Pagine

venerdì 10 giugno 2016

Francesco Mazzaferro. Gino Severini e l'arte religiosa in un contesto europeo: l'influenza del 'Libro dell'Arte' di Cennino Cennini. Parte Terza


English Version

Francesco Mazzaferro
Gino Severini e l’arte religiosa in un contesto europeo:
l’influenza del Libro dell’Arte di Cennino Cennini
Parte Terza




Fig. 16) L’edizione del Libro dell’Arte del 1933, a cura di Renzo Simi

L’eco in Italia dell’arte religiosa di Severini e la partecipazione alla V Triennale di Milano

L’eco delle opere svizzere e degli scritti sulla rivista “Nova et vetera” giunge forte in quell’Italia, con cui Severini non ha mai interrotto i rapporti. È considerato uno degli “Italiani di Parigi”, ma non un fuoriuscito.

Quando Margherita Sarfatti nel 1930 parla dell’artista nella sua famosa “Storia della pittura moderna”, è proprio quello degli affreschi il tema su cui più si sofferma, e che lo diversifica dagli altri pittori italiani a Parigi. “Nel gruppo italiano della «scuola di Parigi», emergono Giorgio De Chirico, Mario Tozzi, Massimo Campigli, Paresce, Licini, De Pisis, e se vogliamo Gino Severini, sebbene appartenga piuttosto ad altre tendenze. Nato a Pienza [nota di redazione: in realtà nacque a Cortona], presso Siena, vissuto a Parigi, Gino Severini è dotato di un toscano senso di leggiadria e di grazia decorativa. Già futurista, fu uno dei primi a sentire il richiamo classico, se per classici s’intendono, come è giusto, anche i nostri freschisti primitivi. Giovanissimo, ancora molti anni fa sulle pareti di un tabarin parigino snodava, con audace empito decorativo, il baccanale della frenetica danza del Pan-Pan allora di moda. Oggi, è dei pochi i quali abbiano avuto il coraggio, la forza e anche l’occasione di sperimentare in pratica, nella decorazione di una cattedrale svizzera, le nostalgie teoriche per la composizione murale e per la pittura di soggetto sacro a buon fresco” [76].

Nel 1932 Severini, accompagnato da Cipriano Efisio Oppo (1891-1962) ovvero dal direttore della Mostra della Rivoluzione Fascista, è ricevuto da Mussolini a Roma e gli manifesta il desiderio di lavorare in Italia a progetti pubblici [77]. Lo stesso anno la rivista Dedalo di Ugo Ojetti gli dedica un articolo, in cui lo scrittore e storico dell’arte francese Jean Cassou (1897-1986) lo definisce “un maestro italiano, un artista cattolico (…), uomo di grande cultura, autentico umanista” [78]. Certo, la sua idea dell’affresco e del mosaico religioso non è in linea con quella predominante in Italia, dove la pittura murale ha soprattutto valenza celebrativa di regime. Ma quando viene organizzata la V Triennale a Milano, con un profilo tematico legato alla pittura murale, Severini non può certo mancare, ed anzi a lui Angelo Bordoni, Antonio Carminati e Mario Sironi (gli allestitori) danno una posizione d’onore. Il salone principale, quello in cui si svolge l’inaugurazione con il re, termina infatti, quasi in una posizione absidale, con il mosaico Le Arti di Severini, contornato da un affresco di Giorgio De Chirico su La cultura italiana.

Severini applica a questo affresco laico tutti i principi affermati per l’arte religiosa nei due articoli del 1927. Sia Severini sia Di Chirico predicano il ritorno all’ordine ed al mestiere, ma i loro riferimenti sono diversi: per il primo il ritorno deve avvenire verso l’arte ieratica e frontale del medioevo, per il secondo verso la prospettiva del Quattrocento. L’impianto iconografico stesso del mosaico di Severini non è che una trasfigurazione moderna della rappresentazione di una Madonna in trono del nostro Trecento. Sul trono siede qui l’architettura (la madre delle arti, come abbiamo già visto, secondo Severini), tra pittura (con il compasso e la tavolozza) e la scultura in piedi, mentre musica e letteratura siedono in basso. A differenza dell’affresco di De Chirico, nel mosaico di Severini non vi è alcuna raffigurazione prospettica né intenzione illusionistica (non bisogna bucare il muro); l’uso del colore è ispirato all’idea di una combinazione armonica tra tonalità di azzurro e marrone, e la linea è subordinata a quell‘obiettivo. Le città italiane, che sovrastano le arti, hanno compito esclusivamente decorativo e sono l’equivalente della cuspide nelle rappresentazioni gotiche; anticipano le raffigurazioni di San Pietro e di Losanna nell'affresco absidale della Basilica di Notre-Dame du Valentin a Losanna, iniziato nel settembre dello stesso anno [79].

Basta osservare le foto rimaste delle diverse pitture murali alla Triennale del 1933 (tutte perdute con l’eccezione del mosaico di Severini) per comprendere che la sua posizione radicale sulla necessità di sottomettere la pittura all’architettura non fu sposata dagli altri artisti. E tuttavia l’integrazione dell’opera di architetti ed artisti diverrà fondamentale negli anni Trenta per dare valore monumentale alle opere come strumento di regime.

Nel 1933 l’arte italiana è comunque dominata dall’idea di una pittura sociale e pubblica su muro. Si pensi al Manifesto della Pittura murale del 1933, un vero e proprio inno all’arte fascista, composto da Mario Sironi e firmato anche da Campigli, Carrà e Funi [80]; nello stesso anno Corrado Cagli scrive l’articolo “Muri ai pittori” [81], chiaramente ispirato all’appello di Aurier del 1891, che abbiamo già avuto modo di citare. Sironi e Cagli animano nei loro scritti un’accesa polemica sulle tecniche, ma entrambi si pongono come continuatori del lavoro teorico che Severini aveva avviato dieci anni prima in Svizzera.


Il Libro dell’Arte di Cennino Cennini nel 1933

Nel 1933 viene anche ripubblicata l’edizione di Renzo Simi del Libro dell’arte del 1913, a dimostrazione che – nell’anno che vede la V Triennale dedicata all’affresco e la pubblicazione di manifesti d’artisti, sia pur opposti, a sostegno dell’uso pubblico di quella tecnica - vi è una forte domanda commerciale in Italia che sostiene l’interesse per l’insegnamento medievale di Cennino. L’edizione del 1933 ha un largo successo di pubblico, forse anche tra gli artisti che sono più lontani alla sensibilità classicista ed al ritorno all’ordine. Non a caso, in una pubblicazione sulla biblioteca del pittore Renato Birolli (1905-1959), che ho potuto consultare in occasione di una recente mostra torinese [82], compare una rara foto del Libro dell’Arte del 1933 [83]. È un pittore di una scuola credo lontana a quella di Severini (e, almeno in quegli anni, di chiara ispirazione espressionista tedesca e fauvista francese), ma evidentemente nella sua biblioteca Cennino non poteva mancare. Il curatore Alessandro Della Latta ritiene che la lettura sia avvenuta poco dopo il 1933; non la associa al dibattito sull’affresco, ma all’interesse per l’arte dei primitivi, riflesso anche dell’insegnamento di Lionello Venturi.

Forse solo per una curiosa coincidenza, nel 1933 il Libro dell’Arte non solamente è pubblicato in Italia ma ha il suo massimo successo internazionale. Compaiono infatti la versione americana di Daniel Thompson e quella russo sovietica. La ragione di un tale successo globale per un semplice libro di ricette di un pittore del tardo medioevo/primo rinascimento è forse legata al ruolo che nei primi anni Trenta il potere pubblico assume ovunque nella gestione dell’economia e degli affari sociali (ed anche della pittura come attività sociale). La traduzione di Thompson, nel quadro di un programma di supporto ai pittori finanziato dal New Deal, è legata alle iniziative delle grandi fondazioni americane – appoggiate con fondi pubblici – per promuovere la pittura murale in una fase in cui gli artisti americani sono letteralmente condannati alla fame a causa della terribile recessione. E a Mosca la pubblicazione va situata nel quadro della traduzione in russo di tutti i grandi trattati d’arte italiani, a conferma delle ambizioni imperiali e classicistiche dell’arte staliniana; insomma, si vuole ribadire che, in un momento di grandi crisi del modello capitalista, quando il suo stesso destino appare incerto, il futuro dell’arte appartiene al modello comunista. In quello stesso frangente, il fascismo italiano reclama l’eredità dell’affresco classico come patrimonio identitario. È il periodo in cui l’arte e gli artisti hanno più bisogno del denaro pubblico per sopravvivere ed il potere politico ha dunque un’occasione irripetibile d’impossessarsene (come arma di propaganda e di legittimazione). Il Libro dell’arte di Cennino non fa eccezione, e diviene strumento indiretto di competizione tra indirizzi diversi dell’azione pubblica: in Italia, negli Stati Uniti ed in Unione Sovietica.


Severini dopo l’esperienza svizzera

Sarà forse che gli affreschi svizzeri non si possono trasferire ed esporre nelle mostre delle nostre città, che Friburgo e la sua regione non compaiono tra le mete di viaggio usuali dei nostri turisti oppure sarà una conseguenza della progressiva laicizzazione della società; certo è che Severini oggi non è conosciuto in Italia per la pittura religiosa su affresco che pure esercitò per dieci anni in numerose parrocchie della Svizzera romanda [84].

I dieci anni di arte religiosa del Gruppo di San Luca nella Svizzera francofona (animati da ambizioni di rinnovamento della vita religiosa sotto l’influenza di Maritain), si concludono intorno alla metà degli anni Trenta, quando il flusso di commissioni ecclesiastiche proveniente dalle ricche diocesi attorno a Friburgo s’interrompe. Non si può infatti dimenticare che tali opere d’arte decorativa e monumentale richiedono investimenti pubblici e privati importanti, che dopo la crisi generalizzata delle economie occidentali nel 1929 divengono sempre più esigui anche in Svizzera.

Più in generale, la grave recessione determina ovunque l’esplosione della bolla speculativa nata negli anni Venti, subito dopo la prima guerra mondiale: negli anni dell’iperinflazione e delle incertezze geopolitiche, i dipinti delle avanguardie erano divenuti uno dei beni rifugio più diffusi, portando le quotazioni alle stelle e facendo la fortuna dei giovani pittori e soprattutto dei mercanti. Dopo il crollo del mercato a Wall Street, la liquidità dei grandi investitori che vogliono tesaurizzare ricchezza in opere d’arte viene improvvisamente a mancare, molti commercianti falliscono e gli artisti divengono economicamente più dipendenti dallo stato: i pittori italiani di Parigi rientrano in Italia, attirati, ad esempio, da iniziative come la già citata V Triennale di Milano del 1933, dedicata all’arte monumentale come forma di sostegno alla politica di regime.

Severini rientra definitivamente in Italia nel 1935, dopo quasi trent’anni di attività tra Parigi e la Svizzera romanda. L’anno dopo pubblica per Ulrico Hoepli Editore la prima edizione dei già citati “Ragionamenti sulle arti figurative”, una collezione di testi precedenti introdotti da un testo di chiara adesione estetica al fascismo. L’introduzione si conclude con le seguenti parole: “Su queste basi, io credo che si potrebbero ritrovare le condizioni necessarie ad un lavoro onesto, ad un lavoro autentico, malgrado i nostri tempi antispirituali e antimetafisici; un lavoro nel quale troverebbero posto non solo le alte personalità. Ma anche le personalità di medio valore, le une e le altre gerarchicamente ordinate per uno scopo unico e altissimo: scrivere degnamente la storia dell’Italia fascista” [85].

Se dunque nel 1933 Severini aveva voluto differenziarsi, almeno stilisticamente, dagli altri artisti che avevano adottato una pittura più celebrativa alla Triennale, dopo qualche anno si adegua al fatto di essere ormai residente in Italia e di dover dipendere dal regime. Tuttavia, il suo stile di riferimento bizantino rimane inconfondibile (si veda le Allegorie della giustizia nel Palazzo di Giustizia di Milano): è ormai passato il tempo dell’arte religiosa, ma persiste ancora il riferimento all’iconografia medievale. Nel 1935 vince la Seconda quadriennale d’arte nazionale. Seguono, via via, altre commissioni pubbliche che sono sempre più legate al regime, come i mosaici per la Palestra del Duce al Foro Mussolini, avviata nel 1936 ed inaugurata nel 1941 con Mussolini e l’intero quadro dirigente del partito. Nella seconda metà degli anni Trenta lavora, sotto la direzione di Piacentini, appunto agli affreschi per il Palazzo di Giustizia di Milano (1937-1939). Alcuni riferimenti alla preferenza per l’arte medievale ritornano – sia pure molto velati - anche nel mosaico alle Poste di Alessandria (1940-1941), forse l’opera dove egli recupera più fortemente i vecchi toni futuristi. I temi religiosi torneranno solo dopo la guerra, negli primi anni Cinquanta.

Epilogo 1942-1944

Gli eventi della guerra travolgono l’intero mondo intellettuale, e non è sorpresa che lo stesso accada per Severini.

Fig. 17) La seconda edizione dei Ragionamenti sulle arti figurative, 1942

Nel 1942, in piena guerra, viene pubblicata, con una nuova introduzione aggiuntiva molto impegnativa di chiaro stampo neo-tomista, una seconda versione della raccolta di saggi intitolata  Ragionamenti sulle arti figurative: nelle nuove pagine il pittore riflette su primitivismo, trascendenza, poesia e regole dell’arte, cercando di volare alto e di riflettere sui temi fondamentali dell’arte con un tono di riflessione filosofico. È comunque un testo ancora scritto in un quadro di sostanziale adesione al fascismo.

Crollato il regime nel 1943, nel 1944 compare una nuova raccolta di saggi dal titolo Arte indipendente, arte borghese, arte sociale, pubblicata da 'Danesi Editore in Via Margutta (Roma)', con cui si apre la serie “I Libri di Via Margutta. Scritti di artisti” [86].



Fig. 18) Gino Severini, Arte indipendente, arte borghese, arte sociale, 1944

Nell’introduzione Severini racconta di una riunione di intellettuali antifascisti a Roma, ancora nei giorni dell’occupazione nazista, quando nei pressi del luogo d’incontro una giovane donna viene fucilata dai nazisti mentre cerca di strappare il marito ad un rastrellamento delle SS (sembra di leggere la famosa scena con cui si conclude Roma città aperta di Roberto Rossellini, il celebre film del neorealismo girato nel 1945); due giorni dopo per rappresaglia due fascisti vengono linciati dalla folla inferocita nel medesimo luogo. Atterrito da quest’esplosione di violenza, l’artista pone ai suoi interlocutori, durante una riunione presieduta da un anonimo “giovane scrittore”, la domanda “se l’arte sia espressione metafisica del mondo” ma ottiene da quest'ultimo la seguente risposta sprezzante: “Non c’è bisogno, credo, di precisare che cosa sia l’arte, altrimenti si andrebbe per le lunghe”. Severini crede invece che gli eventi impongano di riflettere sul ruolo dell’arte, e si chiede come mai nessuno degli artisti italiani abbia protestato allo scoppio della guerra solo qualche anno prima. Cerca dunque di riflettere sul tema, confrontandosi (ed anche criticando in modo deciso) con l’obiezione comunista verso l’arte moderna, considerata arte borghese. Una gran parte del libro è dedicata a rigettare l’esperienza figurativa dell’Unione Sovietica – spiegando che il mondo staliniano aveva distrutto ogni autonomia dell’avanguardia artistica russa, i cui fuoriusciti Severini conosceva bene avendoli frequentati a Parigi. Se rifiuta l’ideologia comunista, Severini si chiede però come l’arte si possa far carico della necessità di tener conto delle esigenze sociali delle grandi masse, ispirandosi alla dottrina sociale della chiesa e all’insegnamento di Maritain.

Non sorprende che il testo presenti alcune belle pagine dedicate a Renoir ed alla sua lettera del 1911 a Henri Mottez a commento del Libro dell’Arte di Cennino Cennini. Renoir, nel suo radicale pessimismo, era stato uno dei pochi ad accorgersi della degenerazione in corso nel mondo dell’arte, sempre più soggetto ad una sfrenata mercantilizzazione che alimentava un protagonismo illimitato, creava incentivi per eccessi estetici ed ignorava le esigenze della società. E tuttavia lo stesso Renoir si era reso conto che ricreare le condizioni pre-rinascimentali di un’arte sociale e solidale era reso impossibile dal fatto che la società aveva perso la coesione del Medioevo ed in particolare il credo collettivo nella religione. Dunque per Severini esiste un perfetto parallelismo tra le ragioni e gli sviluppi dell’arte e quelli della società. Se vi è stato un crollo della società negli ultimi decenni, è anche perché vi è stata un’incapacità dell’arte di rispondere alle sue esigenze. Egli è del tutto convinto che le speculazioni di mercato negli anni Venti siano state espressione di un mondo avido e senza scrupoli. Comprende anche che – una volta esplosa quella bolla speculativa – l’avanguardia italiana, lui compreso, si è posta al servizio di un regime liberticida, ma vuole evitare di ricadere al servizio di un nuovo regime che asservirà l’arte e crede che un ritorno alla sua esperienza religiosa degli anni Venti sia una risposta alle nuove sfide. Sfogliando lo scritto di Severini del 1944, sembra quasi di leggere un testo di fondazione culturale della Democrazia Cristiana. Ecco le sue conclusioni, al termine della lunga discussione su Renoir: “Le condizioni sociali nelle quali deve vivere l’arte, da Renoir in poi, attraverso le dittature capitalistiche o quelle ideologiche totalitarie, e poi dopo la guerra, sono giunte a un punto culminante oltre il quale c’è l’annientamento dell’arte, la cui agonia può durare ancora qualche anno, o la rinascita dell’arte, di cui le basi sono gettate ma che non diventeranno mai un edificio solido, ed aderente a tutta la vita moderna, se non agiremo nel senso in cui bisogna agire. (…) Che l’uomo si renda conto ch’egli è indispensabile nel mondo; che la materia senza di lui non è niente, che il dinamismo della materia non è niente in confronto del suo dinamismo di uomo cosciente, di uomo che pensa, e che egli riprenda fiducia in se stesso e nella sua eternità” [87]. E all’arte, alla religione ed alla poesia Severini affida quel compito “di una nuova e miracolosa partenza” [88].

[Purtroppo, per ragioni legate a diritti d'autore, questa nuova versione dell'articolo non include più immagini delle opere di Gino Severini.]


NOTE

[76] Sarfatti, Margherita G., Storia della pittura moderna, Roma, Paolo Cremonese Editore, 1930, 164 pagine con settantacinque tavole fuori testo. Citazione a pagina 84

[77] Benzi, Fabio – Gino Severini. Affreschi, mosaici, decorazioni monumentali, 1921-1941, Roma, Galleria Arco Farnese, 12 maggio-30 giugno 1992, Roma, Leonardo-De Luca Editori, pagine 119. Citazione a p. 62

[78] Si veda:

[79] Benzi, Fabio – Gino Severini. Affreschi... (citato), p. 65

[80] M. Sironi, A. Funi, M. Campigli, C. Carrà – Manifesto della Pittura Murale, in “Colonna”, Anno I, 1933, N. 1, pp. 10-11

[81] Cagli, Corrado – Muri ai pittori, in “Quadrante”, I, 1, maggio 1933 


[83] Renato Birolli. Biblioteca, a cura di Alessandro Della Latta, Scalpendi, 2014, 208 pagine.

[84] Un’eccezione è il bel catalogo della mostra Gino Severini. Affreschi, mosaici, decorazioni monumentali, 1921-1941, Roma , Galleria Arco arnese, Leonardo De Luca, Roma, 1992, ed in particolare il saggio introduttivo Gino Severini. Le opere monumentali di Fabio Benzi. Altri testi italiani sul tema vengono elencati da Zoë Marie Jones nel suo bell’articolo già citato alla nota 31: Mascherpa, Giorgio - Gino Severini pittore "Sacro", catalogo della mostra 5 - 28 marzo 1981 al Centro Culturale San Fedele, Milano, Hoepli, 1981; Mascherpa, Giorgio - Gli anni venti: Severini religioso, in: Gino Severini, catalogo ragionato, a cura di Daniela Fonti, Milano, Arnaldo Mondadori Editore, 1988, pp. 347-351; Garrone, Emanuela - Gino Severini muralista sacro, in: Sesta Biennale d’Arte Sacra, catalogo della mostra, San Gabriele, Fondazione Stauros Italiana, 1994, pp. 368-403.

[85] Severini, Gino – Ragionamenti sulle arti figurative, Milano, Editore Ulrico Hoepli, 1942, p. 299. Citazione a pagina XVIII.

[86] Nel 1945 l’Editore Danesi pubblica nella stessa serie, il Credo d‘Artista di Luigi Bartolini. Vi è anche una Collana di Quaderni di Storia dell’Arte, diretta da Valerio Mariani, con una ricca produzione di testi proprio nel 1945 (ad esempio, Cinquant'anni di pittura moderna in Francia, a cura di Giorgio di San Lazzaro; il Bernini Pittore di Luigi Grassi; il Beato Angelico di Giovanni Fallani).

[87] Severini, Gino – Arte indipendente, arte borghese, arte sociale, Roma, Danesi in Via Margutta – Editore, 1944, 87 pagine. Citazione a pagina 68.

[88] Severini, Gino – Arte indipendente... (citato), p. 68.

Nessun commento:

Posta un commento