Francesco P. Di Teodoro
Raffaello, Baldassar Castiglione e la Lettera a Leone X
“con lo aiutto tuo mi sforcerò vendicare dalla morte quel poco che resta…”
Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1994
“con lo aiutto tuo mi sforcerò vendicare dalla morte quel poco che resta…”
Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1994
Raffaello (?), Presunto autoritratto, Firenze, Galleria degli Uffizi |
Chi la scrisse?
La Lettera a Leone X di Raffaello e Baldassar Castiglione è un testo
sempre molto citato dagli addetti ai lavori, ma su cui in realtà gli
interrogativi sono tantissimi, proprio a partire dalla sua paternità. Opera di
Raffaello o di Baldassar Castiglione? O, ancora, di Fabio Calvo, di Baldassarre
Peruzzi, di Donato Bramante, di Leonardo da Vinci, come nel corso degli anni è
capitato di sentire? La Lettera, che
è incompleta, doveva fungere da introduzione a un libro o comunque a una serie
di disegni che costituivano la rappresentazione grafica di Roma e delle sue
antiche vestigia; l’incarico era stato attribuito a Raffaello da Papa Leone X.
In realtà oggi appare assodato (e Francesco Paolo Di Teodoro contribuisce a
dissolvere ogni residuo dubbio in merito) che l’opera è un lavoro a quattro
mani svolto da Baldassar Castiglione e il Sanzio. Un interrogativo che viene
spesso omesso è: perché un lavoro a quattro mani? Perché non il solo Raffaello?
Semplicissimo. Perché Raffaello scriveva pochissimo, e soprattutto scriveva molto
male. Grazie al cielo, ne era perfettamente cosciente. Ad esempio, conosceva
solo i rudimenti del latino, motivo per cui quando i suoi interessi per
l’antichità e per l’architettura andarono accrescendosi (non dimentichiamo che
nel 1515 l’artista fu nominato sovrintendente ai lavori della nuova Basilica di
san Pietro) chiese a Fabio Calvo, umanista ravennate e suo amico, di tradurgli
il De Architectura di Vitruvio [1].
L’intervento di Baldassar Castiglione, l’autore del Cortegiano, anch’egli amico del pittore umbro, ha esattamente lo
stesso scopo: è un aiuto, proveniente dal mondo dei letterati, per confezionare
la Lettera con l’eleganza,
l’erudizione e la forma che Raffaello non sarebbe mai stato capace di
conseguire da solo.
Le tre versioni della Lettera
Ci sono pervenute tre versioni
dell’opera. Le citiamo in ordine cronologico di scoperta. La prima è anche la
prima versione a stampa. Siamo nel 1733 e i fratelli Giovanni Antonio e Gaetano
Volpi stampano a Padova un’edizione della Lettera
basandosi su un manoscritto all’epoca posseduto da Scipione Maffei. La
pubblicazione avviene all’interno delle opere di Baldassar Castiglione. Il
manoscritto, oggi, è perduto. Solo nel 1834 viene rintracciato un manoscritto
(il codice 37b della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco) contenente una
nuova versione del testo, che viene pubblicato nel 1847. Del 1910 invece è il
ritrovamento del terzo esemplare, a mano di Baldassarre, presso l’archivio dei
conti Castiglioni (ovvero degli eredi). Incredibilmente di questo terzo esemplare,
conservato a Mantova, non era mai stata fornita una trascrizione integrale a
stampa prima di questa edizione.
Ad essere precisi, quella fornita
da Di Teodoro, è l’edizione critica di tutte e tre le versioni della Lettera, separatamente fra loro, con
l’evidenziazione delle differenze fra un testo e l’altro; la ricostruzione
della possibile cronologia degli esemplari (prima di tutti viene il manoscritto
di Mantova, e da esso gemmano per vie separate i testimoni di Monaco e quello
scomparso da cui è tratta l’edizione di Padova del 1733); una possibile
datazione dell’opera (tra la metà di settembre e i primi giorni di novembre del
1519); e tutta una serie di materiali documentari a supporto, presentati in
maniera talmente convincente da non poter dir altro che la presente è
un’edizione magistrale [2].
Raffaello, Ritratto di Baldassar Castiglione, Parigi, Museo del Louvre |
La Lettera e l’esigenza della
conservazione dei resti dell’Antica Roma
Si dice spesso che Raffaello fu
nominato da Papa Leone X ‘Commissario alle Antichità di Roma’. Non è del tutto
corretto, nel senso che non risulta un documento in questo senso. Nel 1515
Raffaello viene incaricato ‘solamente’ della conservazione dei marmi e delle
lapidi recanti epigrafi, ma non si può escludere che l’area di intervento
dell’artista sia andata via via ampliandosi anche in via informale. Quel che è
certo è che esiste un comune sentire fra Raffaello e Papa Leone. “Non stupisce
che dal figlio [n.d.r. di Lorenzo il Magnifico] Giovanni, il Papa Leone X,
educato alla raffinatissima cultura umanistica fiorentina, sia potuto venire
l’ordine a Raffaello di eseguire una pianta antiquaria di Roma e che tale
progetto possa essere germogliato dalle ricerche appassionate degli
“antiquarii” dei circoli culturali romani gravitanti attorno alla sua munifica
e splendida corte” (p. 171). Al di là delle espressioni retoriche con cui
Baldassarre e Raffaello rendono omaggio alla grandezza del Pontefice, è
evidente che si avverte la comune esigenza di salvaguardare quanto rimane
dell’antica Roma, partendo proprio dalla ‘mappatura’ del territorio e delle sue
emergenze. Una sensibilità volta alla tutela che, ovviamente, ha reso
particolarmente caro il testo di questa Lettera
a tutti gli storici dell’arte,
Un testo tecnico o letterario?
Se gli umanisti del Tre e
Quattrocento, di fronte alle rovine di Roma, si fermano all’esperienza
letteraria (è il classico motivo del ‘Roma quanta fuit ipsa ruina docet’) il
testo di Raffaello e Baldassar Castiglione vive in una doppia dimensione: a
quella umanistica (chiaramente cesellata con eleganza dal secondo) si sposa
l’esigenza del rilevamento tecnico del territorio. Se la prima parte della Lettera ha dunque natura prettamente
letteraria, nella seconda emerge l’artista, e per la precisione, emerge
l’architetto più che il pittore. Raffaello (verrebbe da dire, qui molto più
Raffaello che il Castiglione) descrive il metodo seguito per il rilievo degli
edifici antichi di Roma: “i rilievi sono stati effettuati con l’ausilio di uno
strumento graduato dotato di bussola la cui realizzazione viene descritta
minuziosamente” (p. 192) [3] Seguono le istruzioni con cui si indica come
riportare in scala le misurazioni effettuate. “L’Autore della Lettera insiste sul fatto che il disegno
architettonico debba consistere in “tre parte, delle quali la prima si è la
pianta, o vogliamo dire dissegno piano, la seconda si è la parete di fori con
li suoi ornamenti, la terza la parete di dentro con li suoi ornamenti”, cioè
pianta, prospetto e sezione” (p. 196). Quanto Raffaello sia calato in questo
momento nella sua parte è cosa che emerge chiaramente dal suo insistere sul
disegno ‘architectico’ in contrapposizione a quello classico di prospettiva
(tipico del pittore): non è possibile aspirare a rilevare correttamente la
misurazione di edifici ricorrendo al disegno prospettico.
Raffaello, Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi, Firenze, Galleria degli Uffizi |
La pianta antiquaria e i disegni di Roma
A questo punto la Lettera s’interrompe [4]. Il motivo
sembra evidente. Raffaello muore a 37 anni nell’aprile del 1520. Ci si può
domandare legittimamente cosa del progetto originario di rappresentazione e
misurazione dell’antica Roma sia stato effettivamente realizzato. Sappiamo dal
testo che il progetto prevedeva il rilevamento degli edifici suddivisi per regiones (qualcosa di molto simile agli
odierni quartieri). In una lettera dell’11 aprile 1520 (scoperta nel 1834)
Marcantonio Michiel scrive che Raffaello era morto “con universal dolore de
tutti et maximamente de li docti, per li quai più che per altrui, benché ancora
per li pictori et architecti, el stendeva in un libro […] gli edificii antiqui
di Roma, mostrando sì chiaramente le proportioni, forme et ornamenti loro […];
et già havea fornita la prima regione” (p. 18). I disegni di Raffaello non ci
sono mai giunti. Ma a corroborare l’indicazione di Michiel, Di Teodoro segnala
come a Firenze, nel 1525, in un
inventario della bottega degli eredi di Francesco Rosselli, il più famoso
cosmografo dell’epoca, fosse indicata la presenza di 6 quaderni di disegni di
Raffaello (in ‘fogli reali’, ovvero di grandi dimensioni), e altri 18 quaderni
di dimensioni più ridotte. E tre anni dopo, l’esecutore testamentario dei
Rosselli torna a citare i quaderni, questa volta identificandoli chiaramente
come i “foli istanpati de’ disegni di Roma di Rafaelo da Urbino e d’altri”.
Abbiamo dunque la ragionevole certezza che Michiel avesse ragione. Nei documenti
mantovani relativi alla Lettera si
parla anche della realizzazione di una pianta universale di Roma, da
effettuarsi operando delle misurazioni dall’alto dei colli dell’Urbe, con
procedura molto simile a quella proposta da Leon Battista Alberti nella Descriptio urbis Romae. E’ idea del
curatore (e ne conveniamo anche noi) che una tale mappa sarebbe stata
perfettamente funzionale al progetto di rilevazione, fornendo un quadro
d’insieme che avrebbe permesso di comprendere meglio le distanze fisiche tra i
singoli edifici. D’altra parte, il fatto che se ne parli solo in frammenti rinvenuti
nelle carte mantovane, non ripresi dalle successive versioni, potrebbe
semplicemente significare che dovesse essere argomento da trattare nella parte
della Lettera che è rimasta
incompiuta: “Limitare il momento restitutivo ai soli edifici, pur se inclusi in
un “album”, non avrebbe reso giustizia al grande progetto raffaellesco, ché [n.d.r.
perché] gli exempla sarebbero
sembrati avulsi dalla storia; invece, è anche di questa che la Lettera vuol dare ragione. Anche per la
realizzazione della “pianta antiquaria”, che avrebbe serbato memoria degli
antichi edifici […], la Lettera è
senza dubbio il primo documento che testimonia della presa di coscienza da
parte di un architetto dei problemi inerenti alla tutela delle emergenze
monumentali” (p. 177).
Il gotico
Naturalmente, l’argomento è così
affascinante che potremmo andare avanti all’infinito. Non è il caso. Ci piace
quindi chiudere con un aspetto forse non famosissimo della Lettera (di cui giustamente si sono messe in evidenza le precoci
istanze rivolte alla tutela del patrimonio artistico), ovvero il giudizio
durissimo che Raffaello e Baldassar Castiglione esprimono nei confronti
dell’architettura dei ‘Goti’. Qui per Goti si intende naturalmente di tutto. I
Goti sono genericamente i barbari, coloro che per primi hanno vandalizzato la
città, ma anche coloro che sono vissuti a Roma prima dell’umanesimo. Ebbene,
incarnando il vero spirito del Rinascimento Raffaello fa presente che a Roma
sono presenti solo tre tipi di edifici: quelli degli antichi Romani, distrutti
dai Goti e dagli altri barbari; gli edifici costruiti dai Goti nel corso della
loro dominazione; e, infine, i palazzi moderni, che pur cronologicamente più
lontani, si riallacciano molto meglio all’antichità di quanto non facciano i
monumenti gotici (p. 178). Davvero qui Raffaello si riallaccia alla tradizione
classica saltando tutto il Medio Evo e dà una definizione perfetta del
Rinascimento. E ancora: “L’inizio del risveglio dell’architettura incomincia ad
opera de “li Tedeschi” i quali, però, furono “lontanissimi dalla bella manera
de’ Romani” e i loro ornamenti furono “goffi”. Infatti all’architettura gotica
viene riconosciuto il solo valore strutturale, la “machina de tutto lo
edificio”. Laddove i Romani avevano “bellissime cornici, belli freggi,
architravi, colonne ornatissime de capitelli e basi e misurate con la
proportione de l’homo e di la donna” i Tedeschi “per ornamento spesso poneano
solo un qualche figurino aranichiato e mal fatto per mensola a sostenere un
travo et animali strani e figure e fogliami goffi e for d’ogni raggion
naturale” (p. 188-189). Quelle che Raffaello usa come argomentazioni per
respingere in toto l’arte gotico-medievale non sono certo argomentazioni di
ordine religioso legate alla Riforma (Lutero ha pubblicato le sue tesi solo due
anni prima ed esiste una pesante sottovalutazione del fenomeno protestante che
sarà compreso nella sua interezza solo col sacco di Roma del 1527); ma di natura
prettamente stilistica; e sono le stesse argomentazioni (in questo senso si
percepisce il cambiamento del gusto nei secoli) che porteranno da metà
Ottocento in poi alla rivalutazione del Gotico stesso.
NOTE
[1] Si veda Vitruvio e Raffaello: il “De architectura” di Vitruvio nella traduzione
inedita di Fabio Calvo ravennate, a cura di Vincenzo Fontana e Paolo
Morachiello, Roma, Officina Edizioni, 1975
[2] E’ interessantissimo, ad
esempio – ma non abbiamo lo spazio per riferirne – tutto il discorso fatto per
inquadrare la vera riscoperta della Lettera
nell’ambito del clima neoclassico di fine Settecento e primi Ottocento. Ci
si lasci solo accennare al fatto che, non a caso, una versione della Lettera è presentata anche da Quatremère
de Quincy, autore delle Lettere a Miranda,
nella sua biografia di Raffaello (1824), tradotta in italiano nel 1829.
[3] Più in generale, sul tema
delle tecniche di rilevazione del territorio urbano si veda Daniela
Stroffolino, La città misurata. Tecniche
e strumenti di rilevamento nei trattati a stampa del Cinquecento. Roma,
Salerno editore, 1999.
[4] Ad essere precisi, nel
manoscritto monacense compare una sezione finale (non è certo che si debba al
duo Castiglione-Raffaello) in cui si reintroduce in qualche modo l’utilità del
disegno prospettico fondamentalmente a scopi di resa estetica.
Nessun commento:
Posta un commento