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venerdì 17 giugno 2016

David Hockney. Secret Knowledge, Rediscovering the Lost Techniques of the Old Masters, New York 2006. Parte Prima


English Version

David Hockney
Secret Knowledge, Rediscovering the Lost Techniques of the Old Masters
[Conoscenza segreta. Riscoprire le tecniche perdute degli antichi maestri]

Nuova edizione ampliata con 510 figure, di cui 442 a colori
New York, Viking Studio, 2006

Recensione di Francesco Mazzaferro
Parte Prima

[Versione originale: giugno-luglio 2016 - nuova versione aprile aprile 2019]

Fig. 1) Il libro di David Hockney nell’edizione ampliata del 2006

Pubblicato prima nel 2001 [1] e poi nel 2006 [2] in una nuova edizione ampliata, Secret Knowledge di David Hockney (1937-) è forse il caso più significativo di scritto d’arte di un pittore contemporaneo che ripercorre la storia della pittura secondo una propria chiave di lettura ed avvia non solamente una polemica, ma anche una lunga serie di studi da parte di chi sostiene o rigetta le sue tesi. Hockney, cui la Tate Modern si prepara a dedicare il prossimo anno un’importante retrospettiva in occasione dell’ottantesimo compleanno, ha ottenuto largo riscontro di pubblico (e grande notorietà) con il suo libro, tant’è che è d’obbligo segnalare, oltre alla diffusione di un documentario televisivo della BBC nel 2001 [3], anche le traduzioni – oltre che in italiano [4] – in francese [5], tedesco [6], spagnolo [7], portoghese [8], russo [9] e giapponese [10]. L’edizione italiana del 2002 – tradotta da Margherita Zizi con il titolo “Il segreto svelato” – è purtroppo introvabile sul mercato.

Il volume si doveva intitolare, in un primo tempo “The lost knowledge”, ad indicare che per un lungo periodo (tra la seconda metà del Quattrocento fino alla prima metà dell’Ottocento) l’impiego di strumenti ottici era stato parte essenziale del fare pittura, e che gli artisti ne avevano perso conoscenza a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, quando quelle tecniche erano state di fatto sostituite dalla fotografia. A mio parere la scelta di Secret Knowledge (volta forse a generare un alone di mistero nel lettore e a incrementare le vendite) non è stata felice, perché ha creato la falsa impressione che la tesi di fondo del libro sia che i pittori abbiano voluto volutamente ingannare il pubblico, utilizzando trucchi che ne amplificavano le capacità manuali. È vero il contrario: per Hockney, come vedremo, l’uso delle tecnologie è da sempre parte della creatività. Egli stesso ne ha fatto uso, arrivando recentemente ad usare Photoshop e l’Ipad come strumento di supporto alla sua pittura. L’ultima sua mostra, Painting and Photography tenutasi alla galleria Annely Juda Fine Arts di Londra nel 2015, riflette sul ruolo che la nuova tecnologia ottica delle immagini fotografiche tridimensionali avrà nello sviluppare una combinazione di pittura e fotografia con molteplici e divergenti punti di fuga. Le caratteristiche delle tecnologie ottiche sono dunque sempre state per lui alla base della creazione e dell’innovazione artistica.

L’argomento centrale della tesi di Hockney in Secret Knowledge è che si può tracciare un discrimine, nella storia dell’arte, tra le epoche in cui i pittori non fanno uso di strumenti ottici (e dunque affidano la riproduzione della natura all’osservazione diretta oppure a tecniche geometriche di prospettiva lineare, dopo la loro scoperta) e le epoche in cui essi si servono invece di tecnologie ottiche – ovvero di “specchi o lenti o di una loro combinazione” [11] – per poter più facilmente (e soprattutto più rapidamente) riprodurre immagini esatte della realtà o (come le chiama il pittore) “living projections” [12]. Questo discrimine non è tuttavia fissato nel primo Ottocento, con l’invenzione della camera lucida nel 1807 e degli stessi procedimenti fotografici intorno alla metà dell’Ottocento, ma già nel Quattrocento (in particolare intorno al 1430), specificamente nei Paesi Bassi. Dunque, così come la pittura rinascimentale beneficia di una rivoluzione tecnologica con la diffusione della pittura ad olio, l’invenzione della camera oscura e l’uso delle lenti rappresentano per gli artisti di quell’epoca una seconda rivoluzione tecnologica.

Le nuove tecnologie permettono ai pittori di dipingere volti ed oggetti in modo preciso, senza bisogno di disegni preparatori, tracciando linee direttamente sulla tela ricalcando le immagini che essi riescono a proiettare sulla superficie del quadro. La proiezione ottica delle immagini fornisce dunque all’artista due vantaggi: il disegno può divenire più preciso e soprattutto più veloce, permettendo all’artista di eseguire più opere in uno stesso lasso di tempo e dunque anche di assicurarsi maggiori fonti di reddito. Alla diffusione degli strumenti ottici corrisponde anche un cambiamento di stile, che non è solamente la conseguenza di una precisa scelta estetica (il culto rinascimentale dell’imitazione della natura), ma anche della disponibilità di nuovi strumenti manuali. Tutto il percorso iconografico tra il 1400 ed il 1600 si spiega dunque con la capacità di produrre immagini secondo tecniche che sempre più si evolvono e perfezionano. Con la creazione della fotografia, molto più tardi, gli artisti si pongono il problema contrario di diversificarsi dall’osservazione tecnologica della realtà, e a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento abbandonano l’impiego di ogni strumento ottico e fanno uso dell’osservazione diretta della natura, quella che Hockney chiama ‘eyeballing’.

Quel che fa delle tesi di Hockney un fenomeno molto singolare è che esse si basano su un radicale empirismo scientifico, tipico della cultura anglosassone. Hockney identifica il corso della pittura incrociando tra loro l’osservazione delle opere e la propria esperienza pittorica. Si dedica infatti da sempre ad un’arte che è particolarmente attenta ai fenomeni ottici. Le sue composizioni di foto Polaroid dei primi anni Ottanta sono ispirate al progetto di produrre un’idea di spazio attraverso la combinazione ed il contrasto di linee prospettiche e messe a fuoco differenti. Negli anni in cui si dedica esclusivamente alle sue ricerche di storia dell’arte, a partire dal 1999, smette di dipingere, come se volesse decidere la direzione da prendere anche sulla base dello studio del passato. In seguito, quando la diffusione dell’informatica rende disponibile le tecniche che permettono a chiunque di produrre foto artefatte, decreta che il compito di riprodurre la realtà spetta ormai alla pittura, e ritorna all’arte.

I maestri dell’arte e gli strumenti ottici: Ingres

Nel 1999 Hockney (che in quegli anni vive in California) visita durante un soggiorno a Londra la mostra “Portraits by Ingres: Image of an Epoch” alla National Gallery. È una mostra imponente (con un catalogo di circa 600 pagine [13]), una cui importante sezione è dedicata ai disegni che il pittore francese realizza a Roma durante la lunga permanenza tra il 1806 ed il 1820, ritraendo i giovani che vi si recavano in visita. Per i viaggiatori il ritratto è un ricordo, simile a quello che si può ancora oggi ottenere in molti luoghi turistici. Per Ingres si tratta di un’importante fonte di sostentamento economico durante gli anni romani. Il pittore ha a propria disposizione solamente qualche ora: sostanzialmente, li incontra durante la pausa del pranzo.

Hockney ha una consolidata esperienza come ritrattista e sa quanto sia difficile, anche per un grande artista, creare un’immagine che sia non solo fedele, ma anche in grado di tradurre visivamente la personalità del modello; conosce infatti le tecniche di tutti i maggiori ritrattisti antichi e moderni. Si chiede dunque come Ingres – che certo era un grande disegnatore - sia stato capace in poche ore di dar vita a disegni che rivelino una caratterizzazione così tipica dei soggetti ritratti e comincia a studiarli con gran cura. La sua attenzione si concentra sul ritratto della Signora Godinot, eseguito nel 1829. Siamo prossimi agli ultimi anni prima dell’invenzione della fotografia.

Fig. 2) Ritrarre a matita con una camera lucida.
Fonte: https://robinheyden.wordpress.com/2014/01/03/david-hockney-a-bigger-exhibition/

La risposta, a suo parere, è che i disegni di Ingres rivelano traccia dell’impiego della camera lucida, un attrezzo ottico inventato dal fisico William Hyde Wollaston nel 1807: si tratta di un prisma che, se utilizzato correttamente (bisogna inquadrare l’immagine secondo un angolo di 135 gradi), crea l’illusione ottica di una proiezione di tale immagine su una superficie; in tal modo il ritrattista può proiettare direttamente un’immagine virtuale sulla superficie su cui disegna e dunque lavorare senza dover produrre disegni preparatori. Come spiega lo storico dell’arte Martin Kemp, la scoperta dello strumento crea per la prima volta la possibilità di far uso di uno strumento ottico che al tempo stesso è portatile e non richiede di oscurare la luce [14]. Con la scoperta degli strumenti chimici per fissare le immagini su carta (la dagherrotipia, nel 1839), la camera lucida viene rapidamente superata. Hockney però ne conosce l’uso: ne ha acquistato un esemplare anni prima, e – anche se ne ha fatto uso solamente per poche ore – sa che può essere utilizzata per “fissare la posizione degli occhi, del naso e della bocca in modo molto accurato” [15]. L’impiego della camera lucida da parte di Ingres non è per Hockney un segno di debolezza, ma di forza: la funzione dell’artista (in una fase in cui il ritratto è ancora l’unico strumento disponibile per rappresentare l’immagine degli individui in una società dove si moltiplicano i potenziali clienti) è quella di produrre le migliori immagini nel minore tempo possibile. Inoltre, l’impiego della camera lucida è molto difficile e richiede grande perizia: “All’inizio, ho trovato la camera lucida molto difficile da usare. Non proietta un’immagine reale del soggetto, ma un’illusione di essa nell’occhio. Quando si muove la testa, ogni cosa si muove con essa, e l’artista deve imparare a prendere degli appunti molto velocemente” [16]. Hockney raffina l’uso della camera lucida, la sperimenta per alcune settimane ed impara a disegnare a gran velocità i ritratti dei guardiani della mostra, che visita più volte. Utilizzando lo strumento si rende conto di quanto l’esito dell’impiego degli strumenti ottici dipenda dall’illuminazione: “L’ottica richiede una forte illuminazione, ed un’illuminazione forte crea ombre profonde.” [17]

Fig. 3) Un’incisione del 1830, che mostra l’impiego della camera lucida da parte di un ritrattista

Ecco come Martin Kemp descrive l’uso della camera lucida da parte di Hockney, in un saggio comparso nel 2000 [18], prima della pubblicazione di Secret Knowledge: “Hockney, che si è occupato in modo coerente dei problemi della visione, rappresentazione, prospettiva, spazio e della camera, si è recentemente focalizzato sull’invenzione di Wollaston per realizzare disegni di una serie di ritratti. Al contrario di un artista inesperto che probabilmente avrebbe tentato di realizzare un tratteggio preciso dei contorni, Hockney usa lo strumento per un’osservazione veloce, delimitando i punti chiave delle fisionomia a grande velocità, come gli angoli degli occhi e la linea della bocca. Il vantaggio è che tali caratteristiche cruciali dell’espressione possono essere fissati prima che l’espressione del soggetto ritratto si blocchi o si spenga. Rimuovendo lo strumento, egli delinea poi le ombre ed i punti essenziali attraverso un intenso processo di osservazione e raffigurazione, in cui il suo sguardo oscilla incessantemente dalla faccia alla carta ad intervalli non più lunghi di due secondi. Essere ritratti da Hockney è, come posso confermare, del tutto simile ad essere l’oggetto del fuoco rapidissimo di un tiratore scelto di prim’ordine” [19].

Quali sono gli elementi che portano Hockney a credere che Ingres abbia fatto uso di strumenti ottici, oltre alle considerazioni sull’incredibile velocità della produzione dei disegni? Ve ne sono due. In primo luogo, la sproporzione tra volto e corpo (Hockney crea elettronicamente un’immagine alterata del ritratto di Ingres della Signora Godinot con il volto ridotto dell’8% e mostra che l’immagine è molto più equilibrata). A suo parere è il segno che l’artista ha prima usato la camera lucida per annotare le fattezze del volto (in qualche minuto) e poi completato a vista l’immagine del volto (sulla base della sua esperienza la precisione del ritratto e la delicatezza del disegno richiedono una-due ore di lavoro) [20].

Egli ipotizza che Ingres abbia poi ripreso la camera lucida per tratteggiare il corpo e finire rapidamente il ritratto, sempre in qualche minuto; spostando l’angolo, il pittore ha però lievemente modificato l’ingrandimento, con la conseguenza che volto e corpo non sono più perfettamente proporzionati. È un’osservazione di cui può accorgersi solo un artista come Hockney, abituato a costruire ritratti combinando una serie d’immagini con un fuoco intenzionalmente diverso.

Ed è qui che emerge il secondo indizio. Manca infatti nel tracciato (molto più sommario) del disegno del corpo della Signora Godinot ogni tentativo da parte di Ingres di procedere per tentativi, o “a tentoni” (è la traduzione di Margherita Zizi dell’espressione inglese “to grope for”). Il disegno è sicuro e richiama le procedure usate da Andy Warhol, che – per le sue nature morte – utilizza fin dagli anni Cinquanta un episcopio per proiettare l’immagine di un oggetto su carta. Qui il pittore entra letteralmente nel particolare, ingrandendo l’originale del ritratto di Ingres e una natura morta di Warhol. Entrambi gli ingrandimenti rivelano un’esecuzione tecnica “tratteggiata con sicurezza e con linee continue” [21]. Inoltre, in Ingres, il tratto superiore del polsino sinistro della Signora Godinot non è tratteggiato, e il disegno prosegue direttamente dal polsino alle pieghe delle maniche; allo stesso modo in Warhol il contorno della sfera di cristallo non viene disegnato in basso, ma continua direttamente nell’ombra sul tavolo. In entrambi i casi, per Hockney, ciò rivela che il disegno è effettuato in tempi contingentati e con l’aiuto di una proiezione dell’immagine.

All’inedito binomio Ingres-Warhol Hockney contrappone tre disegni sempre di Ingres, che sono però “sono tutti studi dal vero” (l’espressione inglese è ‘eyeballed’). “Le linee sono cercate "a tratti", vi sono segni di esitazione. L'espressione ‘a tratti’ suggerisce l'incertezza: ‘Qual è esattamente la posizione corretta?’ sembra chiedersi l'artista. Si osservi la differenza tra le linee nei disegni qui sotto (disegnati nel modo convenzionale, ‘dal vero’), con quelle dell'immagine riprodotta sopra, tratteggiata con sicurezza e con linee continue.” [22]

Infatti, ai tre disegni dal vero viene messo in corrispondenza il ritratto della moglie di Charles Hayard, eseguito da Ingres nel 1812. “I contorni qui non appaiono affatto delineati ‘a tratti’: il disegno ha lo stesso aspetto delle forme ricalcate di Andy Warhol. Ogni linea disegnata ha una velocità che può in genere essere dedotta: ha un principio e una fine, e pertanto rappresenta il tempo oltreché lo spazio. Anche il ricalco di una fotografia contiene più ‘tempo’ della foto originale (che rappresenta appena una frazione di secondo), perché la mano ha bisogno di tempo per eseguirlo.” [23]

È una prova sufficiente? Critica ed opinione pubblica si sono divise, come vedremo. Piuttosto che esprimere un giudizio, vorrei qui sottolineare alcuni aspetti concettuali e di merito. Primo: il compito primario dell’artista è quello di produrre delle immagini. Per secoli è stato l’unico soggetto capace di svolgere questa funzione sociale. Secondo: il tempo è denaro, sia per l’artista che, in questo caso, per il soggetto ritratto. Terzo: l’arte è parte dell’innovazione tecnologica del suo tempo. Quarto: l’uso di tecniche per migliorare la produttività da parte dell’artista è parte del suo genio e delle sue abilità manuali. Quinto: la prova dell’uso delle tecniche va ricercata in primo luogo nelle immagini (Hockney cita più volte il metodo di Roberto Longhi ed il valore che quest’ultimo attribuisce all’immagine come fonte primaria).


Ma quel che colpisce ancor di più è che la logica della dimostrazione di Hockney risiede in ultimo nella sua capacità sperimentale di riprodurre il medesimo risultato con gli stessi strumenti e procedure. La sua è un’indagine galileiana, di tipo sperimentale, del tutto empirica.

Barbara Bolt [24], una “pittrice filosofa” contemporanea, per usare un’espressione ai suoi tempi impiegata per Poussin (è al tempo stesso un’affermata pittrice e studiosa di estetica e filosofia), ha analizzato il metodo del pittore inglese nel saggio “The magic is in handling” del 2010. Hockney si rende infatti conto di possedere, grazie all’esercizio pluridecennale della sua professione, un occhio particolarmente addestrato alla lettura dell’opera; una dote che, ad esempio, non è utilizzabile da qualsiasi critico d’arte). Incrocia allora tali capacità con lo studio delle tecniche ottiche, la visione degli originali, la ricerca di testi originali d’artisti, il confronto con studiosi d’ottica e la riproduzione sperimentale di disegni, creando quella che la Bolt definisce “a complex and idiosyncratic methodology”. Oggi il contenuto della tesi di Hockney è conosciuto come “la tesi di Hockney e Falco”, perché è stata elaborata anche dal fisico Charles M. Falco. Ma qui il punto è soprattutto sul metodo d’indagine sull’arte: un “metodo Hockney” che ha dato il via ad un’infinità di prove sperimentali nel tentativo di riprodurre, confermare o screditare i risultati. Scrive la Bolt: “Gli argomenti visivi di Hockney dimostrano la doppia articolazione tra teoria e pratica, dove la teoria emerge da un uso riflettuto della pratica ed al tempo stesso la pratica è informata dalla teoria” [25]. Le conseguenze sono ancora più profonde: “La sua tesi dimostra la natura materiale del pensiero visivo. Che uno sia d’accordo oppure no con le conclusioni che Hockney trae in Secret Kowledge (e la critica al suo lavoro è stata forte) le sue considerazioni mostrano una forma di saper fare molto specifico, un saper fare che ha origine nel trattare i materiali in pratica. Questa forma di conoscenza tacita offre un modo molto specifico di conoscere il mondo, che si basa sulla pratica materiale (...)” [26]



Riscrivere la storia dell’arte secondo un metodo sperimentale

Dall’incontro a Londra con i disegni romani di Ingres nasce una lettura tutta personale dell’opera dei grandi maestri da cui Hockney ricava la certezza, in una ricerca divenuta poi, per sua stessa ammissione, un’ossessione (tra il 1999 ed il 2001 non dipinge più, ma si dedica esclusivamente a studi sperimentali), che una lettura esperta delle immagini pittoriche può rivelare, ancor più di qualsiasi altra considerazione storica, l’impiego di strumenti ottici. Si concentra allora su una serie di particolari della rappresentazione pittorica: le pieghe nei vestiti, il luccichio delle armature, la morbidezza delle ali degli angeli, la naturalezza delle nature morte, gli scorci più arditi, le curvature più perfette. Identifica i casi in cui le immagini rivelano una particolare capacità di rappresentare la realtà in modo accurato. Studia poi le proprietà generali delle immagini riprodotte dai suoi colleghi nel corso dei secoli: l’allineamento alla prospettiva lineare, la proporzione tra le parti del corpo, il rapporto tra le figure nelle composizioni, la localizzazione delle fonti di luce e l’impiego dell’ombra. Si concentra su tutti i casi che sembrano presentare effetti speciali, come se il quadro fosse stato costruito ad arte in modo complesso. Affianca fisicamente (in ordine cronologico) fra loro una riproduzione a colori di tutti i quadri in cui all’accuratezza visiva corrisponde anche la complessità della composizione, creando un “grande muro” (Great wall) di immagini, e da lì inizia la sua analisi sulla storia dell’arte nel suo complesso. È quello il suo strumento di riscrittura della storia dell’arte. Il suo è un metodo induttivo: non è la storia dell’arte a rilevare le caratteristiche dei quadri, ma è la lettura composta dei particolari che egli identifica in molti di essi a portare a conseguenze generali.

Fig. 4) Un particolare del Grande Muro esposto al DeYoung Museum di San Francisco
per la mostra A Bigger Exhibition di David Hockney nel 2013.
Fonte: https://twitter.com/rsimmon/status/414117367455973376

Non vi è dubbio che un tal metodo, di fatto ignorando la narrativa della storia dell’arte, non può che portare i critici a posizioni fra loro polarizzate. Il libro di Hockney crea un vero e proprio putiferio. Ci occuperemo nella terza parte di questo post della ricezione della critica, osservando sin d’ora che vi sono state due tipi di risposte: da un lato da parte di coloro che si sono concentrati sugli aspetti tecnici (le affermazioni sulle capacità degli strumenti ottici, spesso oggetto di controverifiche sperimentali) e dall’altro quelli che hanno operato facendo considerazioni su stile, iconografia e composizione. In particolare, concentreremo la nostra attenzione sul dibattito intorno all’impiego della camera oscura da parte di Caravaggio: qui vi sono coloro che ritengono che Hockney sia stato in grado di fornire un nuovo strumento di lettura del realismo caravaggesco e chi invece considera le sue tesi come del tutto banali o campate in aria.

Dopo aver collocato cronologicamente sul Grande muro tutte le opere da lui prese in esame, dal medioevo di carattere bizantino fino al post-impressionismo, Hockney si accorge che numerose caratteristiche da lui imputate alla presenza di tecnologie ottiche non si affermano gradualmente nella presentazione dell’immagine pittorica: “l’aspetto ottico [optical look] arriva all’improvviso ed è immediatamente coerente e completo. (…) L’istantaneità del cambiamento che ho potuto constatare mi ha fatto pensare ad un’innovazione tecnica piuttosto che un nuovo modo di osservare la natura che abbia poi portato ad uno sviluppo progressivo delle capacità di disegno” [27]. Ed a suo parere ciò è il risultato della diffusione dell’impiego di lenti e specchi da parte dei pittori nelle Fiandre intorno al 1430 e la sua diffusione in Italia trent’anni dopo, grazie ad Antonello da Messina [28]. In particolare, egli ipotizza che i pittori imparino ad applicare lenti alle camere oscure, che già esistevano da secoli come strumento di studio dell’immagine.

Fig. 5) Disegno leonardesco di una camera oscura.
Fonte: Karel Vereycken. Fonte: http://ddata.over-blog.com/xxxyyy/0/31/89/29/Fusion-104/F104.8.pdf

Le camere oscure sono strumenti che permettono di proiettare immagini tridimensionali (sia pur invertendole) su superfici. Poiché si tratta di un fenomeno naturale, è stato oggetto di osservazione fin dall’antichità: l’immagine capovolta di qualsiasi oggetto è proiettata dalla luce attraverso fori molto piccoli applicati in ambienti oscurati. Se ai fori si applicano delle lenti è possibile intensificare questo fenomeno naturale, così da proiettare immagini ben più nette e metterle a fuoco, in modo tale che esse risultino perfette (e dunque di qualità sostanzialmente fotografica). L’impiego della camera oscura offre ai pittori la possibilità di avere a propria disposizione un’immagine perfettamente bidimensionale del mondo a tre dimensioni, superando le difficoltà di mettere in prospettiva gli oggetti secondo i procedimenti geometrici della prospettiva lineare. E tuttavia, la camera oscura pone anche loro di fronte ad altre difficoltà, come vedremo.
Fig. 6) Reinerus Frisius Gemma, De Radio Astronomico et Geometrico (1545).
Impiego di una camera oscura per studiare le macchie solari.
Fonte: Wolfgang Levèvre (ed.) Inside the Camera Obscura – Optics and Art under the Spell of the Projected Image https://www.mpiwg-berlin.mpg.de/Preprints/P333.PDF
Fig. 7) Immagine di una camera oscura, con la cupola del Brunelleschi sullo sfondo,
attribuito a Stefano della Bella (1610-1664), Libreria del Congresso, Washington
(fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/Camera_obscura#/media/File:Camera_obscura2.jpg)
Fig. 8) Una camera oscura bidirezionale in un’incisione tratta dalla Ars Magna di Athanasius Kircher (1646)
Fig. 9) John Hinton, Rappresentazione di una camera oscura, Universal Magazin, 1752.

Hockney ipotizza che i pittori si siano serviti per secoli della camera oscura per dipingere direttamente su tela (il procedimento non può essere utilizzato per l’affresco) gli elementi fondamentali delle loro composizioni. Per poter dipingere scene complesse, essi possono porre davanti alla camera oscura oggetti o persone uno alla volta, combinandoli (si tratta, insomma, di una sorta di collage di immagini, molto simile alla procedura che Hockney conosce bene con le sue composizioni di foto Polaroid). In alternativa, gli artisti possono usare camere oscure mobili. Secondo il pittore inglese, ad impiegare queste procedure sono stati, fra gli altri, Memling, Bouts, van der Goes e van Eyck nel 1400, Holbein e Dürer nel 1500, e Caravaggio, Vermeer e Velázquez nel 1600. È il mondo barocco del Seicento (ed in particolare Caravaggio) a fare l’uso più intenso degli effetti speciali. La seconda parte di questo saggio sarà dedicata interamente all'uso di strumenti ottici da parte di Caravaggio secondo David Hockney e la studiosa italiana Roberta Lapucci. Vi sono ovviamente anche grandi pittori (Michelangelo, Poussin e Rubens) ed intere scuole (quella dei Carracci) le cui opere non rivelano, secondo Hockney, l’uso di tecniche ottiche: per loro valgono solamente i principi dell’osservazione naturale e della prospettiva lineare. Anche in questo caso, non vi è in Hockney alcun giudizio di valore: l’impiego delle tecnologie non rappresenta una diminuzione delle capacità creative dell’artista, ma se mai il riconoscimento della volontà di produrre effetti speciali che possano indurre lo stupore del committente e del pubblico.

Ma come provare l’impiego delle tecniche ottiche? Hockney sa bene che, quando si usano strumenti ottici (ed anche una camera oscura), ad ogni movimento (un nuovo oggetto o persona posti davanti alla camera; uno spostamento della tela sul quale l’oggetto è proiettato da una lente) corrisponde una modifica del fuoco dell’immagine. Quando dunque si producono immagini complesse proiettate su tela grazie a questi procedimenti, il risultato è di alterare le leggi prospettiche o di dipingere corpi che rivelano imperfezioni nella proporzione degli arti. L’occhio di Hockney identifica e studia molti di questi casi, insieme a Charles Falco, e trae la conclusione che si tratta di immagini che non possono che essere ricavate attraverso procedimenti ottici.

Fig. 10) Lorenzo Lotto, Marito e Moglie, 1543. Fonte: Wikimedia Commons

Uno dei casi su cui più si sofferma è il dipinto Marito e moglie di Lorenzo Lotto del 1543. L’attenzione è tutta sul tappeto sul tavolo. Ecco come Jennifer Ouellette spiega il caso: “Per verificare la validità delle proprie ipotesi sull’uso di dispositivi ottici da parte dei pittori del passato, Hockney ingaggiò il fisico Charles Falco, professore di ottica all’Università dell’Arizona, per fargli analizzare in maniera sistematica le distorsioni misurabili presenti nelle opere misurate. «Sono le immagini stesse», afferma Falco, « a darti le prove, se solo le sai leggere ».


Fig. 11) Lorenzo Lotto, Marito e Moglie, 1543. Il particolare della decorazione del tappeto.
Fonte: http://www.cultorweb.com/ottica2/Pittori.html

In Marito e moglie, dipinto intorno al 1543 dal pittore tardo-rinascimentale italiano Lorenzo Lotto, il motivo geometrico del tappeto (che ricorda il buco di una serratura) diventa sempre più sfocato man mano che si muove verso lo sfondo, ed è curioso come nel bordo della trama siano chiaramente visibili due punti di fuga. Se fosse stata usata una prospettiva lineare, la sfumatura del motivo avrebbe proceduto lungo un’unica linea retta, secondo un punto di vista unico e corrispondente all’unico punto di fuga. Invece il motivo del tappeto rappresenta una discontinuità, superata la quale procede in una direzione leggermente differente. Per Hockney e Falco questa è la prova che Lotto si servì di qualche tipo di lente per proiettare e disegnare il motivo del tappeto, ma poi si rese conto di non riuscire ad averlo tutto a fuoco contemporaneamente: perciò rimise a fuoco la lente per completare la parte posteriore del tappeto, cambiando punto di fuga e dipingendo quest’ultimo «sfocato» nel tentativo di mascherare il trucco.” [29]

Fig. 12) I due punti di fuga sul tappeto.
Fonte: http://www.cultorweb.com/ottica2/Pittori.html

Un altro caso che attira l’attenzione di Hockney è il quadro dei Coniugi Arnolfini di Jan van Eyck. Dipinto nel 1434, rivela a suo parere la scoperta nelle Fiandre delle nuove tecnologie ottiche, come del resto testimoniato dallo specchio convesso (allora preziosissimo) in cui i coniugi sono ritratti due volte (una prima volta di spalle e di nuovo su uno specchio posto di fronte a loro).

Fig. 13) Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, 1434. Fonte: Wikimedia Commons

Hockney scrive: “Questo è il matrimonio dei Coniugi Arnolfini di van Eyck del 1434. Ho ammirato questo dipinto più a lungo di qualsiasi altro in questo libro, e sono tornato ad ammirare l’originale [nota del redattore: alla National Gallery di Londra] più di una volta. Ancora una volta, vi si vede uno specchio convesso. Se uno ne invertisse l’argentatura e lo trasformasse in specchio concavo, si otterrebbe tutto l’equipaggiamento tecnologico indispensabile per riprodurre ogni dettaglio nel quadro con il massimo del realismo. Il candeliere mi ha sempre affascinato. È stato prodotto senza alcun disegno di base o correzione (è l’unico oggetto nel quadro ad essere stato dipinto in tal modo), ed è stupefacente per il modo complicato con cui è reso di scorcio. Van Eyck potrebbe aver appeso la tavola alla rovescia vicino al foro d’osservazione della camera oscura ed averlo dipinto direttamente, seguendo le forme che vedeva sulla superficie. Osservate come il candeliere sia visto dall’alto (e non dal basso, come si potrebbe pensare). Questo è precisamente l’effetto che si potrebbe attendere con uno specchio-lente, che deve essere posto allo stesso livello degli oggetti che si vuol disegnare o dipingere. Sarebbe stato un tema superbo per mostrare le sue capacità. Gli artisti pensano a queste cose.” [30]

Fig. 14) Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, particolare, 1434

A queste parole sono seguiti molti esperimenti per dimostrare o smentire l’ipotesi. Come vedremo nella seconda parte, Hockney e Falco hanno calcolato l’esatta distanza focale dello specchio concavo dal candeliere, ma il professore di fisica David G. Stork, insieme ad un team di scienziati, è arrivato a diverse conclusioni e su quelle basi ha proposto un’interpretazione del tutto diversa, basata sulla prospettiva lineare [31]. Stork ha esaminato anche il quadro appena menzionato di Lorenzo Lotto e molti dipinti di Caravaggio citati da Hockney, rigettando per tutti le interpretazioni di Hockney e Falco. Ne è nata una disputa decennale.

Fig. 15) Jan Van Eyck, Ritratto dei coniugi Arnolfini, particolare, 1434

Il ruolo della letteratura artistica

Lo scritto di Hockney appartiene, senza alcun dubbio, alla letteratura artistica contemporanea. Ma qual è il ruolo della letteratura artistica dei secoli passati? Si è già detto che, sulla base dell’insegnamento di Longhi, Hockney crede che le immagini parlino più delle testimonianze scritte, e che i veri documenti primari siano le pitture. E tuttavia egli si rende conto che una delle obiezioni più facili alle sue tesi è quella di chi gli rimprovera la scarsità di documenti primari. Dove sono le prove documentali dell’epoca? Perché gli artisti non hanno mai descritto questo procedure? Si può davvero credere che essi siano riusciti a mantenere per secoli il segreto dell’uso delle tecnologie?

Il pittore risponde includendo in Secret Knowledge una rassegna della letteratura tra Cinquecento ed Ottocento, alternando i testi degli scienziati e dei pittori e spiegando che essi rivelano la commistione tra il sapere degli inventori delle lenti ed i produttori di immagini. Spiega che la conoscenza delle caratteristiche di una camera oscura è antichissima (Bacone e Witelo la testimoniano nel 1200), ma che la discussione dei temi della proiezione dell’immagine viene sempre contraddistinta da grande prudenza (è facile essere accusati di stregoneria in quei secoli). La scoperta dell’iterazione tra caratteristiche delle lenti e leggi della prospettiva nel 1500 (Cardano, Barbaro, Keplero) rende la discussione più tecnica. Particolarmente stimolante è la discussione sull’impatto degli scritti di Giovan Battista Della Porta sull’ambiente che circonda Caravaggio. Nel 1600 (Henry Wotton, Costantin Huygens) e nel 1700 (Francesco Algarotti, Joshua Reynolds) il riferimento alla camera oscura come strumento tecnico di larga diffusione diviene esplicito.


Le indagini dopo il 2001: l’ottica alla base dell’arte

L’edizione del 2006 offre una trentina di pagine aggiuntive (pp. 199-231), che riflettono le nuove riflessioni e sperimentazioni dell’artista. Leggendole, si ha la chiara impressione che Hockney radicalizzi la sua interpretazione della storia dell’arte. Se nel 2001 egli è convinto che lenti e specchi siano strumenti aggiuntivi alla prospettiva lineare (e che dunque molti artisti fecero solamente uso della prospettiva lineare, ignorando l’uso degli strumenti ottici), nel 2006 egli è ormai certo che le caratteristiche fondamentali della pittura rinascimentale (prospettiva e chiaroscuro) siano la conseguenza inevitabile dell’introduzione dell’ottica in pittura. È convinto che la storia del gusto artistico sia una conseguenza delle caratteristiche tecnologiche e dei risultati degli strumenti via via disponibili ai pittori.

Arriva così a sostenere che l’affermazione del chiaroscuro nell’arte è la conseguenza dell’uso di lenti e specchi. Prima della diffusione di quegli strumenti (ed in tutte le culture pittoriche che di essi non hanno fatto uso) le immagini sono tutte senza ombre. È solo dall’epoca dell’impiego delle lenti che l’ombra diviene elemento integrante della pittura. Per spiegarsene le ragioni, Hockney costruisce per se una camera oscura portatile (del tipo già diffuso nel Settecento, all’epoca di Canaletto) per sperimentare quale sia l’impatto delle condizioni di luce esterna sulla qualità dell’immagine riprodotta su tela, e si dice stupefatto che non solo la camera funzioni al meglio in presenza di una luce molto forte, ma che – proprio in queste condizioni ottimali –l’immagine riflessa sia caratterizzata da contrasti particolarmente forti tra le parti illuminate e quelle in ombra [32]. Ne deriva la conclusione che la diffusione sempre più ampia nella pittura del Cinquecento-Seicento delle parti in scuro è il risultato non solamente del gusto estetico, ma anche degli strumenti tecnici disponibili e del modo con i quali i pittori “vedono le cose” attraverso tali strumenti.

Infine, egli si reca a Firenze per riprodurre sperimentalmente la descrizione che Antonio Manetti offre di come il Brunelleschi abbia dipinto il Battistero di Firenze su una tavola di legno oggi andata perduta, ma descritta da Leon Battista Alberti come documento di nascita, nel 1416, della piramide visiva e della prospettiva lineare. Manetti spiega che Brunelleschi aveva prodotto in quell’immagine una veduta in scorcio del Battistero di Firenze dall’interno del portale centrale di Santa Maria del Fiore con l’aiuto di uno specchio concavo [33]. Hockney non solamente prova che uno specchio concavo è sufficiente a riprodurre la prospettiva, ma, replicando l’esperimento, arriva alla conclusione che la scoperta della piramide visiva e del punto di prospettiva è conseguenza diretta dello strumento tecnico utilizzato (lo specchio concavo).

Insomma, nonostante polemiche e scambi al vetriolo dopo la pubblicazione nel 2001, nella seconda edizione del 2006 tutte le sue conclusioni sono confermate ed anzi rafforzate. Sono anzi poste le premesse per ulteriori sviluppi, documentati a margine della già menzionata mostra del 2015. In essa egli rivela come la combinazione della l’immagine pittorica e della fotografia possa superare la prospettiva, facendo riferimento alle nuove tecnologie digitali tridimensionali.

I pittori hanno sempre saputo che vi è qualcosa di sbagliato nella prospettiva. Il problema è costituito dalla relazione tra primo piano e punto di fuga. Il motivo per il quale abbiamo la prospettiva con un punto di fuga è che ha origine nell’ottica. Sono sicuro che fu quel che fece Brunelleschi. Usò uno specchio concavo del diametro di cinque pollici [nota dell’editore: 12,7 centimetri] per proiettare il Battistero sulla sua tavola. Ciò rende automaticamente un’immagine in prospettiva, così come farebbe una macchina fotografica. È questa la ragione per la quale vi è sempre un vuoto tra voi ed il fotografo. Io tolgo tale vuoto, per mettervi nel quadro. Ho fatto prima i quadri dei giocatori di carte. Ciò mi ha aiutato a capire come fotografarli. Tutto nelle fotografie è preso molto da vicino. Giacche, camicie e scarpe sono tutte fotografate da vicino. Ogni fotografia ha un suo punto di fuga; in tal modo, invece di un solo punto di fuga ottengo molti punti di fuga. È questo che penso fornisca loro un effetto quasi tridimensionale senza occhiali 3D. Penso di aprire la fotografia a qualcosa di nuovo.

Se davvero ci pensate, io so bene che una fotografia presa per sé non può essere vista come lo stadio finale dell'immagine realistica. Beh, almeno non adesso. La fotografia digitale ci potrà liberarci da una prospettiva che la chimica ci ha imposto da 180 anni" [34].


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NOTE

[1] Hockney, David – Secret Knowledge. Rediscovering the lost techniques of the Old Masters, London, Thames and Hudson Ltd, 2001, 296 pagine.

[2] Hockney, David – Secret Knowledge. Rediscovering the Lost Techniques of the Old Masters, New York, Viking Studio, 2006, 328 pagine.

[3] David Hockney's secret knowledge; Randall Wright, film producer; Films for the Humanities (Firm); British Broadcasting Corporation; BBC Worldwide Americas, Inc.; Princeton, N.J.; Films for the Humanities and Sciences, ©2002.

[4] Hockney, David - Il segreto svelato: tecniche e capolavori dei maestri antichi, Electa, 2002, 236 pagine.

[5] Hockney, David - Savoirs secrets: les techniques perdues des maîtres anciens, Paris : Seuil, 2001, 296 pagine.

[6] Hockney, David - Geheimes Wissen: verlorene Techniken der alten Meister, München, Knesebeck, 2001, 296 pagine.

[7] Hockney, David - El conocimiento secreto: el redescubrimiento de las técnicas perdidas de los grandes maestros, Barcelona, Ediciones Destino, 2003, 296 pagine.

[8] Hockney, David - O conhecimento secreto: redescobrindo as técnicas perdidas dos grandes mestres, São Paulo, Cosac Naify, 2001, 296 pagine.

[9] Хокни, Дэвид - Секреты старых картин, Арт-родник, 2004, 236 pagine.

[10] デイヴィッド・ホックニ - , 秘密の知識,巨匠も用いた知られざる技術の解明 /青幻舎, 2006, 266 pagine.

[11] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 12

[12] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 12

[13] Il catalogo (nella versione della mostra al Metropolitan di New York) è disponibile su internet all’indirizzo https://archive.org/stream/PortraitsbyIngresImageofanEpoch#page/n3/mode/2up.

[14] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 260.

[15] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 260.

[16] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 12.

[17] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 13.

[18] Kemp, Martin – Visualizations: the Nature Book of Art and Science, University of California Press, 2000, 202 pagine.

[19] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 261.

[20] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 23.

[21] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 23.

[22] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 26.

[23] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 26.

[24] Practice as research: approaches to creative arts, edited by Estelle Barrett and Barbara Bolt, London, New York, I.B. Tauris and Co Ltd, 2007, 205 pagine. Citazione a pagina 29.

[25] Practice as research:...  (citato), p. 29.

[26] Practice as research:...  (citato), p. 29.

[27] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 51.

[28] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 99.

[29] Ouellette, Jennifer - Corpi neri e gatti quantistici. Storie dagli annali della fisica, Bari, Edizioni Dedalo, 2009, 384 pagine. Citazione alle pagine 74-75.

[30] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 82.

[32] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 200.

[33] Hockney, David – Secret Knowledge. (2006) … (citato), p. 212



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