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mercoledì 23 settembre 2015

Le lettere di Francisco Goya. A cura di Sarah Simmons.


English Version

Goya. A Life in Letters

A cura di Sarah Simmons
Con una nuova traduzione di Philip Troutman e una prefazione di Julia Blackburn


Londra, Pimlico, 2004


Vicente López, Ritratto di Francisco Goya, 1826, Madrid, Museo del Prado
Fonte: 
https://www.museodelprado.es/coleccion/galeria-on-line

La copertina del libro. Il disegno in copertina è un autoritratto in forma di caricatura
schizzato dall'autore nella lettera 244


Goya. A Life in Letters” è la prima raccolta integrale in lingua inglese delle lettere di Francisco Goya (1746-1828). La traduzione di quasi tutti i documenti si deve a Philip Troutman, che però non ha avuto modo di completare l’opera (è deceduto nel 1999). A proseguire il suo lavoro è stata Sarah Simmons. Pur con aspetti non del tutto convincenti si tratta dell’edizione più completa del carteggio dell’artista aragonese. In Italia è disponibile una versione limitata al nucleo principale delle lettere, edita da Rosellina Archinto nel 1990 e basata su una versione spagnola del 1982, col titolo Perché non scrivi, selvaggio? Lettere a Martín Zapater [1].

Il carteggio di Goya è davvero imperdibile. Vi risultano presenti lettere ufficiali e missive di natura privata. Non vi è dubbio che il nucleo fondante delle carte sia costituito dallo scambio epistolare fra l’artista e Martín Zapater, amico di una vita. Francisco e Martín erano entrambi originari di Saragozza e si erano conosciuti nel corso dei loro studi. Nel 1775 Goya si trasferisce a Madrid per cercar fortuna e da lì parte un fittissimo scambio epistolare che si protrae per decenni. Purtroppo si tratta di un carteggio mutilo, nel senso che non siamo in possesso delle lettere inviate da Martín a Goya, e che non tutte quelle inviate dal pittore all’amico ci sono giunte (un esempio: l’ultima lettera che conosciamo è del 1797, mentre Zapater muore nel 1803). Tuttavia, quanto ci rimane è talmente ricco di vitalità, esuberanza, spontaneità, vero senso dell’amicizia da chiederci realmente come mai le lettere di Goya non abbiano conosciuto il successo universale che spetta invece a quello di altri artisti. La risposta sta probabilmente nel fatto che non descrivono gli anni più difficili della vita dell’artista spagnolo, a cui corrisponde peraltro la produzione pittorica e grafica più espressiva e allucinata. Insomma, è come se il carteggio di Van Gogh si fermasse dieci anni prima del suicidio.


Francisco Goya, Ritratto di Martín Zapater, 1797, Bilbao, Museo di Belle Arti
Fonte: Wikimedia Commons

E tuttavia non siamo di fronte a documenti inutili: le missive di Francisco ci danno modo non solo di seguire la carriera dell’artista dagli inizi fino al successo, ma di comprendere assai meglio il carattere e la figura dell’artista aragonese e di cogliere in esse i germi degli incubi che popoleranno le sue opere negli anni della maturità e della vecchiaia.

Su un piano personale c’è un elemento che fa da spartiacque nella vita di Goya: si tratta della malattia che lo colpisce fra 1793 e 1794 e lo rende completamente sordo. Se ciò non gli impedirà di proseguire con successo la sua carriera, fino a divenire nel 1799 Primo Pittore di Corte, è possibile intuire cosa deve aver significato l’assoluta incapacità di sentire qualsiasi cosa per quest’uomo, che nelle sue lettere dimostra di essere innamorato follemente della vita in tutte le sue forme. E non è nemmeno difficile immaginare cosa debba essere successo nella mente di Goya quando, all’invalidità, si sommano da un lato la morte di Martín e dall’altro l’arrivo dei francesi, l’inizio della guerra d’indipendenza spagnola (1808-1814), il ritorno dei Borbone con un regime fortemente inquisitivo, da cui, di fatto, Goya si autoesilia trasferendosi nel 1824 a Bourdeaux, dove muore quattro anni dopo.

Francisco Goya, I duchi di Osuna e i loro figli, 1788, Madrid, Museo del Prado
Fonte: Wikimedia Commons

Francisco Goya, Ritratto del Duca d'Alba, 1795, Madrid, Museo del Prado
Fonte: Wikimedia Commons


“Baciami il culo” 

Non dobbiamo aspettarci che, nelle sue lettere, Goya spieghi la sua arte: né in quelle ufficiali (il più delle volte si tratta di comunicazioni di ordine finanziario) né in quelle personali: Zapater non s’interessa d’arte (se non di quella dell’amico) ed è un uomo d’affari, che a sua volta percorrerà una solida carriera nell’ambiente di Saragozza fino a raggiungere la nobiltà e che si occuperà, per tutta la sua esistenza, degli investimenti dell’artista, ma soprattutto di finanziare i parenti di Francisco rimasti in provincia dopo la morte del padre (la madre, ma anche fratelli e sorelle). La fiducia fra i due, sotto questo punto di vista, è totale. Goya fa pervenire delle rendite ai parenti tramite l’amico e ogni tanto si raccomanda con Zapater di mandargli il conto di quello che gli deve. La vera bellezza delle lettere, specie di quelle inviate a Martín, consiste nella libertà dei loro contenuti e nella loro spregiudicatezza. Si parla di tutto, con espressioni colorite che lasciano trasparire una confidenza assoluta. “Baciami il culo!” (e a volte anche altro) è un intercalare di saluto, che viene usato ovviamente con grande affetto reciproco. È come se due amici si trovassero al bar a giocare a carte e parlassero del più o del meno. Uno manda la cioccolata all’altro, e l’altro si sdebita spedendogli salsicce. Fra Saragozza e Madrid è un continuo e reciproco scambio di oggetti (sedie, tavoli, muli, letti), di cortesie e di confidenze che rinsaldano un’amicizia decennale. Goya ha una grande passione in comune con Martín: adora la caccia. Parla spessissimo delle sue battute venatorie, dei suoi cani, rimpiange di non poterci andare con Martín, si fa bello delle sue prede: con l’amico si vanta più delle beccacce che ha ucciso che dei suoi quadri. Il regalo più bello che Martín gli possa fare è un cucciolo di cane da riporto. Intere lettere sono dedicate a come cresce, ai suoi progressi, alla sua salute.

Francisco Goya, Cani da caccia al guinzaglio, 1777, Madrid, Museo del Prado
Fonte: Wikimedia Commons

Francisco Goya, Uomini coi trampoli, 1791-1792, Madrid, Museo del Prado
Fonte: Wikimedia Commons

Francisco Goya, L'assalto dei banditi, 1793-1794, Madrid, Collezione Castro Serna
Fonte: http://goya.unizar.es/InfoGoya/Obra/Catalogo/Pintura/269.html


Francisco ama le corride, stare fra la gente, le tradizioni popolari; apprezza molto la musica e più dei concerti reali (cui assiste e di cui dà conto di sfuggita – cfr. lettera 189) gradisce le canzoni popolari, di cui invia i testi all’amico, assicurandogli che gli farebbe piacere potergli fare sentire come fanno (del resto, quando Goya si trasferisce momentaneamente a Saragozza per una commissione nel 1780 l’unica cosa che chiede all’amico è di procurargli un luogo dove dormire con un tavolo, delle sedie, un letto e una chitarra). Già prima della sordità (che a maggior ragione deve aver subito come trauma) capisce che il ruolo che ha raggiunto (è pittore reale dal 1789) gli impedirà di frequentare i posti dove si cantano: “non le ho mai sentite [n.d.r. a proposito di alcune canzoni popolari di cui manda i testi a Martín], e probabilmente non le sentirò mai, perché non vado più nei posti in cui potevo ascoltarle; mi è entrato in testa che devo mantenere un certo contegno e l’aria di dignità […] che un gentiluomo dovrebbe avere, e, come puoi immaginare, non ne sono contentissimo” (lettera 206).

Le lettere assumono spesso l’aspetto di veri e propri scherzi: ce ne sono alcune in cui Francisco copre l’amico di insulti, altre in cui gli dà dell’Eccellenza e lo tratta come se stesse scrivendo al re; una è scritta in francese (solo perché Francisco lo sta studiando e vuole far vedere all’amico che qualcosa è riuscito a imparare); una è in versi. Un elemento fondamentale che le caratterizza sono gli schizzi che vi sono disegnati sopra. E qui l’edizione inglese curata dalla Simmons ci lascia perplessi. Gli schizzi di Goya non hanno affatto scopo decorativo: sono parte integrante delle lettere. Un esempio banale: alcune si concludono con l’espressione “ti sta vedendo tuo fratello” e subito dopo riportano un occhio disegnato da Francisco. A parte tre eccezioni (in cui l’immagine compare fra le tavole fuori testo di corredo al volume), la raccolta inglese non mostra le immagini, ma semplicemente le descrive. Non si capisce perché. [2] Ma ovviamente si perde l’immediatezza e la freschezza d’insieme. Nell’ultima lettera inviata a Martín  e a noi pervenuta (risale grosso modo a Natale 1797) un gruppo di amici, fra cui Goya, è riunito in una bettola per festeggiare Zapater che gli ha mandato dei denari annunciando di aver vinto alla lotteria. Il saluto finale è affidato a un uomo chinato visto di dietro, che, coi pantaloni calati, mostra le chiappe al lettore, a chiaro commento della fortuna di Martín. Non è certo l’unico esempio di goliardia.

A dicembre del 1790 Goya riceve da Martín una missiva in cui, molto probabilmente, l’amico gli ha disegnato l’immagine del suo pene eretto. La lettera di risposta comincia cosi:

“Dio Onnipotente, che gran cazzo! Devi averne preso i contorni mentre eri eccitato e pensavi a Miss Piety [n.d.r. la versione inglese riporta "Miss Piety"; non conosco la versione originale, ma molto probabilmente si tratta di un soprannome per l'organo sessuale femminile], ma se invece lo hai disegnato a mano allora sei ovviamente un disegnatore nato e il Signore sa bene che merita un posto dove sia accolto così come un Santo si merita le candele! Che peccato che non possa essere esibito in pubblico e che la signora che più lo gradisce non se lo possa prendere…” (lettera 206).


Francisco Goya, La Maja desnuda, 1795-1800, Madrid, Museo del Prado
Fonte: https://www.museodelprado.es/uploads/tx_gbobras/P00742.jpg



Dall’epistolario all’opera artistica

La libertà è totale. In un’altra lettera Francisco racconta a Martín di essersi appena masturbato. Non lo riportiamo per puro gusto del pettegolezzo, ma perché poi l’artista continua dicendo che sua zia (quando era adolescente) gli diceva in merito che si trattava dello spirito del diavolo che si impossessava di lui: “ma ora? Beh, ora non ho più paura di streghe, folletti, fantasmi, delinquenti, Giganti, demoni e mascalzoni, né di ogni altra sorta di essere vivente…” (lettera 168). Compare, nemmeno troppo subliminalmente, il riferimento all’occulto e al mondo dei demoni (in un paio di occasioni l’artista scriverà a Martín che lui è un Pittore-Demone) che poi popolerà l’arte di Goya nel corso dell’800.

A ben vedere, in realtà, quanto abbiamo esposto sinora, pur non riferito direttamente alle opere del pittore, richiama per molti versi i contenuti della sua arte: il mondo della caccia, ad esempio, è quello con cui Francesco anima i primi cartoni realizzati per la casa reale e destinati ad essere tradotti in arazzi nella Fabbrica Reale di Santa Barbara a Madrid (si tratta del primo incarico ricevuto da Francisco); nelle sue opere l’elemento popolare è imprescindibile; l’erotismo fa parte soprattutto dei suoi album. La lettura dell’epistolario ci permette quindi di cogliere temi che ritroveremo poi nelle opere coeve o successive. Il “demoniaco” non può non essere messo in relazione con le sue famosissime “pitture nere”.

Francisco Goya, Serie Capricci N. 43, Il sonno della ragione genera mostri, Madrid, Museo del Prado
Fonte: Wikimedia Commons

Francisco Goya, Scena di cannibalismo, 1800-1808, Besanςon, Museo di Belle Arti
Fonte: Wikimedia Commons


Senza voler essere psicologi da strapazzo è chiaro che qualcosa contribuisce in maniera decisiva a far emergere il lato oscuro di Goya. Sotto questo punto di vista la malattia e la sordità appaiono decisive. A dire il vero, è strano che quest’emersione non si fosse compiuta prima: dei sette figli che ebbe dalla (adorata) moglie, sei morirono in fasce; non si conta poi il numero degli aborti spontanei. Eppure, fatti come questi, che a noi oggi sembrano insopportabili, dovevano all’epoca apparire come eventi naturali della vita. La mortalità infantile era spaventosa. E onestamente fa un po’ effetto leggere Goya che si giustifica con Martín per via del ritardo nella preparazione di un abito perché la la moglie (che era sarta e confezionava lei i vestiti per l’amico di Francisco) aveva avuto un aborto spontaneo, come se si trattasse di cosa di minor conto. La sordità, invece, chiude Goya dentro a un muro di silenzio: lo costringe a dimettersi dall’insegnamento in Accademia perché non è in grado di capire cosa gli dicano gli alunni, gli inibisce l’ascolto della sua amata musica, lo costringe ad imparare la lingua dei segni e a leggere le labbra.


Francisco Goya, Il 3 maggio 1808, Madrid, Museo del Prado
Fonte: Wikimedia Commons

Francisco Goya, Due vecchi che mangiano la zuppa, Madrid, Museo del Prado
Fonte: http://www.eeweems.com/goya/old_men_eating_900.jpg

Le lettere ufficiali

Le lettere ufficiali sono, senza dubbio, meno significative, ma non prive di un loro interesse. Testimoniano in particolare due episodi cronologicamente fra loro molto distanti. Il primo è relativo agli anni 1780-1781. A settembre 1780 Francisco è coinvolto in un’opera collettiva a cui partecipano due altri pittori: Francisco Bayeu e Ramon Bayeau. Si noti che Francisco Bayeu è, all’epoca, il pittore più famoso di Spagna e che entrambi sono suoi cognati. Goya ne ha sposato la sorella Josefa nel 1773. I tre assumono l’incarico di decorare con affreschi la cattedrale di El Pilar a Saragozza. A Goya spettano la cupola e i pennacchi sotto di essa. Ben presto, tuttavia, qualcosa va storto. Il Capitolo della cattedrale si dichiara insoddisfatto dell’opera di Goya e chiede a Francisco Bayeu di emendare gli errori del più giovane collega. Goya, che è appena divenuto accademico di Spagna, si rifiuta in nome della libertà d’invenzione che spetta all’artista. La vicenda si protrarrà per diverso tempo e, nella sostanza, si chiuderà in maniera disonorevole per Francisco, che verrà sì pagato, ma per non farsi più vedere. In questo contesto assume però una particolare importanza il memorandum inviato da Goya al Capitolo il 17 marzo 1781, in cui, oltre a ricapitolare la vicenda, l’artista difende e sostiene la libertà dell’artista di fronte al committente (una libertà non assoluta, posto che il soggetto viene concordato insieme, ma che deve permettere tuttavia al pittore di declinare l’opera secondo le proprie inclinazioni).

Fra gennaio e febbraio del 1801, invece (Goya è già divenuto Primo Pittore di Corte) l’artista viene inviato a controllare i risultati di alcuni restauri operati su opere appartenenti alla corona spagnola (lettere 263-264). Qui emerge la totale contrarietà di Francisco nei confronti di qualsiasi intervento di pulizia o restauro dei quadri: “Faccio fatica a descrivere la mancanza di armonia provocata dalla comparazione dalla parte ritoccata del quadro e da quella non toccata dall’intervento: la prima ha perso del tutto l’immediatezza e il brio della pennellata e la seconda mantiene invece la sensibilità e il discernimento dei tocchi… La verità è che più ritocchi si fanno col pretesto del restauro e più danni si fanno; e se gli autori stessi dei quadri potessero rivivere non sarebbero in grado di ritoccare alla perfezione i loro quadri, per via dell’inevitabile cambiamento nelle tinte dei colori verificatosi negli anni… Nessun quadro di Tiziano dovrebbe essere rifoderato, né alcuna opera di molti altri pittori… e anche se possibile, l’operazione è più probabilmente di detrimento che di giovamento per i dipinti” (pp. 262-264).


NOTE

[1]  L'edizione Archinto si basa sull'epistolario a Zapater pubblicato in Spagna nel 1982. Tale epistolario, messo a confronto con quello del presente volume, appare essere incompleto.

[2] Nell’antologia italiana edita da Archinto le immagini, invece, ci sono.

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