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venerdì 27 febbraio 2015

Roberto Salvini (a cura di), La critica d'arte moderna: la pura visibilità. Firenze, 1949

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Roberto Salvini (a cura di)
La critica d'arte moderna:
la pura visibilità

Firenze, Edizioni L'Arco, 1949





[1] Testo della bandella:

“Le pagine più importanti della critica d’arte moderna sono raccolte e ordinate dal Salvini in un’opera che illumina i fondamenti dell’estetica moderna, seguendone via via le applicazioni più valide e originali.

Da Fiedler a Hildebrand, da Riegl a Schmarsow, da Woellflin a Brinckmann, da Berenson a Fry, da Focillon a Longhi, da Stokes a Venturi: è il primo panorama completo della critica della «pura visibilità» che si abbia in Italia.

Alle pagine fondamentali di inquadramento teorico, il Salvini ha fatto seguire volta per volta le interpretazioni e gli scorci più vivi e illuminanti: ed ecco così che i periodi dell’arte antica, i mosaici paleocristiani, i rapporti fra arte italiana e tedesca, i disegni di Dürer, le opere di Masaccio e di Uccello, di Botticelli e di Ghirlandaio, di Raffaello e di Tura, la scultura negra e il romanico francese, l’arte di Pier della Francesca e lo sfumato di Leonardo, il disegno di Rembrandt e la pittura di Ingres e di Renoir, le figure e i movimenti più caratteristici dell’arte di tutti i tempi e di tutti i paesi vengono esaminati e giudicati nel quadro di una visione critica penetrante e agguerrita.

Roberto Salvini, il valoroso critico dell’arte medievale e rinascimentale, l’autore della pregevole Guida all’arte moderna pubblicata nelle edizioni dell’Arco, ha premesso all’antologia della critica moderna un’ampia ed organica introduzione storico-critica, che è di grande aiuto per il lettore.”


[2] Tutti gli scritti in lingua straniera sono stati tradotti dal Salvini. Si è fatta eccezione solo per due opere: lo scritto sui Pittori italiani del Rinascimento di Bernard Berenson, di cui si fornisce la traduzione di Emilio Cecchi, e, quindi, gli Aforismi di K. Fiedler, per i quali ci si avvale della versione italiana di A. Banti.

[3] Si riporta recensione all’opera apparsa in data 21 aprile 1950 a firma Anna Maria Brizio sul quotidiano La Stampa. L’originale dell’articolo è custodito all’interno di Raccolta di articoli e altri ritagli di giornale di Luciano Mazzaferro, conservata presso la Biblioteca Comunale Giulio Cesare Croce di San Giovanni in Persiceto.

LA STAMPA

Critica d’arte
di Anna Maria Brizio

La lettura di un’antologia de La critica d’arte moderna, uscita recentemente a cura di Roberto Salvini (Ed. L’Arco, Firenze), mi ha fatto pensare al divario dei metodi che si sogliono oggi seguire nel fare la storia dell’arte o nel rifare la storia della critica che s’occupa d’arte.

Da quando il romanticismo affermò appassionatamente il carattere soggettivo e l’individualità irrepetibile d’ogni espressione artistica, gli artisti hanno assunto per noi, ciascuno una personalità ben distinta, che chiede di essere studiata per se stessa, nei suoi momenti intimi e nel suo particolare accento, al di fuori d’ogni classificazione di scuole, gusto e tendenze. Ma quando oggetto di studio è, invece d’un artista, una figura di critico, troppo spesso premesse teoriche prendono il sopravvento, sì che i contorni e i caratteri individuali della sua opera finiscono con l’uscirne stemperati e confusi, subordinati a più generiche considerazioni d’indirizzo e di metodo.

Da nessun’altra cagione discende il tenace misconoscimento delle qualità di critico del Vasari da parte di studiosi educati alle teorie crociane, se non che il Vasari non sa giustificare i suoi in sé acuti giudizi e intuizioni altrimenti che coi vieti concetti della verosimiglianza e dell’imitazione della natura. D’altro lato, anche il Ghiberti, sebbene tanto esaltato in contrapposizione al Vasari nell’ultimo trentennio, ha finito – mi pare – coll’essere frainteso nello sforzo di adeguarlo a concetti crociani: si veda l’interpretazione dello Schlosser.

L’antologia del Salvini, pur interessante accurata e ricca, non sfugge neppure essa a questa impostazione: è composta sotto il segno esclusivo della «pura visibilità»; e in suo nome sono adunati e allineati accanto Fiedler e Hildebrandt, Riegl, Schmarsow, Woelfflin e Brinckmann; e quindi, a gruppi per nazionalità, Bernhard Berenson, Clive Bell, Roger Fry e Adrian Stokes; Jacques Mesnil e Henry Focillon; Roberto Longhi e Lionello Venturi. Ma qual divario di formazione, di cultura e d’ingegno fra questi uomini! Non val certo a pareggiarne l’opera il solo fatto che in un periodo della loro vita siano passati per l’esperienza della pura visibilità; anzi l’aver posto questa premessa a base della scelta finisce con l’ingenerare più confusione che chiarimento, perché induce più d’una volta il Salvini a trascegliere d’ognuno i passi non già più alti e più liberi e significativi, ma quelli più tipicamente informati a principi di pura visibilità; col risultato di alterare la fisionomia vera dei singoli critici, affiggendoli anche, talvolta, a un momento ormai lontano della loro attività.

Nel caso di Roberto Longhi, ad esempio: siano pur illuminanti e geniali le pagine su Mattia Preti e Piero della Francesca, trascritte nell’antologia; ma non c’è qualche ingiustizia a presentar di lui soltanto brani di scritti risalenti al lontano 1913 e 1914, quando, nei decenni successivi, egli è andato sempre più elevandosi sopra la pura analisi, e quasi acerrima dissezione figurativa dell’opera d’arte, per animarne e inverarne l’interpretazione entro una sempre più complessa ricreazione storica?

Longhi stesso, in un suo recente scritto, ad apertura del primo numero di Paragone, la nuova rivista da lui diretta (Ed. Sansoni, Firenze): Proposte per una critica d’arte, ci dà un esempio di quelli che della propria considera i maggiori raggiungimenti: e a leggerlo, appare evidente quanto si sia dilungato ormai dalla pura visibilità. Ciò non vuol dire ch’abbia allentato l’aderenza all’opera d’arte: al contrario! anzi ricercato più addentro i nessi storici. Degli affreschi del gotico morente in Lombardia: «Sulle pareti, duchi e famigli, addobbati nei capolavori di moda degli «zibelari» lombardi, cavalcano in un sogno di profanità fulgida e assurda. Ai loro piedi i prati si tramutano per incanto in bordi d’alto liccio: i boschi dei feudi lontani si decalcano in un firmamento ormai tutto percorso dalle peripezie geroglifiche delle costellazioni araldiche familiari; al di là delle Prealpi, brune come di cuoio impresso, coronate di manieri in pastiglia, il cielo a rombi bianchi e morelli scricchiola come le vetrate dell’oratorio di Corte nella ossatura di peltro...». E s’intende che anche per questa strada uno scrittore che non sia il Longhi può disperdersi in divagazioni letterarie non pertinenti: ogni strada può menare lontano, o deviare e perdersi fuori di meta; ma, appunto, una volta di più questo significa che, anche nel campo della critica, la storia va condotta sul vivo delle singole personalità, e non nell’astrazione dei programmi teorici. E quando alla fine delle sue proposte per una critica d’arte il Longhi esprime l’esigenza che la critica, e perciò la storia dell’arte, sia riconsegnata nel cuore dell’attività letteraria, noi vorremmo intendere l’affermazione nel senso più alto. Poiché la critica si vale della parola, è legittima l’esigenza che questa sia usata nella pienezza del suo valore e della sua forza espressiva: e come il buon pittore si riconoscerà alla forza dello stile, qualunque cosa rappresenti, così anche per lo scrittore – e quindi il critico – il segno più vero della qualità del suo pensiero sarà, ancora una volta, il suo stile.”https://letteraturaartistica.blogspot.com/2018/12/vasari-vite.html

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