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David Hockney
Secret Knowledge, Rediscovering the Lost Techniques of the Old Masters
[Conoscenza segreta. Riscoprire le tecniche perdute degli antichi maestri]
Nuova edizione ampliata con 510 figure, di cui 442 a colori
New York, Viking Studio, 2006
Recensione di Francesco Mazzaferro
Parte Prima
La risposta, a suo parere, è che i disegni di Ingres rivelano traccia dell’impiego della camera lucida, un attrezzo ottico inventato dal fisico William Hyde Wollaston nel 1807: si tratta di un prisma che, se utilizzato correttamente (bisogna inquadrare l’immagine secondo un angolo di 135 gradi), crea l’illusione ottica di una proiezione di tale immagine su una superficie; in tal modo il ritrattista può proiettare direttamente un’immagine virtuale sulla superficie su cui disegna e dunque lavorare senza dover produrre disegni preparatori. Come spiega lo storico dell’arte Martin Kemp, la scoperta dello strumento crea per la prima volta la possibilità di far uso di uno strumento ottico che al tempo stesso è portatile e non richiede di oscurare la luce [14]. Con la scoperta degli strumenti chimici per fissare le immagini su carta (la dagherrotipia, nel 1839), la camera lucida viene rapidamente superata. Hockney però ne conosce l’uso: ne ha acquistato un esemplare anni prima, e – anche se ne ha fatto uso solamente per poche ore – sa che può essere utilizzata per “fissare la posizione degli occhi, del naso e della bocca in modo molto accurato” [15]. L’impiego della camera lucida da parte di Ingres non è per Hockney un segno di debolezza, ma di forza: la funzione dell’artista (in una fase in cui il ritratto è ancora l’unico strumento disponibile per rappresentare l’immagine degli individui in una società dove si moltiplicano i potenziali clienti) è quella di produrre le migliori immagini nel minore tempo possibile. Inoltre, l’impiego della camera lucida è molto difficile e richiede grande perizia: “All’inizio, ho trovato la camera lucida molto difficile da usare. Non proietta un’immagine reale del soggetto, ma un’illusione di essa nell’occhio. Quando si muove la testa, ogni cosa si muove con essa, e l’artista deve imparare a prendere degli appunti molto velocemente” [16]. Hockney raffina l’uso della camera lucida, la sperimenta per alcune settimane ed impara a disegnare a gran velocità i ritratti dei guardiani della mostra, che visita più volte. Utilizzando lo strumento si rende conto di quanto l’esito dell’impiego degli strumenti ottici dipenda dall’illuminazione: “L’ottica richiede una forte illuminazione, ed un’illuminazione forte crea ombre profonde.” [17]
Quali sono gli elementi che
portano Hockney a credere che Ingres abbia fatto uso di strumenti ottici, oltre
alle considerazioni sull’incredibile velocità della produzione dei disegni? Ve
ne sono due. In primo luogo, la sproporzione tra volto e corpo (Hockney crea
elettronicamente un’immagine alterata del ritratto di Ingres della Signora
Godinot con il volto ridotto dell’8% e mostra che l’immagine è molto più
equilibrata). A suo parere è il segno che l’artista ha prima usato la camera
lucida per annotare le fattezze del volto (in qualche minuto) e poi completato
a vista l’immagine del volto (sulla base della sua esperienza la precisione del
ritratto e la delicatezza del disegno richiedono una-due ore di lavoro) [20].
Egli ipotizza che Ingres abbia
poi ripreso la camera lucida per tratteggiare il corpo e finire rapidamente il
ritratto, sempre in qualche minuto; spostando l’angolo, il pittore ha però
lievemente modificato l’ingrandimento, con la conseguenza che volto e corpo non
sono più perfettamente proporzionati. È un’osservazione di cui può accorgersi
solo un artista come Hockney, abituato a costruire ritratti combinando una
serie d’immagini con un fuoco intenzionalmente diverso.
Ed è qui che emerge il secondo
indizio. Manca infatti nel tracciato (molto più sommario) del disegno del corpo
della Signora Godinot ogni tentativo da parte di Ingres di procedere per
tentativi, o “a tentoni” (è la traduzione di Margherita Zizi dell’espressione
inglese “to grope for”). Il disegno è
sicuro e richiama le procedure usate da Andy Warhol, che – per le sue nature
morte – utilizza fin dagli anni Cinquanta un episcopio per proiettare
l’immagine di un oggetto su carta. Qui il pittore entra letteralmente nel
particolare, ingrandendo l’originale del ritratto di Ingres e una natura morta
di Warhol. Entrambi gli ingrandimenti rivelano un’esecuzione tecnica “tratteggiata con sicurezza e con linee
continue” [21]. Inoltre, in Ingres, il tratto superiore del polsino
sinistro della Signora Godinot non è tratteggiato, e il disegno prosegue
direttamente dal polsino alle pieghe delle maniche; allo stesso modo in Warhol
il contorno della sfera di cristallo non viene disegnato in basso, ma continua
direttamente nell’ombra sul tavolo. In entrambi i casi, per Hockney, ciò rivela
che il disegno è effettuato in tempi contingentati e con l’aiuto di una
proiezione dell’immagine.
All’inedito binomio Ingres-Warhol
Hockney contrappone tre disegni sempre di Ingres, che sono però “sono tutti
studi dal vero” (l’espressione inglese è ‘eyeballed’).
“Le linee sono cercate "a
tratti", vi sono segni di esitazione. L'espressione ‘a tratti’ suggerisce
l'incertezza: ‘Qual è esattamente la posizione corretta?’ sembra chiedersi
l'artista. Si osservi la differenza tra le linee nei disegni qui sotto
(disegnati nel modo convenzionale, ‘dal vero’), con quelle dell'immagine
riprodotta sopra, tratteggiata con sicurezza e con linee continue.” [22]
Infatti, ai tre disegni dal vero
viene messo in corrispondenza il ritratto della moglie di Charles Hayard,
eseguito da Ingres nel 1812. “I contorni
qui non appaiono affatto delineati ‘a tratti’: il disegno ha lo stesso aspetto
delle forme ricalcate di Andy Warhol. Ogni linea disegnata ha una velocità che
può in genere essere dedotta: ha un principio e una fine, e pertanto
rappresenta il tempo oltreché lo spazio. Anche il ricalco di una fotografia
contiene più ‘tempo’ della foto originale (che rappresenta appena una frazione
di secondo), perché la mano ha bisogno di tempo per eseguirlo.” [23]
È una prova sufficiente? Critica
ed opinione pubblica si sono divise, come vedremo. Piuttosto che esprimere un
giudizio, vorrei qui sottolineare alcuni aspetti concettuali e di merito.
Primo: il compito primario dell’artista è quello di produrre delle immagini.
Per secoli è stato l’unico soggetto capace di svolgere questa funzione sociale.
Secondo: il tempo è denaro, sia per l’artista che, in questo caso, per il
soggetto ritratto. Terzo: l’arte è parte dell’innovazione tecnologica del suo
tempo. Quarto: l’uso di tecniche per migliorare la produttività da parte
dell’artista è parte del suo genio e delle sue abilità manuali. Quinto: la
prova dell’uso delle tecniche va ricercata in primo luogo nelle immagini
(Hockney cita più volte il metodo di Roberto Longhi ed il valore che
quest’ultimo attribuisce all’immagine come fonte primaria).
Barbara Bolt [24], una “pittrice
filosofa” contemporanea, per usare un’espressione ai suoi tempi impiegata per
Poussin (è al tempo stesso un’affermata pittrice e studiosa di estetica e filosofia),
ha analizzato il metodo del pittore inglese nel saggio “The magic is in handling” del 2010. Hockney si rende infatti conto
di possedere, grazie all’esercizio pluridecennale della sua professione, un
occhio particolarmente addestrato alla lettura dell’opera; una dote che, ad
esempio, non è utilizzabile da qualsiasi critico d’arte). Incrocia allora tali
capacità con lo studio delle tecniche ottiche, la visione degli originali, la
ricerca di testi originali d’artisti, il confronto con studiosi d’ottica e la
riproduzione sperimentale di disegni, creando quella che la Bolt definisce “a complex and idiosyncratic methodology”.
Oggi il contenuto della tesi di Hockney è conosciuto come “la tesi di Hockney e
Falco”, perché è stata elaborata anche dal fisico Charles M. Falco. Ma qui il
punto è soprattutto sul metodo d’indagine sull’arte: un “metodo Hockney” che ha dato il via ad un’infinità di prove
sperimentali nel tentativo di riprodurre, confermare o screditare i risultati.
Scrive la Bolt: “Gli argomenti visivi di
Hockney dimostrano la doppia articolazione tra teoria e pratica, dove la teoria
emerge da un uso riflettuto della pratica ed al tempo stesso la pratica è
informata dalla teoria” [25]. Le conseguenze sono ancora più profonde: “La sua tesi dimostra la natura materiale del
pensiero visivo. Che uno sia d’accordo oppure no con le conclusioni che Hockney
trae in Secret Kowledge (e la critica
al suo lavoro è stata forte) le sue considerazioni mostrano una forma di saper
fare molto specifico, un saper fare che ha origine nel trattare i materiali in
pratica. Questa forma di conoscenza tacita offre un modo molto specifico di
conoscere il mondo, che si basa sulla pratica materiale (...)” [26]
Non vi è dubbio che un tal metodo, di fatto ignorando la narrativa della storia dell’arte, non può che portare i critici a posizioni fra loro polarizzate. Il libro di Hockney crea un vero e proprio putiferio. Ci occuperemo nella terza parte di questo post della ricezione della critica, osservando sin d’ora che vi sono state due tipi di risposte: da un lato da parte di coloro che si sono concentrati sugli aspetti tecnici (le affermazioni sulle capacità degli strumenti ottici, spesso oggetto di controverifiche sperimentali) e dall’altro quelli che hanno operato facendo considerazioni su stile, iconografia e composizione. In particolare, concentreremo la nostra attenzione sul dibattito intorno all’impiego della camera oscura da parte di Caravaggio: qui vi sono coloro che ritengono che Hockney sia stato in grado di fornire un nuovo strumento di lettura del realismo caravaggesco e chi invece considera le sue tesi come del tutto banali o campate in aria.
Se davvero ci pensate, io so bene che una fotografia presa per sé non
può essere vista come lo stadio finale dell'immagine realistica. Beh, almeno
non adesso. La fotografia digitale ci potrà liberarci da una prospettiva che
la chimica ci ha imposto da 180 anni" [34].
[Versione originale: giugno-luglio 2016 - nuova versione aprile aprile 2019]
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Fig. 1) Il libro di David Hockney nell’edizione ampliata del 2006 |
Pubblicato prima nel 2001 [1]
e poi nel 2006 [2] in una nuova edizione ampliata, Secret Knowledge di David Hockney
(1937-) è forse il caso più significativo di scritto d’arte di un pittore
contemporaneo che ripercorre la storia della pittura secondo una propria chiave di
lettura ed avvia non solamente una polemica, ma anche una lunga serie di studi
da parte di chi sostiene o rigetta le sue tesi. Hockney, cui la Tate Modern si
prepara a dedicare il prossimo anno un’importante retrospettiva in occasione
dell’ottantesimo compleanno, ha ottenuto largo riscontro di pubblico (e grande
notorietà) con il suo libro, tant’è che è d’obbligo segnalare, oltre alla
diffusione di un documentario televisivo della BBC nel 2001 [3], anche le
traduzioni – oltre che in italiano [4] – in francese [5], tedesco [6], spagnolo
[7], portoghese [8], russo [9] e giapponese [10]. L’edizione italiana del 2002
– tradotta da Margherita Zizi con il titolo “Il segreto svelato” – è purtroppo introvabile sul mercato.
Il volume si doveva intitolare,
in un primo tempo “The lost knowledge”,
ad indicare che per un lungo periodo (tra la seconda metà del Quattrocento fino
alla prima metà dell’Ottocento) l’impiego di strumenti ottici era stato parte
essenziale del fare pittura, e che gli artisti ne avevano perso conoscenza a
partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quando quelle tecniche erano state
di fatto sostituite dalla fotografia. A mio parere la scelta di Secret Knowledge (volta forse a generare
un alone di mistero nel lettore e a incrementare le vendite) non è stata
felice, perché ha creato la falsa impressione che la tesi di fondo del libro
sia che i pittori abbiano voluto volutamente ingannare il pubblico, utilizzando
trucchi che ne amplificavano le capacità manuali. È vero il contrario: per
Hockney, come vedremo, l’uso delle tecnologie è da sempre parte della
creatività. Egli stesso ne ha fatto uso, arrivando recentemente ad usare
Photoshop e l’Ipad come strumento di supporto alla sua pittura. L’ultima sua
mostra, Painting and Photography
tenutasi alla galleria Annely Juda Fine
Arts di Londra nel 2015, riflette sul ruolo che la nuova tecnologia ottica
delle immagini fotografiche tridimensionali avrà nello sviluppare una
combinazione di pittura e fotografia con molteplici e divergenti punti di fuga.
Le caratteristiche delle tecnologie ottiche sono dunque sempre state per lui
alla base della creazione e dell’innovazione artistica.
L’argomento centrale della tesi
di Hockney in Secret Knowledge è che
si può tracciare un discrimine, nella storia dell’arte, tra le epoche in cui i
pittori non fanno uso di strumenti ottici (e dunque affidano la riproduzione
della natura all’osservazione diretta oppure a tecniche geometriche di
prospettiva lineare, dopo la loro scoperta) e le epoche in cui essi si servono
invece di tecnologie ottiche – ovvero di “specchi
o lenti o di una loro combinazione” [11] – per poter più facilmente (e
soprattutto più rapidamente) riprodurre immagini esatte della realtà o (come le
chiama il pittore) “living projections”
[12]. Questo discrimine non è tuttavia fissato nel primo Ottocento, con
l’invenzione della camera lucida nel
1807 e degli stessi procedimenti fotografici intorno alla metà dell’Ottocento,
ma già nel Quattrocento (in particolare intorno al 1430), specificamente nei
Paesi Bassi. Dunque, così come la pittura rinascimentale beneficia di una
rivoluzione tecnologica con la diffusione della pittura ad olio, l’invenzione
della camera oscura e l’uso delle
lenti rappresentano per gli artisti di quell’epoca una seconda rivoluzione
tecnologica.
Le nuove tecnologie permettono ai
pittori di dipingere volti ed oggetti in modo preciso, senza bisogno di disegni
preparatori, tracciando linee direttamente sulla tela ricalcando le immagini
che essi riescono a proiettare sulla superficie del quadro. La proiezione
ottica delle immagini fornisce dunque all’artista due vantaggi: il disegno può
divenire più preciso e soprattutto più veloce, permettendo all’artista di
eseguire più opere in uno stesso lasso di tempo e dunque anche di assicurarsi
maggiori fonti di reddito. Alla diffusione degli strumenti ottici corrisponde anche
un cambiamento di stile, che non è solamente la conseguenza di una precisa
scelta estetica (il culto rinascimentale dell’imitazione della natura), ma
anche della disponibilità di nuovi strumenti manuali. Tutto il percorso
iconografico tra il 1400 ed il 1600 si spiega dunque con la capacità di
produrre immagini secondo tecniche che sempre più si evolvono e perfezionano.
Con la creazione della fotografia, molto più tardi, gli artisti si pongono il
problema contrario di diversificarsi dall’osservazione tecnologica della
realtà, e a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento abbandonano l’impiego
di ogni strumento ottico e fanno uso dell’osservazione diretta della natura,
quella che Hockney chiama ‘eyeballing’.
Quel che fa delle tesi di Hockney
un fenomeno molto singolare è che esse si basano su un radicale empirismo
scientifico, tipico della cultura anglosassone. Hockney identifica il corso
della pittura incrociando tra loro l’osservazione delle opere e la propria
esperienza pittorica. Si dedica infatti da sempre ad un’arte che è
particolarmente attenta ai fenomeni ottici. Le sue composizioni di foto
Polaroid dei primi anni Ottanta sono ispirate al progetto di produrre un’idea di
spazio attraverso la combinazione ed il contrasto di linee prospettiche e messe
a fuoco differenti. Negli anni in cui si dedica esclusivamente alle sue
ricerche di storia dell’arte, a partire dal 1999, smette di dipingere, come se
volesse decidere la direzione da prendere anche sulla base dello studio del
passato. In seguito, quando la diffusione dell’informatica rende disponibile le
tecniche che permettono a chiunque di produrre foto artefatte, decreta che il
compito di riprodurre la realtà spetta ormai alla pittura, e ritorna all’arte.
I maestri dell’arte e gli strumenti ottici: Ingres
Nel 1999 Hockney (che in quegli
anni vive in California) visita durante un soggiorno a Londra la mostra “Portraits by Ingres: Image of an Epoch”
alla National Gallery. È una mostra imponente (con un catalogo di circa 600
pagine [13]), una cui importante sezione è dedicata ai disegni che il pittore
francese realizza a Roma durante la lunga permanenza tra il 1806 ed il 1820,
ritraendo i giovani che vi si recavano in visita. Per i viaggiatori il ritratto
è un ricordo, simile a quello che si può ancora oggi ottenere in molti luoghi
turistici. Per Ingres si tratta di un’importante fonte di sostentamento
economico durante gli anni romani. Il pittore ha a propria disposizione
solamente qualche ora: sostanzialmente, li incontra durante la pausa del
pranzo.
Hockney ha una consolidata
esperienza come ritrattista e sa quanto sia difficile, anche per un grande
artista, creare un’immagine che sia non solo fedele, ma anche in grado di
tradurre visivamente la personalità del modello; conosce infatti le tecniche di
tutti i maggiori ritrattisti antichi e moderni. Si chiede dunque come Ingres –
che certo era un grande disegnatore - sia stato capace in poche ore di dar vita
a disegni che rivelino una caratterizzazione così tipica dei soggetti ritratti
e comincia a studiarli con gran cura. La sua attenzione si concentra sul ritratto
della Signora Godinot, eseguito nel 1829. Siamo prossimi agli ultimi anni prima
dell’invenzione della fotografia.
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Fig. 2) Ritrarre a matita con una camera lucida. Fonte: https://robinheyden.wordpress.com/2014/01/03/david-hockney-a-bigger-exhibition/ |
La risposta, a suo parere, è che i disegni di Ingres rivelano traccia dell’impiego della camera lucida, un attrezzo ottico inventato dal fisico William Hyde Wollaston nel 1807: si tratta di un prisma che, se utilizzato correttamente (bisogna inquadrare l’immagine secondo un angolo di 135 gradi), crea l’illusione ottica di una proiezione di tale immagine su una superficie; in tal modo il ritrattista può proiettare direttamente un’immagine virtuale sulla superficie su cui disegna e dunque lavorare senza dover produrre disegni preparatori. Come spiega lo storico dell’arte Martin Kemp, la scoperta dello strumento crea per la prima volta la possibilità di far uso di uno strumento ottico che al tempo stesso è portatile e non richiede di oscurare la luce [14]. Con la scoperta degli strumenti chimici per fissare le immagini su carta (la dagherrotipia, nel 1839), la camera lucida viene rapidamente superata. Hockney però ne conosce l’uso: ne ha acquistato un esemplare anni prima, e – anche se ne ha fatto uso solamente per poche ore – sa che può essere utilizzata per “fissare la posizione degli occhi, del naso e della bocca in modo molto accurato” [15]. L’impiego della camera lucida da parte di Ingres non è per Hockney un segno di debolezza, ma di forza: la funzione dell’artista (in una fase in cui il ritratto è ancora l’unico strumento disponibile per rappresentare l’immagine degli individui in una società dove si moltiplicano i potenziali clienti) è quella di produrre le migliori immagini nel minore tempo possibile. Inoltre, l’impiego della camera lucida è molto difficile e richiede grande perizia: “All’inizio, ho trovato la camera lucida molto difficile da usare. Non proietta un’immagine reale del soggetto, ma un’illusione di essa nell’occhio. Quando si muove la testa, ogni cosa si muove con essa, e l’artista deve imparare a prendere degli appunti molto velocemente” [16]. Hockney raffina l’uso della camera lucida, la sperimenta per alcune settimane ed impara a disegnare a gran velocità i ritratti dei guardiani della mostra, che visita più volte. Utilizzando lo strumento si rende conto di quanto l’esito dell’impiego degli strumenti ottici dipenda dall’illuminazione: “L’ottica richiede una forte illuminazione, ed un’illuminazione forte crea ombre profonde.” [17]
Ecco come Martin Kemp descrive
l’uso della camera lucida da parte di Hockney, in un saggio comparso nel 2000
[18], prima della pubblicazione di Secret Knowledge: “Hockney, che si è occupato in modo coerente dei problemi della visione,
rappresentazione, prospettiva, spazio e della camera, si è recentemente
focalizzato sull’invenzione di Wollaston per realizzare disegni di una serie di
ritratti. Al contrario di un artista inesperto che probabilmente avrebbe
tentato di realizzare un tratteggio preciso dei contorni, Hockney usa lo
strumento per un’osservazione veloce, delimitando i punti chiave delle fisionomia
a grande velocità, come gli angoli degli occhi e la linea della bocca. Il
vantaggio è che tali caratteristiche cruciali dell’espressione possono essere
fissati prima che l’espressione del soggetto ritratto si blocchi o si spenga.
Rimuovendo lo strumento, egli delinea poi le ombre ed i punti essenziali
attraverso un intenso processo di osservazione e raffigurazione, in cui il suo
sguardo oscilla incessantemente dalla faccia alla carta ad intervalli non più
lunghi di due secondi. Essere ritratti da Hockney è, come posso confermare, del
tutto simile ad essere l’oggetto del fuoco rapidissimo di un tiratore scelto di
prim’ordine” [19].
Ma quel che colpisce ancor di più
è che la logica della dimostrazione di Hockney risiede in ultimo nella sua
capacità sperimentale di riprodurre il medesimo risultato con gli stessi
strumenti e procedure. La sua è un’indagine galileiana, di tipo sperimentale,
del tutto empirica.
Riscrivere la storia dell’arte secondo un metodo sperimentale
Dall’incontro a Londra con i
disegni romani di Ingres nasce una lettura tutta personale dell’opera dei
grandi maestri da cui Hockney ricava la certezza, in una ricerca divenuta poi,
per sua stessa ammissione, un’ossessione (tra il 1999 ed il 2001 non dipinge
più, ma si dedica esclusivamente a studi sperimentali), che una lettura esperta
delle immagini pittoriche può rivelare, ancor più di qualsiasi altra
considerazione storica, l’impiego di strumenti ottici. Si concentra allora su
una serie di particolari della rappresentazione pittorica: le pieghe nei
vestiti, il luccichio delle armature, la morbidezza delle ali degli angeli, la
naturalezza delle nature morte, gli scorci più arditi, le curvature più
perfette. Identifica i casi in cui le immagini rivelano una particolare
capacità di rappresentare la realtà in modo accurato. Studia poi le proprietà
generali delle immagini riprodotte dai suoi colleghi nel corso dei secoli:
l’allineamento alla prospettiva lineare, la proporzione tra le parti del corpo,
il rapporto tra le figure nelle composizioni, la localizzazione delle fonti di
luce e l’impiego dell’ombra. Si concentra su tutti i casi che sembrano
presentare effetti speciali, come se il quadro fosse stato costruito ad arte in
modo complesso. Affianca fisicamente (in ordine cronologico) fra loro una
riproduzione a colori di tutti i quadri in cui all’accuratezza visiva
corrisponde anche la complessità della composizione, creando un “grande muro” (Great wall) di immagini, e da lì inizia
la sua analisi sulla storia dell’arte nel suo complesso. È quello il suo
strumento di riscrittura della storia dell’arte. Il suo è un metodo induttivo:
non è la storia dell’arte a rilevare le caratteristiche dei quadri, ma è la
lettura composta dei particolari che egli identifica in molti di essi a portare
a conseguenze generali.
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Fig. 4) Un particolare del Grande Muro esposto al DeYoung Museum di San Francisco per la mostra A Bigger Exhibition di David Hockney nel 2013. Fonte: https://twitter.com/rsimmon/status/414117367455973376 |
Non vi è dubbio che un tal metodo, di fatto ignorando la narrativa della storia dell’arte, non può che portare i critici a posizioni fra loro polarizzate. Il libro di Hockney crea un vero e proprio putiferio. Ci occuperemo nella terza parte di questo post della ricezione della critica, osservando sin d’ora che vi sono state due tipi di risposte: da un lato da parte di coloro che si sono concentrati sugli aspetti tecnici (le affermazioni sulle capacità degli strumenti ottici, spesso oggetto di controverifiche sperimentali) e dall’altro quelli che hanno operato facendo considerazioni su stile, iconografia e composizione. In particolare, concentreremo la nostra attenzione sul dibattito intorno all’impiego della camera oscura da parte di Caravaggio: qui vi sono coloro che ritengono che Hockney sia stato in grado di fornire un nuovo strumento di lettura del realismo caravaggesco e chi invece considera le sue tesi come del tutto banali o campate in aria.
Dopo aver collocato
cronologicamente sul Grande muro
tutte le opere da lui prese in esame, dal medioevo di carattere bizantino fino
al post-impressionismo, Hockney si accorge che numerose caratteristiche da lui
imputate alla presenza di tecnologie ottiche non si affermano gradualmente
nella presentazione dell’immagine pittorica: “l’aspetto ottico [optical look]
arriva all’improvviso ed è immediatamente coerente e completo. (…) L’istantaneità del cambiamento che ho potuto
constatare mi ha fatto pensare ad un’innovazione tecnica piuttosto che un nuovo
modo di osservare la natura che abbia poi portato ad uno sviluppo progressivo
delle capacità di disegno” [27]. Ed a suo parere ciò è il risultato della
diffusione dell’impiego di lenti e specchi da parte dei pittori nelle Fiandre
intorno al 1430 e la sua diffusione in Italia trent’anni dopo, grazie ad
Antonello da Messina [28]. In particolare, egli ipotizza che i pittori imparino
ad applicare lenti alle camere oscure, che già esistevano da secoli come
strumento di studio dell’immagine.
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Fig. 5) Disegno leonardesco di una camera oscura. Fonte: Karel Vereycken. Fonte: http://ddata.over-blog.com/xxxyyy/0/31/89/29/Fusion-104/F104.8.pdf |
Le camere oscure sono strumenti
che permettono di proiettare immagini tridimensionali (sia pur invertendole) su
superfici. Poiché si tratta di un fenomeno naturale, è stato oggetto di osservazione
fin dall’antichità: l’immagine capovolta di qualsiasi oggetto è proiettata
dalla luce attraverso fori molto piccoli applicati in ambienti oscurati. Se ai
fori si applicano delle lenti è possibile intensificare questo fenomeno
naturale, così da proiettare immagini ben più nette e metterle a fuoco, in modo
tale che esse risultino perfette (e dunque di qualità sostanzialmente
fotografica). L’impiego della camera oscura offre ai pittori la possibilità di
avere a propria disposizione un’immagine perfettamente bidimensionale del mondo
a tre dimensioni, superando le difficoltà di mettere in prospettiva gli oggetti
secondo i procedimenti geometrici della prospettiva lineare. E tuttavia, la
camera oscura pone anche loro di fronte ad altre difficoltà, come vedremo.
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Fig. 6) Reinerus Frisius Gemma, De Radio Astronomico et Geometrico (1545). Impiego di una camera oscura per studiare le macchie solari. Fonte: Wolfgang Levèvre (ed.) Inside the Camera Obscura – Optics and Art under the Spell of the Projected Image https://www.mpiwg-berlin.mpg.de/Preprints/P333.PDF |
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Fig. 7) Immagine di una camera oscura, con la cupola del Brunelleschi sullo sfondo, attribuito a Stefano della Bella (1610-1664), Libreria del Congresso, Washington (fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/Camera_obscura#/media/File:Camera_obscura2.jpg) |
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Fig. 8) Una camera oscura bidirezionale in un’incisione tratta dalla Ars Magna di Athanasius Kircher (1646) |
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Fig. 9) John Hinton, Rappresentazione di una camera oscura, Universal Magazin, 1752. |
Hockney ipotizza che i pittori si
siano serviti per secoli della camera oscura per dipingere direttamente su tela
(il procedimento non può essere utilizzato per l’affresco) gli elementi
fondamentali delle loro composizioni. Per poter dipingere scene complesse, essi
possono porre davanti alla camera oscura oggetti o persone uno alla volta,
combinandoli (si tratta, insomma, di una sorta di collage di immagini, molto
simile alla procedura che Hockney conosce bene con le sue composizioni di foto
Polaroid). In alternativa, gli artisti possono usare camere oscure mobili.
Secondo il pittore inglese, ad impiegare queste procedure sono stati, fra gli
altri, Memling, Bouts, van der Goes e van Eyck nel 1400, Holbein e Dürer nel
1500, e Caravaggio, Vermeer e Velázquez nel 1600. È il mondo barocco del
Seicento (ed in particolare Caravaggio) a fare l’uso più intenso degli effetti
speciali. La seconda parte di questo saggio sarà dedicata interamente all'uso di strumenti ottici da parte di Caravaggio secondo David Hockney e la studiosa italiana Roberta Lapucci. Vi sono ovviamente anche grandi pittori (Michelangelo, Poussin e
Rubens) ed intere scuole (quella dei Carracci) le cui opere non rivelano,
secondo Hockney, l’uso di tecniche ottiche: per loro valgono solamente i principi
dell’osservazione naturale e della prospettiva lineare. Anche in questo caso,
non vi è in Hockney alcun giudizio di valore: l’impiego delle tecnologie non
rappresenta una diminuzione delle capacità creative dell’artista, ma se mai il
riconoscimento della volontà di produrre effetti speciali che possano indurre
lo stupore del committente e del pubblico.
Ma come provare l’impiego delle
tecniche ottiche? Hockney sa bene che, quando si usano strumenti ottici (ed
anche una camera oscura), ad ogni movimento (un nuovo oggetto o persona posti davanti alla camera; uno spostamento della tela sul quale l’oggetto è
proiettato da una lente) corrisponde una modifica del fuoco dell’immagine.
Quando dunque si producono immagini complesse proiettate su tela grazie a questi
procedimenti, il risultato è di alterare le leggi prospettiche o di dipingere
corpi che rivelano imperfezioni nella proporzione degli arti. L’occhio di
Hockney identifica e studia molti di questi casi, insieme a Charles Falco, e
trae la conclusione che si tratta di immagini che non possono che essere
ricavate attraverso procedimenti ottici.
Uno dei casi su
cui più si sofferma è il dipinto Marito e
moglie di Lorenzo Lotto del 1543. L’attenzione è tutta sul tappeto sul
tavolo. Ecco come Jennifer Ouellette spiega il caso: “Per verificare la validità delle proprie ipotesi sull’uso di
dispositivi ottici da parte dei pittori del passato, Hockney ingaggiò il fisico
Charles Falco, professore di ottica all’Università dell’Arizona, per fargli
analizzare in maniera sistematica le distorsioni misurabili presenti nelle
opere misurate. «Sono le immagini stesse»,
afferma Falco, « a darti le prove, se solo le sai leggere ».
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Fig. 11) Lorenzo Lotto, Marito e Moglie, 1543. Il particolare della decorazione del tappeto. Fonte: http://www.cultorweb.com/ottica2/Pittori.html |
In Marito e moglie, dipinto intorno al 1543 dal pittore tardo-rinascimentale italiano
Lorenzo Lotto, il motivo geometrico del tappeto (che ricorda il buco di una
serratura) diventa sempre più sfocato man mano che si muove verso lo sfondo, ed
è curioso come nel bordo della trama siano chiaramente visibili due punti di
fuga. Se fosse stata usata una prospettiva lineare, la sfumatura del motivo
avrebbe proceduto lungo un’unica linea retta, secondo un punto di vista unico e
corrispondente all’unico punto di fuga. Invece il motivo del tappeto rappresenta
una discontinuità, superata la quale procede in una direzione leggermente
differente. Per Hockney e Falco questa è la prova che Lotto si servì di qualche
tipo di lente per proiettare e disegnare il motivo del tappeto, ma poi si rese
conto di non riuscire ad averlo tutto a fuoco contemporaneamente: perciò rimise
a fuoco la lente per completare la parte posteriore del tappeto, cambiando
punto di fuga e dipingendo quest’ultimo «sfocato» nel tentativo di
mascherare il trucco.” [29]
Un altro caso che attira
l’attenzione di Hockney è il quadro dei Coniugi
Arnolfini di Jan van Eyck. Dipinto nel 1434, rivela a suo parere la
scoperta nelle Fiandre delle nuove tecnologie ottiche, come del resto
testimoniato dallo specchio convesso (allora preziosissimo) in cui i coniugi
sono ritratti due volte (una prima volta di spalle e di nuovo su uno specchio
posto di fronte a loro).
Hockney scrive: “Questo è il matrimonio dei Coniugi
Arnolfini di van Eyck del 1434. Ho ammirato questo dipinto più a
lungo di qualsiasi altro in questo libro, e sono tornato ad ammirare
l’originale [nota del redattore: alla National Gallery di Londra] più di una volta. Ancora una volta, vi si
vede uno specchio convesso. Se uno ne invertisse l’argentatura e lo
trasformasse in specchio concavo, si otterrebbe tutto l’equipaggiamento
tecnologico indispensabile per riprodurre ogni dettaglio nel quadro con il
massimo del realismo. Il candeliere mi ha sempre affascinato. È stato prodotto
senza alcun disegno di base o correzione (è l’unico oggetto nel quadro ad
essere stato dipinto in tal modo), ed è stupefacente per il modo complicato con
cui è reso di scorcio. Van Eyck potrebbe aver appeso la tavola alla rovescia
vicino al foro d’osservazione della camera oscura ed averlo dipinto
direttamente, seguendo le forme che vedeva sulla superficie. Osservate come il
candeliere sia visto dall’alto (e non dal basso, come si potrebbe pensare).
Questo è precisamente l’effetto che si potrebbe attendere con uno
specchio-lente, che deve essere posto allo stesso livello degli oggetti che si vuol
disegnare o dipingere. Sarebbe stato un tema superbo per mostrare le sue
capacità. Gli artisti pensano a queste cose.” [30]
A queste parole sono seguiti
molti esperimenti per dimostrare o smentire l’ipotesi. Come vedremo nella
seconda parte, Hockney e Falco hanno calcolato l’esatta distanza focale dello
specchio concavo dal candeliere, ma il professore di fisica David G. Stork,
insieme ad un team di scienziati, è arrivato a diverse conclusioni e su quelle
basi ha proposto un’interpretazione del tutto diversa, basata sulla prospettiva
lineare [31]. Stork ha esaminato anche il quadro appena menzionato di Lorenzo
Lotto e molti dipinti di Caravaggio citati da Hockney, rigettando per tutti le
interpretazioni di Hockney e Falco. Ne è nata una disputa decennale.
Il ruolo della letteratura artistica
Lo scritto di Hockney appartiene,
senza alcun dubbio, alla letteratura artistica contemporanea. Ma qual è il
ruolo della letteratura artistica dei secoli passati? Si è già detto che, sulla
base dell’insegnamento di Longhi, Hockney crede che le immagini parlino più delle
testimonianze scritte, e che i veri documenti primari siano le pitture. E
tuttavia egli si rende conto che una delle obiezioni più facili alle sue tesi è
quella di chi gli rimprovera la scarsità di documenti primari. Dove sono le
prove documentali dell’epoca? Perché gli artisti non hanno mai descritto questo
procedure? Si può davvero credere che essi siano riusciti a mantenere per
secoli il segreto dell’uso delle tecnologie?
Il pittore risponde includendo in
Secret Knowledge una rassegna della
letteratura tra Cinquecento ed Ottocento, alternando i testi degli scienziati e
dei pittori e spiegando che essi rivelano la commistione tra il sapere degli
inventori delle lenti ed i produttori di immagini. Spiega che la conoscenza
delle caratteristiche di una camera oscura è antichissima (Bacone e Witelo la
testimoniano nel 1200), ma che la discussione dei temi della proiezione
dell’immagine viene sempre contraddistinta da grande prudenza (è facile essere
accusati di stregoneria in quei secoli). La scoperta dell’iterazione tra
caratteristiche delle lenti e leggi della prospettiva nel 1500 (Cardano,
Barbaro, Keplero) rende la discussione più tecnica. Particolarmente stimolante
è la discussione sull’impatto degli scritti di Giovan Battista Della Porta
sull’ambiente che circonda Caravaggio. Nel 1600 (Henry Wotton, Costantin
Huygens) e nel 1700 (Francesco Algarotti, Joshua Reynolds) il riferimento alla
camera oscura come strumento tecnico di larga diffusione diviene esplicito.
Le indagini dopo il 2001: l’ottica alla base dell’arte
L’edizione del 2006 offre una
trentina di pagine aggiuntive (pp. 199-231), che riflettono le nuove
riflessioni e sperimentazioni dell’artista. Leggendole, si ha la chiara
impressione che Hockney radicalizzi la sua interpretazione della storia
dell’arte. Se nel 2001 egli è convinto che lenti e specchi siano strumenti
aggiuntivi alla prospettiva lineare (e che dunque molti artisti fecero
solamente uso della prospettiva lineare, ignorando l’uso degli strumenti
ottici), nel 2006 egli è ormai certo che le caratteristiche fondamentali della
pittura rinascimentale (prospettiva e chiaroscuro) siano la conseguenza
inevitabile dell’introduzione dell’ottica in pittura. È convinto che la storia
del gusto artistico sia una conseguenza delle caratteristiche tecnologiche e
dei risultati degli strumenti via via disponibili ai pittori.
Arriva così a sostenere che
l’affermazione del chiaroscuro nell’arte è la conseguenza dell’uso di lenti e
specchi. Prima della diffusione di quegli strumenti (ed in tutte le culture
pittoriche che di essi non hanno fatto uso) le immagini sono tutte senza
ombre. È solo dall’epoca dell’impiego delle lenti che l’ombra diviene elemento
integrante della pittura. Per spiegarsene le ragioni, Hockney costruisce per se
una camera oscura portatile (del tipo già diffuso nel Settecento, all’epoca di
Canaletto) per sperimentare quale sia l’impatto delle condizioni di luce
esterna sulla qualità dell’immagine riprodotta su tela, e si dice stupefatto
che non solo la camera funzioni al meglio in presenza di una luce molto forte,
ma che – proprio in queste condizioni ottimali –l’immagine riflessa sia
caratterizzata da contrasti particolarmente forti tra le parti illuminate e
quelle in ombra [32]. Ne deriva la conclusione che la diffusione sempre più
ampia nella pittura del Cinquecento-Seicento delle parti in scuro è il
risultato non solamente del gusto estetico, ma anche degli strumenti tecnici
disponibili e del modo con i quali i pittori “vedono le cose” attraverso tali
strumenti.
Infine, egli si reca a Firenze
per riprodurre sperimentalmente la descrizione che Antonio Manetti offre di
come il Brunelleschi abbia dipinto il Battistero di Firenze su una tavola di
legno oggi andata perduta, ma descritta da Leon Battista Alberti come documento
di nascita, nel 1416, della piramide visiva e della prospettiva lineare.
Manetti spiega che Brunelleschi aveva prodotto in quell’immagine una veduta in
scorcio del Battistero di Firenze dall’interno del portale centrale di Santa
Maria del Fiore con l’aiuto di uno specchio concavo [33]. Hockney non solamente
prova che uno specchio concavo è sufficiente a riprodurre la prospettiva, ma, replicando l’esperimento, arriva alla conclusione che la scoperta della
piramide visiva e del punto di prospettiva è conseguenza diretta dello
strumento tecnico utilizzato (lo specchio concavo).
Insomma, nonostante polemiche e
scambi al vetriolo dopo la pubblicazione nel 2001, nella seconda edizione del
2006 tutte le sue conclusioni sono confermate ed anzi rafforzate.
Sono anzi poste le premesse per ulteriori sviluppi, documentati a
margine della già menzionata mostra del 2015. In essa egli rivela come la
combinazione della l’immagine pittorica e della fotografia possa superare la
prospettiva, facendo riferimento alle nuove tecnologie digitali
tridimensionali.
“I pittori hanno sempre saputo che vi è qualcosa di sbagliato nella
prospettiva. Il problema è costituito dalla relazione tra primo piano e punto
di fuga. Il motivo per il quale abbiamo la prospettiva con un punto di fuga è
che ha origine nell’ottica. Sono sicuro che fu quel che fece Brunelleschi. Usò
uno specchio concavo del diametro di cinque pollici [nota dell’editore: 12,7
centimetri] per proiettare il Battistero sulla sua tavola. Ciò rende automaticamente
un’immagine in prospettiva, così come farebbe una macchina fotografica. È
questa la ragione per la quale vi è sempre un vuoto tra voi ed il fotografo. Io
tolgo tale vuoto, per mettervi nel quadro. Ho fatto prima i quadri dei
giocatori di carte. Ciò mi ha aiutato a capire come fotografarli. Tutto nelle
fotografie è preso molto da vicino. Giacche, camicie e scarpe sono tutte
fotografate da vicino. Ogni fotografia ha un suo punto di fuga; in tal modo,
invece di un solo punto di fuga ottengo molti punti di fuga. È questo che
penso fornisca loro un effetto quasi tridimensionale senza occhiali 3D. Penso
di aprire la fotografia a qualcosa di nuovo.
NOTE
[1] Hockney, David – Secret Knowledge.
Rediscovering the lost techniques of the Old Masters, London, Thames and Hudson Ltd, 2001, 296 pagine.
[2] Hockney, David – Secret Knowledge.
Rediscovering the Lost Techniques of the Old Masters, New York, Viking Studio,
2006, 328 pagine.
[3] David Hockney's secret knowledge; Randall
Wright, film producer; Films for the Humanities (Firm); British Broadcasting
Corporation; BBC Worldwide Americas, Inc.; Princeton, N.J.; Films for the
Humanities and Sciences, ©2002.
[4] Hockney, David - Il segreto
svelato: tecniche e capolavori dei maestri antichi, Electa, 2002, 236 pagine.
[5] Hockney, David - Savoirs secrets: les
techniques perdues des maîtres anciens, Paris : Seuil, 2001, 296 pagine.
[6] Hockney, David - Geheimes Wissen: verlorene
Techniken der alten Meister, München, Knesebeck, 2001, 296 pagine.
[7] Hockney, David - El
conocimiento secreto: el redescubrimiento de las técnicas perdidas de los
grandes maestros, Barcelona, Ediciones Destino, 2003, 296 pagine.
[8] Hockney, David - O conhecimento
secreto: redescobrindo as técnicas perdidas dos grandes mestres, São Paulo,
Cosac Naify, 2001, 296 pagine.
[9] Хокни, Дэвид - Секреты
старых картин, Арт-родник, 2004, 236 pagine.
[10] デイヴィッド・ホックニ - , 秘密の知識,巨匠も用いた知られざる技術の解明 /青幻舎, 2006, 266 pagine.
[11] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 12
[12] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 12
[13] Il catalogo (nella
versione della mostra al Metropolitan di New York) è disponibile su internet
all’indirizzo https://archive.org/stream/PortraitsbyIngresImageofanEpoch#page/n3/mode/2up.
[14] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 260.
[15] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 260.
[16] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 12.
[17] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 13.
[18] Kemp, Martin – Visualizations: the Nature
Book of Art and Science, University of California Press, 2000, 202 pagine.
[19] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 261.
[20] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 23.
[21] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 23.
[22] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 26.
[23] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 26.
[24] Practice as research: approaches to
creative arts, edited by Estelle Barrett and Barbara Bolt, London, New York,
I.B. Tauris and Co Ltd, 2007, 205 pagine. Citazione a pagina 29.
[25] Practice as research:... (citato), p. 29.
[26] Practice as research:... (citato), p. 29.
[27] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 51.
[28] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 99.
[29] Ouellette, Jennifer -
Corpi neri e gatti quantistici. Storie dagli annali della fisica, Bari,
Edizioni Dedalo, 2009, 384 pagine. Citazione alle pagine 74-75.
[30] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 82.
[32] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 200.
[33] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006)
… (citato), p. 212
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