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venerdì 19 dicembre 2014

La storia delle storie dell'arte. A cura di Orietta Rossi Pinelli. Torino, Einaudi, 2014

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La storia delle storie dell’arte
A cura di Orietta Rossi Pinelli


Torino, Einaudi, 2014
Isbn 978-88-06-21461-6




Un’altra?

Una storia delle storie dell’arte. Un’altra? Senza risalire a Croce o a Lionello Venturi, conosco almeno altri due precedenti, scritti con l’ambizione di individuare e mettere in risalto i percorsi della disciplina a partire da Vasari per arrivare (circa) alla metà del ‘900. Il primo è tedesco, ed è opera di Udo Kultermann. Pubblicato in origine nel 1966 col titolo Geschichte der Kunstgeschichte. Der Weg einer Wissenschaft (una seconda edizione aggiornata comparve nel 1981) è stato tradotto in Italia nel 1997, col titolo Storia della storia dell’arte [1]. Il secondo tentativo è francese. Ne è autore Germain Bazin. Si tratta dell’Histoire de l’histoire de l’art. De Vasari a à nos jours (1986), tradotta e pubblicata in italiano nel 1993, ancora una volta col titolo Storia della storia dell’arte. [2]

Sicché due cose vengono subito da dire: quella a cura di Orietta Rossi Pinelli è la prima ricostruzione storica di questo tipo che nasce in Italia negli ultimi cinquant'anni (non c’è nessuno sciocco patriottismo in una simile considerazione: semmai la natura ‘italiana’ dell’opera si coglie in una visione internazionalmente più ‘neutrale’ dei contributi dei singoli, con maggior attenzione all’evolversi dei processi rispetto alle carte d’identità); il titolo è diverso: qui si parla di “storia delle storie dell’arte”. Certo non un caso, se a richiamare la circostanza è la stessa curatrice nell’introduzione [3], giustificando la decisione di fermarsi cronologicamente agli anni ’80 del Novecento. La storia dell’arte è letteralmente esplosa, diventando plurale ed espandendosi (perdendosi?) in mille rivoli, di fronte ai quali è oggettivamente difficile dare un giudizio ponderato. Parlare di “storie dell’arte” è ormai diventato di uso comune. Farò un solo esempio, ma non casuale: il più importante blog italiano del settore si intitola “Storie dell’arte” [4]. L’esempio non è casuale perché riguarda proprio una delle nuove modalità con cui (nelle forme più diverse: dalla pubblicazione dello scritto accademico in in e-book alla divulgazione per un ampio pubblico) la storiografia artistica si sta confrontando in questi anni.


Come i Promessi Sposi

Un’altra cosa va detta: per respiro dell’opera, capacità di sintesi, chiarezza, e soprattutto per la completezza e l’organicità queste “storie dell’arte” s’impongono nettamente sui volumi di Kultermann e Bazin. Scusatemi se userò termini banalissimi: quello curato dalla Rossi Pinelli è un libro importante, che sarà citato ed utilizzato per decenni. La prima cosa a stupire piacevolmente è l’organicità in un’opera collettiva. Il volume è infatti scritto da un gruppo di storiche dell’arte, coordinato da Rossi Pinelli, ma, a tutti gli effetti, non soffre di discontinuità o contraddizioni interne legate alle diverse geniture. Orietta Rossi Pinelli, Maria Beatrice Failla, Chiara Piva, Susanne Adina Meyer danno vita a un’opera densa e compatta, in cui le parti sono formalmente distinte, ma in cui si ha la certezza che il risultato finale sia frutto di un confronto serrato e di una scambio fruttuoso di competenze e punti di vista.

Purtroppo, temo di sapere quale sarà il destino del libro: sarà attentamente vivisezionato alla ricerca di chi e cosa viene citato e chi no (è un giochino irresistibile; nemmeno io mi sono sottratto); sarà consultato assiduamente; probabilmente sarà adottato in molti corsi universitari, dove agli studenti sarà detto di studiare solo alcuni capitoli. Nulla di peggio potrebbe capitargli. Fatte le debite proporzioni, La storia delle storie dell’arte è come i Promessi Sposi: va letta tutta di un fiato, anche se 500 pagine richiedono una costante applicazione intellettuale. Le considerazioni, poi, andranno fatte dopo. Va letta tutta d’un fiato, perché solo così se ne coglie la prospettiva storica; si capisce pienamente come, da Vasari ad oggi, cambino totalmente le cose; si rintracciano e si riconoscono i fili rossi che tengono insieme tutta la narrazione. Di essi parla Rossi Pinelli nella sua introduzione.


I fili rossi

Non credo di poter riassumere meglio le cose. Per questo motivo mi permetto di riportare qui sotto la pagina in questione:

“Nonostante la miriade di percorsi aperti, di confluenze, di nuovi distacchi che hanno segnato questa lunga vicenda [n.d.r. l’evoluzione della disciplina], sotto traccia restano riconoscibili, soprattutto per l’Ottocento e il Novecento ma non solo, quattro indirizzi preminenti che di volta in volta si sono imposti, sono arretrati, si sono rinnovati per poi nuovamente implodere nell’attesa di nuova fortuna.

Il più consolidato nel tempo, il più necessario a costruire l’ordito su cui tessere la storia minuta, è stato quello della connoisseurship. I conoscitori hanno cominciato a proporsi già nel XVII secolo, imponendosi nel XVIII e soprattutto nel XIX. Nel XX secolo hanno elaborato ulteriormente le loro metodologie con forti aperture verso la filologia, la storiografia in senso stretto e anche l’estetica. L’opera d’arte, per costoro è stata affrontata sempre come un intero al cui interno lo specialista poteva individuare tutte le chiavi necessarie alla sua identificazione, collocazione e comprensione. L’occhio, la memoria visiva, l’esercizio continuo, sono stati gli strumenti cardine di chi, nell’arco di più secoli, e con molte varianti, ha condiviso questo tipo di ricerca.

A un’analoga autosufficienza dei linguaggi hanno partecipato studiosi che miravano a tutt’altro obiettivo: penetrare nello “spirito” dei manufatti artistici analizzando non solo lo stile, ma la struttura delle opere, le loro assonanze, i loro ritmi per captarne l’intento creativo. Un indirizzo questo connesso con la ricerca formalista che ha sfiorato, a volte, l’aspirazione alla trascendenza attraverso un’assoluta empatia con l’opera. […]

Antitetico a questo indirizzo, quello legato all’ancoraggio delle opere ai fatti, ai documenti, alle fonti, per realizzare una storiografia positiva. Una metodologia che, pur tra non rari contrasti, ha interagito con la connoisseurship contribuendo ad accrescere l’identificazione e la conoscenza capillare del patrimonio ereditato.

Infine una quarta tendenza densa di diramazioni. Anche questa soggetta a successi e implosioni: la storia dell’arte come storia della cultura in senso molto ampio, con le sue tante declinazioni che comprendono l’iconologia, l’iconografia, la storia sociale dell’arte, la storia dell’arte come storia delle idee e tanto altro ancora. Per gli studiosi che hanno alimentato questo articolato indirizzo di studi si può raggiungere la comprensione delle opere solo superando le frontiere disciplinari, grazie alla confluenza di saperi differenti” (pp. X-XI)


Pagine scelte

Naturalmente, è impossibile anche solo tentare una sintesi degli argomenti affrontati in un’opera che, per definizione, è già frutto di un lavoro di sintesi. Cito volentieri, tuttavia, alcune delle pagine che, per gusto del tutto personale, ho trovato più felici. È il caso ad esempio della teoria secentesca dell’imitazione selettiva e del ruolo del De pictura veterum di Franciscus Junius; delle pagine dedicate a Giulio Mancini, a Marco Boschini e a Francesco Scannelli; di quelle che s’interessano dei primi antiquari-conoscitori del Settecento e rimandano a Mariette, Crozat e Caylus. Ma non posso dimenticare l’attenzione al mondo tedesco e in particolare a figure come Friedrich von Rumohr e Ludwig Schorn, che, nel primo Ottocento, hanno contribuito a sostanziare in maniera del tutto nuova la figura dello storico dell’arte. Se mi è permesso, la sezione dedicata alla prima Scuola viennese di storia dell’arte, con l’evidenziazione, nell’ambito della Scuola stessa, delle spinte volte al consolidamento della sovranazionalità dell’Impero austro-ungarico da un lato e dei singoli nazionalismi dall’altro, è semplicemente magistrale. Così come non si può non riflettere sul cambiamento epocale provocato dall’emigrazione negli Stati Uniti di tantissimi studiosi tedeschi dalla Germania in coincidenza con gli anni della follia nazista. Il caso di Erwin Panofsky è esemplare: un uomo che è obbligato a rivedere ogni sua certezza e che impara a vedere le cose da una prospettiva nuova. Panofsky emigra in America e si rende conto di dover rivedere ogni sua certezza: capisce che molte delle discussioni che affaticavano gli storiografi europei (e di natura squisitamente nazionalista) hanno poco senso in un mondo in cui l’Europa appare un tutto indistinto e la storia comincia nel 1776; si accorge di dover ridiscutere persino il lessico che utilizza nei suoi studi, estremamente specialistico e sostanzialmente legato alla tradizione storiografica tedesca. Non solo si adegua, ma, partendo da nuovi presupposti, riesce a lasciare un’impronta indelebile nella storia della disciplina e ad aprire nuove strade di studio e ricerca.

Sono solo pochi esempi. Il piacere di trovarne altri è lasciato ad ogni lettore.


NOTE

[1] Udo Kultermann. Storia della storia dell’arte, Vicenza, Neri Pozza, 1997.

[2] Germain Bazin. Storia della storia dell’arte, Napoli, Guida editori, 1993.

[3] “La caduta dei muri, delle ideologie, l’espansione dei “plurali” (le “storie” che sostituiscono “la Storia”), i nuovi paradigmi imposti dalla rete, l’equivalenza immateriale delle immagini digitalizzate, l’espansione di alcuni modelli forti di ricerca come le neuroscienze, l’antropologia culturale, le “scienze” della comunicazione, la sociologia, la stessa economia, tutto questo ha creato una liquidità di frontiere disciplinari che ha interagito con la storia dell’arte, con aperture certo positive ma anche con non poche lacerazioni” (p. X)

[4] “storiedellarte. Un blog di storici dell’arte” (http://storiedellarte.com/). La pagina facebook del blog, a dicembre 2014, risulta avere circa 207.000 fans.

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