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lunedì 4 aprile 2016

Hermann Uhde-Bernays, Lettere di artisti sull'arte [Künstlerbriefe über Kunst]. Parte Seconda


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Hermann Uhde-Bernays
Lettere di artisti sull'arte [Künstlerbriefe über Kunst]
Confessioni di pittori, architetti e scultori degli ultimi cinque secoli 

Con settanta autoritratti e firme d’artisti
Wolfgang Jess, Dresda, 1926, 968 pagine


Recensione di Francesco Mazzaferro
Parte Seconda 
Fig. 27) Carl Spitzweg, Compagnia di attori all’aperto (terza versione), 1878
L’introduzione all’antologia delle Lettere d’artista
Il testo introduttivo di Uhde-Bernays è denso e ricco di spunti, ma non è sicuramente semplice. Per cercare di comprenderlo a pieno mi sembra necessario fare ricorso ad alcune categorie generali. Mi sembra utile ricordare che la letteratura artistica spesso testimonia due esigenze diverse, che divengono chiarissime soprattutto quando essa si esprime in forme antologiche come in una raccolta di lettere. In primo luogo vi è la volontà di documentare il modo nel quale gli artisti hanno espresso le loro strategie di comunicazione. In questo caso l’attenzione di Uhde-Bernays è tutta centrata sulla lettera, come genere attraverso il quale gli uomini di cultura comunicano il loro pensiero creando un tessuto di rapporti tra grandi individualità, ed anzi come caratteristica dell’uomo moderno (il curatore attribuisce l’invenzione dell’epistolario come forma dialettica di comunicazione a Francesco Petrarca e agli umanisti italiani da un lato e, dall’altro, nel caso degli epistolari artistici, al genere delle confessions esthétiques del mondo francese [47]). In secondo luogo vi è l’intenzione di scegliere i testi degli artisti come forma di ricostruzione della storia dell’arte, e da ultimo di legittimazione storica del suo corso da parte dello studioso moderno, attraverso un’operazione critica condotta a ritroso che affida all’analisi della parola degli artisti il compito di ricercare nel lontano passato elementi comuni originari e primigeni, che si sono poi sviluppati in forma dialettica ed hanno determinato un inevitabile esito finale. La letteratura artistica è, in questo senso, un tipico prodotto dello storicismo. È interessante notare che ogni regime e fase storico-sociale moderna hanno prodotto le loro antologie di fonti di storia dell’arte, a riprova che il presente ha sempre salde basi nel passato. Nel caso delle Lettere d’artisti sull’arte, l’intenzione ultima di Uhde-Bernays è quella di dimostrare il primato storico dell’artista e della critica d’arte della seconda metà dell’Ottocento dopo un lungo processo secolare di maturazione sul ruolo dell’artista durato ben cinque secoli. È solamente al termine di quel percorso che, da un lato, l’artista assume piena consapevolezza della centralità della propria vita spirituale e, dall’altro, si supera ogni schematismo accademico.
Fig. 28) La seconda edizione delle Lettere di artisti sull’arte di Hermann Uhde-Bernays,
pubblicata da Wolfgang Jess a Dresda nel 1956
Questo superamento avviene anche grazie all’incontro tra arte e letteratura, ovvero esattamente tra le due discipline cui egli ha dedicato una vita: “Un entusiasmo traboccante, che aveva scoperto l’esempio più alto in Goethe e nella sua opera connessa all’esistenza dell’uomo, superò ogni dogmatica estetica e scoprì che il maestro dell’arte è la guida migliore e più sicura in tutte le cose d’arte, e che il suo linguaggio personale non è fatto di frasi sensazionali, ma trasmette le pulsioni interiori più forti. Da allora tutti coloro che hanno anelato ad entrare nel vero santuario dell’arte hanno ascoltato con attenzione le dichiarazioni scritte degli artisti. Diversi pittori hanno fatto ricorso con successo alla penna e scritto libri sull'arte. Il modo di esprimere la storia dell’arte negli ultimi trent’anni è in molti aspetti dipendente dall’influsso del ravvicinamento intimo tra scrittori ed artisti.” [48]
Fig. 29) Philipp Otto Runge, Il riposo durante la fuga in Egitto, 1806
Vi è ovviamente una convergenza tra  lo studio della strategia di comunicazione e ricerca di una legittimazione storica.
Quando analizza le strategie di comunicazione degli artisti, Uhde-Bernays si concentra deliberatamente sulle lettere di contenuto estetico e critico, escludendo dunque ogni aspetto di natura biografica. Nella postfazione spiega che la sua intenzione originaria era quella di aggiornare fino ai tempi moderni unaraccolta di lettere d’artisti pubblicata da Ernst Karl Guhl fra 1853 [49] e 1856 [50]. Tuttavia, quella raccolta era stata concepita secondo criteri diversi, soprattutto per offrire al pubblico tedesco testimonianza di scritti che allora non erano ancora tradotti (ed esistevano invece da qualche decennio in lingua italiana), e per documentare fasi di sviluppo della storia dell’arte. L’obiettivo di Guhl non era infatti quello di mostrare le tappe della crescita spirituale del singolo artista come interprete delle proprie ragioni estetiche. Uhde-Bernays decide dunque di eliminare la quasi totalità (cinque sesti) delle lettere della raccolta di Ernst Guhl e di sostituirle con altre. A tal fine si mette alla ricerca di nuove fonti. La postfazione è dunque anche un utile strumento per capire quali fossero le fonti di storia dell’arte disponibili nel primo quarto del secolo scorso.
L’autore fornisce letture ben differenti delle strategie di comunicazione degli artisti e della loro capacità di utilizzare la lettera come strumento dialettico per la comprensione dell’arte, a seconda delle epoche.
Fig. 30) Peter Cornelius, Vergini virtuose e vergini stolte, 1813
Le lettere del Rinascimento rivelano la presenza di grandi personalità (Michelangelo, Dürer), ma non ancora la piena consapevolezza della personalità dell’artista come creatore capace di spiegare al proprio interlocutore - in forma generale, e non solamente episodica - le ragioni della propria attività artistica. “Non un solo pittore del Rinascimento si è mai occupato di un tale accattivante passatempo. Per questa notevole differenza i grandi artisti fiorentini del Quattro e Cinquecento non sono pari ai poeti e filosofi contemporanei; non sono altro che semplici artigiani e null’altro vogliono essere” [51]. Dunque, egli afferma che l’esame della maggior parte della corrispondenza giunta a noi (semplici ricevute o conferme di commissioni) non consente di trarre nessuna conclusione. È interessante che egli faccia quest’affermazione esclusivamente dall’esame delle lettere, come strumento dialettico di networking sociale, senza dunque far riferimento alcuno alla grande stagione dei trattati rinascimentali, a conferma del fatto che Uhde-Bernays non nutre grande entusiasmo per la discussione sistematica nel campo estetico.
Con Poussin si apre una fase in cui gli artisti usano la lettera come forma di dissertazione accademica, e dunque aderiscono a modelli che non ne rivelano la personalità e neppure i meccanismi creativi. L’autore dedica un intero capitolo alle lettere di quella fase, ma lo fa soprattutto per evidenziarne i limiti: “una nuova epoca si sarebbe inaugurata, che si estenderà per oltre un secolo e renderà l’artista invidioso delle corone di alloro del poeta e del filosofo e vorrà anzi cancellare la linea di confine tra entrambi i campi ben distinti, la poesia e la pittura. Da un lato s’impose la dottrina dell’‘ut pictura poesis’, e dall’altro si manifestò l’esigenza accademica che l’artista fosse anche in condizione di poter spiegare in un trattato compilato ai fini dell’insegnamento quel che aveva creato come pittore, scultore o architetto. Venne alla ribalta la questione dell’apprendibilità dell’arte, indipendentemente dal talento. È un segno evidente che si era ormai imposta una mediocrità ad uso e consumo delle neonate Accademie.” [52]
Fig. 31) Johann Sperl, Primavera a Kutterling, 1880
Una prima forma di emancipazione si ha con gli scambi epistolari tra Diderot e lo scultore francese Étienne Falconet, che si confronta da pari a pari con il filosofo e critico d’arte francese. Attraverso Francia ed Inghilterra quel germe giunge anche in Germania, dove alla fine del diciottesimo secolo lo Sturm und Drang consente all’artista romantico di liberarsi dagli schematismi accademici, anche se le lettere documentano capacità dialettiche ancora molto diverse (Uhde-Bernays cita i casi di Maler Müller e Peter Cornelius, Asmus Carstensen e Philipp Otto Runge come prova della loro diversa impostazione). La transizione vera e propria è segnata dal passaggio da Schlegel ad Heine. “E dunque nel corso di un solo secolo si è materializzata una valutazione opposta del giudizio critico della scienza ed un ribaltamento dell’opinione generale. Ancora Friedrich Schlegel, al quale non si può fare certo rimprovero di avere idee reazionarie, aveva chiesto una ‘normativa’ estetica. Così fondamentalmente egli aveva frainteso la frase di Winckelmann sull’imitazione, da intendere invece come emulazione, dell’antico. È stato Heinrich Heine, nell’introduzione alla sua ampia discussione del Salon del 1831, ad aver espresso un’opinione contraria allo Schlegel: “Il maggior errore consiste nel fatto che il critico ponga la domanda: Che cosa deve fare l’artista? Molto più importante sarebbe la domanda: che cosa vuole l’artista?” E quel critico innovatore continua in modo non meno chiaro: “Ogni nuovo genio dell’arte deve essere giudicato sulla base dell’estetica che egli stesso ha prodotto.” Il giorno in cui queste parole sono state messe per iscritto, è cambiato radicalmente nella giusta direzione, dalla sera alla mattina, il corso dell’estetica.” [53]
Fig. 32) Max Liebermann, Sansone e Dalila, 1902
È solamente la generazione seguente (quella di Feuerbach e Marées in Germania, Delacroix e Fromentin in Francia) ad acquisire la piena proprietà di linguaggio e la capacità di sintesi che rendono le loro lettere documenti necessari alla comprensione dell’opera d’arte. “Già alla metà del secolo scorso, quell’estetica si era conquistata una posizione vincente. Questi maestri erano partiti dalla creazione, e dunque dal loro proprio lavoro, che era sorto come manifestazione del loro inconsapevole impulso creatore, ed avevano trovato parole chiare e naturali per spiegarsi nella riflessione sulle questioni artistiche. Per tutte queste ragioni le loro lettere ci sembrano ancor più importanti dei testi critici che illustrano la loro arte” [54]. È l’epoca in cui gli artisti hanno capacità di elaborazione autonoma nel pensiero estetico (lo scultore Adolf von Hildebrandt, con il suo saggio Il problema della forma, diviene addirittura il protagonista dell’evoluzione della teoria del bello in Germania) e persino nel campo della politica culturale dunque si ricorre a loro (nel mondo tedesco Thoma, Trübner, Hodler, Segantini, Liebermann; in quello inglese Whistler) per poter orientare il dibattito sull’arte. “Non vi è dubbio che in tal modo si sia dato all’artista un potere che prima non aveva. […] Si giustifica così che contributi e proteste degli artisti siano ormai sicuramente destinati ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e che, quando si discutono importanti questioni d’arte, si corra a raccogliere il punto di vista di artisti importanti. È il caso di Courbet, quando scrisse ai soldati tedeschi, e di Monet, con il suo appello affinché l’Olympia di Manet fosse accolta al Louvre” [55]. 
Fig. 33) Adolf von Hildebrand, Giovane in piedi, 1881-1884
Nel momento in cui Uhde-Bernays cerca di ricostruire attraverso la sua raccolta di lettere un sistema organico per interpretare la creazione artistica, l’elemento unificante più forte che egli identifica è quello del valore assoluto della medesima creazione artistica come atto individuale: “è il credo estasiante e assoluto nella grandezza del fatto artistico” [56]. Egli ammette che esistono alcuni elementi originari comuni alla creazione artistica: “Nel quadro della storia dello sviluppo dell’arte, l’origine della grandezza del fatto artistico è pervasa da inauditi desideri e spinte passionali, ma può essere sempre collegata allo stesso o al simile. (…) Guardando in lontananza, scrutiamo i più forti frangenti passati della storia dello spirito ed i loro legami presenti con noi. Lo facciamo per poter percepire la loro regolarità” [57]. Tali elementi consentono di stabilire linee di continuità e permettono ad esempio allo storico dell’arte contemporaneo di attribuire a Velázquez ed a Rembrandt la paternità di alcuni aspetti fondamentali della sensibilità illuminista: e tuttavia lo sforzo di teorici come Gustav Theodor Fechner di elaborare una teoria della psicologia sperimentale come forma unificante del pensiero estetico è, a suo parere, destinato a fallire [58].
Oltre allo schematismo, un altro rischio mette in pericolo la riscoperta dello spirito: è l’eccesso di soggettività:  “È bello accettare che una soggettività definita dalla specificità dell’esperienza, e partecipe ai migliori, possa condurre allo sviluppo dell’individualità umana nel quadro della misura che è naturalmente data alle persone, in una saggia autolimitazione, e non al di là, come purtroppo quasi sempre viene bramato dai folli” [59].
Fig. 34) Hans Thoma, Apollo e Marsia, 1888

Il culto dello spirito ed il rifiuto di criteri interpretativi uniformi
Ogni lettera, secondo Uhde-Bernays, esprime la personalità del suo autore, ma è al tempo stesso una manifestazione di volontà individuale di natura etica. Sono elementi che rendono impossibile ricondurre la singola lettera a criteri generali: nell’introduzione si chiede dunque al lettore (che pure potrà verificare en passant l’esistenza di elementi tra loro comuni) di separare quel che è individuale da quel che è universale. “E, grazie alla concordante esemplarità ideale di questo credo, le confessioni estetiche si tramutano in cognizioni etiche, la cui rivelazione permette, a sua volta, di liberare ciò che separa da quel che unisce, di scoprire le discontinuità in ciò che è già concluso, e di separare i singoli, chiamandoli fuori da lunghi cortei” [60]. “I contrasti del talento, del carattere e specialmente dei giudizi sottomessi a stati d’animo soggettivi, emotivi ed altalenanti, non meno che le differenze di ‘clima’ hanno fin da principio reso impossibile il tentativo di raggiungere una sintesi che comprendesse la ricchezza di tutti i punti di vista sull’arte. Eppure siamo partiti dal loro principio fondamentale, l’ingenua fede nella grandezza del fatto artistico. Già dalle prime pagine che seguiranno diverrà immediatamente evidente che è inutile prendere questo principio a base di un sistema estetico. Ed infatti tra Dürer, Michelangelo e Rubens si frappongono abissi insormontabili per ogni desiderio di tipo speculativo, che cerchi un’unificazione al di là della sua verità primitiva ed al tempo stesso infinita. Meravigliosa la fausta benedizione di tale ostinazione d’artista, che i tre grandi maestri rivelano nelle loro lettere!” [61]
Le lettere consentono dunque di imparare a “saper vedere” perché consentono di documentare le caratteristiche personali dell’interazione tra processo creativo e contenuto della creazione artistica.  
Fig. 35) Eduard Schleich il vecchio, Il riposo di un giovine, 1833
 “Le lettere – anche quando si esprimono sul generale, sull’eterno – portano alla luce in modo chiaro e puro le preferenze intime delle individualità artistiche, facendo uso di questo speciale genere letterario. L’essenza di questi pittori, architetti, scultori e grafici si deve dunque presentare a noi così come se le lettere rispecchiassero le loro opere. L‘impenetrabile effetto reciproco tra la silenziosa presenza di tali opere e la parola scritta riesce a fornirci la più alta rappresentazione della grandezza e della ricchezza, della libertà e dell’esito delle diverse personalità.” [62]
Fig. 36) Wilhelm Trübner, Un moro che fuma, 1873

INTRODUZIONE ALLE 'LETTERE D'ARTISTI SULL'ARTE'
Con questa raccolta si è portato a termine lo sforzo di raccogliere ed ordinare lettere di artisti nel corso di un mezzo millennio di massima tensione spirituale, a condizione che esse abbiano un prevalente interesse estetico invece che biografico. Sono lettere che, al di là dalla testimonianza storica, fanno diretto riferimento al rapporto che i singoli maestri ebbero nei confronti della creazione artistica propria o altrui; lettere che – anche quando si esprimono sul generale, sull’eterno – portano alla luce in modo chiaro e puro le preferenze intime delle individualità artistiche, facendo uso di questo speciale genere letterario. L’essenza di questi pittori, architetti, scultori e grafici si deve dunque presentare a noi così come se le lettere rispecchiassero le loro opere. L‘impenetrabile effetto reciproco tra la silenziosa presenza di tali opere e la parola scritta riesce a fornirci la più alta rappresentazione della grandezza e della ricchezza, della libertà e dell’esito delle diverse personalità. Di là dalla felicità e dal dolore terreno, lontano dal trambusto della battaglia il cui urlo è ormai ammutolito, noi percorriamo una via che ci conduce su vette maestose. Ormai giunti alla meta, ne contempliamo il percorso unitario, allo stesso tempo sconcertati e commossi. Ed infatti, nonostante la differenza dei convincimenti, nonostante il dissenso delle ambizioni (che comunque coincidono sempre con indirizzo ed energia del talento che loro appartengono), è proprio un sentimento comune e profondo, un sentimento inesplorabile come la definizione del genio, ad unire gli artisti di cui incontreremo in seguito i frutti: è il credo estasiante e assoluto nella grandezza del fatto artistico. E, grazie alla concordante esemplarità ideale di questo credo, le confessioni estetiche si tramutano in cognizioni etiche, la cui rivelazione permette, a sua volta, di liberare ciò che separa da quel che unisce, di scoprire le discontinuità in ciò che è già concluso, e di distinguere i singoli, chiamandoli fuori da lunghi cortei. Si può dimostrare in tal modo e senza difficoltà che la giustificazione – straordinariamente singolare, ed espressa con pieno sentimento –  della forza vitale capace di generare arte si presenta sempre come la sommatoria di innumerevoli giudizi soggettivi di valore. Ed infatti, nel quadro della storia dello sviluppo dell’arte, l’origine della grandezza del fatto artistico è pervasa da inauditi desideri e spinte passionali, ma può essere sempre collegata allo stesso o al simile. Ma l’osservazione dell’unità nella molteplicità, della molteplicità nell’unità delle dichiarazioni epistolari degli artisti figurativi ci conduce in una posizione di pura contemplazione. Gli artisti si trovano sempre un passo di là da tale origine comune. Guardando in lontananza, scrutiamo i più forti frangenti passati della storia dello spirito ed i loro legami presenti con noi. Lo facciamo per poter percepire la loro regolarità.
Fig. 37) Johann Sperl, Il ritorno dalla chiesa a Berbling, senza indicazione di data
Viviamo oggi in un periodo di convincimento e formazione spirituale che – sia esso un segno di forza o di debolezza – nella propria impostazione critica preferisce effettivamente, e vuol far valere quasi esclusivamente, i giudizi di valore individuali. Ed infatti il successo letterario sembra essere divenuto del tutto dipendente dalla capacità, accentuata fino al paradosso, di portare in scena anche lo cose più semplici sotto un’altra luce. Un’epoca come la nostra, dove le forze della demagogia rigettano anche le più alte prestazioni potenziali delle individualità, deve pur cercare un elemento corrispondente che le possa sostituire. Si trascura che un giudizio soggettivo è permesso solamente al maestro che si è guadagnato tale diritto grazie alla sicurezza oggettiva del carattere, dunque grazie ai fatti. La base formativa su cui si è potuta educare una nuova generazione si è posta una generazione fa, quando una riconoscenza splendidamente riverente sosteneva ancora i templi della cultura tedesca, che oggi giacciono in rovina; allora la silenziosa operosità degli studiosi dell’epoca dei nostri padri si trasferì in modo riflessi su altri percorsi e fu solita utilizzare abitualmente l’intelletto per formarsi un’opinione. Allora ad una gioventù piena di speranza (che finalmente aveva guadagnato accesso alla natura stessa, alla visione della vitalità e che dall’arte impressionista aveva formato un suo modo di pensare impressionista, e che piena di giubilo aveva deriso tutte le negazioni di Schopenhauer o di Nietzsche) si rivelò l’idea della grandezza del fatto artistico in modo più chiaro di quanto sia mai stato il caso successivamente, nonostante tutti gli altisonanti discorsi contrari. Un entusiasmo traboccante, che scoprì l’esempio più alto in Goethe e nella sua opera connessa all’esistenza dell’uomo, superò ogni dogmatica estetica e scoprì che il maestro dell’arte è la guida migliore e più sicura in tutte le cose d’arte, e che il suo linguaggio personale non è fatto di frasi sensazionali, ma trasmette le pulsioni interiori più forti. Da allora tutti coloro che hanno anelato ad entrare nel vero santuario dell’arte hanno ascoltato con attenzione le dichiarazioni scritte degli artisti.
Fig. 38) Adolph von Menzel, Parete dello studio, 1872
Diversi pittori hanno fatto ricorso con successo alla penna e scritto libri sull'arte. Il modo di esprimere la storia dell’arte negli ultimi trent’anni è in molti aspetti dipendente dall’influsso del riavvicinamento intimo tra scrittori ed artisti. Resta incerto se allora anche l’attenzione ai giudizi soggettivi abbia forse causato l’atteggiamento imprudente di perdersi nella presunzione dell’eccessiva soggettività. I maestri dell’arte furono considerati immediatamente come dominatori e solamente a loro era permesso quel che piaceva, senza che i loro sostenitori fossero marchiati dall’accusa del culto dell’autorità, dietro il quale si cela l’ignoranza. È bello accettare che una soggettività definita dalla specificità dell’esperienza, e partecipe ai migliori, possa condurre allo sviluppo dell’individualità umana nel quadro della misura che è naturalmente data alle persone, in una saggia autolimitazione, e non al di là, come purtroppo quasi sempre viene bramato dai folli.
Fig. 39) Carl Spitzweg, Linz sul Danubio, 1838
Il diritto ad un giudizio soggettivo che meriti di essere ascoltato, gli artisti lo hanno osato rivendicare molto tardi. Perciò da loro abbiamo ricevuto comunicazioni significative solamente centocinquanta o duecento anni dopo che il primo “uomo moderno”, il poeta Francesco Petrarca, aveva iniziato nelle sue lettere a riportare in forma di monologo ai suoi amici – in cosciente corrispondenza con la vita e gli avvenimenti del giorno – quel che di gioioso e di doloroso accadeva nel mondo e gli forniva l’ispirazione poetica. Lo faceva non per piacere loro, ma al fine della liberazione della propria anima (“quidquid loquor non tui instructio, sed levamen animae meae est”). A lui si unirono numerosi umanisti italiani che svilupparono la dizione artistica di uno stile epistolare proprio, in cui si annunciavano vicendevolmente, in modo arguto, le vicende delle loro pratiche terrene, frammiste a giochi ed intrattenimenti letterari. Erano gli antenati delle confessions esthétiques d’uso presso tutti i maggiori scrittori fino al diciannovesimo secolo. Non un solo pittore del Rinascimento si è mai occupato di un tale accattivante passatempo. In questa notevole differenza i grandi artisti fiorentini del Quattro e Cinquecento non sono pari ai poeti e filosofi loro contemporanei; non sono altro che semplici artigiani e null’altro vogliono essere. Tanto più evidenti si mostrano, nei pochi testi scritti che di loro ci sono pervenuti, gli sfoghi occasionali del loro orgoglio d’artista ed i segnali della partecipazione umana, dell’umore dell’anima, che nelle lettere piene di temperamento di Michelangelo si elevano in maniera molto più tragica che nelle molte fredde rubriche degli umanisti. La superiorità della forma convenzionale ci si presenta per la prima volta solo nella corrispondenza di Giorgio Vasari.
Fig. 40) Wilhelm Leibl, Ragazza con fazzoletto bianco, 1876 circa
Questa sobrietà dell’espressione è il motivo per il quale non è giunta a noi alcuna dichiarazione scritta di molti maestri dai quali vorremmo udire con attenzione particolare un chiarimento preciso sulla loro opera, ma soltanto alcune ricevute insignificanti o conferme di commissioni, certamente di grande valore come documenti ed autografi, ma senza pregio alcuno per poter penetrare nel loro intimo. Ci manca purtroppo un vero dialogo, che soddisfi l’animo, così come noi vorremmo condurre con i maestri dell’altare di Colmar o degli affreschi del municipio di Basilea, con Mathias Grünewald e Hans Holbein. È uno sforzo inutile cercare di conoscere dalle lettere quel che Vermeer van Delft e i maestri minori olandesi, e addirittura Velazquez, Murillo, Goya abbiano pensato sulla prassi e sulla teoria delle belle arti, che cosa Chardin e Fragonard abbiano forse provato nella visita dei Salons o di che cosa si siano occupati architetti del rango di Cuvilliès e Fischer von Erlach nei loro viaggi di studio. Fedeli al comandamento “produci, artista, non parlare”, fino all’inizio dell’epoca moderna molti dei migliori maestri dell’arte hanno ostinatamente taciuto. E persino ai giorni nostri – quando per altre ragioni lo scrivere lettere va solo in casi del tutto eccezionali oltre i limiti più stretti della comunicazione d’affari –  il miglioramento dei collegamenti, grazie all’ampliamento dei trasporti, non è riuscito a superare la resistenza che alcuni irriducibili “non-scrittori di lettere” (Erzunbriefschreiber) oppongono allo scambio scritto. Nell'epoca nostra del telefono e della macchina da scrivere, che comunque hanno preparato la fine dell’arte della corrispondenza, è in ogni caso comprensibile che all’artista che non sente in sé un impulso particolare a rilasciare proclami artistici sub specie aeternitatis in forma di lettera, sia passata la voglia di utilizzare il tempo libero per raccontare confidenzialmente agli amici il contenuto ed il progresso dell’opera di una vita. Se si trovano però tali lettere, esse sono espressioni occasionali di grandissimo fascino e del massimo valore da un punto di vista umano, artistico e letterario. Sono allora quegli esempi di lettere di cui parla una volta Alfred de Vigny nel suo diario: “Ogni bella lettera è un quadro, è un ritratto sia del mittente sia del destinatario. Ed infatti in modo del tutto inconsapevole faremo sempre dipendere il nostro stile dal carattere del destinatario e anche da quel che egli attende da noi."
Fig. 41) Anselm Feuerbach, Dante e le nobildonne a Ravenna, 1858
Si è già posto più volte, ma mai è stato risolto fino ad ora, il compito accattivante di scrivere una storia dello sviluppo della lettera nel contesto della storia dello sviluppo della lingua. Solamente il pensiero di una tale opera schiude prospettive immani di storia della cultura. A causa della loro spigliatezza (lostyle naturel et dérangedi Madame de Sévigné) le espressioni epistolari sono di grande significato, nell’eloquenza naturale, per la considerazione del successo e della crisi di una lingua. Esattamente ai giorni nostri, noi tedeschi avremmo il compito d’imparare da esempi eccellenti come si possa porre rimedio alla grave ‘inflazione’ della nostra lingua. Come al latino dell’epoca d’oro seguì quello dell’epoca argentea, quando le guide spirituali della nazione non avevano più pieno controllo della lingua madre, anche in Germania lo scrivere in buono stile tedesco – fino ad una generazione fa considerata la precondizione minima per l’attività dello scrittore – ha ceduto ad una routine affettata. Che cosa direbbe oggi Jakob Grimm, che già ottanta anni fa, nel suo più famoso discorso all’Accademia [Nota del traduttore: il discorso “Su quel che è pedante nella lingua tedesca” del 1847], si lamentava amaramente della corruzione inaudita, nella storia della lingua, dell’idioma tedesco dopo l’epoca di Lutero?
Nei “quadri”, secondo la definizione di Vigny, dovremmo ricercare lo spirito tipico e proprio che caratterizza il temperamento ed il talento dell’artista. Da lungo tempo un’estetica d’indirizzo psicologico si è proposta di confrontare su questo punto le nozioni teoriche sopravvissute dall’antichità con le reali costanti interne della creazione artistica, di raffrontare il personale all’assoluto. Pur partendo dal presente e dalle sue esigenze, nel suo metodo tale estetica è sempre più risalita alle origini ed ha dunque percorso quella stessa via a ritroso intrapresa dai primi sostenitori del movimento impressionista, quando osarono lodare venti anni fa Velázquez e Rembrandt come predecessori di quest'arte (nonostante il biasimo che ricevettero da storici dell’arte ormai superati). Mentre tuttavia gli studiosi d’arte, indirizzati in una direzione precisa da un punto di partenza preciso, raggiungevano la loro meta senza fatica, i filosofi – confusi dalla varietà della materia – non sono riusciti a raccapezzarsi, e neppure alle tesi di [Gustav Theodor] Fechner (tesi più concepite spiritualmente che acquisite in modo sistematico) è riuscito ridurre ad una formula soddisfacente l’infinità dei problemi dell’esperienza artistica. I contrasti del talento, del carattere e specialmente dei giudizi sottomessi a stati d’animo soggettivi, emotivi ed altalenanti, non meno che le differenze di ‘clima’ hanno fin da principio reso impossibile il tentativo di raggiungere una sintesi che comprendesse la ricchezza di tutti i punti di vista sull’arte. Eppure siamo partiti dal loro principio fondamentale, l’ingenua fede nella grandezza del fatto artistico. Già dalle prime pagine che seguiranno diverrà immediatamente evidente che è inutile prendere questo principio alla base di un sistema estetico. Ed infatti tra Dürer, Michelangelo e Rubens si frappongono abissi insormontabili per ogni desiderio di tipo speculativo che cerchi un’unificazione al di là della sua verità primitiva ed al tempo stesso infinita. Meravigliosa la fausta benedizione di tale ostinazione d’artista, che i tre grandi maestri rivelano nelle loro lettere!


Fig. 42) Hans Thoma, Il girotondo, 1884
E tuttavia, subito dopo il loro tempo, una nuova epoca si sarebbe inaugurata, che si estenderà per oltre un secolo e renderà l’artista invidioso delle corone di alloro del poeta e del filosofo e vorrà anzi cancellare la linea di confine tra entrambi i campi ben distinti, la poesia e la pittura. Da un lato s’impose la dottrina dell’ ‘ut pictura poesis’, e dall’altro si manifestò l’esigenza accademica che l’artista fosse anche in condizione di poter delineare in un trattato compilato ai fini dell’insegnamento quel che aveva creato come pittore, scultore o architetto. Venne alla ribalta la questione dell’apprendibilità dell’arte, indipendentemente dal talento. È un segno evidente che si era ormai imposta una mediocrità ad uso e consumo delle neonate Accademie. Persino l’efficace percezione dell’arte di Nicolas Poussin diveniva a volta pura forma ripetitiva, e solamente in rari casi eccezionali il suo interesse umano ebbe il sopravvento sulle istruzioni d’uso pedagogico che egli propose. Ancora più a lungo che in Francia, dove lo scultore Falconet osò sfidare, come brillante esteta, un Diderot, questa forma di comunicazione impersonale si è conservata in Germania ed in Svizzera. Una forma di didattica impersonale si impose addirittura nel genere della pittura di paesaggio, genere artistico tra tutti più lontano da ogni teoria. E in reazione ai biasimi ed ammonimenti dei poeti e pittori romantici, spesso pur avvolti nei veli di una mistica sognante, ci si decise solo dopo aver superato molti pregiudizi ed errori ben radicati ad acquisire la padronanza della dialettica del diciottesimo secolo, che continuerà nel classicismo. La divergenza dei punti di vista si mostrerà nel modo più evidente nel confronto tra le lettere scritte da Maler Müller e Peter Cornelius, Asmus Carstensen e Philipp Otto Runge. Ma man mano, sia pur lentamente, e provenendo da Gran Bretagna e Francia, si compì la liberazione dello spirito dell’artista dai vincoli delle prescrizioni estetiche che davano chiaramente la priorità agli eruditi sugli artisti. Allora le orgogliose guide dell’arte del diciannovesimo secolo si presentarono come eroi di una nuova estetica, basata sull’effetto decisivo della personalità artistica. Già alla metà del secolo scorso, quell’estetica si era conquistata una posizione vincente. Questi maestri erano partiti dalla creazione, e dunque dal loro proprio lavoro, che era sorto come manifestazione del loro inconsapevole impulso creatore, ed avevano trovato parole chiare e naturali per spiegarsi nella riflessione sulle questioni artistiche. Per tutte queste ragioni le loro lettere ci sembrano ancor più importanti dei testi critici che illustrano la loro arte. Il talento straordinario a riprodurre il contenuto delle loro opinioni sull’arte in un’analisi chiara, così come è stato dato in dote a Feuerbach e Marées, a Stauffer e Hildebrand, attribuisce a tutto quel che noi possediamo di loro in forma scritta un rango di valore altissimo nel campo dell’educazione al saper vedere l’opera d’arte. A questi tedeschi corrisponde un gruppo scelto di pittori francesi, con a capo Delacroix e Fromentin, che ebbero possibilità di vivere un’atmosfera d’educazione nella Parigi del Secondo Impero, come mai si era fatto prima, e di fruire dunque pienamente dei due fattori fondamentali di una nobile cultura: buon gusto e conoscenza. Proprio per queste ragioni, come una volta ha scritto Delacroix, essi potevano dire di usare la penna ancor più facilmente di pennello e tavolozza. Essi hanno svolto un compito enorme per la comprensione dell’arte. Entrambi i potenti fulcri di diffusione della vita artistica, Roma e Parigi, fanno da sfondo in una concretezza inaudita agli istinti artistici di molti pittori, che si esprimono chiaramente nei loro desideri, piani, speranze, e addirittura dubbi. Ogni confronto sarebbe arbitrario. Solo una cosa io posso dire sulla base della mia esperienza: nelle lettere di Delacroix (come in seguito in quelle di Vincent van Gogh) s’incarna nel modo più chiaro la fiamma indivisibile di un entusiasmo che riflette un’eccitazione spirituale della massima sensibilità. Col passare degli anni la sua forza, libera da ogni limitazione letteraria che ne raffreddasse il calore, si è ancor più rafforzata, come se vivesse di energia propria. Solamente il fanatismo profetico di van Gogh è stato capace di oltrepassare l’esigenza di esternazione di Delacroix, in cui pure si manifestano sacrificio e pudore.
Fig. 43) Giovanni Segantini, La punizione delle lussuriose, 1891
Ora l’artista assunse definitivamente la guida di un coro di giovani entusiasti per l’arte. La scienza fece un passo indietro, convenientemente assumendo una posizione secondaria, e vita e fantasia diedero la tonalità di base al nuovo modo. Non vi è dubbio che in tal modo si sia dato all’artista un potere che prima non aveva. La fiducia in tale potere è la ragione per la quale la vita artistica delle nazioni ha potuto progredire in molte direzioni, anche grazie agli scritti degli artisti, come con il Problema della Forma di Hildebrand. Si giustifica così che contributi e proteste degli artisti siano ormai sicuramente destinati ad attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e che, quando si discutono cruciali questioni d’arte, si corra a raccogliere il punto di vista di artisti importanti. È il caso di Courbet, quando scrisse ai soldati tedeschi, e di Monet, con il suo appello affinché l’Olympia di Manet fosse accolta al Louvre; di Thoma e Trübner, Hodler e Segantini, Whistler e Max Liebermann. Sono i nomi di coloro che più spesso si sono occupati di questioni di politica d’arte. Tra di loro si materializzano anche differenze d’opinione molto ampie. Ne segue uno sviluppo impetuoso degli argomenti e delle parole, la cui eco ci testimonia l’attenzione che si è data al contenuto e alla forma delle loro critiche. Le lettere di questi artisti più moderni portano tutte la traccia di una consapevolezza tanto più sicura, quanto più si distanziano dalle banalità dei fatti quotidiani. Il loro orientamento dipende in ogni senso dai loro gusti personali (negli aspetti positivi e negativi del giudizio personale). In tal modo le lettere divengono interpretazioni infallibili del lavoro ed immagini fedeli del carattere dei singoli artisti.
E dunque nel corso di un solo secolo si è materializzata una valutazione opposta del giudizio critico della scienza ed un ribaltamento dell’opinione generale. Ancora Friedrich Schlegel, al quale non si può fare certo rimprovero di avere idee reazionarie, aveva chiesto una ‘normativa’ estetica. Così fondamentalmente egli aveva frainteso la frase di Winckelmann sull’imitazione, da intendere invece come emulazione, dell’antico. È stato Heinrich Heine, nell’introduzione alla sua ampia discussione del Salon del 1831, ad aver espresso un’opinione contraria allo Schlegel: “Il maggior errore consiste nel fatto che il critico ponga la domanda: Che cosa deve fare l’artista? Molto più importante sarebbe la domanda: che cosa vuole l’artista?” E quel critico innovatore continua in modo non meno chiaro: “Ogni nuovo genio dell’arte deve essere giudicato sulla base dell’estetica che egli stesso ha prodotto.” Il giorno in cui queste parole sono state messe per iscritto, è cambiato radicalmente nella giusta direzione, dalla sera alla mattina, il corso dell’estetica. La libertà della creazione artistica non sopporta alcuna obiezione che possa basarsi su considerazioni scientifiche e non al tempo stesso sull’esperienza di vita. Anche questo segno caratterizza la maggioranza delle lettere d’artista qui di seguito. Ed al lettore attento diverranno inoltre evidenti altri paralleli e motivi convergenti dell’attività e dell’impostazione degli artisti, in particolare nei vari resoconti con cui i diversi maestri descrivono il loro arrivo a Roma, o nelle memorie scritte per l’insegnamento nelle accademie. Le differenze tra le nazioni divengono chiare nelle lettere che Dannecker scrisse a Schiller e David d’Angers a Goethe. Ancor più forte e più emozionante di questi modesti suggerimenti, contenuti nelle ‘Lettere d’artisti sull’arte’ e mostrati en passant, rimarrà il pensiero sempre più saldo nella nostra coscienza di quanto noi si debba alla parola degli artisti per la comprensione del legame organico tra processo e contenuto della creazione artistica, e di quanto poco noi potremmo vedere se tale parola non ci avesse aperto gli occhi, interpretando ed insegnando in modo benevolo.
Fig. 44) Ferdinand Hodler, La Primavera, 1907

POSTFAZIONE ALLE 'LETTERE DI ARTISTI SULL'ARTE' (pagine 933-934)
Può essere interessante per qualche lettore poter ricevere qualche informazione più accurata sulla “preparazione” (come si soleva dire nell’ ‘ars poetica’ del diciassettesimo secolo) di questo libro. Partendo dal desiderio di preparare una nuova edizione delle Lettere d’artisti di [Ernst] Guhl, si è manifestato il desiderio di ridurne e di ampliarne al tempo stesso le dimensioni, prima lavorando all’estensione delle lettere fino ad oggi, e poi selezionando i documenti degli artisti non secondo la loro importanza storica e biografica, ma sulla base del loro contenuto estetico-artistico.

Fig. 45) Frontespizio del primo volume delle Lettere d’artisti di Ernst Guhl, 1853

Fig. 46) La seconda edizione della raccolta di Lettere d’artisti di Guhl, rivista ed ampliata da Adolf Rosenberg nel 1879

Questo obiettivo ha definito in primo e – con pochissime eccezioni – esclusivo luogo l’inclusione delle lettere d’artista nella presente raccolta. Ovviamente, a causa di questo desiderio, crebbero il compito e l’entusiasmo del curatore, che deve riconoscere con gratitudine che la felice conclusione di quest’impresa è stata possibile grazie all’ampio ed amichevole sostegno di numerose biblioteche, compagni di studio e collezionisti.

Fig. 47) Inventaire des autographes et des documents historiques composant la collection de M. Benjamin Fillon, 1878

Cinque sesti delle lettere pubblicate da Guhl sono dunque uscite dal primo capitolo. Per la parte successiva, che comprende la fine del diciassettesimo e l’intero diciottesimo secolo, non esisteva alcun lavoro precedente cui ispirarsi. Qui ho potuto rintracciare il materiale soprattutto grazie ai grandi cataloghi di collezioni autografe francesi (come gli inventari di Fillon e Bovet) e poi grazie all’esemplare completezza delle pubblicazioni archivistiche francesi alla Biblioteca di Stato di Monaco; per la Germania ho esaminato minuziosamente i cataloghi di autografi, e poi lavorato sistematicamente sul Grundriss zur deutschen Literaturgeschichte di Goedeke, il Lessico degli artisti di Thieme-Becker e numerose monografie.

Fig. 48) La collezione di Lettere d’artisti del diciottesimo secolo, edite dall’editore Cassirer di Berlino nel 1913

Per il diciannovesimo secolo mi hanno offerto una solida base le ‘Lettere d’artista’ collezionate in bella forma dall’editore Bruno Cassirer. La mia eccellente biblioteca, che raccoglie quasi tutte le monografie disponibili su artisti del diciannovesimo secolo, ha originato una quantità addirittura eccessiva di lettere, costringendomi a dover fare una selezione di quanto era presente. L’editore ha riservato fin dall’inizio del suo lavoro particolare attenzione ad ogni elemento che potesse completare la collezione. Il desiderio di trarre materiale sconosciuto o difficile da reperire presso collezioni dimenticate si è fatto esaudire solamente nelle ultime sezioni del libro. È certo che in archivi e biblioteche all’estero giacciano dimenticati tesori che potrebbero arricchire fondamentalmente le nostre conoscenze. Anche i ricercatori più seri devono però ammettere che – soprattutto per gli artisti italiani del Rinascimento – gli sforzi della ricerca non hanno dato i frutti sperati.

Fig. 49) Un compendio delle Lettere d’artisti del Rinascimento di Guhl, curato da Wilhelm Miessner nel 1913

Indicazioni preziosissime mi sono giunte da due volumi: Hermann Popps, L’estetica dei pittori (Strasburgo 1902) e Arréat, Psychologie du peintre (Parigi, 1893). Soprattutto nel secondo libro ho cercato le fonti degli interventi degli artisti francesi contemporanei. Il vero compito dell’editore è stato però quello di avviare la ricerca del materiale secondo un canone che prescindesse dalla presenza o dall’assenza della documentazione. In una corrispondenza ininterrotta di circa mezzo anno ho cercato di seguire il nodo attorcigliato e nascosto della letteratura artistica, senza purtroppo essere sempre in grado di raggiungere gli aspetti rilevanti. E tuttavia, su alcune centinaia di richieste, due sole sono rimaste senza risposta, ed una sola richiesta è stata rigettata. Ed al contrario, in una intera serie di casi, colleghi che debbo qui ringraziare in modo particolare hanno rinunciato alla propria pubblicazione di lettere che era già pronta o hanno autorizzato che io potessi pubblicarle in anticipo.

Fig. 50) Un’edizione negli anni della Guerra: Lettere europee d’artisti: Confessioni sullo spirito, del 1941

Ancora una volta si deve qui ricordare che l’assenza di lettere di alcuni artisti di primissimo piano si spiega con il fatto che appunto non hanno scritto lettere sull’arte. Solamente dopo aver verificato con insistenza con conoscitori ed amici intimi degli artisti abbiamo dovuto rinunciare. La redazione finale è avvenuta sulla base del principio, giustificato da un punto di vista scientifico e del tutto indicato sulla base della dimensione prevista per il volume, che in primo luogo i migliori scrittori di lettere fossero presi in considerazione con più lettere e che, dopo di loro, tutti i contemporanei altrimenti importanti fossero rappresentati da una o due lettere, a seconda del loro significato. Si è così ottenuto che il numero di 350 lettere non fosse superato e che si potesse comunque formare nell’animo del lettore un’immagine completa dello sviluppo letterario-estetico delle mutazioni delle opinioni degli artisti dall’epoca del Rinascimento fino ai giorni nostri.

Fig. 51) Gerhard Peters, Lettere d’artisti tedeschi del diciannovesimo secolo, 1948

NOTE
[47] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst. Bekenntnisse von Malern, Architekten und Bildhauern aus fünf Jahrhunderten, Mit sechzig Selbstbildnissen und den Künstler-Unterschriften, Verlag von Wolfgang Jess, Dresden, 1926, 967. Citazione alle pagine 10-11.

[48] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p. 9.

[49] Guhl, Ernst - Künstler - Briefe. Übersetzt und erläutert, Berlino, Trautwein, 1853. Il testo completo è disponibile all’indirizzo https://archive.org/details/kunstlerbriefe01guhl

[50] Guhl, Ernst - Künstler-Briefe. Band 2, Kunst und Künstler des siebzehnten Jahrhunderts, Berlino, Guttentag, 1856. Il testo completo è disponibile all’indirizzo
https://archive.org/details/kunstlerbriefe02guhl

[51] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p. 11.

[52] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p. 15.

[53] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p. 19.

[54] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p. 16.

[55] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p.18.

[56] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p. 7.

[57] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p. 8.

[58] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p. 14.

[59] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p. 10.

[60] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), pp.7-8.

[61] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p. 15.

[62] Uhde-Bernays Hermann, Künstlerbriefe über Kunst ... (citato), p.7.


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