Francesca Guidolin
Il colore della lontananza.
Matteo Zaccolini, pittore e teorico di prospettiva
Università Ca’ Foscari Venezia
Dottorato di ricerca in Storia delle arti. Ciclo XXVII. Anno di discussione 2015
Coordinatore del Dottorato Prof. Giuseppe Barbieri
Tutore del Dottorando Prof.ssa Martina Frank
Giovanni e Cherubino Alberti, Affreschi del coro della Chiesa di San Silvestro al Quirinale, Roma Quadrature di Matteo Zaccolini Fonte. Lalupa tramite Wikimedia Commons |
Una premessa è doverosa: quella
che sarà recensita in questo scritto è la tesi di dottorato (sostenuta nel
2015) di Francesca Guidolin. È liberamente consultabile e
scaricabile da Internet cliccando
qui. Come tutte le tesi di dottorato va considerata come una tappa, e non
il risultato finale di un percorso di ricerca che, nel caso specifico, ritengo
di importanza tale da essere presa in considerazione sin d’ora.
La sfortuna di un trattato, all’ombra di Leonardo
Il nome di Matteo Zaccolini
(1574-1630) dice poco ai non addetti ai lavori, e non tantissimo pure a questi
ultimi. Zaccolini, di origini cesenati, fu pittore prospettico di grande
prestigio nei primi decenni del Seicento e, soprattutto, fu autore di un Trattato di prospettiva ricordato, fra
gli altri, da Baglione, Bellori, Félibien. Una copia (non l’originale) del
trattato è stata scoperta negli anni Settanta del Novecento da Carlo Pedretti
presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze; è divisa in quattro
volumi, intitolati rispettivamente De
Colori (ms. Ashb. 12121), Prospettiva
del Colore (ms. Ashb. 12122), Prospettiva Lineale (ms. Ashb. 12123) e Della Descrizione dell’Ombre prodotte da
Corpi opachi rettilinei (ms. Ashb. 12124) [1]. Si tratta
complessivamente di 700 pagine, le più famose delle quali sono quelle dedicate
alla Prospettiva del Colore. In esse,
alcuni studiosi (in particolare Janis Bell) hanno ravvisato chiare perifrasi tratte non solo da
copie del Trattato della pittura di Leonardo, ma addirittura da manoscritti originali del medesimo. Non a caso
(contrariamente a quanto pensava Pedretti in origine) si è dimostrato che i
quattro manoscritti sono copie fatte realizzare da Cassiano dal Pozzo, ovvero
da colui che più di ogni anno si impegnò, attorno al 1630, per giungere a
un’edizione a stampa del trattato leonardesco, salvo poi rinunciare e
contribuire anzi alla riuscita del progetto in Francia nel 1651. Cassiano è,
peraltro, autore di una sorta di biografia di Zaccolini (anch’essa rinvenuta da
Pedretti), conservata questa volta a Montpellier con segnatura H.267. Se si
tiene conto che in tale biografia l’erudito romano segnala che Zaccolini aveva
visto manoscritti autografi di Leonardo e che ne era rimasto affascinato a tal
punto da cominciare a scrivere anch’egli da destra verso sinistra [2] appare
evidente come il cesenate (che a partire dal 1605 si consacrò alla vita
religiosa divenendo fratello laico dell’Ordine dei Teatini) è sempre stato
studiato in relazione al genio vinciano, rimanendone oscurato.
Non esiste, ad oggi, un’edizione
critica, anche parziale, del Trattato
della Prospettiva. Nel 1983 Janis Bell ha trascritto il secondo volume del
trattato nella sua tesi di dottorato, Color
and Theory in Seicento Art: Zaccolini’s “Prospettiva del Colore” and the
Heritage of Leonardo [3]. Gli studi della stessa Bell, indirizzati
all’approntamento di un’edizione critica si sono scontrati con le precarie
condizioni di salute della studiosa. Ora Francesco Guidolin offre nella sua tesi di dottorato la
trascrizione del primo volume, ovvero De
colori. Si tratta di un passo avanti fondamentale, posto che il De colori è complementare alla Prospettiva del Colore, e ne costituisce
l’indispensabile premessa teorica.
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Giovanni e Cherubino Alberti, Affreschi del Coro della Chiesa di San Silvestro al Quirinale, Roma Fonte: http://www.tesoridiroma.net/chiese_rinascimento/silvestro_papa.html |
Zaccolini e Cesena
Tuttavia sarebbe del tutto
riduttivo definire il lavoro di Guidolin come la mera trascrizione del testo
zaccoliniano (il solo De colori qui
presentato supera i 300 fogli manoscritti). Il lavoro si divide in realtà in
due parti: nella prima (frutto di ricerche d’archivio particolarmente
impegnative, ma davvero fruttuose) si offre senza dubbio un quadro d’insieme di
Zaccolini, della sua formazione cesenate, della sua attività artistica,
testimoniata prima a Cesena e poi a Roma e a Napoli. Si tratta senza ombra di
dubbio del contributo più significativo ad oggi presentato sull’artista. Nella
seconda parte si affronta invece l’esame del testo sui colori.
Le ricerche d’archivio, peraltro,
hanno portato collateralmente a scoperte di grande interesse. Sapevamo già (del
resto risulta dalla dedica zaccoliniana all’inizio dell’opera) che Matteo aveva
un rapporto di discepolato nei confronti del Cavalier Scipione Chiaramonti
(1565-1652). Zaccolini era “omo sanza
lettere” (per usare un’espressione di Leonardo con cui il vinciano
ammetteva di non conoscere il latino) ed è Chiaramonti (“Astronomico famoso e Professore d’ogni Scienza”) ad introdurlo allo
studio della prospettiva lineare e della teoria delle ombre [4]. Chiaramonti (a
sua volta allievo di Guidubaldo Del Monte) era studioso di ottica e di
prospettiva, con una solida conoscenza delle fonti medievali e umanistiche, e
una visione del mondo totalmente aristotelica. Le fonti locali testimoniano che
presso la sua abitazione tenne un “Lyceum” in cui insegnava tali principi, e
fra i suoi discepoli è attestato anche Zaccolini. Si sapeva peraltro che Chiaramonti
scrisse un trattato di prospettiva, che era tuttavia andato perso. Ebbene,
cercando informazioni su Zaccolini, Guidolin lo ho ritrovato (cfr. p. 379. Si
tratta de “La nova pratica perspettiva di
Scipione Chiaramonti da Cesena, nella quale dalle cose novamente e sodamente
dimostrate dal Sig. Guido Baldo dal Monte nei suoi libri di perspettiva si
deducono le regole de’ rettamente operare, e con gli stessi fondamenti si
scuoprono gli errori e l’imperfettioni de’ passati perspettivi”. Il
trattato fu scritto nel 1610, quando cioè Zaccolini viveva a Roma da quasi
dieci anni, ma senza dubbio testimonia l’oggetto degli insegnamenti di
Chiaramonti nel suo “liceo”. Lo testimonia ad esempio il fatto che il trattato
insegni a ragionare in termini prospettici quando “la tavola dove disegnare […]
non sia piana, ma concava, come sono le volte delle navate” (p. 43).
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Francesco Masini, Particolare del fregio all'ultimo piano del Palazzo Comunale di Cesena Fonte: http://www.homolaicus.com/arte/cesena/storia/Piazza%20del%20Popolo/PiazzaPopolo.htm |
Grazie a Chiaramonti, che gli spiega
gli elementi teorici, e probabilmente all’ombra del pittore cesenate più ‘alla
moda’ in quegli anni, ovvero Francesco Masini, Zaccolini diviene pittore
prospettico, e nel 1598 (la sua prima commissione ufficiale) fa parte del gruppo
di artisti (guidato da Masini) che si occupa degli apparati effimeri per
l’ingresso di Papa Clemente VIII a Cesena. È corretto parlare di gruppo di
lavoro perché le competenze, in un’opera di questo tipo, si specializzano e
Zaccolini molto probabilmente si occupa dell’aspetto illusionistico
dell’impresa: il suo compito è far convivere il mondo dell’architettura reale
con quello dell’illusione prospettica, “sfondando” le superfici bidimensionali
per riprodurre effetti volti all’inganno dell’occhio. È appena ovvio che tutto
questo lavoro ha molto a che fare anche con la sfera della rappresentazione
teatrale, e non è certo un caso che Chiaramonti abbia scritto (questa volta lo
conoscevamo già) anche un trattato Delle
Scene e Teatri (1614).
Uno degli aspetti con cui il pittore
si deve confrontare al momento di proporre una struttura illusionistica è
(oltre alla prospettiva lineare) la questione del colore (ovvero la
‘prospettiva colorata’). A questo tema, in sostanza Zaccolini dedicherà tutta
la vita, sia da un punto di vista professionale sia in termini di elaborazione
di pensiero. Il Trattato di Prospettiva
(se proprio vogliamo, escludendo la Prospettiva
lineare, ovvero il terzo volume) è dedicato esattamente a ciò: a come
riprodurre su una superficie bidimensionale i ‘colori della lontananza’, ovvero
a come replicare su una volta o su una tela le “azioni di natura” che, anche
solo per soli pochi attimi, ingannano la vista e fanno percepire colori
“apparenti”, dando all’occhio la sensazione della lontananza delle cose.
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Baldassarre Croce e Matteo Zaccolini, Susanna e i vecchioni, Roma, Chiesa di Santa Susanna Fonte: http://spazio.libero.it/Susanna_EiVecchioni/ |
Zaccolini a Roma e a Napoli
Attorno al 1600, Matteo si
trasferisce a Roma e comincia a lavorare, come quadraturista in importanti
cantieri della città pontificale come la Chiesa di Santa Susanna e la volta di
San Silvestro al Quirinale. Ancora una volta bisogna ripetere: Zaccolini non è
un figurista: sostanzialmente si occupa di soluzioni illusionistiche volte ad
abbattere idealmente le volte e ad avvicinare i fedeli al regno dei cieli. Deve
far apparire lontano ciò che è vicino e contemporaneamente rendere
indeterminato (ma percepibile) il passaggio dal finito all’infinito. Va detto
che, anche in termini ideali, probabilmente non vi poteva essere interprete
migliore. Matteo dedica tutta la
sua vita artistica nella decorazione di istituti religiosi legati all’Ordine dei Teatini, a cui si è legato.
Per uno scherzo del destino, quasi tutte le sue opere illusionistiche sono
andate perse: Guidolin recupera dalle fonti le testimonianze dei lavori
eseguiti presso la casa teatina di San Silvestro a Monte Cavallo, senza dubbio
l’opera che più deve averlo impegnato (per un bibliofilo come il sottoscritto è
un dolore sapere che “sopra le scansie
della Libreria [n.d.r. ossia della biblioteca], che ricorrono d’intorno alle mura, formò un ordine di libri sì ben
finto, che ingannano la vista, con belli rilievi di mensolette, et ornamenti di
palle, e di mascheroni diversi, in chiaro e scuro eccellentemente condotti”
e non poterle vedere (p. 149). Matteo
viaggia nei principali conventi dei Teatini, all’epoca ordine relativamente
giovane (fondato nel 1524) e in forte espansione (anche edilizia). Nell’ambito
dei suoi spostamenti assumono particolare importanza le notizie relative ai
trasferimenti a Napoli. Non solo perché prima si pensava che Matteo fosse
andato a Napoli solo una volta, mentre ora Guidolin accerta che sono almeno due
(una prima occasione è del 1609-1610; la seconda sarebbe molto più prolungata e
andrebbe dal 1618 al 1623) e, ancora una volta andando a cercare fra fonti
locali e archivi, riesce a ricostruirne un pezzo di catalogo, ma perché un
brano del De’ colori ci permette di
stabilire che proprio a Napoli Zaccolini studia i fenomeni della natura per meglio
capirne le regole e descriverli nel suo libro sulla “teorica dei colori”. Siamo
probabilmente all’altezza del primo soggiorno [5]:
“ci ha aiutato assai benissimo l’amenissimo sito […] che è il clima di
Napoli, dove che nella famosa fabrica della nostra casa de Santi Apostoli [n.d.r.
è il convento dei Teatini] habbiamo scritto e fatto la maggior parte
delle nostre osservazioni naturali in quanto alli colori apparenti e reali che
per l’essere ella di qualche altezza [n.d.r. per trovarsi in un luogo alto] e copiosa di bellissime vedute, così da
terra ferma, come di mare del quale […] a volte sul mattino si suol vedere il
mare rubicondo e rosso molto acceso, perciò per tale effetto penso non si possa
ritrovare al Mondo sito più a proposito nel quale si possa osservare così in
generale tutti li colori reali et apparenti in tutti gli elementi [n.d.r.
acqua, aria, terra e fuoco] per essere in
questo clima tutti di perfettissimo temperamento e perciò quivi si porge
dovitia di tutte le cose e di tutti i colori e così dalla terra per le
miracolose minere sulfuree e dalla varietà de’ fiori e frutti, essendo quasi
una primavera continua, pare che faccia dubitare che questo sia un altro
paradiso terrestre”.
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Ludovico Cigoli, Immacolata Concezione, 1610-12, Cappella Paolina di Santa Maria Maggiore, Roma Fonte: Wikimedia Commons |
De’ Colori
La copia del De’ Colori conservata alla Biblioteca Medicea è suddivisa in
tredici capitoli (o, per meglio dire, trattati). In realtà l’originale
zaccoliniano era scandito in otto libri, almeno stando a quello che lo stesso
autore scrive nella sua dedica a Scipione Chiaramonti [6]. C’è da chiedersi come
mai. Mi pare che sia Janis Bell sia Francesca Guidolin spieghino la situazione
con un intervento successivo di Cassiano dal Pozzo, che avrebbe “messo in
ordine” le carte confuse dello Zaccolini, aggiungendovi anche capitoli che in
origine non erano destinati ad entrare nel trattato (si pensi ai trattati X e
XI, destinati a spiegare come curare le vittime del morso della tarantola con i
colori o con colori e suoni in combinazione). Mi pare una spiegazione logica.
Mi chiedo se ne sia stata presa in considerazione (ed eventualmente scartata)
un’altra, ovvero che la dedica non corrisponda all’ultima versione del trattato
elaborata da Zaccolini.
Si è detto che Zaccolini è
discepolo di Chiaramonti, astronomo di chiara fede aristotelica, e quindi non
ci si deve stupire che tutto il mondo della prospettiva colorata sia ampiamente
inserito nell’ambito della scienza aristotelica. Semmai ci si deve ricordare
che, contemporaneamente alla presenza romana di Zaccolini agisce in città anche
Ludovico Cigoli, amico carissimo di Galileo, che studia le macchie solari dalla
cupola di Santa Maria Maggiore e rappresenta nella Cappella Paolina la
prima Luna ‘galileiana’ della storia (per Aristotele la luna era
perfettamente liscia). Anche Cigoli scrisse un Trattato pratico di prospettiva, e sarebbe bello sapere se i due
ebbero mai modo di confrontarsi e cosa pensassero l’uno dell’altro. Di fatto,
Zaccolini e Cigoli si interessano agli stessi argomenti, ma con una visione del
mondo completamente diversa. Ciò premesso, nel redarre questo primo volume
Zaccolini fa ampiamente riferimento (a partire dal titolo) al De coloribus, trattato all’epoca
ritenuto (già con qualche incertezza) di Aristotele ed oggi attribuito (sempre
con le medesime incertezze) a Teofrasto. Il De
coloribus era stato ripubblicato in latino a Firenze nel 1548 e sicuramente
faceva parte di quei testi a cui attinse Chiaramonti nel corso dei suoi
insegnamenti al Lyceum. In ultima analisi – scrive Guidolin – si può
considerare il manoscritto di Zaccolini “un esteso commentario al trattato
pseudo-aristotelico, una delle fonti più antiche sul colore a noi note” (p.
206).
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Andrea Pozzo, Apoteosi di Sant'Ignazio, 1685, Chiesa di S. Ignazio, Roma Fonte: Wikimedia Commons |
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Andrea Pozzo, Chiesa dei Gesuiti a Vienna, 1702-09 Fonte: Wikimedia Commons |
Il mondo di Zaccolini è dunque
suddiviso nei quattro classici elementi (terra, aria, acqua e fuoco) e “la
natura è governata dall’azione combinata delle quattro qualità, il caldo e il
freddo, il secco e l’umido, forze contrarie che attribuiscono agli elementi le
loro proprietà, caratterizzando inoltre la loro apparenza esteriore”.
Non vorrei però che sembrasse che
l’aspetto ‘dogmatico’ prevalga su tutto. In realtà se c’è un elemento che
colpisce è quello del ruolo recitato nel trattato dall’esperienza. Non
dimentichiamo che il fine ultimo di Zaccolini è schiettamente pratico: si
tratta di insegnare ai pittori come rappresentare su una superficie
bidimensionale i fatti di natura in maniera tale da replicarli perfettamente.
Per far ciò occorre una preventiva formazione teorica (la “teorica dei colori”,
appunto, di cui si occupa questo primo volume) e poi le istruzioni pratiche (la
“prospettiva del colore” trattata nel secondo volume). E comunque anche in
questo primo volume il ruolo dell’esperienza è vastissimo. Zaccolini insegna
ai pittori l’osservazione della natura e produce una serie copiosissima (ma
comunque parziale, essendo i colori infiniti per definizione) di esempi pratici
(svolti nella maggior parte dei casi – come detto – a Napoli). Questo dato va
tenuto sempre in considerazione e per Guidolin è uno dei motivi per cui
l’artista non arrivò alla pubblicazione dell’opera, ovvero perché insoddisfatto
delle sue descrizioni dei fatti infiniti di natura.
I colori, per Matteo, esistono in
quanto proprietà delle cose, e sono determinati nella loro forma ‘propria’ dal
modo in cui gli elementi di cui sono formati (acqua, aria, terra e fuoco) e le
qualità di natura (caldo, freddo, secco e umido) interagiscono fra loro.
Tuttavia il colore ‘reale’ non si dimostra mai come effettivamente è, perché giunge
all’occhio tramite la luce, e, a seconda del tipo e della quantità di luce, il
colore si distorce divenendo ‘apparente’:
Ma non è solo la luce a
determinare i colori ‘apparenti’: è fondamentale anche la distanza che ci
separa da ciò che vediamo. Qui mi pare opportuno lasciare la parola a Guidolin:
“Solo se si tiene conto che “i
colori hanno una certa natura di comunicare e spargere la sua spetie” si potrà
capire come, aumentando la distanza del nostro punto di vista rispetto a un
determinato corpo illuminato, la specie da esso derivate perderanno in modo
differente la loro forza “languendosi” e mescolandosi con quelle presenti
nell’aria al punto tale da far apparire i corpi di colore differente rispetto a
quello cosiddetto “reale”. […] Nel tragitto che fanno prima di raggiungere
l’occhio, le specie si indeboliscono gradualmente in base a “quanto maggior
sarà la quantità dell’Aere intraposto tra l’occhio e l’obbietto”. Inizia così
il processo di “metamorfosi o degradazione” del colore che “attendendo all’indeterminato
con apparenza di confusa massa”, si tramuta in nuove impressioni visibili fino
all’apparire del turchino, il colore ultimo della lontananza” (p, 225).
Partendo da queste basi Zaccolini
intraprende l’osservazione sistematica di tutti gli aspetti della natura e
complica man mano le cose tenendo conto degli ‘accidenti’ che possono portare a
modificare i fenomeni della prospettiva colorata anche in misura impercettibile
e del tutto transitoria. Il numero delle osservazioni è impressionante e fa comprendere
come l’artista abbia dedicato anni alla sua opera, redigendo una sorta di
‘enciclopedia del colore’ che sarà poi compito del pittore tradurre nelle volte
delle chiese o sulle tele dei quadri in base alle indicazioni del secondo
volume, sulla ‘Prospettiva del colore’.
* * *
Un grazie di cuore a Francesca
Guidolin per aver intrapreso a sua volta uno studio non semplice, e l’augurio
che le sue ricerche possano essere sempre fruttuose come quelle che ha avuto
modo di esporre nella sua tesi di dottorato.
NOTE
[1] Le segnature seguono quello
che, secondo Pedretti, era l’ordine con cui i quattro volumi erano presentati
da Zaccolini. Tale ordine è stato successivamente rimesso in discussione.
[2] Gli originali di Zaccolini
sono persi e dunque non sappiamo se erano scritti normalmente o secondo l’uso
leonardesco. Tuttavia, trascrivendo il testo, Guidolin trova una conferma
indiretta del fatto che almeno una parte era scritta alla rovescia, laddove
Zaccolini dichiara esplicitamente, nel volume Descrittione dell’Ombre, che, trattandosi di argomento ostico "mi sono risoluto di tornare a scrivere per
il verso in questa guisa [ovvero normale]" (p. 191). Va inoltre detto che,
secondo le fonti – in particolare Bellori nella Nota delli musei, librerie, galarie… (1664), Zaccolini era autore
di un commento alla Sfera del
Sacrobosco scritto a rovescio (p. 192). Proprio di recente (2016, e quindi
successivamente alla tesi di dottorato di Guidolin) è stata ritrovata a Napoli
una traduzione in italiano della Sphaera
del Sacrobosco, che è stata attribuita appunto a Zaccolini. Si tratta – si badi
bene – di una trascrizione della Sfera di
Gio. Sacrobosco, Tradotta e dichiarata da Don Francesco Pifferi Sansavino
(1604) – Zaccolini non conosceva il latino - . Si veda Domenico Laurenza, A Copy of Sacrobosco’s Sphaera in Mirror Script Attributed to Matteo
Zaccolini in Illuminating Leonardo. A
Festchrift for Carlo Pedretti Celebrating His 70 Years of Scholarship
(1944-2014), a cura di Constance Moffatt e Sara Taglialagamba, Brill Publishing,
2016.
[3] Oggi disponibile in print on
demand rivolgendosi a University Microfilms International, Ann Arbor, Michigan,
U.S.A.
[4] Il rapporto Zaccolini –
Chiaramonti è chiaramente di discepolato, come emerge sin dalla lettura della
dedica scritta nel trattato. Tuttavia è bene precisare che, anagraficamente,
Chiaramonti aveva solo nove anni più di Matteo.
[5] Doverosamente Guidolin fa
comunque presente che l’unica data che compare nel De colori è riferita
all’apparizione di due comete, l’11 e il 16 novembre 1618 (cfr. p. 201 n. 855).
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