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El Greco.
Il miracolo della naturalezza.
Il pensiero artistico di El Greco attraverso le note a margine a Vitruvio e Vasari
A cura di Fernando Marías e José Riello
Traduzione di Massimo De Pascale
Roma, Castelvecchi, 2017
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Prima
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E Greco, Ritratto di anziano (possibile autoritratto), 1595-1600, New York, Metropolitan Museum of Art Fonte: Metmuseum.org tramite Wikimedia Commons |
Altri contributi in questo blog su Giorgio Vasari
Esce, finalmente, la traduzione
delle note a margine apposte da El Greco a due esemplari della sua biblioteca,
rispettivamente una copia del De
Architectura di Vitruvio nell’edizione curata da Daniele Barbaro (1556) e
un esemplare dell’edizione giuntina delle Vite di Vasari (1568). Le postille sono state pubblicate integralmente in spagnolo
rispettivamente nel 1981 [1] e nel 1992 [2] e poi sono state oggetto di studi
che si sono allargati anche alle altre opere possedute dall’artista cretese.
Ricordo in particolare, come esempio più recente, il catalogo della mostra La biblioteca del Greco, pubblicato nel
2014 e
già oggetto di recensione in questo blog. Lo ricordo perché molte delle
informazioni fornite in quella recensione (ad esempio la questione dei due
inventari che identificano parte dei libri posseduti dall’artista di origine
cretese) non saranno qui ripetute, per rispetto del lettore, che è invitato a
farvi riferimento.
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El Greco, La guarigione del cieco, 1567 circa, Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons |
El Greco fra naturalezza e misticismo.
Il titolo del libro, di per sé, è
già un manifesto: “El Greco. Il miracolo
della naturalezza”. Che cos’è la naturalezza? Si può parlare di un El Greco
naturalista? Tutto quello che di scritto ci rimane dell’artista (che compose un
trattato d’architettura non andato alle stampe e ad oggi perso) sono circa
18mila parole costituite dalle note a Vitruvio e a Vasari. Tali note (è questa
la tesi fondamentale di Marías, poi proseguita da Riello) non
coincidono con l’immagine dell’artista formatasi in Spagna attorno agli inizi
del secolo scorso, secondo cui Domenico sarebbe stato un artista
fondamentalmente spagnolo, precursore (o fondatore) di una mitica scuola
nazionale, un uomo di profonda religiosità, colto da crisi mistiche di cui i
suoi quadri sarebbero stati l’espressione più evidente. Nelle 18mila parole in
questione El Greco non affronta mai temi di carattere religioso. Esprime invece
il suo modo di concepire la ‘naturalezza’. E di questo – mi verrebbe da dire –
non c’è nulla di cui stupirsi: noi siamo abituati a parlare di naturalismo
carraccesco, di naturalismo caravaggesco e così via, come se manierismo,
classicismo e quant’altro si proclamassero apertamente ‘anti-naturalisti’.
Ovviamente non è così: anche per un Lomazzo o per uno Zuccari (per fare un
esempio di teorici manieristi legati al concetto di ‘Idea’ che si forma prima
nella mente) la pittura è imitazione della natura, e di fatto tale resterà fino
ai primi del Novecento. Ma qui lascio la parola a Riello: “In realtà, queste annotazioni dovrebbero entrare a far parte di un
dibattito di grande portata che contribuirebbero a rendere ancora più
complesso: quello che concerne l’attuale revisione del termine “naturalismo” e
le sue conseguenze. In questo senso, ciò che ora si cerca di fare, riguardo
alle annotazioni, è: negarne l’attribuzione, impresa ardua poiché sia gli
indizi interni che quelli esterni attestano che furono vergate da El Greco;
accettare senza dubbio che siano sue per poi cercare subito di “ammazzare
l’autore” […]; metterne in discussione il contenuto, leggendole “contropelo”
[…] aggirando le intenzioni dell’autore, compito non meno arduo poiché le note
sono, come ho già detto, pienamente coerenti con la pratica di El Greco e con,
tra l’altro, il contenuto della sua biblioteca; oppure affrontare la sfida che
implica legarle alla sua prolifica e multiforme attività artistica” (p.
63).
In concreto, ci sono (grosso modo) tre partiti: coloro che vedono El Greco come un artista schizofrenico, che scrive (ad uso privato, si badi bene, non per essere letto da altri) cose incompatibili con il suo modo di dipingere; altri considerano l’artista come un “doppio convertito”, ovvero come un pittore che, nel corso della sua biografia sicuramente singolare, si converte due volte: la prima dalla “maniera greca” al colorismo veneziano; la seconda dalla “maniera veneziana” (o più in generale italiana) al misticismo religioso quasi espressionista (per costoro le postille appartengono a un momento in cui la seconda conversione non è ancora avvenuta); infine altri (per quanto vale, io la penso così, ma soprattutto la pensano così Marías e Riello) non vedono altro che lo sviluppo di un pensiero unico (sia pure espresso in maniera non particolarmente lineare, come è naturale per qualsiasi serie di annotazioni a margine) in cui l’artista non rinnega nulla, ma semmai sviluppa e approfondisce il suo pensiero.
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El Greco (attribuito a), Trittico di Modena, 1568, Modena, Galleria Estense Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons |
In concreto, ci sono (grosso modo) tre partiti: coloro che vedono El Greco come un artista schizofrenico, che scrive (ad uso privato, si badi bene, non per essere letto da altri) cose incompatibili con il suo modo di dipingere; altri considerano l’artista come un “doppio convertito”, ovvero come un pittore che, nel corso della sua biografia sicuramente singolare, si converte due volte: la prima dalla “maniera greca” al colorismo veneziano; la seconda dalla “maniera veneziana” (o più in generale italiana) al misticismo religioso quasi espressionista (per costoro le postille appartengono a un momento in cui la seconda conversione non è ancora avvenuta); infine altri (per quanto vale, io la penso così, ma soprattutto la pensano così Marías e Riello) non vedono altro che lo sviluppo di un pensiero unico (sia pure espresso in maniera non particolarmente lineare, come è naturale per qualsiasi serie di annotazioni a margine) in cui l’artista non rinnega nulla, ma semmai sviluppa e approfondisce il suo pensiero.
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El Greco, Ritratto di Giulio Clovio (particolare), 1571-1572, Napoli, Museo di Capodimonte Fonte: Julije Klovic tramite Wikimedia Commons |
El Greco e Vitruvio
Le note a Vitruvio e quella a
Vasari sono accomunate dalla loro asprezza nel commento. Non vi è dubbio che la
componente polemica in El Greco giochi un ruolo fondamentale: tale componente,
nel caso di Vasari, fa pensare addirittura a una qualche forma di risentimento
personale e c’è una nota non molto chiara (“è
questo no io che lo fa uscire dai limiti”) che potrebbe in qualche modo
confermare una conoscenza diretta, in tal caso probabilmente non semplice, fra
i due. C’è comunque da credere a Giulio Mancini che, nelle sue Considerazioni sulla pittura, racconta
che “venendo l’occasione di coprir alcune
figure del Giuditio di Michelangelo che da Pio erano state stimate indecenti
per quel luogo, proruppe in dir che, se si buttasse a terra tutta l’hopera,
l’haverebbe fatta con honestà et decenza non inferiore a quella di bontà di pittura.
Onde, provocatisi tutti i pittori e quelli che si dilettano di questa
professione, gli fu necessario andarsene in Spagna” [3]. L’episodio,
peraltro, è perfettamente coerente con quanto El Greco racconta di
Michelangelo, giudicato grande scultore e disegnatore, ottimo architetto, ma
pessimo pittore, per via della sua incapacità tecnica ad usare la pittura ad
olio e la gamma cromatica assolutamente insufficiente (si veda la seconda parte
della recensione).
Va comunque detto che, da un
punto di vista teorico, le note a Vitruvio sono sicuramente più interessanti di
quelle a Vasari perché sembrano costituire una tela di appunti in preparazione
della stesura del trattato di architettura, di cui il figlio (architetto) diede
conto dopo la morte del padre, e costituiscono una trama teorica più coerente
rispetto alle postille vasariane, molto schiacciate dal peso preponderante
dell’odio verso Vasari. C’è da chiedersi, innanzi tutto, perché El Greco abbia
lavorato molti anni a un trattato di architettura. Va detto che Pacheco, nella sua Arte de la pintura lo
definisce ‘pittore filosofo’ e riferisce che si occupa di tutte e tre le arti,
pittura, scultura, architettura. Probabilmente, più che all’educazione del
figlio sembra logico pensare a un fenomeno di reazione nei confronti del
trionfo del classicismo vitruviano in architettura che in quegli anni vede i
‘vitruvisti’ ortodossi trionfare in Spagna nella costruzione dell’Escorial. El
Greco si sposta in un primo tempo a Madrid, presso la corte reale, ma dopo
qualche anno si apparta a Toledo, non essendo evidentemente entrato pienamente
nelle grazie della corte spagnola.
I capisaldi su cui si basa
l’impalcatura dell’artista cretese sono sufficientemente chiari: a) primato
della pittura sulle altre arti; b) costruzione della bellezza basata
sull’indagine della natura; c) valore speculativo della pittura, strumento di
conoscenza del reale e dell’ ‘invisibile’; d) forma, luce, colore e movimento
sono le variabili che concorrono alla formazione della bellezza; e) rifiuto di
ogni proporzione matematica e di ogni regola per la costruzione della bellezza.
La bellezza deve essere proporzionata in sé e il riconoscimento di tale
proporzione è compito del ‘giudizio’ del pittore, un ‘giudizio’ basato
sull’esperienza e sull’esercizio (quind’anche sul disegno); f) rifiuto del mito
dell’antichità come perfezione assoluta; l’antichità si può emulare e si deve
migliorare. Sotto questo punto di vista, oggetto degli strali del Greco non è
tanto (o solo) Vitruvio, che ovviamente non poteva avere una prospettiva
storica, ma gli interpreti del medesimo, a partire da Daniele Barbaro, che
tendono a ricondurre tutto all’insegnamento vitruviano come dogma e non come
esperienza. Ciò detto, va comunque segnalato che molte note costituiscono
comunque un commento puntuale ad aspetti tecnici (ad esempio sulla tipologia
dei templi e così via): El Greco entra cioè su un terreno (quello della proporzione
e della regola) che contemporaneamente finisce per negare e che molto
probabilmente non comprende nella sua interezza (in quanto pittore e non
architetto).
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El Greco, Retablo mayor della chiesa del monastero di San Domenico il Vecchio, 1577-1579, Toledo Fonte: Web Gallery of Art tramite Wikimedia Commons |
La pittura
Il secondo Cinquecento è il
periodo storico in cui trionfano i trattati di architettura. Segna gli anni del
canone vitruviano, della ‘regola’ degli ordini, della proporzione matematica e,
in qualche modo, della superiorità (qualche volta data implicitamente per
scontata) dell’architettura su pittura e scultura. Non è così per El Greco.
L’architettura è “semplice invenzione
dell’uomo” e quindi questo sistema di regole è una convenzione “necessariamente particolare”. Non
possiede la capacità di interpretare la natura. In questo senso emerge, invece
la pittura, perché è con la pittura, che è fondamentalmente mimetica, che
l’artista ‘giudica’ della natura. Non lo fa solo attraverso la resa della
forma, ma anche (e soprattutto) tramite il colore e gli effetti della luce: “la pittura è l’unica a poter giudicare di
ogni cosa, forma, colore, avendo come oggetto l’imitazione di tutto; in breve,
la pittura occupa una posizione di indirizzo e di modellatrice (o di
moderatrice?) di tutto ciò che si vede e se fossi capace di esprimere in parole
quello che è il modo di vedere del pittore, apparirebbe come una cosa singolare
[…]; però la pittura, essendo così universale, diviene speculativa, perché non
manca mai la gioia della speculazione, dato che non manca mai qualcosa che si
possa vedere, poiché persino in una mediocre oscurità si vede e se ne gode e si
ha qualcosa da imitare” (p. 24). È chiaro l’impianto naturalistico che
pervade l’arte di El Greco. Se poi questo impianto sia di tipo neo-platonico o
neo-aristotelico è cosa che è stata oggetto di estenuanti dibattiti.
Normalmente si è incasellato El Greco fra i neoplatonici perché il
neoplatonismo si concilia meglio con la ‘creazione’ di un’idea mentale che
corregga la natura. In ultima analisi, peraltro, l’artista è stato considerato
neoplatonico perché basta sostituire Dio all’Idea per spiegare le sue
(presunte) crisi mistiche e la sua (presunta) pittura visionaria specialmente
degli ultimi anni. Indiscutibilmente El Greco si schiera per la correzione
della natura. Ciò detto va pur rilevato che in diciottomila parole non compare
mai il termine ‘idea’ e che El Greco non affronta mai temi religiosi. L'essenza ‘speculativa’ della natura, l’attenzione per i fenomeni ottici, mediati da
luce e colore, lo fanno un uomo moderno del proprio tempo, forse anche un
precursore (circa vent’anni dopo saranno scritti i trattati di prospettiva di
Accolti, Zaccolini e del Cigoli, tutti legati alla questione dell’ “inganno
degli occhi”) e non vi è dubbio che l’”attività speculativa” anche in
condizioni di mediocre visibilità lo avvicini alla mentalità totalmente aristotelica
di uno Zaccolini, che scrive il suo trattato sulla base dell’esperienza dei
fenomeni visivi effettuata nel golfo di Napoli.
Molto semplicemente, El Greco non è un
neo-platonico né un neo-aristotelico puro. Mutua una serie di suggestioni dalle
due filosofie e cerca di combinarle in una soluzione personale. Senza dubbio
personale, sotto questo punto di vista, è la rappresentazione del visibile e
dell’invisibile (ovvero delle entità divine). Sotto questo profilo la tesi dei
curatori (spiegata forse più dettagliatamente ne La biblioteca del Greco, a cui si rimanda) è che l’artista
rappresenta naturalisticamente il visibile, mentre le realtà divine, invece, hanno
una bellezza propria, ultraterrena, in cui la proporzione è diversa da quella
percepita dall’occhio umano. Nei suoi quadri i due piani spesso si incrociano,
ma non stanno ad indicare una furia creatrice che si impossessa della mano del
pittore e lo guida in una sorta di trance, quanto piuttosto, anche qui, un approccio
speculativo anche al divino (anch’esso oggetto della pittura).
Il
movimento
La vita non è un fatto statico, ma è
fatta di movimento. Credo che sia un fatto particolarmente importante cercare
di capire come El Greco cerchi di implementare il movimento nella sua pittura.
Marías ne parla brillantemente: “Il
rilievo accentuato, gli scorci forzati, i contorcimenti delle figure –
serpentinate, a forma di fiamma, sinuose, in contrapposto semplice o incrociato
– non ci mostrano solo la loro tridimensionalità ma anche il loro movimento, i
suoi diversi aspetti, in un equilibrio instabile, momentaneo, fugace.
L’allungamento dona loro agilità e bellezza [n.d.r. e non è un’esperienza
mistica, ma un’esperienza speculativa], il
colore e la luce le dotano di un’aura naturale che ne avvolge le strutture
suggerite dall’immaginazione peculiare dell’artista” (p. 33). “In questo senso non deve sorprenderci il
folgorante successo, per quanto limitato dal punto di vista sociale, dei
ritratti di El Greco. Così come non devono sorprenderci i problemi suscitati
dalla sua pittura religiosa in Spagna” (pp. 33-34). “El Greco, nel suo mondo, godette di successo nel ritratto e di
ammirazione nella pittura religiosa e fu oggetto di critiche per la scarsa
convenienza e devozione della sua tematica sacra. Era sostenuto da un ristretto
gruppo sociale e culturale che valutava più la sua arte che il suo operato nel
genere sacro, pieno di improprietà e di distorsioni formalistiche che
sminuivano i contenuti cui si era abituati” (p. 36).
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El Greco, La spoliazione di Cristo, 1577-1579, Cattedrale di Toledo Fonte: Pictorpedia tramite Wikimedia Commons |
La
bellezza
Ho parlato molto di bellezza e di
creazione della medesima. A questo punto non dovrebbe essere totalmente una
sorpresa notare che, parlando di soluzioni architettoniche, El Greco è molto
più attento agli effetti della bellezza, ovvero a quella che Vitruvio chiama venustas, piuttosto che alla firmitas, alla solidità dell’edificio,
che è un po’ il caposaldo di tutti i trattati d’architettura cinquecenteschi e
anche di quello vitruviano (il riferimento è ovviamente alla triade firmitas, utilitas, venustas):
“la
venustas abbraccia tutto, perché,
nascendo dalla proporzione, non può mancare dalla forza salvo nelle fondamenta,
in cui ci si deve guardare dall’avarizia” (p. 104).
Ciò che conta veramente è la
leggiadria e la varietà dell’edificio, qualsiasi sia la sua destinazione, e tale
leggiadria deriva dalla proporzione. Ancora una volta – è bene chiarire – la
proporzione è quella “naturale”, ovvero non risulta da un insieme di rapporti
geometrici precostituiti e intoccabili, ma dalla proporzione ‘naturale’
dell’uomo (l’architettura è antropomorfica) che è giudicata in maniera saggia
dalla visione dell’architetto. Così stando le cose, la firmitas è una conseguenza della venustas; da essa consegue naturalmente, salvo che per le
fondamenta, in cui il rapporto si inverte e la prima cosa da fare è
preoccuparsi della solidità della base su cui si va a costruire.
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El Greco, Martirio di San Maurizio, 1580-1582, Madrid, El Escorial Fonte: Colleciones reales tramite Wikimedia Commons |
El
Greco e Scamozzi
Nel suo commento alle postille
di Vincenzo Scamozzi alle Vite di
Giorgio Vasari (stese dopo il 1600, ovvero almeno una decina d’anni dopo
rispetto a quelle di El Greco), Lucia Collavo suggerisce che sarebbe il caso di
mettere a confronto le annotazioni dell’artista cretese e dell’architetto
vicentino per riconoscere eventuali debiti comuni alle loro frequentazioni
venete. Oggi, grazie alla presente traduzione italiana, è possibile farlo con una
certa facilità. Ritengo più opportuno, in realtà, mettere a confronto
le postille al De Architectura di El
Greco con quelle alle Vite di Vasari scritte da Scamozzi,
perché, a mio avviso, è questo il confronto che illumina. L’atteggiamento nei
confronti di Vasari, infatti, è comune, e negativo. Ma le ragioni sono opposte,
e del resto non potrebbe essere diversamente, posto che El Greco è pittore e Scamozzi
architetto. Scamozzi critica Vasari perché non fornisce le ‘misure’ degli
ordini, parla di prospettiva in poche righe, mentre El Greco si scaglia contro
Daniele Barbaro proprio perché fornisce le misure e ne fa un dogma. Scamozzi
lamenta imprecisione e mancato rispetto del canone classico anche sul piano
della pratica professionale (si pensi al caso degli Uffizi), El Greco si
rifiuta di prendere in considerazione anche solo qualsiasi effetto correttivo
delle colonne giustificato da fenomeni ottici; Scamozzi indaga le antichità, El
Greco le rimuove. Non a caso i punti delle Vite
che sono segnalati da Scamozzi come indicatori dell’impreparazione di Vasari (e
che hanno a che fare sostanzialmente con l’architettura) non sono commentati
dal Greco, perché non gli interessano.
NOTE
[1] F. Marías, A. Bustamante, Las ideas
artisticas de El Greco. Comentarios a un texto inédito, Madrid 1981.
[2] X de Salas, F. Marías.
El Greco y el arte de su tiempo. Las notas de El Greco a Vasari, Madrid 1992
[3] Giulio Mancini. Considerazioni sulla pittura pubblicate
per la prima volta da Adriana Marucchi con il commento di Luigi Salerno,
Vol. I, pp- 230-231. C’è da aggiungere che gli spostamenti del Greco in Italia
non sono chiarissimi. Secondo una tesi (minoritaria) Domenico non sarebbe
andato in Spagna nel 1577 perché ‘cacciato’ dagli ambienti artistici romani, ma
sarebbe tornato a Venezia. Da qui sarebbe scappato nel 1576 per via della
peste.
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