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mercoledì 1 marzo 2017

El Greco. Il miracolo della naturalezza. Il pensiero artistico di El Greco attraverso le note a margine a Vitruvio e Vasari. Parte Prima


English Version

El Greco.
Il miracolo della naturalezza.
Il pensiero artistico di El Greco attraverso le note a margine a Vitruvio e Vasari

A cura di Fernando Marías e José Riello
Traduzione di Massimo De Pascale


Roma, Castelvecchi, 2017

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima


E Greco, Ritratto di anziano (possibile autoritratto), 1595-1600, New York, Metropolitan Museum of Art
Fonte: Metmuseum.org tramite Wikimedia Commons

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Esce, finalmente, la traduzione delle note a margine apposte da El Greco a due esemplari della sua biblioteca, rispettivamente una copia del De Architectura di Vitruvio nell’edizione curata da Daniele Barbaro (1556) e un esemplare dell’edizione giuntina delle Vite di Vasari (1568). Le postille sono state pubblicate integralmente in spagnolo rispettivamente nel 1981 [1] e nel 1992 [2] e poi sono state oggetto di studi che si sono allargati anche alle altre opere possedute dall’artista cretese. Ricordo in particolare, come esempio più recente, il catalogo della mostra La biblioteca del Greco, pubblicato nel 2014 e già oggetto di recensione in questo blog. Lo ricordo perché molte delle informazioni fornite in quella recensione (ad esempio la questione dei due inventari che identificano parte dei libri posseduti dall’artista di origine cretese) non saranno qui ripetute, per rispetto del lettore, che è invitato a farvi riferimento.

El Greco, La guarigione del cieco, 1567 circa, Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

El Greco fra naturalezza e misticismo.

Il titolo del libro, di per sé, è già un manifesto: “El Greco. Il miracolo della naturalezza”. Che cos’è la naturalezza? Si può parlare di un El Greco naturalista? Tutto quello che di scritto ci rimane dell’artista (che compose un trattato d’architettura non andato alle stampe e ad oggi perso) sono circa 18mila parole costituite dalle note a Vitruvio e a Vasari. Tali note (è questa la tesi fondamentale di Marías, poi proseguita da Riello) non coincidono con l’immagine dell’artista formatasi in Spagna attorno agli inizi del secolo scorso, secondo cui Domenico sarebbe stato un artista fondamentalmente spagnolo, precursore (o fondatore) di una mitica scuola nazionale, un uomo di profonda religiosità, colto da crisi mistiche di cui i suoi quadri sarebbero stati l’espressione più evidente. Nelle 18mila parole in questione El Greco non affronta mai temi di carattere religioso. Esprime invece il suo modo di concepire la ‘naturalezza’. E di questo – mi verrebbe da dire – non c’è nulla di cui stupirsi: noi siamo abituati a parlare di naturalismo carraccesco, di naturalismo caravaggesco e così via, come se manierismo, classicismo e quant’altro si proclamassero apertamente ‘anti-naturalisti’. Ovviamente non è così: anche per un Lomazzo o per uno Zuccari (per fare un esempio di teorici manieristi legati al concetto di ‘Idea’ che si forma prima nella mente) la pittura è imitazione della natura, e di fatto tale resterà fino ai primi del Novecento. Ma qui lascio la parola a Riello: “In realtà, queste annotazioni dovrebbero entrare a far parte di un dibattito di grande portata che contribuirebbero a rendere ancora più complesso: quello che concerne l’attuale revisione del termine “naturalismo” e le sue conseguenze. In questo senso, ciò che ora si cerca di fare, riguardo alle annotazioni, è: negarne l’attribuzione, impresa ardua poiché sia gli indizi interni che quelli esterni attestano che furono vergate da El Greco; accettare senza dubbio che siano sue per poi cercare subito di “ammazzare l’autore” […]; metterne in discussione il contenuto, leggendole “contropelo” […] aggirando le intenzioni dell’autore, compito non meno arduo poiché le note sono, come ho già detto, pienamente coerenti con la pratica di El Greco e con, tra l’altro, il contenuto della sua biblioteca; oppure affrontare la sfida che implica legarle alla sua prolifica e multiforme attività artistica” (p. 63).

El Greco (attribuito a), Trittico di Modena, 1568, Modena, Galleria Estense
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons

In concreto, ci sono (grosso modo) tre partiti: coloro che vedono El Greco come un artista schizofrenico, che scrive (ad uso privato, si badi bene, non per essere letto da altri) cose incompatibili con il suo modo di dipingere; altri considerano l’artista come un “doppio convertito”, ovvero come un pittore che, nel corso della sua biografia sicuramente singolare, si converte due volte: la prima dalla “maniera greca” al colorismo veneziano; la seconda dalla “maniera veneziana” (o più in generale italiana) al misticismo religioso quasi espressionista (per costoro le postille appartengono a un momento in cui la seconda conversione non è ancora avvenuta); infine altri (per quanto vale, io la penso così, ma soprattutto la pensano così Marías e Riello) non vedono altro che lo sviluppo di un pensiero unico (sia pure espresso in maniera non particolarmente lineare, come è naturale per qualsiasi serie di annotazioni a margine) in cui l’artista non rinnega nulla, ma semmai sviluppa e approfondisce il suo pensiero.


El Greco, Ritratto di Giulio Clovio (particolare), 1571-1572, Napoli, Museo di Capodimonte
Fonte: Julije Klovic tramite Wikimedia Commons

El Greco e Vitruvio

Le note a Vitruvio e quella a Vasari sono accomunate dalla loro asprezza nel commento. Non vi è dubbio che la componente polemica in El Greco giochi un ruolo fondamentale: tale componente, nel caso di Vasari, fa pensare addirittura a una qualche forma di risentimento personale e c’è una nota non molto chiara (“è questo no io che lo fa uscire dai limiti”) che potrebbe in qualche modo confermare una conoscenza diretta, in tal caso probabilmente non semplice, fra i due. C’è comunque da credere a Giulio Mancini che, nelle sue Considerazioni sulla pittura, racconta che “venendo l’occasione di coprir alcune figure del Giuditio di Michelangelo che da Pio erano state stimate indecenti per quel luogo, proruppe in dir che, se si buttasse a terra tutta l’hopera, l’haverebbe fatta con honestà et decenza non inferiore a quella di bontà di pittura. Onde, provocatisi tutti i pittori e quelli che si dilettano di questa professione, gli fu necessario andarsene in Spagna” [3]. L’episodio, peraltro, è perfettamente coerente con quanto El Greco racconta di Michelangelo, giudicato grande scultore e disegnatore, ottimo architetto, ma pessimo pittore, per via della sua incapacità tecnica ad usare la pittura ad olio e la gamma cromatica assolutamente insufficiente (si veda la seconda parte della recensione).

Va comunque detto che, da un punto di vista teorico, le note a Vitruvio sono sicuramente più interessanti di quelle a Vasari perché sembrano costituire una tela di appunti in preparazione della stesura del trattato di architettura, di cui il figlio (architetto) diede conto dopo la morte del padre, e costituiscono una trama teorica più coerente rispetto alle postille vasariane, molto schiacciate dal peso preponderante dell’odio verso Vasari. C’è da chiedersi, innanzi tutto, perché El Greco abbia lavorato molti anni a un trattato di architettura. Va detto che Pacheco, nella sua Arte de la pintura lo definisce ‘pittore filosofo’ e riferisce che si occupa di tutte e tre le arti, pittura, scultura, architettura. Probabilmente, più che all’educazione del figlio sembra logico pensare a un fenomeno di reazione nei confronti del trionfo del classicismo vitruviano in architettura che in quegli anni vede i ‘vitruvisti’ ortodossi trionfare in Spagna nella costruzione dell’Escorial. El Greco si sposta in un primo tempo a Madrid, presso la corte reale, ma dopo qualche anno si apparta a Toledo, non essendo evidentemente entrato pienamente nelle grazie della corte spagnola.

I capisaldi su cui si basa l’impalcatura dell’artista cretese sono sufficientemente chiari: a) primato della pittura sulle altre arti; b) costruzione della bellezza basata sull’indagine della natura; c) valore speculativo della pittura, strumento di conoscenza del reale e dell’ ‘invisibile’; d) forma, luce, colore e movimento sono le variabili che concorrono alla formazione della bellezza; e) rifiuto di ogni proporzione matematica e di ogni regola per la costruzione della bellezza. La bellezza deve essere proporzionata in sé e il riconoscimento di tale proporzione è compito del ‘giudizio’ del pittore, un ‘giudizio’ basato sull’esperienza e sull’esercizio (quind’anche sul disegno); f) rifiuto del mito dell’antichità come perfezione assoluta; l’antichità si può emulare e si deve migliorare. Sotto questo punto di vista, oggetto degli strali del Greco non è tanto (o solo) Vitruvio, che ovviamente non poteva avere una prospettiva storica, ma gli interpreti del medesimo, a partire da Daniele Barbaro, che tendono a ricondurre tutto all’insegnamento vitruviano come dogma e non come esperienza. Ciò detto, va comunque segnalato che molte note costituiscono comunque un commento puntuale ad aspetti tecnici (ad esempio sulla tipologia dei templi e così via): El Greco entra cioè su un terreno (quello della proporzione e della regola) che contemporaneamente finisce per negare e che molto probabilmente non comprende nella sua interezza (in quanto pittore e non architetto).

El Greco, Retablo mayor della chiesa del monastero di San Domenico il Vecchio, 1577-1579, Toledo
Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons
El Greco, Retablo mayor della chiesa del monastero di San Domenico il Vecchio, Assunzione della Vergine,
1577-1579, Art Institute of Chicago
Fonte: Google Cultural Institution tramite Wikimedia Commons

La pittura

Il secondo Cinquecento è il periodo storico in cui trionfano i trattati di architettura. Segna gli anni del canone vitruviano, della ‘regola’ degli ordini, della proporzione matematica e, in qualche modo, della superiorità (qualche volta data implicitamente per scontata) dell’architettura su pittura e scultura. Non è così per El Greco. L’architettura è “semplice invenzione dell’uomo” e quindi questo sistema di regole è una convenzione “necessariamente particolare”. Non possiede la capacità di interpretare la natura. In questo senso emerge, invece la pittura, perché è con la pittura, che è fondamentalmente mimetica, che l’artista ‘giudica’ della natura. Non lo fa solo attraverso la resa della forma, ma anche (e soprattutto) tramite il colore e gli effetti della luce: “la pittura è l’unica a poter giudicare di ogni cosa, forma, colore, avendo come oggetto l’imitazione di tutto; in breve, la pittura occupa una posizione di indirizzo e di modellatrice (o di moderatrice?) di tutto ciò che si vede e se fossi capace di esprimere in parole quello che è il modo di vedere del pittore, apparirebbe come una cosa singolare […]; però la pittura, essendo così universale, diviene speculativa, perché non manca mai la gioia della speculazione, dato che non manca mai qualcosa che si possa vedere, poiché persino in una mediocre oscurità si vede e se ne gode e si ha qualcosa da imitare” (p. 24). È chiaro l’impianto naturalistico che pervade l’arte di El Greco. Se poi questo impianto sia di tipo neo-platonico o neo-aristotelico è cosa che è stata oggetto di estenuanti dibattiti. Normalmente si è incasellato El Greco fra i neoplatonici perché il neoplatonismo si concilia meglio con la ‘creazione’ di un’idea mentale che corregga la natura. In ultima analisi, peraltro, l’artista è stato considerato neoplatonico perché basta sostituire Dio all’Idea per spiegare le sue (presunte) crisi mistiche e la sua (presunta) pittura visionaria specialmente degli ultimi anni. Indiscutibilmente El Greco si schiera per la correzione della natura. Ciò detto va pur rilevato che in diciottomila parole non compare mai il termine ‘idea’ e che El Greco non affronta mai temi religiosi. L'essenza ‘speculativa’ della natura, l’attenzione per i fenomeni ottici, mediati da luce e colore, lo fanno un uomo moderno del proprio tempo, forse anche un precursore (circa vent’anni dopo saranno scritti i trattati di prospettiva di Accolti, Zaccolini e del Cigoli, tutti legati alla questione dell’ “inganno degli occhi”) e non vi è dubbio che l’”attività speculativa” anche in condizioni di mediocre visibilità lo avvicini alla mentalità totalmente aristotelica di uno Zaccolini, che scrive il suo trattato sulla base dell’esperienza dei fenomeni visivi effettuata nel golfo di Napoli.

Molto semplicemente, El Greco non è un neo-platonico né un neo-aristotelico puro. Mutua una serie di suggestioni dalle due filosofie e cerca di combinarle in una soluzione personale. Senza dubbio personale, sotto questo punto di vista, è la rappresentazione del visibile e dell’invisibile (ovvero delle entità divine). Sotto questo profilo la tesi dei curatori (spiegata forse più dettagliatamente ne La biblioteca del Greco, a cui si rimanda) è che l’artista rappresenta naturalisticamente il visibile, mentre le realtà divine, invece, hanno una bellezza propria, ultraterrena, in cui la proporzione è diversa da quella percepita dall’occhio umano. Nei suoi quadri i due piani spesso si incrociano, ma non stanno ad indicare una furia creatrice che si impossessa della mano del pittore e lo guida in una sorta di trance, quanto piuttosto, anche qui, un approccio speculativo anche al divino (anch’esso oggetto della pittura).

El Greco, Retablo mayor della chiesa del monastero di San Domenico il Vecchio, La Trinità,
1577-1579, Madrid, Museo del Prado
Fonte: http://www.digibis.com/elgreco_digimus/es/musobjects/2725.html?ctx=freetext%3A0

Il movimento

La vita non è un fatto statico, ma è fatta di movimento. Credo che sia un fatto particolarmente importante cercare di capire come El Greco cerchi di implementare il movimento nella sua pittura. Marías ne parla brillantemente: “Il rilievo accentuato, gli scorci forzati, i contorcimenti delle figure – serpentinate, a forma di fiamma, sinuose, in contrapposto semplice o incrociato – non ci mostrano solo la loro tridimensionalità ma anche il loro movimento, i suoi diversi aspetti, in un equilibrio instabile, momentaneo, fugace. L’allungamento dona loro agilità e bellezza [n.d.r. e non è un’esperienza mistica, ma un’esperienza speculativa], il colore e la luce le dotano di un’aura naturale che ne avvolge le strutture suggerite dall’immaginazione peculiare dell’artista” (p. 33). “In questo senso non deve sorprenderci il folgorante successo, per quanto limitato dal punto di vista sociale, dei ritratti di El Greco. Così come non devono sorprenderci i problemi suscitati dalla sua pittura religiosa in Spagna” (pp. 33-34). “El Greco, nel suo mondo, godette di successo nel ritratto e di ammirazione nella pittura religiosa e fu oggetto di critiche per la scarsa convenienza e devozione della sua tematica sacra. Era sostenuto da un ristretto gruppo sociale e culturale che valutava più la sua arte che il suo operato nel genere sacro, pieno di improprietà e di distorsioni formalistiche che sminuivano i contenuti cui si era abituati” (p. 36).

El Greco, La spoliazione di Cristo, 1577-1579, Cattedrale di Toledo
Fonte: Pictorpedia tramite Wikimedia Commons

La bellezza

Ho parlato molto di bellezza e di creazione della medesima. A questo punto non dovrebbe essere totalmente una sorpresa notare che, parlando di soluzioni architettoniche, El Greco è molto più attento agli effetti della bellezza, ovvero a quella che Vitruvio chiama venustas, piuttosto che alla firmitas, alla solidità dell’edificio, che è un po’ il caposaldo di tutti i trattati d’architettura cinquecenteschi e anche di quello vitruviano (il riferimento è ovviamente alla triade firmitas, utilitas, venustas):

la venustas abbraccia tutto, perché, nascendo dalla proporzione, non può mancare dalla forza salvo nelle fondamenta, in cui ci si deve guardare dall’avarizia” (p. 104).

Ciò che conta veramente è la leggiadria e la varietà dell’edificio, qualsiasi sia la sua destinazione, e tale leggiadria deriva dalla proporzione. Ancora una volta – è bene chiarire – la proporzione è quella “naturale”, ovvero non risulta da un insieme di rapporti geometrici precostituiti e intoccabili, ma dalla proporzione ‘naturale’ dell’uomo (l’architettura è antropomorfica) che è giudicata in maniera saggia dalla visione dell’architetto. Così stando le cose, la firmitas è una conseguenza della venustas; da essa consegue naturalmente, salvo che per le fondamenta, in cui il rapporto si inverte e la prima cosa da fare è preoccuparsi della solidità della base su cui si va a costruire.

El Greco, Martirio di San Maurizio, 1580-1582, Madrid, El Escorial
Fonte: Colleciones reales tramite Wikimedia Commons

El Greco e Scamozzi

Nel suo commento alle postille di Vincenzo Scamozzi alle Vite di Giorgio Vasari (stese dopo il 1600, ovvero almeno una decina d’anni dopo rispetto a quelle di El Greco), Lucia Collavo suggerisce che sarebbe il caso di mettere a confronto le annotazioni dell’artista cretese e dell’architetto vicentino per riconoscere eventuali debiti comuni alle loro frequentazioni venete. Oggi, grazie alla presente traduzione italiana, è possibile farlo con una certa facilità. Ritengo più opportuno, in realtà, mettere a confronto le postille al De Architectura di El Greco con quelle alle Vite di Vasari scritte da Scamozzi, perché, a mio avviso, è questo il confronto che illumina. L’atteggiamento nei confronti di Vasari, infatti, è comune, e negativo. Ma le ragioni sono opposte, e del resto non potrebbe essere diversamente, posto che El Greco è pittore e Scamozzi architetto. Scamozzi critica Vasari perché non fornisce le ‘misure’ degli ordini, parla di prospettiva in poche righe, mentre El Greco si scaglia contro Daniele Barbaro proprio perché fornisce le misure e ne fa un dogma. Scamozzi lamenta imprecisione e mancato rispetto del canone classico anche sul piano della pratica professionale (si pensi al caso degli Uffizi), El Greco si rifiuta di prendere in considerazione anche solo qualsiasi effetto correttivo delle colonne giustificato da fenomeni ottici; Scamozzi indaga le antichità, El Greco le rimuove. Non a caso i punti delle Vite che sono segnalati da Scamozzi come indicatori dell’impreparazione di Vasari (e che hanno a che fare sostanzialmente con l’architettura) non sono commentati dal Greco, perché non gli interessano.

Fine Parte Prima
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NOTE

[1] F. Marías, A. Bustamante, Las ideas artisticas de El Greco. Comentarios a un texto inédito, Madrid 1981.

[2] X de Salas, F. Marías. El Greco y el arte de su tiempo. Las notas de El Greco a Vasari, Madrid 1992

[3] Giulio Mancini. Considerazioni sulla pittura pubblicate per la prima volta da Adriana Marucchi con il commento di Luigi Salerno, Vol. I, pp- 230-231. C’è da aggiungere che gli spostamenti del Greco in Italia non sono chiarissimi. Secondo una tesi (minoritaria) Domenico non sarebbe andato in Spagna nel 1577 perché ‘cacciato’ dagli ambienti artistici romani, ma sarebbe tornato a Venezia. Da qui sarebbe scappato nel 1576 per via della peste.



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