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lunedì 13 ottobre 2014

Barbara Agosti. 'Giorgio Vasari. Luoghi e tempi delle Vite'. Milano, Officina Libraria, 2013

Fig. 1) Giorgio Vasari, Autoritratto, Firenze, Galleria degli Uffizi
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Barbara Agosti
Giorgio Vasari. Luoghi e tempi delle Vite 

Milano, Officina Libraria, 2013

(Recensione di Giovanni Mazzaferro)


“Quello che qui si presenta è un tentativo, compiuto in larga parte nel dialogo con il mondo degli studenti, di riordino di dati e materiali per capire la genesi del libro [le Vite del Vasari]” (p. 8). Così scrive l’autrice nella sua premessa.

Non ho mai letto nulla di più riduttivo (ed eccessivamente modesto). Il libro della Agosti è un’opera pregevolissima, per completezza e chiarezza, che ricostruisce in dettaglio la biografia di Vasari, con particolare riguardo agli anni fino all’uscita della prima edizione delle Vite (la Torrentiniana, del 1550) [1]; a partire da tesi già note, dà loro nuova linfa e sviluppa con lucidità alcuni temi di grande importanza per comprendere meglio la genesi dell’opera. Naturalmente non è possibile dar conto di tutti i dettagli in una recensione. Si possono però riassumere le linee guida dell’opera. Se ne scorgono almeno tre:

Primo: può sembrare banale a dirsi, ma esiste una stretta relazione fra la redazione delle Vite e la biografia dell’autore. Le località che Vasari visita nel corso degli anni, le commissioni che ottiene, le opere d’arte che vede, le influenze artistiche che lo colpiscono sono naturalmente riflesse nelle Vite.

Secondo: le Vite procedono per accumulo di materiali e stratificazione. Il progetto e la redazione dell’opera comprendono un lasso di tempo che, con diverse velocità, va probabilmente dalla fine degli anni 30 del 1500 fino al 1550 (senza contare poi i diciotto anni successivi in cui maturano le condizioni per la seconda edizione, ovvero la Giuntina del 1568). A volte più, a volte meno facilmente anche le diverse fasi di redazione dell’opera (i diversi ‘strati’) sono percepibili anche (e soprattutto) nell’ambito di una stessa vita.

Terzo: rispetto alla seconda edizione delle Vite vanno messi in discussione (o comunque ricalibrati) alcuni luoghi comuni: innanzi tutto che il progetto iniziale di Vasari fosse quello di esaltare il principato mediceo tramite l’astratta contrapposizione fra il ‘disegno’ e il ‘colore’, la superiorità del primo rispetto al secondo, e, di conseguenza, la supremazia della scuola artistica toscana rispetto a quelle delle altre regioni italiane. 

E’ sempre tenendo a mente questi tre capisaldi che vanno lette le note che seguono. 

Fig. 2) Giorgio Vasari, La cena di San Gregorio (1539), Bologna, Pinacoteca Nazionale


Le Vite: la nascita della storia dell’arte

Innanzi tutto vale la pena ricordare con le parole dell’autrice cosa significhi, storicamente, la pubblicazione delle Vite per la storia dell’arte.

“Prima che nel 1550, presso lo stampatore ducale di Firenze Lorenzo Torrentino, venisse pubblicata la prima edizione delle Vite vasariane, artisti ed opere erano stati sì toccati da una lunga, variegata e talvolta illustre tradizione di letteratura, e però mai fino ad allora le opere, il loro linguaggio e le personalità dei loro autori erano stati proiettati nella dimensione di un coerente racconto storico, che Vasari scandisce, dal Due al Cinquecento sulla base non dei dati anagrafici degli artisti trattati, ma dei caratteri e degli sviluppi del loro stile: «mi sforzerò di osservare il più che si possa l’ordine delle maniere loro, più che del tempo». E mai prima di allora si era affacciata tra le voci della letteratura artistica l’ambizione a coprire un contesto che non fosse limitato ad un ambito municipale o comunque locale, bensì aperto, per quanto possibile, all’Italia tutta. Quello che nella Torrentiniana fa davvero impressione, infatti, non è tutto ciò che manca, ma anzi tutto ciò che c’è. L’opera storiografica di Vasari segna dunque una rottura radicale, e propriamente fonda la moderna storia dell’arte, quale ancora oggi la intendiamo e pratichiamo” (p. 8).

Le informazioni di Vasari provengono fondamentalmente da tre diversi canali: le fonti scritte, il confronto con i personaggi che frequenta e il riscontro oculare. In questo senso, specie nella comparazione fra fonti scritte e ispezione oculare, Agosti ritiene di far ricadere il principale frutto (e ce ne furono molti altri) dell’amicizia fra Vasari e Vincenzio Borghini, grande filologo fiorentino di soli quattro anni più giovane dell’artista aretino. 

Fig. 3) Giorgio Vasari, La deposizione (1539-1540), Chiesa del Monastero di Camaldoli (Arezzo)
Fonte: http://it.wahooart.com


L’ispezione oculare e le amicizie

E’ appena evidente che l’ispezione oculare viene esercitata in coincidenza dei viaggi intrapresi da Vasari. Si tratta, nella gran parte dei casi, di viaggi di lavoro, vale a dire di trasferimenti dovuti a occasioni di lavoro e a committenze. Qui c’è da sfatare un altro luogo comune, alimentato probabilmente da Vasari stesso nell’Autobiografia inserita all’interno della Giuntina, ovvero nella seconda edizione: quello di un artista felicemente cortigiano, legato in maniera inscindibile alla dinastia medicea, e facilmente affermato sulla scena culturale dell’epoca. Nulla di tutto ciò. E’ vero che Vasari cominciò la sua carriera a Roma nel 1532, a servizio del cardinal Ippolito de’ Medici; è altrettanto vero che a metà dello stesso anno era già a Firenze, a disposizione del cugino di Ippolito, ovvero Alessandro de’ Medici; ma è altrettanto innegabile che Giorgio lascia la città fiorentina ai primi del 1537, dopo l’assassinio di Alessandro. E che il successore di Alessandro, ovvero Cosimo I, lo guarda con sospetto; si fida poco di lui, e in nessuna simpatia lo ha il potentissimo segretario di Cosimo, Pierfrancesco Riccio. Cosicché dal 1537 al 1553 Vasari è sostanzialmente lontano da Firenze e al di fuori del circuito delle committenze medicee. Per noi (e per la nascita delle Vite) una gran fortuna. 

In questi sedici anni, ad essere veramente importante per Giorgio (che se ne va da Firenze profondamente colpito dalla morte violenta di Alessandro e sfiduciato in merito al sistema delle corti) è la rete delle amicizie. Le amicizie, innanzi tutto, gli permettono di trovare commissioni e quindi di portare avanti la carriera artistica. Sotto questo punto di vista figure di riferimento sono quelle di Giovanni Lappoli detto il Pollastra, canonico aretino e suo educatore in gioventù, e di don Miniato Pitti, abate olivetano, che con un’attiva campagna promozionale gli consentono di trovare spazio nelle committenze degli ordini religiosi. Basta far rapidamente i conti per vedere che, Vasari è ripetutamente a Camaldoli fra 1537 e 1540 e a Ravenna nel 1548, lavorando per i camaldolesi; fra il 1539 e il 1540 presso San Michele in Bosco a Bologna, nel 1544 a Napoli, nel 1547 a Rimini al servizio degli olivetani.

Alcune delle amicizie vasariane sono destinate ad essere in qualche modo ‘oscurate’ nell’ambito dell’Autobiografia dell’artista: è il caso di quella con Pietro Aretino, che risale alla gioventù e che, ad esempio, lo induce a spostarsi a Venezia (dicembre 1541 – estate 1542), dove gli era stato preparato il campo proprio dalle lodi sperticate che di lui aveva tessuto l’Aretino stesso. La convivenza non deve essere stata facilissima, se anni dopo è possibile scorgere traccia di dissapori fra i due risalenti proprio a quei mesi. Ma è assai probabile che la sua ‘rimozione’ nell’Autobiografia sia dovuta più che altro all’immagine di Aretino che, in piena Controriforma, era stata messa in forte discussione per via della sua licenziosità. 

Fig. 4) Giorgio Vasari, Allegoria della Pazienza, Venezia, Gallerie dell'Accademia
Fonte: http://it.wahooart.com

Fig. 5) Giorgio Vasari, Allegoria della Giustizia, Venezia, Gallerie dell'Accademia (1542)
Fonte: http://it.wahooart.com

Altre frequentazioni derivano dal primissimo soggiorno a Roma, a servizio di Ippolito de’ Medici, nel 1532. Non si può qui non ricordare, seppur di sfuggita, personaggi come Annibal Caro e Paolo Giovio, che collaborarono fattivamente alla redazione dell’opera. Se nel caso del Caro è certo un ruolo di revisione, in quello di Giovio non ci si può limitare a questo solo aspetto. Innanzi tutto è a Giovio, che nell’Autobiografia, Vasari fa risalire l’idea di scrivere un trattato sulle vite degli artisti. Siamo già nel 1546 (p. 73). E’ noto che si tratta di un dato falso: la redazione delle Vite era cominciata da un bel pezzo, e si tratta solo di un artificio per collegare la propria opera a quella dell’autore degli Elogia nonché allestitore del Museo [2] ma secondo Agosti è a Giovio (che aveva una cultura artistica non banale) che Vasari fa riferimento per le informazioni sugli artisti lombardi che compaiono nella terza parte della sua opera (quella dedicata alla ‘maniera moderna’) [3]; “quella gioviana è una prospettiva storiografica che conta davvero molto per il modo in cui Vasari costruisce nelle Vite lo snodo tra la seconda e la terza età, relegando il timido classicismo di Perugino nella seconda e incardinando l’avvio della terza sulla personalità rifondante di Leonardo” (p. 17); e molto probabilmente è lo stesso Giovio (strenuo sostenitore dei Medici) a ‘toscanizzare’ (non da solo) le Vite torrentiniane consigliando a Vasari di dedicarle al duca Cosimo. 

Vi sono poi (vedremo meglio quanto saranno importanti) tutte le conoscenze dell’Accademia Fiorentina, dal Borghini (a cui abbiamo già accennato), a Cosimo Bartoli, a Pierfrancesco Giambullari, a Carlo Lenzoni. 

Fig. 6) Giorgio Vasari e aiuti. Paolo III sovrintende all'edificazione di S. Pietro (1546). Roma, Palazzo della Cancelleria


Le Vite: un’opera stratificata

Come nasce l’idea delle Vite? Vasari ci fornisce una versione ufficiale, cui abbiamo già accennato (ovvero a Roma, nel 1546, in una serata conviviale a palazzo Farnese assieme a Paolo Giovio ed altri eruditi). Poi però accenna a una serie di ‘ricordi’ che aveva collezionato sin da giovani per passione ed interesse nei confronti delle memorie degli artisti. In realtà, già in una lettera del 1537 (cfr. p. 25) Pietro Aretino definisce Vasari “istorico, poeta, filosofo, e pittore”: la qualifica di ‘storico’ comparirà ripetutamente in testimonianze successive di fonte diversa. Segno che le Vite, in nuce, erano un’idea che Vasari cullava da diversi anni (e di cui doveva aver parlato con gli intimi), partendo dall’analisi delle fonti, ma anche e soprattutto dal riscontro diretto. Non c’è da stupirsi, dunque, se Agosti ritenga che le vite redatte più precocemente facciano riferimento ad artisti aretini. E soprattutto che la stesura dei singoli medaglioni rifletta cronologicamente i viaggi di Vasari, con aggiunte successive che stratificano la composizione del testo. “Occorre ricordare che le Vite del 1550 sono infatti per un verso un libro cresciuto attraverso un lento e lungo processo, e per un altro verso un libro portato a compimento a rotta di collo, con modifiche e integrazioni che andarono avanti finché ce ne fu la possibilità materiale, e anche con sbagli e imprecisioni che restarono dentro comunque, e che di lì trasmigrarono persino nella Giuntina” (p. 29). Gli esempi, in merito, sono sempre puntuali: “Credo che la biografia di Raffaello sia stata impiantata proprio sulla base delle cose viste, delle impressioni e degli appunti legati al soggiorno romano del 1538, sottoposti poi ad una progressiva rielaborazione… Provando ad entrare nel vivo della scrittura vasariana, si capisce che deve essere esistito un primo stadio della Vita di Raffaello in cui, coerentemente, dalla lode del ritratto di Leone X e dei suoi cortigiani nell’Attila si passava a quello del papa con i cardinali medicei, e penso che in questo punto […] Vasari abbia poi, dopo la stagione dei viaggi dei primi anni Quaranta, «siringato» il ricordo della più parte delle altre opere del Sanzio viste in giro per l’Italia” (p. 29). Ma lo stesso tipo di discorso si potrebbe fare per la vita di Leonardo, in cui sembra così viva la descrizione del Cenacolo da far supporre all’autrice che vi sia stata una ispezione oculare dell’opera nel corso di un non certissimo, ma ormai largamente supposto viaggio a Milano nel 1548. Tale descrizione sarebbe quindi successiva alla redazione della prima versione della biografia, in cui si cita come vivente Ottaviano de’ Medici, defunto nel 1546. [4] Il problema di distinguere, nell’ambito di singoli medaglioni biografici, fasi diverse di redazione diventa quindi la vera sfida dell’interprete di Vasari. E si tratta di un lavoro infinito. La pubblicazione di questo volume, ad esempio, è stata nella sostanza accompagnata da quella degli atti di un convegno organizzato nel 2012 a Firenze dal Kunsthistorisches Institut ed appositamente dedicato all’analisi delle Vite torrentiniane [5]. Resta inteso peraltro che l’autrice ritiene (ed argomenta che non abbiamo modo qui di richiamare per esigenze di brevità) che il nucleo principale delle Vite sia stato redatto a Roma, tra l’autunno del 1542 e l’estate del 1544 (cfr. pp. 57 sgg.). 

Fig. 7) Giorgio Vasari e aiuti, Remunerazione della Virtù (1546), Roma, Palazzo della Cancelleria


Le Vite torrentiniane ed il falso mito toscanocentrico

C’è un episodio che basterebbe a spiegare quanto, fino all’ultimo, le Vite torrentiniane siano rimaste slegate dall’esaltazione del principato mediceo e dell’arte toscana come gerarchicamente superiore rispetto a quelle delle altre regioni italiane. Nel novembre del 1549 muore Papa Paolo III; a febbraio dell’anno successivo viene eletto pontefice Giovanni Maria del Monte (Giulio III), già protettore di Vasari in anni precedenti. Vasari e Borghini bloccano le stampe dell’opera e per qualche giorno pensano a una doppia dedica dell’opera (le prime due età a Cosimo de’ Medici), la terza (la più importante, quella della maniera moderna) a Giulio III [6]. Peraltro, la decisione di giudicare le Vite a Cosimo è cronologicamente recentissima: risale, di fatto, al 1549. Se è vero che l’opera è uno dei tanti strumenti che vengono utilizzati da Vasari per convincere Cosimo a richiamarlo a Firenze e a farlo entrare nella cerchia della sua committenza (circostanza che avverrà solo nel 1553), non è vero che la Torrentiniana sia scritta con quello spirito cortigiano che è invece proprio della Giuntina, pubblicata quando l’artista aretino è divenuto una delle casse di risonanza degli splendori del granducato. 

Esiste sotto questo punto di vista una stretta relazione fra l’attività artistica di Vasari e quanto scritto nelle Vite. Agosti in più di un’occasione fa notare come il vero mondo con cui il pittore si confronta nei suoi quadri è quello delle varie ‘maniere’ che derivano dall’opera di Raffaello, e non da quella di Michelangelo. L’esaltazione di Michelangelo è un fatto tardo. E la stessa amicizia con il Buonarroti è (nonostante quanto Vasari scriva nella sua Autobiografia) qualcosa che si consolida e salda solo dopo la pubblicazione della prima edizione delle Vite. Seguiamo l’autrice nel suo ragionamento: “Oltre all’accrescimento e all’ampliamento di raggio delle conoscenze, con la stagione dei viaggi era maturato però anche l’impianto critico dell’opera [n.d.r. le Vite], in particolare per la definizione e periodizzazione della «terza età», quella maniera moderna che per essere materia ancora calda e contemporanea comportava agli occhi dell’autore e di chi lo avrebbe letto maggiori responsabilità di giudizio. Stabilito in Leonardo il crinale rispetto alle secchezze e agli arcaismi della seconda età, illuminandolo nella posizione di assoluta preminenza che già gli aveva attribuito il Giovio, è dal confronto con quei differenti orizzonti che nasce l’articolazione appunto potentemente geografica con cui si apre la terza parte delle Vite, a partire dalle diramazioni del magistero vinciano: a Venezia, con Giorgione, che verrà superato da Tiziano; in Lombardia, con Correggio, che verrà superato da Parmigianino; a Firenze, con Piero di Cosimo, che verrà superato da Andrea del Sarto. Il lavoro di preparazione della Torrentiniana, che ferve dal principio degli anni Quaranta, affonda dunque le sue radici nelle precedenti esperienze dell’autore, e in piena coerenza con l’impianto della cultura di Vasari pittore, il nucleo critico del suo progetto storiografico è intensamente raffaellesco.” (p. 59). Ciò non vuol dire naturalmente che la Toscana sia trascurata. E’ perfettamente logico, posto che si tratta dell’ambiente in cui Vasari è cresciuto e conosce meglio. Ma non esiste la rivendicazione di una supremazia ‘geografica’. Naturalmente, nell’ambito delle Vite, vi sono anche apprezzamenti ostili, ad esempio nei confronti della pittura napoletana o bolognese (cfr. p. 65), ma si tratta di passaggi che fanno trasparire un’antipatia riconducibile molto probabilmente ad esperienze personali capitate nel corso dei rispettivi soggiorni. Nulla di più. Gli esempi portati dall’autrice a supporto delle sua tesi sono molteplici: ne ricordiamo uno solo, in merito alla risposta fornita (nel 1547) da Vasari a Benedetto Varchi nell’ambito del celeberrimo paragone fra pittura e scultura: “Quanto evanescente, all’altezza della responsiva al Varchi, fosse nella testa del Vasari ogni proposito critico fiorentinocentrico, lo dice il fatto che qui il solo maestro ad essere evocato a rivendicare la superiore vividezza della pittura rispetto all’arte rivale è quello di Tiziano” (p. 75). 


Fig. 8) Giorgio Vasari, Adorazione dei Magi, Rimini, Chiesa di San Fortunato

E’ così che Agosti può arrivare a concludere: “Se si tiene presente che ancora in una Vita «tarda» come è quella di Sebastiano «l’aria […] propizia ai pittori et a tutte le persone ingegnose» era quella di Roma, non di Firenze, il fiorentinocentrismo della Torrentiniana appare piuttosto una sorta di esito finale, prodotto congiuntamente dalla presenza, in chiusura della Vita del Buonarroti, e dalla incorniciatura teorica in cui l’opera venne, ma solo da ultimo, racchiusa: in principio la dedicatoria a Cosimo formulata con l’accorto consiglio di Paolo Giovio (ma non ancora consegnata in tipografia nel gennaio del 1550), […] e il Proemio esplicitamente imperniato sulla metafisica del disegno elaborata nella Lezzione del Varchi [7], e in fondo la Conclusione con le dichiarazioni di metodo, stesa con l’assistenza di Vincenzio Borghini. Più avanti, una volta stabilito che il libro sarebbe stato dedicato a Cosimo e pubblicato dal Torrentino, il suo lungo processo di gestazione e preparazione si compirà… con un massiccio intervento da parte degli amici revisori legati all’Accademia fiorentina… i quali dal 1548 in poi, mentre l’autore corre dietro a tanti impegni diversi, gli subentrano vieppiù nella condotta dell’operazione editoriale. E’ in questo momento molto avanzato che il progetto del libro di storia dell’arte lungamente elaborato da Giorgio Vasari, e a poco a poco messo in opera con l’assistenza soprattutto di Giovio, Annibal Caro, Borghini, andrà incontro ad una sterzata profonda nei suoi intendimenti, quasi fossero gli amici letterati a capire prima e meglio di lui che era quella, l’opera delle Vite, la carta più utile da giocare per ottenere di essere chiamato a Firenze” (pp. 77-78). 

Resta da chiedersi della scelta di collocare alla fine dell’opera, già in questa edizione, la biografia di Michelangelo, unico artista vivente accolto nell’opera e quasi naturale sfocio dello sviluppo delle arti. Una scelta di Giorgio? Un consiglio degli amici? Da evidenze interne, dice Agosti, la biografia sembrerebbe scritta tardi, attorno al 1547, e quindi potrebbe aver stravolto un disegno diverso, quel disegno più geograficamente distribuito, in cerca della ‘maniere’ raffaellesche di cui si è prima parlato. Su questo tema resta un punto interrogativo. Ma, a dire il vero, alla fine della lettura del libro l’impressione generale è la percezione di quanto sia stato scritto di Vasari da un lato, e di quanto resti da scrivere dall’altro, alla ricerca di una verità che ci appare affascinante, ma che, forse, non conosceremo mai. 



NOTE

[1] Le Vite del Vasari sono uscite in due edizioni: la Torrentiniana (1550) e la Giuntina (1568). Per la loro consultazione si rimanda alla edizione curata da Paola Barocchi e Rosanna Bettarini (Sansoni prima e S.P.E.S poi, 1966-1997).

[2] Paolo Giovio, Elogi degli uomini illustri, a cura di Franco Minonzio, Torino, Einaudi, 2006.

[3] L’argomento è stato ampiamente affrontato dalla stessa autrice in Paolo Giovio. Uno storico lombardo nella cultura artistica del Cinquecento, Leo S. Olschlki, 2008


[5] Giorgio Vasari e il cantiere delle Vite del 1550, a cura di Barbara Agosti, Silvia Ginzburg, Alessandro Nova, Venezia, Marsilio, 2013.

[6] Si veda Carlo Maria Simonetti, La vita delle «Vite» vasariane. Profilo storico di due edizioni, Firenze, Leo S. Olschki, 2005.

[7] Benedetto Varchi, Lezzione della maggioranza delle arti in Paola Barocchi, Scritti d’arte del Cinquecento, Tomo I, Milano-Napoli, Ricciardi, 1971-1977.

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