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El Greco.
Il miracolo della naturalezza.
Il pensiero artistico di El Greco attraverso le note a margine a Vitruvio e Vasari
A cura di Fernando Marías e José Riello
Traduzione di Massimo De Pascale
Roma, Castelvecchi, 2017
Recensione di Giovanni Mazzaferro. Parte Seconda
El Greco, Sepoltura del conte di Orgaz, 1586-88, Chiesa di Santo Tomé, Toledo Fonte: Wikimedia Commons |
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El Greco e Vasari
Nell’ambito delle annotazioni
marginali alle Vite di Vasari le
postille di El Greco rientrano (a pieno titolo) nell’ambito della cosiddetta
reazione antivasariana, ovvero nella serie di interventi di commenti, anche
celebri, volti a mettere in evidenza la parzialità dello scrittore aretino a
vantaggio dell’arte toscana e a tutto danno di quella lombarda e veneta. Altri
esempi sono ben celebri: Federico Zuccari e Annibale Carracci fra tutti.
L’esemplare annotato da El Greco
(oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale di Spagna) ha una storia
collezionistica particolare per cui si rimanda al
censimento delle postille già pubblicato su questo blog. Inoltre ha la
caratteristica di presentare tre postille che lo stesso artista cretese
asserisce essere di Federico Zuccari (ed un riscontro effettuato personalmente
con le postille di quest’ultimo in un altro esemplare conservato a Parigi
conferma la circostanza) e altre ascrivibili a un allievo di El Greco, Louis
Tristan (1586-1624). Da qui Xavier de Salas (il primo a studiare queste note)
ha desunto (in maniera secondo me non convincente, ma ne parlerò dopo) che le Vite siano state donate da Zuccari a El
Greco durante il soggiorno del primo a Toledo (nel 1586), per poi essere a loro
volta cedute da Domenico Theotokópoulos al discepolo.
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El Greco, Sepoltura del conte di Orgaz (particolare), 1586-1588, Chiesa di Santo Tomé Fonte: Wikimedia Commons |
L’acrimonia del postillatore nei
confronti dell’aretino è veramente eccessiva, manifestata decine e decine di
volte e suscita nel lettore moderno un moto di umana simpatia nei confronti
dell’aggredito, che ovviamente non aveva alcun modo di difendersi (era anzi già
morto da tempo). Non starò qui ad elencare tutte queste circostanze: mi pare
piuttosto il caso di parlare dei giudizi espressi nei confronti di alcuni
pittori in particolare, ovvero dei veneti, di Correggio e Michelangelo.
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El Greco, Il Cavaliere con la mano sul petto, 1580 circa, Madrid, Prado Museum Fonte: Wikimedia Commons |
I pittori veneti
L’interesse di El Greco per la
pittura veneta è manifesto e scandisce tutte le pagine delle Vite. Vediamo alcuni esempi, a partire
da Giovanni Bellini, che Vasari inserisce nella seconda parte della sua opera,
quella in cui sono ricompresi gli artisti della maniera ‘secca’ e non ancora
moderna:
“La pittura di Giovanni Bellini l’ho vista e al confronto con quella
dell’autore [n.d.r. Vasari], è lui l’antico, e in verità quella vale più di tutto
quanto dipinse Vasari” (p. 235).
El Greco si indigna quando Vasari
cita Paolo Veronese solo di sfuggita nella vita collettiva dei veronesi,
parlando di Giovanni Caroto e lo definisce “migliore
[maestro] di tutti i fiorentini” (p. 266). Lo sdegno è reiterato in una
seconda citazione (p. 285).
Spende parole di elogio nei
confronti di Sebastiano del Piombo (p. 273), ma non sembra convintissimo. Vede
però la sua affermazione a Roma, dopo la morte di Raffaello e grazie al
sostegno di Michelangelo come una sconfitta (di cui gioisce) del partito
“fiorentino”.
Con Veronese Vasari è
particolarmente sfortunato, perché a lui l’aretino attribuisce quattro
allegorie dipinte sopra a una finestra della sala del Maggior Consiglio a
Palazzo Ducale a Venezia e immediatamente Domenico chiosa:
“da questo si può vedere dunque che non riconosce la maniera dell’uno da
quella dell’altro, poiché (…) queste sono di Tintoretto e le dà come di
Veronese, maniera tanto diversa l’una dall’altra che più non si potrebbe”
(p. 295)
E subito dopo (siamo nel
medaglione biografico di Battista Franco o Battista veneziano, il veneziano più
elogiato da Vasari (e considerato un ‘traditore’ da El Greco) arriva una
dichiarazione di stima incondizionate nei confronti di Tintoretto:
“la miglior [peggior] pittura del Tintoretto avrà tanta grazia di
pittore come la migliore di Battista Veneziano e di Giorgio Vasari avrà di
goffo. Nonostante che il quadro che Tintoretto ha fatto per l’ospedale di San
Rocco (di Venezia) è il miglior dipinto che c’è oggi nel mondo, poiché si è
perduta la battaglia (di Cadore o della Ghiara d’Adda) di Tiziano, dico la
migliore per le molte e varie cose che in essa concorrono, così di nudi come di
colori, che non si trova in altra parte se non in alcune delle buone opere di
Tiziano” (p. 296).
Tiziano, naturalmente, è il
miglior coloritore del mondo e tutta la biografia che Vasari gli dedica trova
puntuali contrappunti in una serie di note marginali volte a contestare l’attendibilità
delle affermazioni vasariane, che ne sminuirebbero il ruolo perché ‘mancante’
di disegno. Credo però valga la pena citare una situazione precedente in cui,
secondo Vasari, Tiziano, visitando Roma, avrebbe visto le Storie di Medusa del
Peruzzi a villa Chigi e sarebbe rimasto incredulo, non riuscendo a credere che
fossero dipinte. El Greco ribatte:
“non si devono usare questi espedienti con Tiziano che tutto questo è
vigliaccheria in quanto sarebbe necessario cambiare la vista perché Tiziano si ingannasse”.
Non è solo un’affermazione
d’occasione. È probabilmente nella “vista” che il cretese riconosce e
riassume la grandezza di Tiziano. Già nella prima parte di questa recensione si
è visto che El Greco vorrebbe (ma si dichiara incapace) specificare a parole
come vede le cose un pittore, e che nella vista (in una vista ‘prudente’ e
basata sull’esperienza) stanno le radici della creazione della bellezza.
Ipotizzare anche solo per un attimo che Tiziano possa essere ‘ingannato’
vedendo qualcosa vuol dire mettere in discussione tutta l’impalcatura teorica
del cretese.
Se mai permanessero dubbi è
possibile comunque richiamare anche una postilla a Vitruvio, in ci il cretese
sostiene che mentre l’architettura non ha ancora avuto nessuno che abbia
raggiunto la perfezione, la pittura presenta vari esempi di eccellenza, fra cui
ricorda “la venustas dei colori di
Tiziano”.
Nella biografia di Tiziano Vasari parla anche di Jacopo Bassano ed El Greco ricorda, a proposito dei suoi quadri di dimensioni contenute, che in “quel formato è da ammirare il suo colore e negli animali non c’è nessuno che li facesse meglio, arriva a molto Jacopo e così tutto il mondo pretende imitarlo” (p. 329).
Nella biografia di Tiziano Vasari parla anche di Jacopo Bassano ed El Greco ricorda, a proposito dei suoi quadri di dimensioni contenute, che in “quel formato è da ammirare il suo colore e negli animali non c’è nessuno che li facesse meglio, arriva a molto Jacopo e così tutto il mondo pretende imitarlo” (p. 329).
Non mancano lamentele per lo
spazio ridottissimo e il giudizio certo non eccessivamente elogiativo riferito
al Palladio (p. 334), la cui fama – secondo l’artista cretese - risuona in
tutto il mondo assieme al nome di Tiziano.
La presa di posizione di El
Greco, dunque, è netta, e inequivoca. La pittura migliore sta a Venezia, e
Vasari deliberatamente cambia le carte in tavola cercando di negare l’evidenza.
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El Greco, Annunciazione, 1597-1600, Madrid, Museo del Prado Fonte: Web Gallery of Art |
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El Greco, Fabula, 1600. Museo del Prado Fonte: Galleria online del museo del Prado tramite Wikimedia Commons |
Correggio
Se Tiziano e Tintoretto sono i
due grandi della pittura veneziana, Correggio svetta in ambito lombardo,
soprattutto per via della celebre cupola del Duomo di Parma:
“si tenga per certo che in quel tempo in cui si fece quest’opera, gli si
dovette più che a tutti gli altri, perché nessun altro mostrò a quel tempo
tanta ferocia senza dipendere dall’Antichità come si vede nella maggioranza
delle cose di Raffaello da Urbino” (p. 239),
dove per “ferocia” si intende la
fierezza e la bellezza dell’opera. Non mancano ovviamente altre lodi (come ad
esempio alla figura della Maddalena nella Madonna della Scala, “figura unica nella pittura” (p. 240), ma
in genere Correggio è usato come termine di paragone rispetto ad altre figure
di artisti sostanzialmente coeve. Uno, ad esempio, è Parmigianino (che El Greco
giudica grande disegnatore, ma pessimo pittore):
“… poiché di pittura Parmigiano non sapeva nulla e meno ancora con
competitori come Antonio da Correggio, e lo stesso che si dice di Parmigiano si
può dire di tanti di quelli che Vasari innalza fino al cielo” (p. 236).
E, ancora in occasione di un
passo riguardante Francesco Mazzola:
“Antonio da Correggio li ha superati tutti in quello che è grazia in
generale e in quei suoi disegni” (p. 264),
dove il “tutti” sembra
sottintendere tutti gli artisti fiorentini lodati da Vasari. Il confronto
Correggio / artisti fiorentini torna in una nota alla biografia di Girolamo da
Carpi:
“…che io intendo che la verità è che vale più la tribuna a fresco [della
cattedrale di Parma di Correggio] che tutti i dipinti di Firenze…” (p.
288).
Il paragone coinvolge (come del
resto abbiamo visto quattro note fa) anche Raffaello, che viene valutato
inferiore rispetto all’Allegri:
“da questo si vede chi fu Antonio Correggio poiché morì di otto anni più
giovane di Raffaello e nelle sue cose lo supera tanto che Raffaello pare più
antico nella gran parte di esse” (p. 251).
Michelangelo
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El Greco, Laocoonte, 1610-1614, Washington, National Gallery of Art Fonte: https://www.google.com/culturalinstitute/asset-viewer/WQGAoHxyYQDzkQ |
Michelangelo
Il rapporto con Michelangelo è,
di gran lunga, il più controverso ed è anche quello che è stato studiato meglio
da quando Xavier de Salas ritrovò l’esemplare delle vite. Michelangelo è
considerato un genio, grandissimo disegnatore, grandissimo scultore e ottimo
architetto, ma pessimo pittore. Del resto abbiamo già citato nella prima parte
l’aneddoto di Giulio Mancini secondo cui El Greco avrebbe invitato il Papa ad
abbattere gli affreschi della Cappella Sistina e si sarebbe offerto di rifarli
meglio (il che lo avrebbe costretto a lasciare Roma e ad andare in Spagna). La
grandezza di Michelangelo come disegnatore e come scultore è già sostenuta
nelle note a Vitruvio, laddove El Greco espone il proprio, personale, paragone
fra le altri e antepone la pittura alla scultura:
“Una è l’imitazione dei colori, che io ritengo la difficoltà maggiore
poiché è ingannare i sapienti con cose apparenti (come opera di natura) […]
Così si vede nei disegni che hanno un solo soggetto (un oggetto solo), come
nella scultura, nella quale Michelangelo ha conseguito ogni perfezione, il che
posto con i colori non ha fatto niente, e non solo Michelangelo, che in questo
particolare di (disegnare?) i nudi è unico” (p. 85).
Michelangelo pare corrispondere
anche all’ideale dell’architetto ideale, che non si basa su rapporti precisi e
misure, ma unicamente sul “disegnare e
ancora disegnare” (p. 161), ovvero sull’invenzione, la
fantasia e la venustas di cui già
abbiamo parlato. Oppure quando viene citato per
aver detto che
“tutti quelli che trattavano di misure erano grandi stupidi e
disgraziati” (p. 168)
Eppure quando si passa alla
pittura (e noi contemporaneamente stiamo passando alle postille alle Vite vasariane) il giudizio è impietoso:
“…non a caso Michelangelo non sapeva né fare capelli né cosa che imitasse
le carni e lo stesso per quel che danno i colori a olio che non si può negare
che era mancante e impedito in simili delicatezze” (p. 264). Lo sdegno è
grande quando Vasari lo loda e dice che “aveva
raggiunto la perfezione dell’arte, poiché aveva escluso dalle sue opere
paesaggi, alberi, edifici e altre varietà e cose graziose dell’arte a cui non
prestò attenzione, forse perché non voleva abbassare il proprio ingegno con
tali cose”. La chiosa di El Greco è inequivocabile: “oh, sfacciataggine tanto grande!” (pp. 306-307).
Il rapporto è, dunque, di amore e
odio. Michelangelo non è un grande pittore perché lavora di disegno e non di
colore, il che può apparire oggi un controsenso (dopo tutto una volta ultimato
il restauro della Cappella Sistina ci sono state critiche feroci per via dei
colori troppo squillanti), ma è perfettamente logico nella mente del Greco a
cui la volta della Cappella e il Giudizio universale doveva sembrare un unico,
immenso, bianco e nero, con una gamma cromatica completamente artificiale e che
negava l’imitazione della natura.
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El Greco, La visione di San Giovanni (o L'apertura del quinto sigillo dell'Apocalisse), 1608-1614, New York, Metropolitan Museum Fonte: http://www.wga.hu/frames-e.html?/html/g/greco_el/ |
Datazione
Ho tenuto quasi per ultima la questione della datazione delle postille. L’ho tenuta quasi per ultima perché, dopo tutto, una volta dimostrato che il postillato di El Greco è coerente con la sua arte la necessità di individuare date certe per la stesura delle annotazioni diventa, a mio giudizio, secondaria. Mi fa piacere che gli autori, in merito, siano rimasti sul vago, proponendo datazioni che potrebbero andare dal 1586 al 1600 per le postille a Vasari e fra il 1592 e il 1593 per Vitruvio. Dopo aver visionato un’ottantina di esemplari di Vasari (torrentiniana o giuntina) mi sono persuaso che il più delle volte le postille erano apposte nell’arco anche di decenni, in seguito a ripetute letture e a riletture, più o meno sistematiche.
Ho tenuto quasi per ultima la questione della datazione delle postille. L’ho tenuta quasi per ultima perché, dopo tutto, una volta dimostrato che il postillato di El Greco è coerente con la sua arte la necessità di individuare date certe per la stesura delle annotazioni diventa, a mio giudizio, secondaria. Mi fa piacere che gli autori, in merito, siano rimasti sul vago, proponendo datazioni che potrebbero andare dal 1586 al 1600 per le postille a Vasari e fra il 1592 e il 1593 per Vitruvio. Dopo aver visionato un’ottantina di esemplari di Vasari (torrentiniana o giuntina) mi sono persuaso che il più delle volte le postille erano apposte nell’arco anche di decenni, in seguito a ripetute letture e a riletture, più o meno sistematiche.
A questo proposito vorrei però
abbattere un ultimo mito che resiste, ovvero che le Vite vasariane in mano a El Greco gli siano state donate da Zuccari
durante la permanenza di quest’ultimo a Toledo nel 1586. La circostanza
(innegabile) che Zuccari e El Greco fossero a Toledo nel 1586, fissata con
certezza da Salas, non implica in alcun modo che vi sia stato un dono. Intanto
sono convinto che se dono ci fosse stato, qualcosa sarebbe stato scritto
sull’esemplare in questione (ad esempio, un ringraziamento, o, ancora Zuccari
che certifica l’originalità delle sue note – invece testimoniata da El Greco).
Ma soprattutto teniamo conto che non è affatto detto che i due non si siano
incontrati precedentemente in Italia; o, cosa forse più probabile, è
possibilissimo che l’esemplare appartenesse a uno dei discepoli di Zuccari che
lo seguirono in Spagna e che li rimasero (ad esempio, Bartolomeo Carducci). Né
peraltro risulta da altra fonte una stima o un rapporto di amicizia particolare
fra Zuccari ed El Greco. La verità è che non esiste alcun riscontro in merito.
Personalmente (e spero di poterne
scrivere in futuro) mi sono convinto che la postilla più significativa di
Zuccari (quella in cui racconta del fratello Taddeo che tornando a San Vado ha
le allucinazioni e scambia delle pietre nel greto di un fiume per opere di
Polidoro e Raffaello) possa essere molto precoce, forse dei primissimi anni ’70
del ‘500. Certo è che fa parte di una strategia che contempla da un lato la
vendetta nei confronti di Vasari, colpevole di non aver recepito le indicazioni
dategli da Federico in merito a Taddeo, e dall’altro la promozione
dell’immagine del fratello, ma, in ultima analisi, del casato, che Federico
declina per almeno vent’anni e che ha una sua perfetta corrispondenza visiva in
un suo disegno (il n. 14) oggi conservato nella Getty Museum Collection e
datato, ipoteticamente, nell’ultimo decennio del secolo [4]: Taddeo's Hallucination (Getty Museum)
Un’imprecisione
Da ultimo segnalo un’imprecisione
(che ovviamente non inficia minimamente l’operato degli autori): a pag. 340 si
attribuisce a El Greco una correzione (siamo nel volume III, p. 941, nella
sezione dedicata alla descrizione degli apparati per le nozze di Francesco de’
Medici e Giovanna d’Austria, sezione che da inizio Novecento sappiamo non
essere stata scritta da Vasari, ma da Giovan Battista Cini) in base alla quale
il termine “gratioso” viene sostituito con “gradito”. Quella correzione non è
di El Greco, ed è presente, identica per calligrafia, in tutti gli esemplari
della Giuntina che ho avuto modo di visionare. Si tratta dunque di una
‘postilla redazionale’, probabilmente (anzi, direi certamente) operata in tipografia sulla pagina [5], e risalente quindi al dicembre 1567, quando
fu completata la stampa dell’opera. Sono situazioni, ovviamente, che emergono
chiaramente solo quando si ha la possibilità di confrontare molti esemplari fra
loro.
NOTE
[4] Si veda Julian Brooks (a cura
di), Taddeo and Federico Zuccaro.
Artist-Brothers in Renaissance Rome, Los Angeles, The J. Paul Getty Museum,
2007, p. 21.
[5] Avendo ai suoi tempi
recensito in maniera molto severa il commento di Lucia Collavo sulle postille di Scamozzi a Vasari, sono qui obbligato a darle atto che, per quanto io ne
sappia, è l’unica ad essersene accorta. Si veda Lucia Collavo, L’esemplare
dell’edizione giuntina de Le Vite di Giorgio Vasari letto e annotato da
Vincenzo Scamozzi in “Saggi e memorie di storia dell’arte”, 29 (2005), p. 60 n.
42.
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