po’ – tutte secche”, mentre si saccheggiava il tesoro delle forme storiche come una cava di pietra, con un’ingenuità colossale che solo poteva ricordare i barbari, s’iniziò a costruire un mondo libero di forme, libero da ogni fantasie rivolte al passato, al di là di questo pot-pourri di stili. In tal nuovo mondo ha trovato la propria espressione il pensiero costruttivo dell’epoca della tecnica, che è divenuto dominante con l’avvio dei processi di industrializzazione intorno al 1930. Apparve un nuovo materiale da costruzione artificiale – più artificiale, più lontano dalla natura del mattone – il ferro, ed in seguito il cemento armato. L’ingegnere si è assunto compiti che fino ad allora erano riservati all’architetto, ed è sembrato metterlo in ombra. 

Fig. 72) Charles-François Viel, Principi dell’ordinamento e della costruzione degli edifici, 1797

Con l’architettura in ferro si è andata sempre più affermando – invece della pura empiria – la teoria, il calcolo matematico, a causa del quale i maestri dell’architettura classica hanno sembrato vedere la decadenza dell’arte nella costruzione. Ad esempio Chr. Fr. Viel, un allievo della Scuola di Belle Arti, ha messo in guardia sull’ “effetto infausto dei meccanici” e sull’abuso della scienza. Nei suoi scritti si è fatto beffa della “pazza pretesa della matematica di assicurare la saldezza degli edifici”, per il quale non servono le “fredde equazioni piene di cifre e grandezze algebriche”.

Anche gli ingegneri decoravano, per oscure ragioni dovute in parte ad autocostrizione a rispettare le forme d’arte tramandate, le nuove forme tecniche con ornamenti storici (il Crystal Palace di Paxton a Londra nel 1851), articolavano l’architettura in ferro nell’arte della costruzione classica in pietra, costruivano i supporti in ferro come colonne scanalate con capitello ionico-corinzio, il palo della luce come candelabro rinascimentale , la stazione come palazzo mediceo. Le costruzioni in ferro dei saloni delle stazioni, dei mercati e delle fiere furono celate con un mantello in pietra che nella maggior parte dei casi faceva sfoggio di motivi storicizzanti. È il caso, ancora all’inizio del ventesimo secolo, della struttura in ferro del salone delle feste della Fiera di Francoforte di Friedrich Thiersch e del cerchio della costruzione in cemento armato del planetario di Düsseldorf. 

Fig. 73) L’inaugurazione del Salone delle Feste della Fiera di Francoforte (progetto di Friedrich Thiersch) il 19 maggio 1909
Fig. 74) Friedrich Thiersch, Interno del salone delle feste, Fiera di Francoforte sul Meno, 1907-1909
Fig. 75) Wilhelm Kreis, Planetario, Düsseldorf, 1925-1926 (foto del 1938)

Di fronte ad alcune rovine romane a Terni, Goethe scrisse nel 1786:”Una seconda natura, che agisce per fini umani, è l’arte del costruire dei Romani: è da lì che nascono l’anfiteatro, il tempio e l’acquedotto. Ed ora io avverto solo adesso quanto io giustamente odiassi ogni cosa arbitraria, come per esempio il Winterkasten sul Weissenstein, un edificio da nulla per il nulla, un'enorme confezione decorativa, e ciò vale anche per altre migliaia di cose. Questi edifici sono nati morti, poiché ciò che non ha vitalità interiore non ha vita e non può né essere né diventare grande.” L’arbitrarietà  dell’architettura storicizzante e delle scelte tradizionali del XIX secolo e la ‘vera esistenza interna’ degli edifici costruiti con i mezzi della moderna tecnica meccanica divengono oggi sempre più percepiti in modo chiaro, anche se ancora sempre solamente da persone singole. Considerando l’architettura del ferro di Veugny, Labrouste (Bibliothéque Sainte-Geneviève a Parigi presso la Gare du Nord) ed altri, il romantico Théophile Gautier scrisse nel 1850, con capacità preveggente: “Al tempo stesso si creerà una propria architettura, utilizzando i nuovi mezzi che la nuova industria offre. L’impiego della ghisa consente e costringe a nuove forme, che si possono osservare nelle stazioni ferroviarie, ponti sospesi e nelle arcate delle verande.” 

Fig. 76) Henri Labrouste, Biblioteca Sainte-Geneviève, Parigi, 1851

L’architetto del Trocadéro Davioud ha scritto nel 1877: “La soluzione si perfezionerà davvero quando architetto ed ingegnere, artista e scienziato saranno la stessa persona… . Viviamo da tempo nell’ingenua convinzione che l’arte sia cosa che si differenzi da ogni altra forma dell’intelligenza umana, sia da essa indipendente ed abbia la propria origine nella capricciosa fantasia dell’artista."


Fig. 77) Louis Sullivan e Dankmar Adler, Wainwright Building, Chicago, 1891 (foto degli anni sessanta)
Fig. 78) Louis Sullivan, Wainwright Building, particolare del cornicione, Chicago, 1891

Il riconoscimento che la tecnica moderna ha creato una nuova e unica vera tradizione e che, come ha scritto Otto Wagner nel 1900 “tutto quel di moderno che viene creato con un nuovo materiale (e dunque ferro e cemento armato) deve corrispondere alle esigenze del presente, se deve adattarsi all’umanità moderna”, ed infine la convinzione che – come spiega Louis Sullivan (1850-1924) – la forma debba seguire la funzione, hanno creato la condizione mentale per rifiutare il carnevale delle forme storiche e per costruire in forme nuove che fossero in linea con il pensiero costruttivo dei nuovi tempi, ovvero con quello della tecnica. Forti impulsi sono chiaramente provenuti anche dal movimento di riforma delle arti applicate, il cui capo spirituale era John Ruskin (1819-1900), che predicava che la verità fosse il fondamento, l’imitazione la distruzione di ogni arte. Nell’Art Nouveau, che in Germania si chiama ‘Jugendstil’, l’architettura ha finalmente assunto quel sano sentimento per la modernità, che si era già da lungo svegliato nella pittura (ed anche nella letteratura) con Manet e gli impressionisti e che aveva fatto del XIX secolo, almeno in Francia, una grande epoca della pittura. Nei gruppi degli architetti d’avanguardia si è così imposta, intorno all’inizio del secolo, la convinzione che non vi potesse essere più alcuna concezione artistica al di fuori del pensiero costruttivo della ‘tecnica’ e delle sue nuove possibilità. Ed in tal modo le forme espressive dell’architettura e quelle della pittura (il cosiddetto cubismo e la cosiddetta arte concreta o neoplastica di Mondrian e van Doesburg) si sono incontrate di nuovo, come espressioni di un affine sentimento della forma e della struttura.



NOTE

[18] Eckstein, Hans - Artisti sull’arte. Lettere, rapporti, scritti di pittori, scultori e architetti tedeschi [Künstler über Kunst. Briefe, Berichte, Aufzeichnungen deutscher Maler, Bildhauer, Architekten] Ebenhausen – Monaco, Wilhelm Langewiesche-Brandt, 1938, 267 pagine.

[19] Eckstein, Hans - Lettere e scritti di pittori, scultori e architetti [Künstler über Kunst. Briefe und Aufzeichnungen von Malern, Bildhauern, Architekten] Berlino e Darmstadt, Deutsche Buch-Gemeinschaft, 1954, 278 pagine.



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