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lunedì 1 dicembre 2014

Francesco P. Di Teodoro. Raffaello, Baldassar Castiglione e la 'Lettera a Leone X'

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Francesco P. Di Teodoro


Raffaello, Baldassar Castiglione e la Lettera a Leone X
“con lo aiutto tuo mi sforcerò vendicare dalla morte quel poco che resta…”


Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1994

Raffaello (?), Presunto autoritratto, Firenze, Galleria degli Uffizi

NOTA: SI VEDA ANCHE LA RECENSIONE ALL'EDIZIONE 2020


Chi la scrisse?

La Lettera a Leone X di Raffaello e Baldassar Castiglione è un testo sempre molto citato dagli addetti ai lavori, ma su cui in realtà gli interrogativi sono tantissimi, proprio a partire dalla sua paternità. Opera di Raffaello o di Baldassar Castiglione? O, ancora, di Fabio Calvo, di Baldassarre Peruzzi, di Donato Bramante, di Leonardo da Vinci, come nel corso degli anni è capitato di sentire? La Lettera, che è incompleta, doveva fungere da introduzione a un libro o comunque a una serie di disegni che costituivano la rappresentazione grafica di Roma e delle sue antiche vestigia; l’incarico era stato attribuito a Raffaello da Papa Leone X. In realtà oggi appare assodato (e Francesco Paolo Di Teodoro contribuisce a dissolvere ogni residuo dubbio in merito) che l’opera è un lavoro a quattro mani svolto da Baldassar Castiglione e il Sanzio. Un interrogativo che viene spesso omesso è: perché un lavoro a quattro mani? Perché non il solo Raffaello? Semplicissimo. Perché Raffaello scriveva pochissimo, e soprattutto scriveva molto male. Grazie al cielo, ne era perfettamente cosciente. Ad esempio, conosceva solo i rudimenti del latino, motivo per cui quando i suoi interessi per l’antichità e per l’architettura andarono accrescendosi (non dimentichiamo che nel 1515 l’artista fu nominato sovrintendente ai lavori della nuova Basilica di san Pietro) chiese a Fabio Calvo, umanista ravennate e suo amico, di tradurgli il De Architectura di Vitruvio [1]. L’intervento di Baldassar Castiglione, l’autore del Cortegiano, anch’egli amico del pittore umbro, ha esattamente lo stesso scopo: è un aiuto, proveniente dal mondo dei letterati, per confezionare la Lettera con l’eleganza, l’erudizione e la forma che Raffaello non sarebbe mai stato capace di conseguire da solo.


Le tre versioni della Lettera

Ci sono pervenute tre versioni dell’opera. Le citiamo in ordine cronologico di scoperta. La prima è anche la prima versione a stampa. Siamo nel 1733 e i fratelli Giovanni Antonio e Gaetano Volpi stampano a Padova un’edizione della Lettera basandosi su un manoscritto all’epoca posseduto da Scipione Maffei. La pubblicazione avviene all’interno delle opere di Baldassar Castiglione. Il manoscritto, oggi, è perduto. Solo nel 1834 viene rintracciato un manoscritto (il codice 37b della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco) contenente una nuova versione del testo, che viene pubblicato nel 1847. Del 1910 invece è il ritrovamento del terzo esemplare, a mano di Baldassarre, presso l’archivio dei conti Castiglioni (ovvero degli eredi). Incredibilmente di questo terzo esemplare, conservato a Mantova, non era mai stata fornita una trascrizione integrale a stampa prima di questa edizione.

Ad essere precisi, quella fornita da Di Teodoro, è l’edizione critica di tutte e tre le versioni della Lettera, separatamente fra loro, con l’evidenziazione delle differenze fra un testo e l’altro; la ricostruzione della possibile cronologia degli esemplari (prima di tutti viene il manoscritto di Mantova, e da esso gemmano per vie separate i testimoni di Monaco e quello scomparso da cui è tratta l’edizione di Padova del 1733); una possibile datazione dell’opera (tra la metà di settembre e i primi giorni di novembre del 1519); e tutta una serie di materiali documentari a supporto, presentati in maniera talmente convincente da non poter dir altro che la presente è un’edizione magistrale [2].


Raffaello, Ritratto di Baldassar Castiglione, Parigi, Museo del Louvre


La Lettera e l’esigenza della conservazione dei resti dell’Antica Roma

Si dice spesso che Raffaello fu nominato da Papa Leone X ‘Commissario alle Antichità di Roma’. Non è del tutto corretto, nel senso che non risulta un documento in questo senso. Nel 1515 Raffaello viene incaricato ‘solamente’ della conservazione dei marmi e delle lapidi recanti epigrafi, ma non si può escludere che l’area di intervento dell’artista sia andata via via ampliandosi anche in via informale. Quel che è certo è che esiste un comune sentire fra Raffaello e Papa Leone. “Non stupisce che dal figlio [n.d.r. di Lorenzo il Magnifico] Giovanni, il Papa Leone X, educato alla raffinatissima cultura umanistica fiorentina, sia potuto venire l’ordine a Raffaello di eseguire una pianta antiquaria di Roma e che tale progetto possa essere germogliato dalle ricerche appassionate degli “antiquarii” dei circoli culturali romani gravitanti attorno alla sua munifica e splendida corte” (p. 171). Al di là delle espressioni retoriche con cui Baldassarre e Raffaello rendono omaggio alla grandezza del Pontefice, è evidente che si avverte la comune esigenza di salvaguardare quanto rimane dell’antica Roma, partendo proprio dalla ‘mappatura’ del territorio e delle sue emergenze. Una sensibilità volta alla tutela che, ovviamente, ha reso particolarmente caro il testo di questa Lettera a tutti gli storici dell’arte,


Un testo tecnico o letterario?

Se gli umanisti del Tre e Quattrocento, di fronte alle rovine di Roma, si fermano all’esperienza letteraria (è il classico motivo del ‘Roma quanta fuit ipsa ruina docet’) il testo di Raffaello e Baldassar Castiglione vive in una doppia dimensione: a quella umanistica (chiaramente cesellata con eleganza dal secondo) si sposa l’esigenza del rilevamento tecnico del territorio. Se la prima parte della Lettera ha dunque natura prettamente letteraria, nella seconda emerge l’artista, e per la precisione, emerge l’architetto più che il pittore. Raffaello (verrebbe da dire, qui molto più Raffaello che il Castiglione) descrive il metodo seguito per il rilievo degli edifici antichi di Roma: “i rilievi sono stati effettuati con l’ausilio di uno strumento graduato dotato di bussola la cui realizzazione viene descritta minuziosamente” (p. 192) [3] Seguono le istruzioni con cui si indica come riportare in scala le misurazioni effettuate. “L’Autore della Lettera insiste sul fatto che il disegno architettonico debba consistere in “tre parte, delle quali la prima si è la pianta, o vogliamo dire dissegno piano, la seconda si è la parete di fori con li suoi ornamenti, la terza la parete di dentro con li suoi ornamenti”, cioè pianta, prospetto e sezione” (p. 196). Quanto Raffaello sia calato in questo momento nella sua parte è cosa che emerge chiaramente dal suo insistere sul disegno ‘architectico’ in contrapposizione a quello classico di prospettiva (tipico del pittore): non è possibile aspirare a rilevare correttamente la misurazione di edifici ricorrendo al disegno prospettico.


Raffaello, Ritratto di Leone X con i cardinali Giulio de' Medici e Luigi de' Rossi, Firenze, Galleria degli Uffizi


La pianta antiquaria e i disegni di Roma

A questo punto la Lettera s’interrompe [4]. Il motivo sembra evidente. Raffaello muore a 37 anni nell’aprile del 1520. Ci si può domandare legittimamente cosa del progetto originario di rappresentazione e misurazione dell’antica Roma sia stato effettivamente realizzato. Sappiamo dal testo che il progetto prevedeva il rilevamento degli edifici suddivisi per regiones (qualcosa di molto simile agli odierni quartieri). In una lettera dell’11 aprile 1520 (scoperta nel 1834) Marcantonio Michiel scrive che Raffaello era morto “con universal dolore de tutti et maximamente de li docti, per li quai più che per altrui, benché ancora per li pictori et architecti, el stendeva in un libro […] gli edificii antiqui di Roma, mostrando sì chiaramente le proportioni, forme et ornamenti loro […]; et già havea fornita la prima regione” (p. 18). I disegni di Raffaello non ci sono mai giunti. Ma a corroborare l’indicazione di Michiel, Di Teodoro segnala come a Firenze, nel 1525,  in un inventario della bottega degli eredi di Francesco Rosselli, il più famoso cosmografo dell’epoca, fosse indicata la presenza di 6 quaderni di disegni di Raffaello (in ‘fogli reali’, ovvero di grandi dimensioni), e altri 18 quaderni di dimensioni più ridotte. E tre anni dopo, l’esecutore testamentario dei Rosselli torna a citare i quaderni, questa volta identificandoli chiaramente come i “foli istanpati de’ disegni di Roma di Rafaelo da Urbino e d’altri”. Abbiamo dunque la ragionevole certezza che Michiel avesse ragione. Nei documenti mantovani relativi alla Lettera si parla anche della realizzazione di una pianta universale di Roma, da effettuarsi operando delle misurazioni dall’alto dei colli dell’Urbe, con procedura molto simile a quella proposta da Leon Battista Alberti nella Descriptio urbis Romae. E’ idea del curatore (e ne conveniamo anche noi) che una tale mappa sarebbe stata perfettamente funzionale al progetto di rilevazione, fornendo un quadro d’insieme che avrebbe permesso di comprendere meglio le distanze fisiche tra i singoli edifici. D’altra parte, il fatto che se ne parli solo in frammenti rinvenuti nelle carte mantovane, non ripresi dalle successive versioni, potrebbe semplicemente significare che dovesse essere argomento da trattare nella parte della Lettera che è rimasta incompiuta: “Limitare il momento restitutivo ai soli edifici, pur se inclusi in un “album”, non avrebbe reso giustizia al grande progetto raffaellesco, ché [n.d.r. perché] gli exempla sarebbero sembrati avulsi dalla storia; invece, è anche di questa che la Lettera vuol dare ragione. Anche per la realizzazione della “pianta antiquaria”, che avrebbe serbato memoria degli antichi edifici […], la Lettera è senza dubbio il primo documento che testimonia della presa di coscienza da parte di un architetto dei problemi inerenti alla tutela delle emergenze monumentali” (p. 177).


Il gotico

Naturalmente, l’argomento è così affascinante che potremmo andare avanti all’infinito. Non è il caso. Ci piace quindi chiudere con un aspetto forse non famosissimo della Lettera (di cui giustamente si sono messe in evidenza le precoci istanze rivolte alla tutela del patrimonio artistico), ovvero il giudizio durissimo che Raffaello e Baldassar Castiglione esprimono nei confronti dell’architettura dei ‘Goti’. Qui per Goti si intende naturalmente di tutto. I Goti sono genericamente i barbari, coloro che per primi hanno vandalizzato la città, ma anche coloro che sono vissuti a Roma prima dell’umanesimo. Ebbene, incarnando il vero spirito del Rinascimento Raffaello fa presente che a Roma sono presenti solo tre tipi di edifici: quelli degli antichi Romani, distrutti dai Goti e dagli altri barbari; gli edifici costruiti dai Goti nel corso della loro dominazione; e, infine, i palazzi moderni, che pur cronologicamente più lontani, si riallacciano molto meglio all’antichità di quanto non facciano i monumenti gotici (p. 178). Davvero qui Raffaello si riallaccia alla tradizione classica saltando tutto il Medio Evo e dà una definizione perfetta del Rinascimento. E ancora: “L’inizio del risveglio dell’architettura incomincia ad opera de “li Tedeschi” i quali, però, furono “lontanissimi dalla bella manera de’ Romani” e i loro ornamenti furono “goffi”. Infatti all’architettura gotica viene riconosciuto il solo valore strutturale, la “machina de tutto lo edificio”. Laddove i Romani avevano “bellissime cornici, belli freggi, architravi, colonne ornatissime de capitelli e basi e misurate con la proportione de l’homo e di la donna” i Tedeschi “per ornamento spesso poneano solo un qualche figurino aranichiato e mal fatto per mensola a sostenere un travo et animali strani e figure e fogliami goffi e for d’ogni raggion naturale” (p. 188-189). Quelle che Raffaello usa come argomentazioni per respingere in toto l’arte gotico-medievale non sono certo argomentazioni di ordine religioso legate alla Riforma (Lutero ha pubblicato le sue tesi solo due anni prima ed esiste una pesante sottovalutazione del fenomeno protestante che sarà compreso nella sua interezza solo col sacco di Roma del 1527); ma di natura prettamente stilistica; e sono le stesse argomentazioni (in questo senso si percepisce il cambiamento del gusto nei secoli) che porteranno da metà Ottocento in poi alla rivalutazione del Gotico stesso.


NOTE

[1] Si veda Vitruvio e Raffaello: il “De architectura” di Vitruvio nella traduzione inedita di Fabio Calvo ravennate, a cura di Vincenzo Fontana e Paolo Morachiello, Roma, Officina Edizioni, 1975

[2] E’ interessantissimo, ad esempio – ma non abbiamo lo spazio per riferirne – tutto il discorso fatto per inquadrare la vera riscoperta della Lettera nell’ambito del clima neoclassico di fine Settecento e primi Ottocento. Ci si lasci solo accennare al fatto che, non a caso, una versione della Lettera è presentata anche da Quatremère de Quincy, autore delle Lettere a Miranda, nella sua biografia di Raffaello (1824), tradotta in italiano nel 1829.

[3] Più in generale, sul tema delle tecniche di rilevazione del territorio urbano si veda Daniela Stroffolino, La città misurata. Tecniche e strumenti di rilevamento nei trattati a stampa del Cinquecento. Roma, Salerno editore, 1999.

[4] Ad essere precisi, nel manoscritto monacense compare una sezione finale (non è certo che si debba al duo Castiglione-Raffaello) in cui si reintroduce in qualche modo l’utilità del disegno prospettico fondamentalmente a scopi di resa estetica.

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