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Giovanni Mazzaferro
Da Brescia (1670) a Città del Messico (1745 ca):
migrazioni culturali all’ombra dell'Arte Maestra di Francesco Lana
Parte Seconda: Città del Messico
Il manoscritto
Parte Seconda: Città del Messico
Un plagio del tutto presunto
Meglio affrontare subito il problema:
quando si parla della traduzione in castigliano dell’Arte Maestra ci si scontra subito con una questione antipatica,
ovvero l’esistenza di un possibile plagio. Come già detto, nel 2005, Myrna Soto
pubblica la prima edizione del manoscritto intitolato El Arte Maestra [27]. Sia lei, sia il marito, Guillermo Tovar de
Teresa, celebre cattedratico che scrive il prologo dell’opera, lo considerano
il primo trattato di pittura scritto da un artista locale nel Vice-Reame della
Nuova Spagna e identificano l’autore nella persona di José de Ibarra
(1685-1756).
Un anno dopo, invece, Paula Mues
Orts pubblica una nuova edizione dell’opera, in cui dimostra che in realtà El Arte Maestra è la traduzione
(incompleta) del trattato di Francesco Lana [28]. Mues segue probabilmente
un’indicazione di Soto; quest'ultima suppone che il titolo El Arte Maestra derivi dal trattato di Lana, ma evidentemente non
ha modo di consultarlo. Mues ci riesce, e s’accorge immediatamente della
circostanza.
È appena evidente che la scoperta
di Mues ridimensiona i toni trionfalistici e patriottici di Soto. E tuttavia
non si capisce come la seconda abbia potuto denunciare per plagio la prima al
Tribunale Universitario del Messico, ottenendo peraltro l’uscita dal commercio
dell’opera. La sentenza è stata appellata da Mues che ha ottenuto un
ridimensionamento drastico del verdetto, consistente in un richiamo ufficiale
per non essere stata corretta nei confronti di Myrna Soto.
In tutta sincerità, l’impressione
che ci si trovi di fronte a conflitti fra potentati universitari è grande. Ho
letto il libro di Mues: l’autrice cita Myrna Soto almeno venti volte (le ho
contate) e spiega chiaramente in cosa è d’accordo e in cosa non lo è con
l’autrice della prima edizione. Poi è chiaro – e inevitabile - che Mues è in
qualche modo influenzata dall’opera pubblicata l’anno precedente. Davvero, ad
occhio esterno, non si capisce il motivo dell’accaduto. E su Internet si
possono leggere diversi attestati di solidarietà, ben argomentati, a Paula Mues
Orts.
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Juan Correa (1646-1716), Paravento con l'illustrazione dei quattro continenti, Museo Soumaya, Città del Messico |
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Cristóbal de Villalpando (1649-1714 circa), La Vergine dell'Apocalisse, Museo Bello y González, Ciudad de Puebla Fonte: Wikimedia Commons |
Il manoscritto
Il manoscritto
intitolato El Arte Maestra. Discurso
sobre la Pintura. Muestra el modo de perficionarla con varias invenciones y
reglas practicas pertenecientes a esta materia si trova fra i manoscritti
del Fondo Reservado de la Biblioteca Nacional de México, a Città del Messico.
In particolare è contenuto all’interno dei faldoni denominati Borradores (bozze) di Cayetano de
Cabrera y Quintero, intellettuale di spicco del primo Settecento neo-spagnolo.
La segnatura precisa è Manuscrito 29 ff. 265r.-273v. Nonostante la
denominazione, non tutte le carte facenti parte delle bozze di Cabrera y
Quintero sono effettivamente di suo pugno. In particolare El Arte Maestra è privo dell’indicazione dell’autore e – come
vedremo – sia Soto sia Mues concordano nell’indicare come possibile estensore il
pittore José de Ibarra, legato a Cabrera da comunanza di interessi e occasioni
professionali.
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Juan Rodríguez Juárez (1675 - 1728), Autoritratto, Museo Nacional de Arte, Città del Messico |
Il manoscritto è una traduzione
incompleta de l’Arte Maestra di Lana.
Paula Mues ha provveduto (per agevolare l’esame del testo) a numerare i
paragrafi sia dell’originale bresciano sia della copia neo-ispanica: rispetto
ai 74 paragrafi italiani si passa a 57. Il testo viene dunque abbreviato. Ma in
realtà non si tratta dell’unica differenza. L’autore (o gli autori) messicani,
pur mantenendosi in sostanza fedeli all’originale, operano una trasformazione
del testo, di fatto appropriandosene e rendendolo (quasi) perfetto per la
realtà locale. L’operazione, in questo senso, è assai felice [29]. Eppure, come
in una specie di indovinello, gli elementi per la soluzione ci sono tutti. Il
nome del vero autore compare all’inizio del secondo dei quattro capitoli
dell’opera; soltanto che – in questa circostanza – Lana è un nome da citare
come riferimento che avvalora le tesi degli autori: “Padre Francesco Lana,
della Compagnia di Gesù, vuole che, per questo motivo, si facciano delle
statuette di cera” (p. 93). La circostanza che i traduttori abbiano in mano il
libro di Lana, ovvero l’intero Prodromo,
di cui ho parlato nella prima parte di questo saggio, è confermata da almeno
due elementi: alla fine del par. 51, in cui si cita l’opera di “Nicolas dela
oja de Marsella” (in originale, Nicolò della Foggia di Marsiglia, ovvero il
francese Nicolas la Fage), si dice che eseguì un ritratto a ricamo di Papa
Urbano VIII attorno al 1670. L’indicazione dell’anno non compare nell’originale
di Lana, ed è semplicemente l’anno di edizione del Prodromo.
Il manoscritto neo-ispanico si chiude poi con due versi latini che non sono
contenuti nell’Arte Maestra; ma, a
ben guardare, il secondo di tali versi (“Evanescunt in cogitationibus suis”;
citazione da una lettera di S. Paolo ai Romani) è presentato proprio nel
proemio del Prodromo [30].
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Juan Francisco de Aguilera, La Purisima Concepción con jesuitas, 1720, Città del Messico, Museo Nacional de Arte Fontr: Wikimedia Commons |
Modifiche fra originale e traduzione
I quattro capitoli dell’originale
di Lana mantengono le loro denominazioni (invenzione, disegno, colorire, vari modi per dipingere). Risulta però che vi sia un diverso
livello di completamento della traduzione. Nel caso dei primi due capitoli,
l’opera appare compiuta e modifiche e omissioni sembrano quindi operate a
ragion veduta. Discorso quasi analogo per il terzo capitolo, quello sul
colorire e su luci e ombre, da cui però scompaiono gli ultimi quattro
paragrafi. Il quarto capitolo, di natura eminentemente pratica, è di fatto
allo stato di bozza, con interi paragrafi omessi e però riassunti in alcuni
casi con semplici epigrafi, segno che gli autori volevano continuare la
traduzione. Non è ovviamente noto il motivo per cui il progetto fu sospeso.
Le omissioni operate in quelle
parti dell’opera in cui la traduzione appare completata sembrano dovute o a
ragioni di brevità o perché i riferimenti fatti da Lana sono incomprensibili
per gli stessi traduttori. L’elogio del Clemente (che ancor oggi non sappiamo
con sicurezza chi fosse – si veda la Parte Prima) è occasione per rimuovere
l’intero paragrafo in cui se ne parla. Compaiono poi modifiche ed omissioni di
minore importanza e solo parziali, chiaramente dovute alla necessità di
adattare il testo alla realtà neo-ispanica [31]. Un esempio fra quelli proposti
da Paula Mues: parlando di contrapposti, Lana aveva fatto notare che “il
candore di un volto europeo [spiccherà] al confronto di un etiope”; un
passaggio che sarebbe divenuto incomprensibile nel Vice-Reame in cui il
confronto è operato fra “la bianchezza di un volto e la negritudine di un
altro” (p. 49).
Ma i veri cambiamenti che
connotano l’opera come qualcosa di “diverso” e non un semplice plagio sono in
realtà due sostituzioni, volte a rendere conto da un lato di fenomeni
tradizionali locali e dall’altro dello sviluppo artistico neo-ispanico. Il
primo caso è semplicissimo. Il paragrafo che, nel quarto capitolo
dell’originale di Lana, è dedicato alle immagini e ai ritratti fatti con le
penne di uccelli [32] scompare. Ma al suo posto, a testimonianza che il lavoro
è incompleto e che era intenzione degli autori svilupparlo, compare l’epigrafe
“Pintura de Plumas de Nuestras Indias”. I traduttori ritengono che Lana stia
parlando di una loro tradizione secolare. La seconda situazione è ancor più
significativa. Nel capitolo terzo viene cancellato il lungo paragrafo in cui
Lana spiega come mescolare i colori sulla tavolozza. Chi traduce, invece,
scrive semplicemente che alcuni artisti operano la miscela sulla tavolozza; “in
estos nuestros Reynos de las Indias, duró mucho años esta destemplada
[tremante] necedad; hasta que [fino a quando] Juan Rodriguez Juares, el
Villalpando, y Aguilera famosissimos en sus pinturas despreciaron con animo
verdadermente heroyco esta cansada [stanca] timidez, introduciendo las mezclas
delos colores delos pincelos al lienzo [sulla tela]” (p. 102).
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Miguel Rudecindo Contreras (attribuito a), Ritratto di José de Ibarra, Museo Nacional de Arte, Città del Messico Fonte: Wikimedia Commons |
L’arte nella Nuova Spagna
Facciamo un passo indietro. È
facile pensare che il Prodromo sia
giunto nel Vice-Reame di Spagna tramite un gesuita viaggiatore (ovvero un
confratello di Lana). Qui, in qualche modo, deve essere venuto a conoscenza di
un letterato legato al mondo artistico, o direttamente di uno o più artisti, che
decidono di intraprendere l’opera di traduzione. Gli artefici hanno piena
consapevolezza della rarità dell’opera (nelle colonie circolano già, ad
esempio, i trattati di Palomino o quelli di Vitruvio) e quindi danno vita ad
un’operazione di trasformazione del testo, che comprende l’eliminazione del
nome dell’autore e la nascita di un manuale “messicano”. Non si tratta di un
plagio vero e proprio, perché il testo è adattato alla realtà neo-ispanica
(così bene che anche Myrna Soto ne è ingannata). E sulla realtà neo-ispanica
lascia trasparire elementi importanti: la coscienza di una tradizione pittorica
diversificata e la consapevolezza dell’evolvere delle tecniche e dello stile
(tramite il mescolamento dei colori direttamente su tela). Sono elementi
tutt’altro che scontati.
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José de Ibarra, Ecce Homo, Museo Regional de Querétaro Fonte: http://www.pintoreslatinoamericanos.com/2013/09/pintores-mexicanos-jose-de-ibarra.html |
Paula Mues, nella sua
introduzione, dichiara esplicitamente di essere in disaccordo con Myrna Soto
quando quest’ultima ritiene che lo sviluppo dell’arte nella Nuova Spagna fosse
ancora fermo ad un livello di pratica artigianale, senza consapevolezza della
“nobiltà” della pittura. In particolare, proprio la pittura sarebbe stata
soffocata dalla presenza costante e ingombrante della Chiesa, che avrebbe
imposto la replica di modelli sempre eguali a se stessi. Per Mues, invece, la
realtà è molto più variegata; gli artisti non sono più artigiani, hanno piena
consapevolezza del loro ruolo e non si confrontano più solo con la pittura
sacra. In particolare, il passaggio alla mescola dei colori su tela e non più
su tavola corrisponderebbe all’avvento di una generazione di artisti facenti
capo ai fratelli Rodriguez Juarez (siamo
agli inizi del ‘700) che hanno preoccupazioni tecniche e didattiche prima
assenti. Non a caso i due fratelli e altri artisti sarebbero riuniti nel 1722
attorno ad una loro Accademia, di cui farebbe parte anche un giovane José de
Ibarra. Non sappiamo molto dell’attività di questa come di altre Accademie. In
realtà solo nel 1754 (due anni dopo la creazione della prima Accademia a
sovvenzione pubblica in Spagna, l’Accademia di San Fernando) si costituisce
formalmente un’accademia neo-ispanica che chiede al sovrano di Spagna gli
stessi privilegi di quella di San Fernando. L’unica figura di continuità fra
l’Accademia del 1722 e quella del 1754 è José de Ibarra, che questa volta
compare come decano e presidente degli artisti. Secondo Mues, la traduzione
dell’Arte Maestra di Francesco Lana e
la stesura (mai terminata, a quanto ne sappiamo) di un trattato “adattato” alla
realtà neo-ispanica fa parte delle attività del nucleo dei pittori accademici
ed è volta a fornire materiale didattico e conoscenze tecniche ai giovani.
Anche secondo Soto la stesura
della traduzione è frutto di una delle Accademie (o private o ufficiali) ma è
volta alla rivendicazione della liberalità della pittura, e quindi al
riconoscimento di privilegi di ordine fiscale per gli artisti. Si tratterebbe,
dunque, di un fenomeno molto simile a quello che, durante il 1600, Francisco
Calvo Serraller riscontra in Spagna e testimonia nella sua fortunatissima
antologia di letteratura artistica iberica intitolata Teoría de la Pintura del Siglo de Oro. Il tutto in un contesto
sempre dominato dal controllo soffocante della Chiesa. Mues – a mio avviso
giustamente – fa tuttavia notare che, se così fosse, l’Arte Maestra sarebbe stato il trattato che meno si addiceva allo
scopo, posto che, pur redatto da un gesuita, non appariva uno scritto animato
da spirito controriformato e non rivendicava nemmeno una nobiltà dell’atto
pittorico che semmai era considerata un fatto ampiamente acquisito.
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José de Ibarra, Vergine dell'Apocalisse, Pinacoteca de La Profesa, Città del Messico Fonte: https://lourdeschavezblog.wordpress.com/tag/museo-nacional-de-arte/ |
L’autore
Sia Myrna Soto sia Paula Mues
Orts sono concordi nel sostenere che l’autore della traduzione non possa essere
stato Cayetano de Cabrera y Quintero, il letterato fra i cui faldoni è stato
rintracciato lo scritto. Lo testimonierebbero il diverso stile letterario (ma
quest’affermazione, nel caso di Soto, decade nel momento in cui si sa che siamo
di fronte a una traduzione e non a un’opera originale), ma soprattutto una
presunta incapacità a padroneggiare il lessico tecnico proposto da Lana e
tradotto in castigliano.
Sarò onesto. Gli argomenti
addotti a favore dell’autografia di José de Ibarra sono assolutamente indiziari
e vanno quindi considerati molto cautamente. Non sappiamo, ad esempio, se
Ibarra conoscesse l’italiano. Mues suggerisce che probabilmente era mulatto (p.
75) e tuttavia in un ritratto a lui riferiti non ci sembra che ne abbia
i tratti. Quest’ultima circostanza può però avere una sua valenza, se si tiene
conto che la società neo-ispanica era organizzata per caste, in cima alle quali
stavano ovviamente gli spagnoli e poi a scendere le varie classi fino a
giungere agli indios. Ibarra in ogni caso si trovava in una situazione
intermedia (ovvero non era spagnolo; se non era mulatto, era creolo) e quindi
la traduzione del trattato potrebbe anche avere uno scopo di promozione
personale. E sicuramente l'autore si dedicò anche alle cosiddette 'pitture di casta', un genere squisitamente proprio del Vice-Regno in cui si evidenziavano le discendenze derivate da matrimoni 'misti'.
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José de Ibarra (attribuito a), Coppia mista fra uno spagnolo, un'india e figli meticci (1725 circa) Fonte: http://www.pintoreslatinoamericanos.com/2013/09/pintores-mexicanos-jose-de-ibarra.html |
Mues ritiene
peraltro che la traduzione sia un lavoro collettivo, almeno a quattro mani, in
cui un letterato e un pittore si siano aiutati a vicenda.
Certo è che Cabrera Y Quintero e
Ibarra si conobbero e frequentarono. La prima metà del ‘700 è segnata
dall’irrefrenabile ascesa del culto di Santa Maria de Guadalupe (oggi patrona
di tutto il continente americano), una Madonna – non dimentichiamolo – che
assume i tratti di una giovane meticcia ed è rappresentata con alcuni attributi
che potrebbero derivare direttamente dal mondo azteco. A fine anni ’30 del Settecento
Cabrera Y Quintero viene incaricato dall’arcivescovo Juan Antonio de Vizarrón
di scrivere un’opera (intitolata Escudo
de armas de México) in cui ricordare la pestilenza del 1736 a Città del
Messico e il conseguente miracolo della Madonna di Guadalupe che liberò la
città dall’epidemia nel momento in cui si decise di nominarla sua patrona.
Negli anni successivi la Vergine divenne poi patrona di tutta la Nuova Spagna.
Ma quel che più conta è che l’incisione che costituisce il frontespizio dell’Escudo è opera di Ibarra. Cabrera e
Ibarra dunque si conoscevano e lavorarono insieme. Inoltre nelle carte di
Cabrera è stato trovato anche il disegno originale per l’incisione del
frontespizio, segno che vi fu un travaso di carte dal pittore all’erudito.
Oltre a ciò va aggiunto che Ibarra partecipò – come si è detto – alle attività
delle Accademie di cui abbiamo ben poche testimonianze, ma che a giudizio sia
di Soto sia di Mues furono il brodo di cultura da cui nacque la traduzione
dell’Arte Maestra. Mues si spinge sino a proporre una possibile datazione della
traduzione, che – a suo dire – risalirebbe attorno al 1745 (p. 82).
Tutti indizi; nessun dato
oggettivo. È evidente che sull’argomento c’è ancora molto da dire.
A me, nel frattempo, piace
pensare, che lo sconosciutissimo trattato di Francesco Lana abbia compiuto il
viaggio che lo ha portato da Brescia a Città del Messico non a bordo di
un’imbarcazione, ma di una di quelle “navi volanti” che il gesuita si trovò a
progettare nei suoi scritti, solo aspetto per cui, ancor oggi, è unicamente
noto.
NOTE
[27] Myrna Soto, El Arte Maestra. Un tratado de pintura
novohispano. Prologo di Guillermo Tovar de Teresa, Città del Messico,
Universidad Nacional Autónoma de México, 2005. Ho cercato di procurarmi l’opera
scrivendo almeno sette mail a diversi referenti dell’UNAM. Non ho mai ricevuto
risposta. L’opera, peraltro, non può essere comprata nemmeno sul sito messicano
di Amazon. Mi sono così visto costretto a leggere quanto del volume è
consultabile su Google Books (una settantina di pagine iniziali, che
comprendono il prologo di Tovar de Teresa e buona parte del saggio introduttivo
di Myrna Soto).
[28] El Arte Maestra: traducción novohispana de un tratado pictórico
italiano. Estudio introductorio y notas de Paula Mues Orts. Museo de la
Basilica de Guadalupe, 2006. L’opera è consultabile online sulla pagina
Academia.edu della studiosa. Io, tuttavia, ho potuto approfittare della sua
cortesia, posto che me ne ha spedita una copia cartacea.
[29] Lo dimostra il fatto che
anche Myrna Soto e Guillermo Tovar de Teresa (in perfetta buona fede) accreditano il manoscritto come originale.
[30] Francesco Lana Terzi. Prodromo all’Arte Maestra. A cura di
Andrea Battistini, Milano, Longanesi, 1978. p. 45.
[31] Solo di passaggio credo sia
il caso di ricordare che il Vice-Reame della Nuova Spagna comprendeva all’epoca
buona parte degli attuali stati meridionali degli USA, il Messico e tutta
l’America Centrale, nonché territori a loro volta molto distanti, come le
Filippine.
[32] Francesco Lana Terzi. Prodromo all’Arte Maestra… cit. p. 263.
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