La storia delle storie dell’arte
A cura di Orietta Rossi Pinelli
Torino, Einaudi, 2014
Isbn 978-88-06-21461-6
Un’altra?
Una storia delle storie
dell’arte. Un’altra? Senza risalire a Croce o a Lionello Venturi, conosco almeno altri due precedenti, scritti con
l’ambizione di individuare e mettere in risalto i percorsi della disciplina a
partire da Vasari per arrivare (circa) alla metà del ‘900. Il primo è tedesco, ed
è opera di Udo Kultermann. Pubblicato in origine nel 1966 col titolo Geschichte der Kunstgeschichte. Der Weg
einer Wissenschaft (una seconda edizione aggiornata comparve nel 1981) è
stato tradotto in Italia nel 1997, col titolo Storia della storia dell’arte [1]. Il secondo tentativo è francese.
Ne è autore Germain Bazin. Si tratta dell’Histoire
de l’histoire de l’art. De Vasari a à nos jours (1986), tradotta e
pubblicata in italiano nel 1993, ancora una volta col titolo Storia della storia dell’arte. [2]
Sicché due cose vengono subito da
dire: quella a cura di Orietta Rossi Pinelli è la prima ricostruzione storica
di questo tipo che nasce in Italia negli ultimi cinquant'anni (non c’è nessuno sciocco patriottismo in una
simile considerazione: semmai la natura ‘italiana’ dell’opera si coglie in una
visione internazionalmente più ‘neutrale’ dei contributi dei singoli, con
maggior attenzione all’evolversi dei processi rispetto alle carte d’identità);
il titolo è diverso: qui si parla di “storia delle storie dell’arte”. Certo non
un caso, se a richiamare la circostanza è la stessa curatrice nell’introduzione
[3], giustificando la decisione di fermarsi cronologicamente agli anni ’80 del
Novecento. La storia dell’arte è letteralmente esplosa, diventando plurale ed
espandendosi (perdendosi?) in mille rivoli, di fronte ai quali è oggettivamente
difficile dare un giudizio ponderato. Parlare di “storie
dell’arte” è ormai diventato di uso comune. Farò un solo esempio, ma non
casuale: il più importante blog italiano del settore si intitola “Storie
dell’arte” [4]. L’esempio non è casuale perché riguarda proprio una delle nuove
modalità con cui (nelle forme più diverse: dalla pubblicazione dello scritto
accademico in in e-book alla divulgazione per un ampio pubblico) la
storiografia artistica si sta confrontando in questi anni.
Come i Promessi Sposi
Un’altra cosa va detta: per
respiro dell’opera, capacità di sintesi, chiarezza, e soprattutto per la
completezza e l’organicità queste “storie dell’arte” s’impongono nettamente sui
volumi di Kultermann e Bazin. Scusatemi se userò termini banalissimi: quello
curato dalla Rossi Pinelli è un libro importante, che sarà citato ed utilizzato
per decenni. La prima cosa a stupire piacevolmente è l’organicità in un’opera
collettiva. Il volume è infatti scritto da un gruppo di storiche dell’arte,
coordinato da Rossi Pinelli, ma, a tutti gli effetti, non soffre di
discontinuità o contraddizioni interne legate alle diverse geniture. Orietta
Rossi Pinelli, Maria Beatrice Failla, Chiara Piva, Susanne Adina Meyer danno
vita a un’opera densa e compatta, in cui le parti sono formalmente distinte, ma
in cui si ha la certezza che il risultato finale sia frutto di un confronto
serrato e di una scambio fruttuoso di competenze e punti di vista.
Purtroppo, temo di sapere quale
sarà il destino del libro: sarà attentamente vivisezionato alla ricerca di chi
e cosa viene citato e chi no (è un giochino irresistibile; nemmeno io mi sono
sottratto); sarà consultato assiduamente; probabilmente sarà adottato in molti
corsi universitari, dove agli studenti sarà detto di studiare solo alcuni
capitoli. Nulla di peggio potrebbe capitargli. Fatte le debite proporzioni, La storia delle storie dell’arte è come
i Promessi Sposi: va letta tutta di
un fiato, anche se 500 pagine richiedono una costante applicazione
intellettuale. Le considerazioni, poi, andranno fatte dopo. Va letta tutta d’un
fiato, perché solo così se ne coglie la prospettiva storica; si capisce
pienamente come, da Vasari ad oggi, cambino totalmente le cose; si rintracciano
e si riconoscono i fili rossi che tengono insieme tutta la narrazione. Di essi
parla Rossi Pinelli nella sua introduzione.
I fili rossi
Non credo di poter riassumere
meglio le cose. Per questo motivo mi permetto di riportare qui sotto la pagina
in questione:
“Nonostante la miriade di
percorsi aperti, di confluenze, di nuovi distacchi che hanno segnato questa
lunga vicenda [n.d.r. l’evoluzione della disciplina], sotto traccia restano
riconoscibili, soprattutto per l’Ottocento e il Novecento ma non solo, quattro
indirizzi preminenti che di volta in volta si sono imposti, sono arretrati, si
sono rinnovati per poi nuovamente implodere nell’attesa di nuova fortuna.
Il più consolidato nel tempo, il
più necessario a costruire l’ordito su cui tessere la storia minuta, è stato
quello della connoisseurship. I
conoscitori hanno cominciato a proporsi già nel XVII secolo, imponendosi nel
XVIII e soprattutto nel XIX. Nel XX secolo hanno elaborato ulteriormente le
loro metodologie con forti aperture verso la filologia, la storiografia in
senso stretto e anche l’estetica. L’opera d’arte, per costoro è stata
affrontata sempre come un intero al
cui interno lo specialista poteva individuare tutte le chiavi necessarie alla
sua identificazione, collocazione e comprensione. L’occhio, la memoria visiva,
l’esercizio continuo, sono stati gli strumenti cardine di chi, nell’arco di più
secoli, e con molte varianti, ha condiviso questo tipo di ricerca.
A un’analoga autosufficienza dei
linguaggi hanno partecipato studiosi che miravano a tutt’altro obiettivo:
penetrare nello “spirito” dei manufatti artistici analizzando non solo lo
stile, ma la struttura delle opere, le loro assonanze, i loro ritmi per
captarne l’intento creativo. Un indirizzo questo connesso con la ricerca formalista che ha sfiorato, a
volte, l’aspirazione alla trascendenza attraverso un’assoluta empatia con
l’opera. […]
Antitetico a questo indirizzo,
quello legato all’ancoraggio delle opere ai fatti, ai documenti, alle fonti,
per realizzare una storiografia positiva.
Una metodologia che, pur tra non rari contrasti, ha interagito con la connoisseurship contribuendo ad
accrescere l’identificazione e la conoscenza capillare del patrimonio
ereditato.
Infine una quarta tendenza densa
di diramazioni. Anche questa soggetta a successi e implosioni: la storia
dell’arte come storia della cultura in senso molto ampio, con le sue tante
declinazioni che comprendono l’iconologia, l’iconografia, la storia sociale
dell’arte, la storia dell’arte come storia delle idee e tanto altro ancora. Per
gli studiosi che hanno alimentato questo articolato indirizzo di studi si può
raggiungere la comprensione delle opere solo superando le frontiere
disciplinari, grazie alla confluenza di saperi differenti” (pp. X-XI)
Pagine scelte
Naturalmente, è impossibile anche
solo tentare una sintesi degli argomenti affrontati in un’opera che, per definizione,
è già frutto di un lavoro di sintesi. Cito volentieri, tuttavia, alcune delle
pagine che, per gusto del tutto personale, ho trovato più felici. È il caso ad
esempio della teoria secentesca dell’imitazione selettiva e del ruolo del De pictura veterum di Franciscus Junius;
delle pagine dedicate a Giulio Mancini, a Marco Boschini e a Francesco
Scannelli; di quelle che s’interessano dei primi antiquari-conoscitori del
Settecento e rimandano a Mariette, Crozat e Caylus. Ma non posso dimenticare
l’attenzione al mondo tedesco e in particolare a figure come Friedrich von Rumohr e Ludwig Schorn, che, nel primo Ottocento, hanno contribuito a
sostanziare in maniera del tutto nuova la figura dello storico dell’arte. Se mi
è permesso, la sezione dedicata alla prima Scuola viennese di storia dell’arte,
con l’evidenziazione, nell’ambito della Scuola stessa, delle spinte volte al
consolidamento della sovranazionalità dell’Impero austro-ungarico da un lato e
dei singoli nazionalismi dall’altro, è semplicemente magistrale. Così come non
si può non riflettere sul cambiamento epocale provocato dall’emigrazione negli
Stati Uniti di tantissimi studiosi tedeschi dalla Germania in coincidenza con
gli anni della follia nazista. Il caso di Erwin Panofsky è esemplare: un uomo
che è obbligato a rivedere ogni sua certezza e che impara a vedere le cose da
una prospettiva nuova. Panofsky emigra in America e si rende conto di dover
rivedere ogni sua certezza: capisce che molte delle discussioni che
affaticavano gli storiografi europei (e di natura squisitamente nazionalista)
hanno poco senso in un mondo in cui l’Europa appare un tutto indistinto e la
storia comincia nel 1776; si accorge di dover ridiscutere persino il lessico
che utilizza nei suoi studi, estremamente specialistico e sostanzialmente
legato alla tradizione storiografica tedesca. Non solo si adegua, ma, partendo
da nuovi presupposti, riesce a lasciare un’impronta indelebile nella storia
della disciplina e ad aprire nuove strade di studio e ricerca.
Sono solo pochi esempi. Il
piacere di trovarne altri è lasciato ad ogni lettore.
NOTE
[1] Udo Kultermann. Storia della storia dell’arte, Vicenza,
Neri Pozza, 1997.
[2] Germain Bazin. Storia della storia dell’arte, Napoli,
Guida editori, 1993.
[3] “La caduta dei muri, delle
ideologie, l’espansione dei “plurali” (le “storie” che sostituiscono “la
Storia”), i nuovi paradigmi imposti dalla rete,
l’equivalenza immateriale delle immagini digitalizzate, l’espansione di alcuni
modelli forti di ricerca come le neuroscienze, l’antropologia culturale, le
“scienze” della comunicazione, la sociologia, la stessa economia, tutto questo
ha creato una liquidità di frontiere disciplinari che ha interagito con la
storia dell’arte, con aperture certo positive ma anche con non poche
lacerazioni” (p. X)
[4] “storiedellarte. Un blog di storici dell’arte” (http://storiedellarte.com/). La pagina
facebook del blog, a dicembre 2014, risulta avere circa 207.000 fans.
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