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Francesco Mazzaferro
Gino Severini e l’arte religiosa in un contesto europeo:
l’influenza del Libro dell’Arte di Cennino Cennini
Parte Terza
L’eco in Italia dell’arte religiosa di Severini e la partecipazione
alla V Triennale di Milano
L’eco delle opere svizzere e
degli scritti sulla rivista “Nova et
vetera” giunge forte in quell’Italia, con cui Severini non ha mai
interrotto i rapporti. È considerato uno degli “Italiani di Parigi”, ma non un
fuoriuscito.
Quando Margherita Sarfatti nel
1930 parla dell’artista nella sua famosa “Storia
della pittura moderna”, è proprio quello degli affreschi il tema su cui più
si sofferma, e che lo diversifica dagli altri pittori italiani a Parigi. “Nel gruppo italiano della «scuola
di Parigi», emergono Giorgio De Chirico, Mario Tozzi, Massimo Campigli,
Paresce, Licini, De Pisis, e se vogliamo Gino Severini, sebbene appartenga
piuttosto ad altre tendenze. Nato a Pienza [nota di redazione: in
realtà nacque a Cortona], presso Siena,
vissuto a Parigi, Gino Severini è dotato di un toscano senso di leggiadria e di
grazia decorativa. Già futurista, fu uno dei primi a sentire il richiamo classico,
se per classici s’intendono, come è giusto, anche i nostri freschisti
primitivi. Giovanissimo, ancora molti anni fa sulle pareti di un tabarin
parigino snodava, con audace empito decorativo, il baccanale della frenetica
danza del Pan-Pan allora di moda. Oggi, è dei pochi i quali abbiano avuto il
coraggio, la forza e anche l’occasione di sperimentare in pratica, nella
decorazione di una cattedrale svizzera, le nostalgie teoriche per la
composizione murale e per la pittura di soggetto sacro a buon fresco” [76].
Nel 1932 Severini, accompagnato
da Cipriano Efisio Oppo (1891-1962) ovvero dal direttore della Mostra della
Rivoluzione Fascista, è ricevuto da Mussolini a Roma e gli manifesta il
desiderio di lavorare in Italia a progetti pubblici [77]. Lo stesso anno la
rivista Dedalo di Ugo Ojetti gli
dedica un articolo, in cui lo scrittore e storico dell’arte francese Jean Cassou
(1897-1986) lo definisce “un maestro
italiano, un artista cattolico (…), uomo di grande cultura, autentico umanista”
[78]. Certo, la sua idea dell’affresco e del mosaico religioso non è in linea
con quella predominante in Italia, dove la pittura murale ha soprattutto
valenza celebrativa di regime. Ma quando viene organizzata la V Triennale a
Milano, con un profilo tematico legato alla pittura murale, Severini non può
certo mancare, ed anzi a lui Angelo Bordoni, Antonio Carminati e Mario Sironi
(gli allestitori) danno una posizione d’onore. Il salone principale, quello in
cui si svolge l’inaugurazione con il re, termina infatti,
quasi in una posizione absidale, con il mosaico Le Arti di Severini,
contornato da un affresco di Giorgio De Chirico su La cultura italiana.
Severini applica a questo affresco laico tutti i principi affermati per l’arte religiosa nei due articoli del 1927. Sia Severini sia Di Chirico predicano il ritorno all’ordine ed al mestiere, ma i loro riferimenti sono diversi: per il primo il ritorno deve avvenire verso l’arte ieratica e frontale del medioevo, per il secondo verso la prospettiva del Quattrocento. L’impianto iconografico stesso del mosaico di Severini non è che una trasfigurazione moderna della rappresentazione di una Madonna in trono del nostro Trecento. Sul trono siede qui l’architettura (la madre delle arti, come abbiamo già visto, secondo Severini), tra pittura (con il compasso e la tavolozza) e la scultura in piedi, mentre musica e letteratura siedono in basso. A differenza dell’affresco di De Chirico, nel mosaico di Severini non vi è alcuna raffigurazione prospettica né intenzione illusionistica (non bisogna bucare il muro); l’uso del colore è ispirato all’idea di una combinazione armonica tra tonalità di azzurro e marrone, e la linea è subordinata a quell‘obiettivo. Le città italiane, che sovrastano le arti, hanno compito esclusivamente decorativo e sono l’equivalente della cuspide nelle rappresentazioni gotiche; anticipano le raffigurazioni di San Pietro e di Losanna nell'affresco absidale della Basilica di Notre-Dame du Valentin a Losanna, iniziato nel settembre dello stesso anno [79].
Basta osservare le foto rimaste
delle diverse pitture murali alla Triennale del 1933 (tutte perdute con
l’eccezione del mosaico di Severini) per comprendere che la sua posizione radicale
sulla necessità di sottomettere la pittura all’architettura non fu sposata
dagli altri artisti. E tuttavia l’integrazione dell’opera di architetti ed
artisti diverrà fondamentale negli anni Trenta per dare valore monumentale alle
opere come strumento di regime.
Nel 1933 l’arte italiana è
comunque dominata dall’idea di una pittura sociale e pubblica su muro. Si pensi
al Manifesto della Pittura murale del
1933, un vero e proprio inno all’arte fascista, composto da Mario Sironi e
firmato anche da Campigli, Carrà e Funi [80]; nello stesso anno Corrado Cagli
scrive l’articolo “Muri ai pittori”
[81], chiaramente ispirato all’appello di Aurier del 1891, che abbiamo già
avuto modo di citare. Sironi e Cagli animano nei loro scritti un’accesa
polemica sulle tecniche, ma entrambi si pongono come continuatori del lavoro
teorico che Severini aveva avviato dieci anni prima in Svizzera.
Il Libro dell’Arte di Cennino
Cennini nel 1933
Nel 1933 viene anche ripubblicata
l’edizione di Renzo Simi del Libro
dell’arte del 1913, a dimostrazione che – nell’anno che vede la V Triennale
dedicata all’affresco e la pubblicazione di manifesti d’artisti, sia pur
opposti, a sostegno dell’uso pubblico di quella tecnica - vi è una forte
domanda commerciale in Italia che sostiene l’interesse per l’insegnamento
medievale di Cennino. L’edizione del 1933 ha un largo successo di pubblico,
forse anche tra gli artisti che sono più lontani alla sensibilità classicista
ed al ritorno all’ordine. Non a caso, in una pubblicazione sulla biblioteca del
pittore Renato Birolli (1905-1959), che ho potuto consultare in occasione di
una recente mostra torinese [82], compare una rara foto del Libro dell’Arte del 1933 [83]. È un
pittore di una scuola credo lontana a quella di Severini (e, almeno in quegli
anni, di chiara ispirazione espressionista tedesca e fauvista francese), ma
evidentemente nella sua biblioteca Cennino non poteva mancare. Il curatore
Alessandro Della Latta ritiene che la lettura sia avvenuta poco dopo il 1933;
non la associa al dibattito sull’affresco, ma all’interesse per l’arte dei
primitivi, riflesso anche dell’insegnamento di Lionello Venturi.
Forse solo per una curiosa coincidenza,
nel 1933 il Libro dell’Arte non
solamente è pubblicato in Italia ma ha il suo massimo successo internazionale.
Compaiono infatti la versione americana di Daniel Thompson e quella russo sovietica. La ragione di un tale successo globale per un semplice libro di
ricette di un pittore del tardo medioevo/primo rinascimento è forse legata al
ruolo che nei primi anni Trenta il potere pubblico assume ovunque nella
gestione dell’economia e degli affari sociali (ed anche della pittura come
attività sociale). La traduzione di Thompson, nel quadro di un programma di
supporto ai pittori finanziato dal New Deal, è legata alle iniziative delle
grandi fondazioni americane – appoggiate con fondi pubblici – per promuovere la
pittura murale in una fase in cui gli artisti americani sono letteralmente
condannati alla fame a causa della terribile recessione. E a Mosca la
pubblicazione va situata nel quadro della traduzione in russo di tutti i grandi
trattati d’arte italiani, a conferma delle ambizioni imperiali e classicistiche
dell’arte staliniana; insomma, si vuole ribadire che, in un momento di grandi
crisi del modello capitalista, quando il suo stesso destino appare incerto, il
futuro dell’arte appartiene al modello comunista. In quello stesso frangente,
il fascismo italiano reclama l’eredità dell’affresco classico come patrimonio
identitario. È il periodo in cui l’arte e gli artisti hanno più bisogno del
denaro pubblico per sopravvivere ed il potere politico ha dunque un’occasione
irripetibile d’impossessarsene (come arma di propaganda e di legittimazione).
Il Libro dell’arte di Cennino non fa
eccezione, e diviene strumento indiretto di competizione tra indirizzi diversi
dell’azione pubblica: in Italia, negli Stati Uniti ed in Unione Sovietica.
Severini dopo l’esperienza svizzera
Sarà forse che gli affreschi
svizzeri non si possono trasferire ed esporre nelle mostre delle nostre città,
che Friburgo e la sua regione non compaiono tra le mete di viaggio usuali dei
nostri turisti oppure sarà una conseguenza della progressiva laicizzazione
della società; certo è che Severini oggi non è conosciuto in Italia per la
pittura religiosa su affresco che pure esercitò per dieci anni in numerose
parrocchie della Svizzera romanda [84].
I dieci anni di arte religiosa
del Gruppo di San Luca nella Svizzera francofona (animati da ambizioni di
rinnovamento della vita religiosa sotto l’influenza di Maritain), si concludono
intorno alla metà degli anni Trenta, quando il flusso di commissioni
ecclesiastiche proveniente dalle ricche diocesi attorno a Friburgo
s’interrompe. Non si può infatti dimenticare che tali opere d’arte decorativa e
monumentale richiedono investimenti pubblici e privati importanti, che dopo la
crisi generalizzata delle economie occidentali nel 1929 divengono sempre più
esigui anche in Svizzera.
Più in generale, la grave
recessione determina ovunque l’esplosione della bolla speculativa nata negli
anni Venti, subito dopo la prima guerra mondiale: negli anni
dell’iperinflazione e delle incertezze geopolitiche, i dipinti delle
avanguardie erano divenuti uno dei beni rifugio più diffusi, portando le
quotazioni alle stelle e facendo la fortuna dei giovani pittori e soprattutto
dei mercanti. Dopo il crollo del mercato a Wall Street, la liquidità dei grandi
investitori che vogliono tesaurizzare ricchezza in opere d’arte viene
improvvisamente a mancare, molti commercianti falliscono e gli artisti
divengono economicamente più dipendenti dallo stato: i pittori italiani di
Parigi rientrano in Italia, attirati, ad esempio, da iniziative come la già citata
V Triennale di Milano del 1933, dedicata all’arte monumentale come forma di
sostegno alla politica di regime.
Se dunque nel 1933 Severini aveva
voluto differenziarsi, almeno stilisticamente, dagli altri artisti che avevano
adottato una pittura più celebrativa alla Triennale, dopo qualche anno si
adegua al fatto di essere ormai residente in Italia e di dover dipendere dal
regime. Tuttavia, il suo stile di riferimento bizantino rimane inconfondibile
(si veda le Allegorie della giustizia nel Palazzo
di Giustizia di Milano): è ormai passato il tempo dell’arte religiosa, ma
persiste ancora il riferimento all’iconografia medievale. Nel 1935 vince la Seconda quadriennale d’arte nazionale.
Seguono, via via, altre commissioni pubbliche che sono sempre più legate al
regime, come i mosaici per la Palestra
del Duce al Foro Mussolini, avviata nel 1936 ed inaugurata nel 1941 con
Mussolini e l’intero quadro dirigente del partito. Nella seconda metà degli
anni Trenta lavora, sotto la direzione di Piacentini, appunto agli affreschi
per il Palazzo di Giustizia di Milano (1937-1939). Alcuni riferimenti alla
preferenza per l’arte medievale ritornano – sia pure molto velati - anche nel mosaico alle Poste di Alessandria
(1940-1941), forse l’opera dove egli recupera più fortemente i vecchi toni
futuristi. I temi religiosi torneranno solo dopo la guerra, negli primi anni
Cinquanta.
Gli eventi della guerra
travolgono l’intero mondo intellettuale, e non è sorpresa che lo stesso accada
per Severini.
Nel 1942, in piena guerra, viene
pubblicata, con una nuova introduzione aggiuntiva molto impegnativa di chiaro
stampo neo-tomista, una seconda versione della raccolta di saggi
intitolata Ragionamenti sulle arti figurative: nelle nuove pagine il pittore
riflette su primitivismo, trascendenza, poesia e regole dell’arte, cercando di
volare alto e di riflettere sui temi fondamentali dell’arte con un tono di
riflessione filosofico. È comunque un testo ancora scritto in un quadro di
sostanziale adesione al fascismo.
Crollato il regime nel 1943, nel
1944 compare una nuova raccolta di saggi dal titolo Arte indipendente, arte borghese, arte sociale, pubblicata da 'Danesi Editore in Via Margutta (Roma)',
con cui si apre la serie “I Libri di Via
Margutta. Scritti di artisti” [86].
Nell’introduzione Severini
racconta di una riunione di intellettuali antifascisti a Roma, ancora nei
giorni dell’occupazione nazista, quando nei pressi del luogo d’incontro una
giovane donna viene fucilata dai nazisti mentre cerca di strappare il marito ad
un rastrellamento delle SS (sembra di leggere la famosa scena con cui si
conclude Roma città aperta di Roberto Rossellini, il celebre film del
neorealismo girato nel 1945); due giorni dopo per rappresaglia due fascisti
vengono linciati dalla folla inferocita nel medesimo luogo. Atterrito da
quest’esplosione di violenza, l’artista pone ai suoi interlocutori, durante una
riunione presieduta da un anonimo “giovane scrittore”, la domanda “se l’arte sia espressione metafisica del
mondo” ma ottiene da quest'ultimo la seguente risposta sprezzante: “Non c’è bisogno, credo, di precisare che
cosa sia l’arte, altrimenti si andrebbe per le lunghe”. Severini crede
invece che gli eventi impongano di riflettere sul ruolo dell’arte, e si chiede
come mai nessuno degli artisti italiani abbia protestato allo scoppio della
guerra solo qualche anno prima. Cerca dunque di riflettere sul tema,
confrontandosi (ed anche criticando in modo deciso) con l’obiezione comunista
verso l’arte moderna, considerata arte borghese. Una gran parte del libro è
dedicata a rigettare l’esperienza figurativa dell’Unione Sovietica – spiegando
che il mondo staliniano aveva distrutto ogni autonomia dell’avanguardia
artistica russa, i cui fuoriusciti Severini conosceva bene avendoli frequentati
a Parigi. Se rifiuta l’ideologia comunista, Severini si chiede però come l’arte
si possa far carico della necessità di tener conto delle esigenze sociali delle
grandi masse, ispirandosi alla dottrina sociale della chiesa e all’insegnamento
di Maritain.
[Purtroppo, per ragioni legate a diritti d'autore, questa nuova versione dell'articolo non include più immagini delle opere di Gino Severini.]
NOTE
[76] Sarfatti, Margherita G., Storia della pittura moderna, Roma, Paolo Cremonese Editore, 1930, 164 pagine con settantacinque tavole fuori testo. Citazione a pagina 84
[77] Benzi, Fabio – Gino Severini. Affreschi, mosaici, decorazioni monumentali, 1921-1941, Roma, Galleria Arco Farnese, 12 maggio-30 giugno 1992, Roma, Leonardo-De Luca Editori, pagine 119. Citazione a p. 62
[78] Si veda:
[79] Benzi, Fabio – Gino Severini. Affreschi... (citato), p. 65
[80] M. Sironi, A. Funi, M. Campigli, C. Carrà – Manifesto della Pittura Murale, in “Colonna”, Anno I, 1933, N. 1, pp. 10-11
[81] Cagli, Corrado – Muri ai pittori, in “Quadrante”, I, 1, maggio 1933
[83] Renato Birolli. Biblioteca, a cura di Alessandro Della Latta, Scalpendi, 2014, 208 pagine.
[84] Un’eccezione è il bel catalogo della mostra Gino Severini. Affreschi, mosaici, decorazioni monumentali, 1921-1941, Roma , Galleria Arco arnese, Leonardo De Luca, Roma, 1992, ed in particolare il saggio introduttivo Gino Severini. Le opere monumentali di Fabio Benzi. Altri testi italiani sul tema vengono elencati da Zoë Marie Jones nel suo bell’articolo già citato alla nota 31: Mascherpa, Giorgio - Gino Severini pittore "Sacro", catalogo della mostra 5 - 28 marzo 1981 al Centro Culturale San Fedele, Milano, Hoepli, 1981; Mascherpa, Giorgio - Gli anni venti: Severini religioso, in: Gino Severini, catalogo ragionato, a cura di Daniela Fonti, Milano, Arnaldo Mondadori Editore, 1988, pp. 347-351; Garrone, Emanuela - Gino Severini muralista sacro, in: Sesta Biennale d’Arte Sacra, catalogo della mostra, San Gabriele, Fondazione Stauros Italiana, 1994, pp. 368-403.
[85] Severini, Gino – Ragionamenti sulle arti figurative, Milano, Editore Ulrico Hoepli, 1942, p. 299. Citazione a pagina XVIII.
[86] Nel 1945 l’Editore Danesi pubblica nella stessa serie, il Credo d‘Artista di Luigi Bartolini. Vi è anche una Collana di Quaderni di Storia dell’Arte, diretta da Valerio Mariani, con una ricca produzione di testi proprio nel 1945 (ad esempio, Cinquant'anni di pittura moderna in Francia, a cura di Giorgio di San Lazzaro; il Bernini Pittore di Luigi Grassi; il Beato Angelico di Giovanni Fallani).
[87] Severini, Gino – Arte indipendente, arte borghese, arte sociale, Roma, Danesi in Via Margutta – Editore, 1944, 87 pagine. Citazione a pagina 68.
[88] Severini, Gino – Arte indipendente... (citato), p. 68.
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