English Version
Goya. A Life in Letters
A cura di Sarah Simmons
Con una nuova traduzione di Philip Troutman e una prefazione di Julia Blackburn
Londra, Pimlico, 2004
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Vicente López, Ritratto di Francisco Goya, 1826, Madrid, Museo del Prado Fonte: https://www.museodelprado.es/coleccion/galeria-on-line |
La copertina del libro. Il disegno in copertina è un autoritratto in forma di caricatura schizzato dall'autore nella lettera 244 |
“Goya. A Life in Letters” è la prima raccolta integrale in lingua inglese delle lettere di Francisco Goya (1746-1828). La traduzione di quasi tutti i documenti si deve a Philip Troutman, che però non ha avuto modo di completare l’opera (è deceduto nel 1999). A proseguire il suo lavoro è stata Sarah Simmons. Pur con aspetti non del tutto convincenti si tratta dell’edizione più completa del carteggio dell’artista aragonese. In Italia è disponibile una versione limitata al nucleo principale delle lettere, edita da Rosellina Archinto nel 1990 e basata su una versione spagnola del 1982, col titolo Perché non scrivi, selvaggio? Lettere a Martín Zapater [1].
Il carteggio di Goya è davvero
imperdibile. Vi risultano presenti lettere ufficiali e missive di natura
privata. Non vi è dubbio che il nucleo fondante delle carte sia costituito
dallo scambio epistolare fra l’artista e Martín Zapater, amico di una vita.
Francisco e Martín erano entrambi originari di Saragozza e si erano conosciuti
nel corso dei loro studi. Nel 1775 Goya si trasferisce a Madrid per cercar
fortuna e da lì parte un fittissimo scambio epistolare che si protrae per
decenni. Purtroppo si tratta di un carteggio mutilo, nel senso che non siamo in
possesso delle lettere inviate da Martín a Goya, e che non tutte quelle inviate
dal pittore all’amico ci sono giunte (un esempio: l’ultima lettera che
conosciamo è del 1797, mentre Zapater muore nel 1803). Tuttavia, quanto ci
rimane è talmente ricco di vitalità, esuberanza, spontaneità, vero senso
dell’amicizia da chiederci realmente come mai le lettere di Goya non abbiano
conosciuto il successo universale che spetta invece a quello di altri artisti.
La risposta sta probabilmente nel fatto che non descrivono gli anni più
difficili della vita dell’artista spagnolo, a cui corrisponde peraltro la
produzione pittorica e grafica più espressiva e allucinata. Insomma, è come se
il carteggio di Van Gogh si fermasse dieci anni prima del suicidio.
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Francisco Goya, Ritratto di Martín Zapater, 1797, Bilbao, Museo di Belle Arti Fonte: Wikimedia Commons |
E tuttavia non siamo di fronte a
documenti inutili: le missive di Francisco ci danno modo non solo di seguire la
carriera dell’artista dagli inizi fino al successo, ma di comprendere assai
meglio il carattere e la figura dell’artista aragonese e di cogliere in esse i
germi degli incubi che popoleranno le sue opere negli anni della maturità e
della vecchiaia.
Su un piano personale c’è un
elemento che fa da spartiacque nella vita di Goya: si tratta della malattia che
lo colpisce fra 1793 e 1794 e lo rende completamente sordo. Se ciò non gli
impedirà di proseguire con successo la sua carriera, fino a divenire nel 1799
Primo Pittore di Corte, è possibile intuire cosa deve aver significato
l’assoluta incapacità di sentire qualsiasi cosa per quest’uomo, che nelle sue
lettere dimostra di essere innamorato follemente della vita in tutte le sue
forme. E non è nemmeno difficile immaginare cosa debba essere successo nella
mente di Goya quando, all’invalidità, si sommano da un lato la morte di Martín
e dall’altro l’arrivo dei francesi, l’inizio della guerra d’indipendenza
spagnola (1808-1814), il ritorno dei Borbone con un regime fortemente
inquisitivo, da cui, di fatto, Goya si autoesilia trasferendosi nel 1824 a
Bourdeaux, dove muore quattro anni dopo.
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Francisco Goya, I duchi di Osuna e i loro figli, 1788, Madrid, Museo del Prado Fonte: Wikimedia Commons |
“Baciami il culo”
Non dobbiamo aspettarci che,
nelle sue lettere, Goya spieghi la sua arte: né in quelle ufficiali (il più
delle volte si tratta di comunicazioni di ordine finanziario) né in quelle
personali: Zapater non s’interessa d’arte (se non di quella dell’amico) ed è un
uomo d’affari, che a sua volta percorrerà una solida carriera nell’ambiente di
Saragozza fino a raggiungere la nobiltà e che si occuperà, per tutta la sua
esistenza, degli investimenti dell’artista, ma soprattutto di finanziare i
parenti di Francisco rimasti in provincia dopo la morte del padre (la madre, ma
anche fratelli e sorelle). La fiducia fra i due, sotto questo punto di vista, è
totale. Goya fa pervenire delle rendite ai parenti tramite l’amico e ogni tanto
si raccomanda con Zapater di mandargli il conto di quello che gli deve. La vera bellezza
delle lettere, specie di quelle inviate a Martín, consiste nella libertà dei
loro contenuti e nella loro spregiudicatezza. Si parla di tutto, con
espressioni colorite che lasciano trasparire una confidenza assoluta. “Baciami
il culo!” (e a volte anche altro) è un intercalare di saluto, che viene usato ovviamente
con grande affetto reciproco. È come se due amici si trovassero al bar a
giocare a carte e parlassero del più o del meno. Uno manda la cioccolata
all’altro, e l’altro si sdebita spedendogli salsicce. Fra Saragozza e Madrid è
un continuo e reciproco scambio di oggetti (sedie, tavoli, muli, letti), di
cortesie e di confidenze che rinsaldano un’amicizia decennale. Goya ha una
grande passione in comune con Martín: adora la caccia. Parla spessissimo delle
sue battute venatorie, dei suoi cani, rimpiange di non poterci andare con
Martín, si fa bello delle sue prede: con l’amico si vanta più delle beccacce
che ha ucciso che dei suoi quadri. Il regalo più bello che Martín gli possa
fare è un cucciolo di cane da riporto. Intere lettere sono dedicate a come cresce,
ai suoi progressi, alla sua salute.
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Francisco Goya, Cani da caccia al guinzaglio, 1777, Madrid, Museo del Prado Fonte: Wikimedia Commons |
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Francisco Goya, Uomini coi trampoli, 1791-1792, Madrid, Museo del Prado Fonte: Wikimedia Commons |
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Francisco Goya, L'assalto dei banditi, 1793-1794, Madrid, Collezione Castro Serna Fonte: http://goya.unizar.es/InfoGoya/Obra/Catalogo/Pintura/269.html |
Francisco ama le corride, stare
fra la gente, le tradizioni popolari; apprezza molto la musica e più dei
concerti reali (cui assiste e di cui dà conto di sfuggita – cfr. lettera 189)
gradisce le canzoni popolari, di cui invia i testi all’amico, assicurandogli
che gli farebbe piacere potergli fare sentire come fanno (del resto, quando
Goya si trasferisce momentaneamente a Saragozza per una commissione nel 1780
l’unica cosa che chiede all’amico è di procurargli un luogo dove dormire con un
tavolo, delle sedie, un letto e una chitarra). Già prima della sordità (che a
maggior ragione deve aver subito come trauma) capisce che il ruolo che ha
raggiunto (è pittore reale dal 1789) gli impedirà di frequentare i posti dove si
cantano: “non le ho mai sentite [n.d.r. a proposito di alcune canzoni popolari
di cui manda i testi a Martín], e probabilmente non le sentirò mai, perché non
vado più nei posti in cui potevo ascoltarle; mi è entrato in testa che devo
mantenere un certo contegno e l’aria di dignità […] che un gentiluomo dovrebbe
avere, e, come puoi immaginare, non ne sono contentissimo” (lettera 206).
Le lettere assumono spesso
l’aspetto di veri e propri scherzi: ce ne sono alcune in cui Francisco copre
l’amico di insulti, altre in cui gli dà dell’Eccellenza e lo tratta come se
stesse scrivendo al re; una è scritta in francese (solo perché Francisco lo sta
studiando e vuole far vedere all’amico che qualcosa è riuscito a imparare); una
è in versi. Un elemento fondamentale che le caratterizza sono gli schizzi che
vi sono disegnati sopra. E qui l’edizione inglese curata dalla Simmons ci
lascia perplessi. Gli schizzi di Goya non hanno affatto scopo decorativo: sono
parte integrante delle lettere. Un esempio banale: alcune si concludono con
l’espressione “ti sta vedendo tuo fratello” e subito dopo riportano un occhio
disegnato da Francisco. A parte tre eccezioni (in cui l’immagine compare fra le
tavole fuori testo di corredo al volume), la raccolta inglese non mostra le
immagini, ma semplicemente le descrive. Non si capisce perché. [2] Ma
ovviamente si perde l’immediatezza e la freschezza d’insieme. Nell’ultima
lettera inviata a Martín e a noi
pervenuta (risale grosso modo a Natale 1797) un gruppo di amici, fra cui Goya,
è riunito in una bettola per festeggiare Zapater che gli ha mandato dei denari
annunciando di aver vinto alla lotteria. Il saluto finale è affidato a un uomo
chinato visto di dietro, che, coi pantaloni calati, mostra le chiappe al
lettore, a chiaro commento della fortuna di Martín. Non è certo l’unico esempio
di goliardia.
A dicembre del 1790 Goya riceve
da Martín una missiva in cui, molto probabilmente, l’amico gli ha disegnato
l’immagine del suo pene eretto. La lettera di risposta comincia cosi:
“Dio Onnipotente, che gran cazzo!
Devi averne preso i contorni mentre eri eccitato e pensavi a Miss Piety [n.d.r. la versione inglese riporta "Miss Piety"; non conosco la versione originale, ma molto probabilmente si tratta di un soprannome per l'organo sessuale femminile], ma se invece lo
hai disegnato a mano allora sei ovviamente un disegnatore nato e il Signore sa
bene che merita un posto dove sia accolto così come un Santo si merita le
candele! Che peccato che non possa essere esibito in pubblico e che la signora
che più lo gradisce non se lo possa prendere…” (lettera 206).
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Francisco Goya, La Maja desnuda, 1795-1800, Madrid, Museo del Prado Fonte: https://www.museodelprado.es/uploads/tx_gbobras/P00742.jpg |
Dall’epistolario all’opera artistica
La libertà è totale. In un’altra
lettera Francisco racconta a Martín di essersi appena masturbato. Non lo
riportiamo per puro gusto del pettegolezzo, ma perché poi l’artista continua
dicendo che sua zia (quando era adolescente) gli diceva in merito che si
trattava dello spirito del diavolo che si impossessava di lui: “ma ora? Beh,
ora non ho più paura di streghe, folletti, fantasmi, delinquenti, Giganti,
demoni e mascalzoni, né di ogni altra sorta di essere vivente…” (lettera 168).
Compare, nemmeno troppo subliminalmente, il riferimento all’occulto e al mondo
dei demoni (in un paio di occasioni l’artista scriverà a Martín che lui è un
Pittore-Demone) che poi popolerà l’arte di Goya nel corso dell’800.
A ben vedere, in realtà, quanto
abbiamo esposto sinora, pur non riferito direttamente alle opere del pittore, richiama per molti versi i contenuti della sua arte: il mondo della caccia,
ad esempio, è quello con cui Francesco anima i primi cartoni realizzati per la
casa reale e destinati ad essere tradotti in arazzi nella Fabbrica Reale di
Santa Barbara a Madrid (si tratta del primo incarico ricevuto da Francisco);
nelle sue opere l’elemento popolare è imprescindibile; l’erotismo fa parte
soprattutto dei suoi album. La lettura dell’epistolario ci permette quindi di
cogliere temi che ritroveremo poi nelle opere coeve o successive. Il
“demoniaco” non può non essere messo in relazione con le sue famosissime
“pitture nere”.
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Francisco Goya, Serie Capricci N. 43, Il sonno della ragione genera mostri, Madrid, Museo del Prado Fonte: Wikimedia Commons |
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Francisco Goya, Scena di cannibalismo, 1800-1808, Besanςon, Museo di Belle Arti Fonte: Wikimedia Commons |
Senza voler essere psicologi da
strapazzo è chiaro che qualcosa contribuisce in maniera decisiva a far emergere
il lato oscuro di Goya. Sotto questo punto di vista la malattia e la sordità
appaiono decisive. A dire il vero, è strano che quest’emersione non si fosse
compiuta prima: dei sette figli che ebbe dalla (adorata) moglie, sei morirono
in fasce; non si conta poi il numero degli aborti spontanei. Eppure, fatti come
questi, che a noi oggi sembrano insopportabili, dovevano all’epoca apparire
come eventi naturali della vita. La mortalità infantile era spaventosa. E
onestamente fa un po’ effetto leggere Goya che si giustifica con Martín per via
del ritardo nella preparazione di un abito perché la la moglie (che era sarta e
confezionava lei i vestiti per l’amico di Francisco) aveva avuto un aborto
spontaneo, come se si trattasse di cosa di minor conto. La sordità, invece,
chiude Goya dentro a un muro di silenzio: lo costringe a dimettersi
dall’insegnamento in Accademia perché non è in grado di capire cosa gli dicano
gli alunni, gli inibisce l’ascolto della sua amata musica, lo costringe ad
imparare la lingua dei segni e a leggere le labbra.
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Francisco Goya, Il 3 maggio 1808, Madrid, Museo del Prado Fonte: Wikimedia Commons |
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Francisco Goya, Due vecchi che mangiano la zuppa, Madrid, Museo del Prado Fonte: http://www.eeweems.com/goya/old_men_eating_900.jpg |
Le lettere ufficiali
Le lettere ufficiali sono, senza
dubbio, meno significative, ma non prive di un loro interesse. Testimoniano in
particolare due episodi cronologicamente fra loro molto distanti. Il primo è
relativo agli anni 1780-1781. A settembre 1780 Francisco è coinvolto in
un’opera collettiva a cui partecipano due altri pittori: Francisco Bayeu e
Ramon Bayeau. Si noti che Francisco Bayeu è, all’epoca, il pittore più famoso
di Spagna e che entrambi sono suoi cognati. Goya ne ha sposato la sorella Josefa
nel 1773. I tre assumono l’incarico di decorare con affreschi la cattedrale di
El Pilar a Saragozza. A Goya spettano la cupola e i pennacchi sotto di essa.
Ben presto, tuttavia, qualcosa va storto. Il Capitolo della cattedrale si
dichiara insoddisfatto dell’opera di Goya e chiede a Francisco Bayeu di
emendare gli errori del più giovane collega. Goya, che è appena divenuto
accademico di Spagna, si rifiuta in nome della libertà d’invenzione che spetta
all’artista. La vicenda si protrarrà per diverso tempo e, nella sostanza, si chiuderà
in maniera disonorevole per Francisco, che verrà sì pagato, ma per non farsi
più vedere. In questo contesto assume però una particolare importanza il
memorandum inviato da Goya al Capitolo il 17 marzo 1781, in cui, oltre a
ricapitolare la vicenda, l’artista difende e sostiene la libertà dell’artista
di fronte al committente (una libertà non assoluta, posto che il soggetto viene
concordato insieme, ma che deve permettere tuttavia al pittore di declinare
l’opera secondo le proprie inclinazioni).
Fra gennaio e febbraio del 1801,
invece (Goya è già divenuto Primo Pittore di Corte) l’artista viene inviato a
controllare i risultati di alcuni restauri operati su opere appartenenti alla
corona spagnola (lettere 263-264). Qui emerge la totale contrarietà di
Francisco nei confronti di qualsiasi intervento di pulizia o restauro dei
quadri: “Faccio fatica a descrivere la mancanza di armonia provocata dalla
comparazione dalla parte ritoccata del quadro e da quella non toccata
dall’intervento: la prima ha perso del tutto l’immediatezza e il brio della
pennellata e la seconda mantiene invece la sensibilità e il discernimento dei
tocchi… La verità è che più ritocchi si fanno col pretesto del restauro e più
danni si fanno; e se gli autori stessi dei quadri potessero rivivere non
sarebbero in grado di ritoccare alla perfezione i loro quadri, per via
dell’inevitabile cambiamento nelle tinte dei colori verificatosi negli anni…
Nessun quadro di Tiziano dovrebbe essere rifoderato, né alcuna opera di molti
altri pittori… e anche se possibile, l’operazione è più probabilmente di
detrimento che di giovamento per i dipinti” (pp. 262-264).
NOTE
[1] L'edizione Archinto si basa sull'epistolario a Zapater pubblicato in Spagna nel 1982. Tale epistolario, messo a confronto con quello del presente volume, appare essere incompleto.
[2] Nell’antologia italiana edita
da Archinto le immagini, invece, ci sono.
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