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lunedì 6 marzo 2017

El Greco. Il miracolo della naturalezza. Il pensiero artistico di El Greco attraverso le note a margine a Vitruvio e Vasari. Parte Seconda


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El Greco.
Il miracolo della naturalezza.
Il pensiero artistico di El Greco attraverso le note a margine a Vitruvio e Vasari

A cura di Fernando Marías e José Riello
Traduzione di Massimo De Pascale


Roma, Castelvecchi, 2017

Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda

El Greco, Sepoltura del conte di Orgaz, 1586-88, Chiesa di Santo Tomé, Toledo
Fonte: Wikimedia Commons

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El Greco e Vasari

Nell’ambito delle annotazioni marginali alle Vite di Vasari le postille di El Greco rientrano (a pieno titolo) nell’ambito della cosiddetta reazione antivasariana, ovvero nella serie di interventi di commenti, anche celebri, volti a mettere in evidenza la parzialità dello scrittore aretino a vantaggio dell’arte toscana e a tutto danno di quella lombarda e veneta. Altri esempi sono ben celebri: Federico Zuccari e Annibale Carracci fra tutti.

L’esemplare annotato da El Greco (oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale di Spagna) ha una storia collezionistica particolare per cui si rimanda al censimento delle postille già pubblicato su questo blog. Inoltre ha la caratteristica di presentare tre postille che lo stesso artista cretese asserisce essere di Federico Zuccari (ed un riscontro effettuato personalmente con le postille di quest’ultimo in un altro esemplare conservato a Parigi conferma la circostanza) e altre ascrivibili a un allievo di El Greco, Louis Tristan (1586-1624). Da qui Xavier de Salas (il primo a studiare queste note) ha desunto (in maniera secondo me non convincente, ma ne parlerò dopo) che le Vite siano state donate da Zuccari a El Greco durante il soggiorno del primo a Toledo (nel 1586), per poi essere a loro volta cedute da Domenico Theotokópoulos al discepolo.

El Greco, Sepoltura del conte di Orgaz (particolare), 1586-1588, Chiesa di Santo Tomé
Fonte: Wikimedia Commons

L’acrimonia del postillatore nei confronti dell’aretino è veramente eccessiva, manifestata decine e decine di volte e suscita nel lettore moderno un moto di umana simpatia nei confronti dell’aggredito, che ovviamente non aveva alcun modo di difendersi (era anzi già morto da tempo). Non starò qui ad elencare tutte queste circostanze: mi pare piuttosto il caso di parlare dei giudizi espressi nei confronti di alcuni pittori in particolare, ovvero dei veneti, di Correggio e Michelangelo.

El Greco, Il Cavaliere con la mano sul petto, 1580 circa, Madrid, Prado Museum
Fonte: Wikimedia Commons

I pittori veneti

L’interesse di El Greco per la pittura veneta è manifesto e scandisce tutte le pagine delle Vite. Vediamo alcuni esempi, a partire da Giovanni Bellini, che Vasari inserisce nella seconda parte della sua opera, quella in cui sono ricompresi gli artisti della maniera ‘secca’ e non ancora moderna:

La pittura di Giovanni Bellini l’ho vista e al confronto con quella dell’autore [n.d.r. Vasari], è lui l’antico, e in verità quella vale più di tutto quanto dipinse Vasari” (p. 235).

El Greco si indigna quando Vasari cita Paolo Veronese solo di sfuggita nella vita collettiva dei veronesi, parlando di Giovanni Caroto e lo definisce “migliore [maestro] di tutti i fiorentini” (p. 266). Lo sdegno è reiterato in una seconda citazione (p. 285).

Spende parole di elogio nei confronti di Sebastiano del Piombo (p. 273), ma non sembra convintissimo. Vede però la sua affermazione a Roma, dopo la morte di Raffaello e grazie al sostegno di Michelangelo come una sconfitta (di cui gioisce) del partito “fiorentino”.

Con Veronese Vasari è particolarmente sfortunato, perché a lui l’aretino attribuisce quattro allegorie dipinte sopra a una finestra della sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale a Venezia e immediatamente Domenico chiosa:

da questo si può vedere dunque che non riconosce la maniera dell’uno da quella dell’altro, poiché (…) queste sono di Tintoretto e le dà come di Veronese, maniera tanto diversa l’una dall’altra che più non si potrebbe” (p. 295)

E subito dopo (siamo nel medaglione biografico di Battista Franco o Battista veneziano, il veneziano più elogiato da Vasari (e considerato un ‘traditore’ da El Greco) arriva una dichiarazione di stima incondizionate nei confronti di Tintoretto:

la miglior [peggior] pittura del Tintoretto avrà tanta grazia di pittore come la migliore di Battista Veneziano e di Giorgio Vasari avrà di goffo. Nonostante che il quadro che Tintoretto ha fatto per l’ospedale di San Rocco (di Venezia) è il miglior dipinto che c’è oggi nel mondo, poiché si è perduta la battaglia (di Cadore o della Ghiara d’Adda) di Tiziano, dico la migliore per le molte e varie cose che in essa concorrono, così di nudi come di colori, che non si trova in altra parte se non in alcune delle buone opere di Tiziano” (p. 296).

Tiziano, naturalmente, è il miglior coloritore del mondo e tutta la biografia che Vasari gli dedica trova puntuali contrappunti in una serie di note marginali volte a contestare l’attendibilità delle affermazioni vasariane, che ne sminuirebbero il ruolo perché ‘mancante’ di disegno. Credo però valga la pena citare una situazione precedente in cui, secondo Vasari, Tiziano, visitando Roma, avrebbe visto le Storie di Medusa del Peruzzi a villa Chigi e sarebbe rimasto incredulo, non riuscendo a credere che fossero dipinte. El Greco ribatte:

non si devono usare questi espedienti con Tiziano che tutto questo è vigliaccheria in quanto sarebbe necessario cambiare la vista perché Tiziano si ingannasse”.

Non è solo un’affermazione d’occasione. È probabilmente nella “vista” che il cretese riconosce e riassume la grandezza di Tiziano. Già nella prima parte di questa recensione si è visto che El Greco vorrebbe (ma si dichiara incapace) specificare a parole come vede le cose un pittore, e che nella vista (in una vista ‘prudente’ e basata sull’esperienza) stanno le radici della creazione della bellezza. Ipotizzare anche solo per un attimo che Tiziano possa essere ‘ingannato’ vedendo qualcosa vuol dire mettere in discussione tutta l’impalcatura teorica del cretese.

Se mai permanessero dubbi è possibile comunque richiamare anche una postilla a Vitruvio, in ci il cretese sostiene che mentre l’architettura non ha ancora avuto nessuno che abbia raggiunto la perfezione, la pittura presenta vari esempi di eccellenza, fra cui ricorda “la venustas dei colori di Tiziano”.

Nella biografia di Tiziano Vasari parla anche di Jacopo Bassano ed El Greco ricorda, a proposito dei suoi quadri di dimensioni contenute, che in “quel formato è da ammirare il suo colore e negli animali non c’è nessuno che li facesse meglio, arriva a molto Jacopo e così tutto il mondo pretende imitarlo” (p. 329).

Non mancano lamentele per lo spazio ridottissimo e il giudizio certo non eccessivamente elogiativo riferito al Palladio (p. 334), la cui fama – secondo l’artista cretese - risuona in tutto il mondo assieme al nome di Tiziano.

La presa di posizione di El Greco, dunque, è netta, e inequivoca. La pittura migliore sta a Venezia, e Vasari deliberatamente cambia le carte in tavola cercando di negare l’evidenza.

El Greco, Annunciazione, 1597-1600, Madrid, Museo del Prado
Fonte: Web Gallery of Art

El Greco, Fabula, 1600. Museo del Prado
Fonte: Galleria online del museo del Prado tramite Wikimedia Commons

Correggio

Se Tiziano e Tintoretto sono i due grandi della pittura veneziana, Correggio svetta in ambito lombardo, soprattutto per via della celebre cupola del Duomo di Parma:

si tenga per certo che in quel tempo in cui si fece quest’opera, gli si dovette più che a tutti gli altri, perché nessun altro mostrò a quel tempo tanta ferocia senza dipendere dall’Antichità come si vede nella maggioranza delle cose di Raffaello da Urbino” (p. 239),

dove per “ferocia” si intende la fierezza e la bellezza dell’opera. Non mancano ovviamente altre lodi (come ad esempio alla figura della Maddalena nella Madonna della Scala, “figura unica nella pittura” (p. 240), ma in genere Correggio è usato come termine di paragone rispetto ad altre figure di artisti sostanzialmente coeve. Uno, ad esempio, è Parmigianino (che El Greco giudica grande disegnatore, ma pessimo pittore):

“… poiché di pittura Parmigiano non sapeva nulla e meno ancora con competitori come Antonio da Correggio, e lo stesso che si dice di Parmigiano si può dire di tanti di quelli che Vasari innalza fino al cielo” (p. 236).

E, ancora in occasione di un passo riguardante Francesco Mazzola:

Antonio da Correggio li ha superati tutti in quello che è grazia in generale e in quei suoi disegni” (p. 264),

dove il “tutti” sembra sottintendere tutti gli artisti fiorentini lodati da Vasari. Il confronto Correggio / artisti fiorentini torna in una nota alla biografia di Girolamo da Carpi:

“…che io intendo che la verità è che vale più la tribuna a fresco [della cattedrale di Parma di Correggio] che tutti i dipinti di Firenze…” (p. 288).

Il paragone coinvolge (come del resto abbiamo visto quattro note fa) anche Raffaello, che viene valutato inferiore rispetto all’Allegri:

da questo si vede chi fu Antonio Correggio poiché morì di otto anni più giovane di Raffaello e nelle sue cose lo supera tanto che Raffaello pare più antico nella gran parte di esse” (p. 251).

El Greco, Laocoonte, 1610-1614, Washington, National Gallery of Art
Fonte: https://www.google.com/culturalinstitute/asset-viewer/WQGAoHxyYQDzkQ

Michelangelo

Il rapporto con Michelangelo è, di gran lunga, il più controverso ed è anche quello che è stato studiato meglio da quando Xavier de Salas ritrovò l’esemplare delle vite. Michelangelo è considerato un genio, grandissimo disegnatore, grandissimo scultore e ottimo architetto, ma pessimo pittore. Del resto abbiamo già citato nella prima parte l’aneddoto di Giulio Mancini secondo cui El Greco avrebbe invitato il Papa ad abbattere gli affreschi della Cappella Sistina e si sarebbe offerto di rifarli meglio (il che lo avrebbe costretto a lasciare Roma e ad andare in Spagna). La grandezza di Michelangelo come disegnatore e come scultore è già sostenuta nelle note a Vitruvio, laddove El Greco espone il proprio, personale, paragone fra le altri e antepone la pittura alla scultura:

Una è l’imitazione dei colori, che io ritengo la difficoltà maggiore poiché è ingannare i sapienti con cose apparenti (come opera di natura) […] Così si vede nei disegni che hanno un solo soggetto (un oggetto solo), come nella scultura, nella quale Michelangelo ha conseguito ogni perfezione, il che posto con i colori non ha fatto niente, e non solo Michelangelo, che in questo particolare di (disegnare?) i nudi è unico” (p. 85).

Michelangelo pare corrispondere anche all’ideale dell’architetto ideale, che non si basa su rapporti precisi e misure, ma unicamente sul “disegnare e ancora disegnare” (p. 161), ovvero sull’invenzione, la fantasia e la venustas di cui già abbiamo parlato. Oppure quando viene citato per aver detto che

tutti quelli che trattavano di misure erano grandi stupidi e disgraziati” (p. 168)

Eppure quando si passa alla pittura (e noi contemporaneamente stiamo passando alle postille alle Vite vasariane) il giudizio è impietoso:

“…non a caso Michelangelo non sapeva né fare capelli né cosa che imitasse le carni e lo stesso per quel che danno i colori a olio che non si può negare che era mancante e impedito in simili delicatezze” (p. 264). Lo sdegno è grande quando Vasari lo loda e dice che “aveva raggiunto la perfezione dell’arte, poiché aveva escluso dalle sue opere paesaggi, alberi, edifici e altre varietà e cose graziose dell’arte a cui non prestò attenzione, forse perché non voleva abbassare il proprio ingegno con tali cose”. La chiosa di El Greco è inequivocabile: “oh, sfacciataggine tanto grande!” (pp. 306-307).

Il rapporto è, dunque, di amore e odio. Michelangelo non è un grande pittore perché lavora di disegno e non di colore, il che può apparire oggi un controsenso (dopo tutto una volta ultimato il restauro della Cappella Sistina ci sono state critiche feroci per via dei colori troppo squillanti), ma è perfettamente logico nella mente del Greco a cui la volta della Cappella e il Giudizio universale doveva sembrare un unico, immenso, bianco e nero, con una gamma cromatica completamente artificiale e che negava l’imitazione della natura.

El Greco, La visione di San Giovanni (o L'apertura del quinto sigillo dell'Apocalisse), 1608-1614,
New York, Metropolitan Museum
Fonte: http://www.wga.hu/frames-e.html?/html/g/greco_el/

Datazione

Ho tenuto quasi per ultima la questione della datazione delle postille. L’ho tenuta quasi per ultima perché, dopo tutto, una volta dimostrato che il postillato di El Greco è coerente con la sua arte la necessità di individuare date certe per la stesura delle annotazioni diventa, a mio giudizio, secondaria. Mi fa piacere che gli autori, in merito, siano rimasti sul vago, proponendo datazioni che potrebbero andare dal 1586 al 1600 per le postille a Vasari e fra il 1592 e il 1593 per Vitruvio. Dopo aver visionato un’ottantina di esemplari di Vasari (torrentiniana o giuntina) mi sono persuaso che il più delle volte le postille erano apposte nell’arco anche di decenni, in seguito a ripetute letture e a riletture, più o meno sistematiche.

A questo proposito vorrei però abbattere un ultimo mito che resiste, ovvero che le Vite vasariane in mano a El Greco gli siano state donate da Zuccari durante la permanenza di quest’ultimo a Toledo nel 1586. La circostanza (innegabile) che Zuccari e El Greco fossero a Toledo nel 1586, fissata con certezza da Salas, non implica in alcun modo che vi sia stato un dono. Intanto sono convinto che se dono ci fosse stato, qualcosa sarebbe stato scritto sull’esemplare in questione (ad esempio, un ringraziamento, o, ancora Zuccari che certifica l’originalità delle sue note – invece testimoniata da El Greco). Ma soprattutto teniamo conto che non è affatto detto che i due non si siano incontrati precedentemente in Italia; o, cosa forse più probabile, è possibilissimo che l’esemplare appartenesse a uno dei discepoli di Zuccari che lo seguirono in Spagna e che li rimasero (ad esempio, Bartolomeo Carducci). Né peraltro risulta da altra fonte una stima o un rapporto di amicizia particolare fra Zuccari ed El Greco. La verità è che non esiste alcun riscontro in merito.

Personalmente (e spero di poterne scrivere in futuro) mi sono convinto che la postilla più significativa di Zuccari (quella in cui racconta del fratello Taddeo che tornando a San Vado ha le allucinazioni e scambia delle pietre nel greto di un fiume per opere di Polidoro e Raffaello) possa essere molto precoce, forse dei primissimi anni ’70 del ‘500. Certo è che fa parte di una strategia che contempla da un lato la vendetta nei confronti di Vasari, colpevole di non aver recepito le indicazioni dategli da Federico in merito a Taddeo, e dall’altro la promozione dell’immagine del fratello, ma, in ultima analisi, del casato, che Federico declina per almeno vent’anni e che ha una sua perfetta corrispondenza visiva in un suo disegno (il n. 14) oggi conservato nella Getty Museum Collection e datato, ipoteticamente, nell’ultimo decennio del secolo [4]: Taddeo's Hallucination (Getty Museum)


Un’imprecisione

Da ultimo segnalo un’imprecisione (che ovviamente non inficia minimamente l’operato degli autori): a pag. 340 si attribuisce a El Greco una correzione (siamo nel volume III, p. 941, nella sezione dedicata alla descrizione degli apparati per le nozze di Francesco de’ Medici e Giovanna d’Austria, sezione che da inizio Novecento sappiamo non essere stata scritta da Vasari, ma da Giovan Battista Cini) in base alla quale il termine “gratioso” viene sostituito con “gradito”. Quella correzione non è di El Greco, ed è presente, identica per calligrafia, in tutti gli esemplari della Giuntina che ho avuto modo di visionare. Si tratta dunque di una ‘postilla redazionale’, probabilmente (anzi, direi certamente) operata in tipografia sulla pagina [5], e risalente quindi al dicembre 1567, quando fu completata la stampa dell’opera. Sono situazioni, ovviamente, che emergono chiaramente solo quando si ha la possibilità di confrontare molti esemplari fra loro.


NOTE

[4] Si veda Julian Brooks (a cura di), Taddeo and Federico Zuccaro. Artist-Brothers in Renaissance Rome, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum, 2007, p. 21.

[5] Avendo ai suoi tempi recensito in maniera molto severa il commento di Lucia Collavo sulle postille di Scamozzi a Vasari, sono qui obbligato a darle atto che, per quanto io ne sappia, è l’unica ad essersene accorta. Si veda Lucia Collavo, L’esemplare dell’edizione giuntina de Le Vite di Giorgio Vasari letto e annotato da Vincenzo Scamozzi in “Saggi e memorie di storia dell’arte”, 29 (2005), p. 60 n. 42. 

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