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venerdì 20 maggio 2016

Sylvie Neven. Il manoscritto di Strasburgo. La Tradizione medievale di una raccolta di ricette artistiche (1400-1570). Londra, 2016


Recensione di Giovanni Mazzaferro
ENGLISH VERSION

Sylvie Neven
The Strasbourg Manuscript
A Medieval Tradition of Artists’ Recipe Collections (1400-1570)

[Il manoscritto di Strasburgo. La Tradizione medievale di una raccolta di ricette artistiche (1400-1570)]


Londra, Archetype Publications, 2016


Fratelli Limbourg, Très riches du Duc du Berry (1412-1416),
Miniatura dell'Uomo anatomico con la fascia dei segni zodiacali
Fonte: Wikimedia Commons

Definire questo libro come la nuova edizione critica inglese (la seconda integrale) del Manoscritto di Strasburgo è del tutto limitativo. Il volume di Sylvie Neven è un’opera che parte dallo studio dell’esemplare (o, meglio, della sua copia) per ricostruire un insieme di altri manoscritti (una “Tradizione”, appunto; d’ora in poi il termine sarà usato in quest’accezione con la “t” maiuscola) che ha in comune con esso parte dei loro contenuti; a loro volta le opere facenti parte della Tradizione sono contestualizzate all’interno di un genere che in tedesco assume il nome di Fachliteratur (ovvero di “Letteratura specialistica”). La Fachliteratur, che riguarda medicina, alchimia, tecniche artistiche etc, è, fondamentalmente, una letteratura basata sulle ricette, con sintassi e caratteristiche proprie. L’autrice studia le possibili origini di questo tipo di letteratura, le tangenze fra ricette di natura fra loro diverse, i centri di diffusione, i possibili autori e gli estensori materiali dei manoscritti, non senza dimenticarsi di cercare in laboratorio e sui pochi manufatti dell’epoca giunti fino ai nostri giorni i riscontri delle tecniche proposte nei testi. Il libro di Sylvie Neven, più di un’edizione critica, è quindi un viaggio affascinante nel mondo dei ricettari medievali.


Fratelli Limbourg, Très Riches du Duc du Berry, 1412-1416, Natività
Fonte: Wikimedia Commons

Il Manoscritto di Strasburgo

Il Manoscritto di Strasburgo non esiste più. L’esemplare che lo presentava era conservato con segnatura A VI 19 presso la biblioteca della città alsaziana, probabilmente proveniente dalle carte della locale Commenda di San Giovanni, fondata nel XIV secolo (cfr. p. 14). È andato distrutto durante il disastroso incendio che colpì la città nel 1870 (in via del tutto incidentale, è sempre bene ricordare che non si trattò di un evento sfortunato, ma di uno dei risultati della guerra franco-prussiana, primo episodio di una serie di conflitti per il controllo dell’Alsazia e della Lorena conclusasi solo con la Seconda guerra mondiale dopo svariati milioni di morti tedeschi e francesi). Per fortuna, in anni precedenti, il manoscritto era stato studiato da Charles Lock Eastlake, grandissimo conoscitore e direttore della National Gallery, nonché autore (nel 1847) dei Materials for a History of Oil Painting. Eastlake ne pubblicò degli estratti nella sua raccolta dedicata alla storia della pittura ad olio. Per poterlo meglio esaminare se ne fece fare una copia, che è conservata presso la National Gallery, a Londra, con segnatura 75.023 STR. Di questa copia non sappiamo nulla; non sappiamo chi la fece, se era integrale, se rispondeva a determinati criteri richiesti da Eastlake. A dire il vero, Sylvie Neven stabilisce oggi, con ragionevole probabilità, che si tratta di un testo corrotto, in cui alcuni argomenti sono stati tralasciati o comunque spostati rispetto alla loro originaria collocazione. La prima edizione integrale del Manoscritto di Strasburgo si deve a Ernst Berger, che ricavò un’ulteriore copia da quella di Eastlake e la pubblicò all’interno dei tre volumi che presentavano (nel 1897) le sue Quellen und Technik der Fresko-, Öl- , und Tempera-Malerei. La prima edizione integrale inglese, a cura delle sorelle Viola e Rosamund Borradaile, risale invece al 1966. Non risultano altre traduzioni. Il testo, in particolare, è inedito in italiano.

L’importanza storica dell’opera è stata colta sin dai tempi di Eastlake, che mise in evidenza come, fra le varie ricette, ve ne fossero alcune che riguardavano anche la produzione e l’utilizzo di un olio siccativo per la pittura su tavola. La struttura generale del manoscritto è stata fissata da Berger con una suddivisione in tre parti fra loro indipendenti; la prima è costituita da una breve serie di ricette che lo scriba dice essere state trasmesse da Enrico di Lubecca; la seconda con prescrizioni dettate da Andrea di Colmar e la terza in cui lo scrivente (che non sappiamo chi fosse) parla in prima persona e sembra dunque riferirsi alla propria esperienza personale. L’esemplare perduto, secondo studi paleografici commissionati da Eastlake, risaliva al XV secolo ed era scritto in un dialetto antico medio-germanico.

Ben presto – e non solo per la questione dell’olio siccativo – il Manoscritto di Strasburgo è divenuto il prototipo delle tecniche artistiche proposte nel Nord Europa attorno al 1400, così come il Libro dell’arte di Cennino Cennini ha assunto ruolo simile per ciò che riguarda l’Italia. Pur perso, il testo è quindi divenuto parte del novero ristrettissimo di manoscritti di riferimento per la storia delle tecniche artistiche, come i testi di Eraclio, il De diversis artibus di Teofilo e il Mappae clavicula.


Fratelli Limbourg, Très Riches du Duc du Berry, 1412.1416, Gesù portato al giudizio
Fonte: Wikimedia Commons

De-costruire per ri-costruire

Per spiegare in cosa consista la novità dell’edizione Neven ci vediamo costretti ad aprire una parentesi di metodo. L’autrice non si accontenta dei dati acquisiti in merito al manoscritto. Innanzi tutto mette in discussione il ruolo “paradigmatico” del testo come rappresentativo di tutte le tecniche poste in essere nel Nord Europa. La realtà è un’altra, e parla di centinaia di testi, ognuno con proprie specificità, dipendenti a loro volta da pratiche differenti applicate in aree geografiche diverse. Le specificità vanno singolarmente indagate e non sottaciute. Sylvie Neven appartiene a una generazione di storici delle tecniche artistiche che ha imparato ad analizzare il particolare avendo sempre in mente il quadro generale. Ad uno di questi studiosi (Mark Clarke) si deve la redazione, nel 2001, di un formidabile repertorio (The Art of All Colours. Mediaeval Recipe Books for Painters and Illuminators, edito anch’esso da Archetype) in cui sono spogliati e classificati oltre 400 manoscritti medievali redatti fino al 1500.

Quando il campo di ricerca assume queste dimensioni è inevitabile far riferimento alle risorse informatiche. Neven fa parte di diversi progetti per la registrazione dei materiali manoscritti. Cito, fra gli altri, il Colour Context Website, col patrocinio del Max Planck Institute for the History of Science, in cui sono stati trascritti oltre 600 ricettari che giungono fino agli anni in cui opera Theodore de Mayerne (fino all’inizio del 1600, insomma).

Come è facile immaginare, il punto critico, quando si utilizzano questi strumenti, non è tanto il loro reperimento, quanto l’inserimento dei dati secondo criteri uniformi. Ci si trova immancabilmente di fronte a testi scritti in lingue diverse, con materiali e pigmenti indicati con terminologie fra loro differenti, con livelli di approfondimento a volte molto elevati e a volte del tutto superficiali. Tutti questi testi, tuttavia – che fanno parte di quella Fachliteratur di cui si parlava all’inizio – hanno un elemento in comune: quello di essere organizzati tramite ricette, a volte lunghe una riga, a volte un’intera pagina. Il compito fondamentale di chi lavora nel settore è identificare e separare fra loro ogni singola ricetta. La normalizzazione di un testo comporta alcune regole base, la prima delle quali è la separazione di prescrizioni l’una legata all’altra. Capita spesso, cioè, che venga esposta una procedura di realizzazione di una determinata materia e subito dopo ne sia indicata una variante. In tal caso le ricette diventano due. Lo studioso procede, insomma, in un lavoro di de-costruzione del testo fino a giungere al livello più elementare possibile, e tale livello è appunto la ricetta nel senso etimologico del termine (dal latino recipereprendere): “la ricetta appare essere l’elemento più breve in cui il testo poteva in ultima analisi essere decomposto… Questa definizione andrebbe raffinata aggiungendo che la ricetta è l’elemento indipendente più piccolo in cui può essere diviso il testo. Infatti, la ricetta potrebbe essere vista come un testo di per sé indipendente e potrebbe perciò essere separata dalla raccolta originale che la contiene e inserita nelle pagine di un altro manoscritto. Per questo motivo, si potrebbe dire che la struttura di una ricetta potrebbe essere considerata come un’unità elementare comune a diverse discipline comprese nei manoscritti facenti parte della Fachliteratur” (p. 55)

Una volta posta in essere la de-composizione, si tratta naturalmente di vedere se altri testi manoscritti forniscono sequenze di ricette “parallele” rispetto all’esemplare in questione (in questo caso al Manoscritto di Strasburgo) e di stabilire quindi se esista una Tradizione, costituita da più testi, che ne presenti i contenuti. “Molte ricette mostrano somiglianze nel lessico che usano per descrivere un procedimento simile. Tuttavia, per essere identificate come parte della Tradizione di Strasburgo una ricetta deve essere simile anche in termini sintattici. Similarità sintattiche implicano paralleli testuali sufficientemente chiari per attestare una medesima origine. Quindi, ricette parallele derivano probabilmente dalla medesima fonte testuale e vanno tenute distinte dalle ricette che sono [n.d.r solo] simili nel loro contenuto tecnico” (p. 26).


Fratelli Limbourg, Calendario del Très Riches du Duc de Berry (1412-1416) - Gennaio: banchetto per il nuovo anno
Fonte: Wikimedia Commons

La Tradizione di Strasburgo

Intendiamoci, era già successo che in precedenza alcuni studiosi avessero sottolineato la somiglianza fra esemplare Eastlake ed altri testi manoscritti, ma la cosa non aveva portato allo studio sistematico della Tradizione. “L’individuazione e la definizione di una tradizione testuale e “tecnica” in una raccolta di ricette, così come intrapresa in questo studio, non si poteva basare sulla buona sorte, ma sull’applicazione di ricerche e analisi sistematiche” (p. 27). “Sono state prese in considerazione solo raccolte di ricette che avevano almeno dieci istruzioni in comune. Dal corpus iniziale di più di 600 esemplari ne è stato individuato uno più piccolo e definito di manoscritti appartenenti alla Tradizione di Strasburgo. Sono state scoperte nuove evidenze testuali e la “Tradizione di Strasburgo” corrisponde oggi a un gruppo di 15 manoscritti” (p. 29).

Dobbiamo quindi abituarci a ragionare su un duplice livello: da un lato la singola copia del Manoscritto di Strasburgo fatta operare da Eastlake e, dall’altro, 15 manoscritti che costituiscono la Tradizione; partendo da qui si tratta di capire se l’esame della Tradizione può far luce sul singolo esemplare.

Il libro prende in esame gli elementi che hanno in comune i manoscritti della Tradizione. In generale si può notare che i testi in questione sono tutti originari del sud della Germania, e scritti prevalentemente in tre dialetti dell’area: dialetto dell’alta franconia, bavarese ed alemannico (quest’ultimo è il caso del Manoscritto di Strasburgo in senso stretto). Le eccezioni sono pochissime. Ricordiamo fra esse il Vossianus Chymicus Octavo 6, oggi conservato a Leida, perché dovremo citarlo più avanti (p. 59). Per la maggior parte preparati in centri religiosi (tipicamente in monasteri) i manoscritti appaiono tutti come testi compositi, sotto una duplice veste. In primo luogo sono rilegati insieme ad altri testi della Fachliteratur che prevalentemente hanno ad oggetto disposizioni di natura medica; in secondo luogo le singole sezioni dedicate alle ricette artistiche appaiono comunque essere un mix di ricette copiate da altri testi, di prescrizioni fornite per l’occasione da artisti locali e da contributi raccolti (a volte anche sperimentati) da chi li ha scritti.

I manoscritti, insomma, hanno in comune fra loro intere sequenze di ricette “parallele”. In determinate situazioni alcune sequenze possono apparire più complete di altre. In particolare i 15 manoscritti della Tradizione di Strasburgo hanno in comune fra loro cinque sequenze di ricette; quelle in comune fra il Manoscritto di Strasburgo in senso stretto e gli altri testi sono due. La Sequenza A ha a che fare con la preparazione di colori e materiali per la miniatura; la Sequenza B fornisce indicazioni sulla tempera dei pigmenti e la stesura di strati pittorici soprattutto su tavola.

La sequenza A è testimoniata negli esemplari che si considerano essere (su basi paleografiche) i più antichi. Tuttavia, è giusto notare che se il più antico in assoluto risulta essere il Manoscritto di Strasburgo (la cui datazione Sylvie Neven fa risalire a prima del 1412 sulla base di indicazioni trovate in archivio sulla vita di Andrea di Colmar - cfr. p. 56 -), la sequenza più completa è presentata da altri manoscritti, in particolare dal Vossianus Chymicus Octavo 6 e dall’Amberger Malerbuch (del Vossianus Chimicus Octavo 6 viene anche fornita una trascrizione in Appendice I). Manoscritti più recenti che presentano sequenze più complete: come è possibile? Le ipotesi possono essere molteplici. Una cosa appare certa: il Manoscritto di Strasburgo non è il prototipo della Tradizione; non lo è perché vi compaiono lacune testuali (veri e propri spazi bianchi lasciati evidentemente perché il testo copiato non era interpretabile) che possono essere colmate tramite il ricorso al Vossianus. Esisteva dunque un prototipo ancora precedente. Ciò assodato possono essere successe molte cose: sia il Manoscritto di Strasburgo sia il Vossianus potrebbero essere stati copiati, relativamente alla Sequenza A, da un medesimo prototipo, e il redattore del Manoscritto di Strasburgo potrebbe aver deciso di tralasciarne una parte. Ma l’operazione potrebbe essere stata molto più recente e la rinuncia a parte della sequenza potrebbe essersi verificata in occasione della copia ordinata da Eastlake; da notare, peraltro, che, anche nella parte non scartata, la successione delle ricette presenti nella copia Eastlake è diversa da quella tradizionale di tutti gli altri manoscritti, chiaro segno che la copia non era fedele, ma ha coinciso con un’arbitraria riorganizzazione del materiale a disposizione. Si noti infine che la consistenza della copia Eastlake appare essere diversa da due descrizioni del manoscritto andato bruciato reperite da Neven; rispetto ad esse il testo appare più breve e disposto in maniera diversa rispetto all’originale.

Comunque siano andate le cose, è chiaro che il Manoscritto di Strasburgo risulta essere un testo che deriva in parte dalla copia di (almeno) due testi precedenti: un trattato di miniatura che è testimoniato appunto dalla Sequenza A e che è stato poi copiato in molti altri testimoni della Tradizione e un secondo trattato di pittura (la Sequenza B) che invece appare aver avuto una circolazione molto inferiore ed essere in comune con soli altri due manoscritti: quello denominato Colmarer Kunstbuch e il Bamberger Malerbuch. Anche in questo caso, il testimone più ampio della sequenza non è il Manoscritto di Strasburgo, ma il Colmarer Kunstbuch. Oltre alle due sequenze in questione compaiono poi ricette che figurano sporadicamente in altri manoscritti e segnalazioni assolutamente specifiche che, proprio per questo, vengono chiamate con termine latino unica.

Fratelli Limbourg, Calendario del Très Riches du Duc du Berry (1412-1416) - Maggio
Fonte: Wikimedia Commons

La nuova edizione critica del Manoscritto di Strasburgo

Tutto quanto detto prima, per giustificare come, sulla base dei testi della Tradizione, Neven sia in grado di dire che la ripartizione in tre parti  e novanta ricette del Manoscritto di Strasburgo operata da Berger vada rivista. Innanzi tutto le ricette (per il processo di riduzione ad unità elementari precedentemente descritto) diventano 114. Poi, nell’ambito del manoscritto, l’autrice distingue sette differenti sezioni. Sia chiara comunque una cosa: per nessun motivo viene operato uno spostamento nell’ordine di presentazione delle ricette. Neven si limita (giustamente) a segnalare quello che – secondo lei – era l’ordinamento originario del prototipo e che poi, per mille motivi, è stato storicamente modificato.

Vediamo insieme le sette sezioni (cfr. pp. 39-44):
  • Sezione I: corrisponde a quella che secondo Berger era la prima (e breve) parte del manoscritto. Presenta un breve trattato attribuibile a Enrico di Lubecca con indicazioni sulle tecniche per dipingere in miniatura;
  • Sezione II: è la Sequenza A di cui abbiamo parlato prima. Nel Manoscritto di Strasburgo la sequenza A è interrotta da due ricette che non compaiono in nessun altro testo.
  • Sezione III: è costituita dalle sole ricette 16 e 17, che presentano preparazioni per dorature. Fra le due ricette è riportata la frase: “Ciò mi è stato insegnato da Andrea di Colmar”. Berger faceva finire la prima parte del manoscritto con la ricetta 16 e faceva iniziare la seconda con la 17. Attribuiva ad Andrea di Colmar la paternità di una ventina di prescrizioni, per poi passare alla parte terza. Per Neven le cose stanno diversamente. Nella copia Eastalke le ricette sono proposte una dietro l’altra senza alcuna spaziatura. L’ipotesi è che l’indicazione del nome di Andrea di Colmar fosse in realtà nel manoscritto bruciato una postilla a margine posta fra le ricette 16 e 17 e che fosse riferita soltanto a queste due, tanto più, che successivamente, si ricomincia con prescrizioni appartenenti alla Sequenza A. La spiegazione di Neven mi pare assolutamente verosimile.
  • Sezione IV: la meno coerente di tutte per argomento, perché presenta ricette variegate che cominciano con l’indicazione dello scriba secondo cui si accingerebbe a fornire istruzioni su tecniche di pittura praticate in Lombardia (secondo Eastlake non si trattava della Lombardia, ma di Londra). Solo poche di queste prescrizioni, che riguardano leganti, colori translucidi, preparazione delle pergamene, di dorature e di vari tipi di vernice, compaiono anche in altri manoscritti della Tradizione e senza essere legate in sequenza. L’autrice suppone che si tratti di contributi dello scriba. All’interno della sezione IV (che è quindi in realtà divisa in due sottosezioni IVa e IV b) compaiono le ricette della Sequenza B. Mi permetto di segnalare comunque un aspetto che, a mio avviso resta irrisolto: perché proprio tecniche lombarde (o londinesi, stando ad Eastlake)? C’è da supporre che l’anonimo scriba potesse esservisi recato (od essere originario di quei luoghi).
  • Sezione V: presenta le ricette della Sequenza B, comuni al Colmarer Kunstbuch e al Bamberger Malerbuch.
  • Sezione VI: vi sono riportate informazioni relative alla preparazione di supporti non usati in pittura e miniatura (ad esempio la doratura dei metalli).
  • Sezione VII: l’ultima sezione comprende ricette che sembrano provenire da altre fonti. Sono stati suggeriti ad esempio i nomi di Teofilo e di Sant’Audemaro. La caratteristica precipua di questa parte, in realtà, è la sua eterogeneità che le porta a comprendere anche istruzioni per la preparazione dei saponi e un paio di prescrizioni di natura magica.

Fratelli Limbourg, Calendario del Très Riches du Duc du Berry (1412-1416) - Luglio
Fonte: Wikimedia Commons


Opera letteraria o ricettario di bottega?

Il capitolo finale dell’opera è dedicato all’esame di quella che, in ultima analisi, è la domanda principale ogni volta che si ha a che fare con un ricettario medievale. Siamo di fronte a un testo che è stato copiato per tramandare una tradizione letteraria e che quindi non veniva usato nelle botteghe degli artigiani dell’epoca? o invece a una raccolta di natura meramente tecnica, derivante direttamente dal sapere dell’artigiano e volta all’istruzione degli scolari? Sull’argomento si discute da più di un secolo. Neven propone le tesi pro e contro entrambe le ipotesi e, in ultima analisi, sin da pag. 4, richiamandosi ad insegnamenti di Mark Clarke, fornisce la risposta: i due tipi, nella sostanza, coesistevano e si tratta di riuscire a distinguere oggi quali fossero i testi destinati alla creazione di una letteratura e quali all’insegnamento. L’analisi deve essere a tutto campo e partire proprio dall’aspetto dei manoscritti, quando giunti fino a noi: alcuni manoscritti, ad esempio, come il Bamberger Malerbuch appaiono scritti in maniera ordinata e ricercata, impreziositi da titoli e rubriche scritte in rosso. È difficile presumere che tali testi fossero destinati ad essere utilizzati vicino a una fornace, e più semplice pensare che fossero destinati a un contesto erudito. D’altra parte il Trierer Malerbuch (stiamo parlando di un altro manoscritto appartenente alla Tradizione di Strasburgo) ha un aspetto molto più trasandato e disordinato, con l’interpolazione di ricette scritte successivamente fra gli spazi rimasti bianchi (cfr. pp. 63-68).

Fratelli Limbourg, Calendario del Très Riches du Duc du Berry (1412-1416) - Agosto
Fonte: Wikimedia Commons

Lo stesso discorso si potrebbe fare in merito agli scribi. Non sempre (anzi, quasi mai) si è in grado di capire chi abbia effettuato la copia; molte incongruenze nei testi si potrebbero capire per l’impreparazione tecnica di chi sta estendendo la copia (in fondo è quello che potrebbe essere successo col Libro dell’Arte di Cennino Cennino, la cui copia più antica a noi giunta fu effettuata nel carcere delle Stinche a Firenze nel 1437). E, pure, non si spiegherebbero le ricette – che pure ci sono – in cui sono presentati contributi dello scrivente. Né si può sottacere che in alcune situazioni il nome dell’estensore ci è noto: è il caso, ad esempio, del Liber illuministarum (ennesimo testimone della Tradizione di Strasburgo), esteso da Konrad Sartori, noto non solo per essere stato il bibliotecario del monastero di Tegernsee (in Baviera), ma anche copista e miniatore (cfr. p. 63).

Fratelli Limbourg, Calendario del Très Riches du Duc du Barry (1412-1418) - Ottobre
Fonte: Wikimedia Commons

Le specificità del Manoscritto di Strasburgo

In questo gioco delicato sempre in bilico fra letteratura e tecnica assume ovviamente una particolare importanza l’analisi delle specificità di un testo. Tali specificità appaiono essere legate al territorio in cui il testo stesso è stato prodotto. Nel caso del Manoscritto di Strasburgo, quindi, in un’area che comprende grosso modo l’Alsazia e la Baviera (ancora una volta l’autrice nega la possibilità che il manoscritto possa essere assunto a prototipo delle tecniche di tutto il Nord Europa). Una peculiarità è senza dubbia costituita dall’olio siccativo per la pittura su tavola già messo in evidenza da Eastlake nel 1847. Neven ne individua un’altra nell’uso di coloranti antociani (o di antocianine che dir si voglia), ovvero di pigmenti idrosolubili di origine vegetale provenienti da papaveri, fiordalisi e piante di mirtillo. Particolarmente sensibili all’acidità dell’acqua, si riteneva che, proprio per questo, le antocianine fossero utilizzate esclusivamente per colorazioni di abiti e tessuti, mentre il Manoscritto di Strasburgo ne certifica l’uso anche in pittura e in miniatura. Le ultime pagine dell’opera – come pure l’Appendice II – sono dedicate a esperimenti di laboratorio che mirano a studiare la produzione di pigmenti dalle antocianine secondo le ricette fornite nel manoscritto e a trovarne tracce nei manufatti di primo ‘400 dell’area di Strasburgo giunti fino a noi.

A ulteriore dimostrazione, se mai ve ne fosse dubbio, di quanto ampio sia lo spettro delle conoscenze di cui deve essere dotato lo storico delle tecniche artistiche, spaziando dalla paleografia alla chimica, dalla storia alla conoscenza dei dialetti antichi e alla filologia; sin quasi a indurci a dire che un bravo storico delle tecniche artistiche non è uno specialista, ma piuttosto un nuovo (forse l’ultimo) umanista.


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